Per tre volte Gesù fa questo annuncio: “Vado a Gerusalemme e lì soffrirò e sarò rinnegato”. Ma ogni volta i suoi discepoli rifiutano tale prospettiva: non accettano in pratica chi Lui effettivamente sia e cosa dica. Per essi è troppo difficile accettare la sua debolezza. Non è così che lo vedono: lo vogliono forte, potente, liberatore, ma Gesù non è così. Lo amano, è vero, ma con le caratteristiche che essi vogliono.
L’amore invece non pone condizioni. L’amore non dice: “Io ti amo ma tu devi essere come dico io”. L’amore dice: “Io ti amo per quello che sei, non ti voglio cambiare”.
È l’autorità, non l’amore, che ci vuole come vuole lei; l’amore ci lascia essere sempre ciò che siamo. Chi vuole cambiarci non ama noi, ma ama se stesso; solo chi ci accetta per quello che siamo, ama solo noi.
Il vangelo inizia dicendo che Gesù parti verso i villaggi vicini (Mc 8,27).
Inizia il suo viaggio verso Gerusalemme. Gesù non va a Gerusalemme per caso, per sbaglio, ma è lui che decide di andarci. Andarci è la sua missione. Il suo compito, la volontà del Padre, lo vuole lì. E lì lui deve andare. E durante il cammino, Gesù chiede ai suoi discepoli: “Chi dice la gente (letteralmente “gli uomini”) che io sia?”. Quando in Marco si parla di “uomini” si intende quelli che non appartengono al gruppo di Gesù. Ed ecco la risposta: “Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri uno dei profeti” (Mc 8,28).
Mentre per gli scribi, per i religiosi e i capi del Tempio Gesù è un demonio, un belzebul, un posseduto, per la gente che incontra è un profeta, un buon uomo, uno “in gamba”. Non hanno capito chi è, ma per loro, è uno “buono”, anche se non hanno capito la novità di Gesù: lo pensano come un altro dei grandi profeti. Mentre la gente ha capito qualcosa di Gesù, gli unici a non capirlo per niente erano proprio i sacerdoti, i religiosi del tempo!
Poi Gesù chiede ai discepoli: “E voi chi dite che io sia?” (Mc 8,29). Gesù vuol sapere ora se loro, i discepoli, lo hanno capito. Essi erano stati testimoni oculari dei suoi miracoli, ad essi egli aveva più volte parlato di sé. Ora vuole una verifica: “Vediamo: cos’avete capito?”. Gesù cioè vuol vedere se anche loro lo vedono come uno grande profeta, un altro dei tanti, oppure se colgono in Lui qualcosa di più.
Interviene “il Pietro”: Marco, quando lo chiama così, lo fa per dimostrare la sua ottusità, la sua testa dura. Quando invece vuol indicare l’apostolo che crede, gli premette il nome “Simone”; in pratica “Simon Pietro” è colui che crede, anche se la sua fede è ancora imperfetta, ha dei dubbi; Pietro invece è colui che ha le sue idee, che è ostile, contrario a Gesù.
Tra l’altro osserviamo che Gesù si era rivolto a tutti (“Voi chi dite...”) ma è Pietro che parla per tutti. Si fa portavoce del pensiero comune, condiviso anche da tutti gli altri.
Pietro dunque è convinto di sapere, di aver capito tutto, e dice: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). “Cristo” in greco, “Messia” in ebraico, hanno lo stesso significato: vogliono entrambi dire “l’unto, il consacrato”.
Qui però si impone una premessa: il Messia, per gli ebrei, mai si sarebbe contaminato con la gentaglia. Pietro aveva visto Gesù con la gentaglia? Sì. Lo aveva visto toccare i lebbrosi? Sì. Lo aveva visto guarire in terra pagana (il Messia li avrebbe distrutti i pagani)? Sì. Aveva visto parlare Gesù con le donne? Sì. Aveva visto Gesù sedere con i peccatori? Sì. Eppure... I suoi occhi hanno visto tutto questo, ma tutto questo non ha intaccato per nulla la sua idea. Aveva visto tutto con gli occhi ma non con il cuore: e se non viene toccato il cuore, si è convinti di vedere quando invece si è ciechi.
Pietro pertanto, ripetendo pari pari la descrizione del Messia ebraico(l’unto, il Cristo), nonostante Gesù davanti a lui avesse dato prove concrete di non esserlo, dimostra chiaramente di non conoscerlo, di non saper spiegare chi sia realmente Gesù. Per Pietro il Cristo è quello che divide buoni e cattivi, ebrei e non ebrei, meritevoli e non meritevoli. Ma un Dio così è totalmente opposto al Dio di Gesù, al Dio dell’amore per tutti.
Gesù infatti si definisce semplicemente il “Figlio dell’Uomo”; non il Cristo o il Messia.
Ma cosa vuol dire con questo titolo? Figlio dell’Uomo è un’espressione per dire l’Uomo veramente umano. E questo è sconvolgente. Gesù il Figlio di Dio non si identifica con il Cristo, il Messia, ma come il “Figlio dell’Uomo”. Un grande insegnamento per noi: “Vuoi essere divino? Sii umano, totalmente umano”. Noi pensiamo invece che per essere divini sia necessario essere santi, perfetti, in-umani. Ma qual’è il “modello di Dio” che Gesù ci ha presentato? Il santo, il puro, il sacerdote, il levita, l’incontaminato? No: ma il samaritano eretico che si prende cura dell’uomo (Lc 10,29-37). “Divino” non è quanto preghiamo, ma se sappiamo prenderci cura dell’umano.
Nei vangeli non troviamo mai Gesù che fa la carità, l’elemosina. Troviamo invece di continuo Gesù che guarisce, che si prende cura delle persone. Umanità, amore, non è assistenza ma: “Mi prendo cura di te. Voglio cioè che tu sia il tesoro, la perla, il meglio che possa diventare”. In pratica non ci limiteremo a far vedere ai nostri fratelli quant’è bello il cielo, ma insegneremo loro che hanno le ali e che possono volare per raggiungerlo. Questa è la vera carità.
Per molte persone amare significa possedere l’altro. Cioè: “Ti amo perché tu sei come me, pensi e fai come me; perché stai con me, sei legato a me; perché anche tu mi ami e sei d’accordo con me”. Ma l’amore non è questo. L’amore è volere il vero bene per l’altro, qualunque esso sia.
“Insegnerai a Volare, ma non voleranno il Tuo Volo. Insegnerai a sognare, ma non sogneranno il tuo Sogno. Insegnerai a Vivere, ma non vivranno la Tua Vita. Ma in ogni Volo, in ogni Sogno e in ogni Vita, rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto” (Santa Teresa di Calcutta).
Tutto ciò che è umano è proiettato al divino. Le persone vorrebbero decisamente scavalcare la loro umanità: vorrebbero cioè essere sempre felici, non star mai male, non doversi guardare dentro, non avere niente a che fare con emozioni, paure, blocchi, schemi familiari, copioni che si ripetono, sogni, desideri, istinto, sessualità. Non sono argomentazioni psicologiche. No, questi siamo noi! Non possiamo sfuggire la nostra umanità, non possiamo eluderla. Dobbiamo invece prenderci cura di noi, di quello che siamo, della nostra umanità, della nostra debolezza. È facile amare gli altri. Difficile è amare se stessi.
Poi Gesù comunica agli apostoli le grandi tappe della sua missione redentrice: Egli cioè “doveva soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere”.
Sul “soffrire molto” in passato si è costruita una spiritualità molto rigida e distorta. Qualcuno è arrivato a dire che Gesù è stato mandato da Dio solo a soffrire in maniera disumana per espiare i nostri peccati. Nell’opera redentrice di Cristo sono state messe soprattutto in risalto le strazianti sofferenze di un Dio, oltraggiato come un delinquente, condannato a morire sul patibolo della croce, piuttosto che l’immenso amore di un Padre, che ha sacrificato il suo Figlio amatissimo per redimerci; un amore che Cristo ha portato sulla terra, lasciandolo in eredità, come unico esempio di vita, a tutta l’umanità.
Però dopo tre giorni Egli sarebbe risuscitato. Perché dopo tre giorni? Perché Gesù doveva aspettare tre giorni? Dov’è stato in quei tre giorni? “Tre giorni” va letto nella cultura del tempo: per la mentalità giudaica infatti la morte avveniva dopo tre giorni. Per tre giorni l’anima del defunto era ancora presente e solo dopo tre giorni, quando il corpo cominciava a perdere i tratti fisionomici e a puzzare, sopraggiungeva la morte. Lazzaro infatti era morto da quattro giorni (Gv 11,39). Dopo tre giorni quindi uno era morto per davvero, definitivamente, senza speranza.
Resuscitare “dopo tre giorni” vuol dire allora che la morte, la sofferenza, il fallimento, non hanno alcun potere su Gesù. Cioè: la Vita è più forte. Gesù poteva soffrire, poteva essere condannato, poteva subire di tutto, ma Lui, in quanto Vita, avrebbe vinto, Lui, la Vita è e sarà sempre più forte di tutto. Quindi non si tratta di “tre giorni” riferiti al tempo, ma solo simbolici. Gesù quando muore, risorge subito: tre giorni è solo per dire che era veramente morto.
A questo punto che fa Pietro? Rimprovera Gesù! Da osservare: “Lo prende in disparte” (Mc 8,32). Pietro parla a nome di tutti e cerca di isolare Gesù. “No, caro Gesù, soltanto tu pensi che le cose stiano così. Il Messia non è come dici tu!”. Nel farlo, Pietro dimostra tutta la sua arroganza di presuntuoso: “Io so come stanno le cose; sei tu che devi ascoltare me”.
Ma Gesù gli risponde rimettendolo seccamente nei ranghi: “Mettiti dietro a me Satana”.
In pratica Pietro e Gesù litigano e se ne dicono di santa ragione. “Tu non capisci niente”, dice Pietro. “Io, non capisco niente? Ma sei tu l’omuncolo che pensa solo come gli uomini! Sei Satana”. Nella Bibbia Satana è l’oppositore, l’avversario, colui che in tribunale rappresenta l’accusa. E qui Pietro è satana perché si oppone a Gesù e ai suoi piani, gli sbarra la strada, vuole che Gesù faccia ciò che lui ha già deciso. Per questo Gesù lo rimette immediatamente in riga: “Dietro di me”. Quando lo aveva chiamato gli aveva già detto infatti : “Vieni e seguimi!”. È l’uomo che deve seguire Gesù e non Gesù che deve seguire l’uomo.
Quindi il vangelo dice: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34). Una frase portata anch’essa a giustificazione di quella spiritualità della sofferenza, per la quale seguire Gesù voleva dire esaurirsi, distruggersi per gli altri, non avere nessun piacere (“rinnegare se stessi”) e soffrire. Più si soffriva, più si era santi (“croce”).
Così per seguire Gesù era necessario rinunciare a tutte le cose gratificanti della vita: divertimenti, viaggi, cinema, tv, ballo, amore, coccole. Bisognava annientarsi, strisciare, diventare vermi.
Ma questo non è Dio: Dio è il Dio dell’uomo, della vita, della festa, della gioia, dell’umanità: Egli è venuto non per deprimere questa umanità ma per esaltarla, per guarirla, espanderla, amplificarla.
Ma cosa significa “rinnegare se stessi”? Letteralmente, “dire di no”, rifiutarsi cioè di pensare come Pietro e gli apostoli, che vedevano in Gesù possibilità di potere, di prestigio, di forza, di autorità, di ricchezza. È questo che dobbiamo rinnegare se lo vogliamo seguire. Non è possibile seguire Gesù pensando in questo modo. Per trovare la Vita vera, dobbiamo quindi perdere “questa vita”, questo modo di pensare, di concepire il mondo. Per seguire Gesù dobbiamo essere disposti a lasciare tutte le nostre certezze terrene, i nostri affetti fuorvianti, le nostre paure, i nostri appigli, i nostri riferimenti limitati. Per seguirlo, in una parola, dobbiamo “lasciare tutto” (Lc 5,11). Per vivere il nuovo dobbiamo prima lasciare il vecchio. Per trovare la vita vera, dobbiamo prima lasciare quella falsa. Amen!