«Il primo giorno della
settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora
buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da
Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: Hanno
portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv
20,1-9).
Oggi
celebriamo la Pasqua, il giorno della Risurrezione del Signore: “haec est dies quam fecit Dominus, exultemus
et laetemur in ea”: questo è il giorno fatto dal Signore, esultiamo e
rallegriamoci; rallegriamoci perché in questo giorno Dio ha “ricreato” il mondo
e l’umanità.
Dio, nella
fedeltà al Suo Amore per noi, non si è mai rassegnato al crollo del suo capolavoro,
non è rimasto indifferente alla distruzione da parte dell’uomo di quel rapporto
che lui aveva creato con tanto amore. Oggi Dio fa “tabula rasa” del passato,
riparte da zero, ripristina ex novo il creato. Questa volta non in prima
persona, direttamente, ma tramite il suo Figlio Gesù, quello stesso Verbo presente
con Lui fin dal “principio”, che si è “incarnato”, è diventato “creatura”, per
consentire appunto alle creature di tornare ad essere l’originale immagine del
Padre. È la vita nuova in Cristo. È la sua nuova creazione. Grazie a Lui, alla Pasqua
del risorto, il mondo, le creature, l’intera creazione, si sono finalmente riconciliati
col Padre. L'uomo, ha potuto riprendere il dialogo interrotto con il suo Dio,
ha potuto finalmente ritrovare il vero, autentico senso della vita, della sua
esistenza.
Ma Cristo
non si è fermato al passato: non si è limitato a risorgere allora, continua ogni
giorno, ogni ora, a risorgere in noi, è il “Risorgente”, è colui che con la sua
vittoria sulla morte, continua a far cadere quei massi che ostruiscono ancora l'imboccatura del nostro
cuore. La Pasqua del Cristo è per noi energia che ascende, embrione di vita nuova, risveglio dal
nostro dormire, ascesa in alto.
Pasqua
insomma è la festa dei macigni che rotolano via dal nostro cuore, aprendoci ad
una primavera di rapporti e di vita nuova.
Ma andando
nello specifico, nel concreto, cosa significa questa “risurrezione” per la
nostra vita di tutti i giorni? È un’esperienza che potremo fare solo dopo la
morte? Quando e come possiamo viverla? Quali le istruzioni, i messaggi, i
consigli che possiamo trarre dal vangelo di oggi?”.
Leggiamolo
con attenzione. Ciò che attira subito la nostra attenzione sono i tre
protagonisti in azione: Pietro, Giovanni, il discepolo che “Gesù amava” e Maria
Maddalena. Tutti e tre, la domenica di buon mattino, vanno al sepolcro: Maddalena
per prima, da sola, gli altri, subito dopo il ritorno trafelato della donna: la
riaccompagnano per appurare se la sparizione del corpo di Gesù sia realmente
avvenuta.
E qui
abbiamo il primo messaggio: per verificare la nostra risurrezione è necessario prima
di tutto “andare”, entrare nel sepolcro, dobbiamo cioè scendere materialmente
in noi, raggiungere la nostra “tomba”. Dobbiamo vincere quell’innato sgomento
che proviamo nel confrontarci con i grandi misteri della vita: con la morte, la
fine di ogni cosa, la rottura di ogni nostro equilibrio, il buio totale che ci
avvolge: dobbiamo esorcizzare queste umane realtà, entrare di forza in, e solo
allora potremo cogliere la luce della nostra “risurrezione”. Ma dobbiamo fare i
conti, con quella “pietra” enorme, con quel pesante macigno, che ci ostruisce l’entrata:
è la nostra arroganza, è l’orgoglio atavico che ci frena, che blocca in noi i ripetuti
tentativi di rinnovamento, di rinascita interiore, di risurrezione: “Adesso
cosa faccio? Quella pietra è per me troppo pesante, ingombrante, inamovibile:
non ce la farò mai!”. Quante volte ci arrendiamo di fronte alle prime
difficoltà, quante volte ci rassegniamo a cadere miseramente, senza opporre
alcuna resistenza, senza neppure tentare qualche manovra di riscatto. È vero: siamo
dei rinunciatari, siamo dei perdenti. Amiamo cullarci beatamente nella nostra apatia.
Ma se vogliamo liberare, dare un seguito alla nostra risurrezione, dobbiamo prima
di tutto rimuovere l’ostacolo che vanifica ogni nostra aspirazione: quell’orgoglio,
quella paura di rivelare a noi stessi e agli altri le nostre deficienze, la
nostra misera entità; dobbiamo cioè spogliarci del nostro falso perbenismo, della
nostra ipocrisia, ed avere il coraggio di rendere pubbliche le nostre
fragilità, le nostre debolezze, le sofferenze che ci tormentano l’anima, le prepotenze,
le violenze, le cattiverie, le umiliazioni, che abbiamo fatto o subito nella solitudine,
nel silenzio, nel pianto. Dobbiamo insomma rimuovere la “pietra” dei nostri segreti,
spesso inconfessabili; la “pietra” del non riuscire mai a lasciarci andare, a
godere, ad essere felici, ad abbandonarci nelle mani di Dio; la “pietra” del sentirci
vuoti, del non-riuscire a dare un senso alla nostra vita; la “pietra” del
terrore della morte, della solitudine, delle sofferenze.
Penso
che tutti abbiamo una “pietra” così: una pietra che deve “rotolare via” per
consentirci la nostra risurrezione. Per questo è necessario andare al sepolcro,
perché è lì soltanto che potremo liberarci del nostro “sudario” e risplendere
di luce nuova, di immedesimarci nella risurrezione di Cristo. Dobbiamo avere il
coraggio e la volontà di andare nel luogo della morte: perché solo così potremo
trovare la Vita.
Ma
proseguiamo nella nostra lettura. Appena La Maddalena annuncia ai discepoli la
scomparsa del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni corrono immediatamente al
sepolcro: Giovanni, più giovane, corre più veloce ed arriva per primo: ma, una
volta giunto, aspetta che sopraggiunga anche Pietro, più anziano e quindi più
lento. E qui Giovanni evidenzia nel loro comportamento alcune sottili diversità,
che meritano la nostra attenzione: entrambi dunque corrono al sepolcro: ma solo
Giovanni, prima di entrare, si china verso l’interno, guarda, e intuisce
qualcosa; Pietro al contrario entra deciso all’interno, e osserva distrattamente
solo gli oggetti: “i teli posati là e il
sudario”. Ora, inchinarsi, indica l’atteggiamento di umiltà di chi è
disposto a mettere da parte, ad abbandonare le proprie idee, i propri
ragionamenti, i propri schemi; Giovanni, di fronte a ciò che vede, è
disponibile a lasciarsi plasmare, a mettersi in gioco, a cambiare mentalità.
Anche Giovanni inizialmente si era detto: “È finito tutto!”. Ma di fronte a ciò
che vede, si ricrede: “Non è vero, non tutto è finito!”. Al contrario Pietro,
testa dura, non si china: e per questa sua mancanza di umile disponibilità, non
percepisce alcunché di speciale.
Ecco
perché nella vita è necessario “inchinarsi”; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo
accettare di cambiare, dobbiamo ammettere di aver sbagliato. Perché se siamo
noi a decidere di non cambiare, nulla mai cambierà: se siamo ostinati come
Pietro, non percepiremo mai nulla, rimarremo sempre chiusi nelle nostre
convinzioni!
Entrambi
si fanno una bella corsa: ecco, questo è un particolare fondamentale, decisivo.
Se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se ci paralizziamo nella convinzione che
non c’è più niente da fare, che la vita non ha più senso, allora nulla è più
possibile. Se non ci muoviamo dalle nostre fissazioni, se rifiutiamo di provare,
di metterci in gioco, allora abbiamo già fallito in partenza!
Pietro
e Giovanni rappresentano due modi diversi di accostarci alla Vita e alla fede:
quello della razionalità e quello del sentimento. Li possiamo individuare dai loro
stessi nomi: Pietro, “Cefa”, significa infatti duro, ostinato, “una testa di pietra”;
nel vangelo è colui che è solo ragionamento, calcolo, raziocinio; uno che vuol fare
sempre di testa sua, con la forza dei suoi principi. Giovanni, che nel suo vangelo
si identifica come “colui che Gesù amava”, è invece mosso sempre dall’amore, dall’intuizione,
dal sentimento; è la parte emotiva, l’interiorità, è colui che segue sempre le vibrazioni
del suo cuore. Ma se da un lato la mente, il raziocinio, ci servono per capire,
per spiegare, per interpretare il centro della vita, dall’altro, l’organo
propulsore è il cuore, è l’anima; l’amore, la vitalità, lo stupore, la fede, la
conoscenza di Dio, infatti, si percepiscono, si “sentono” cioè dall’intuizione,
dalla spiritualità, non dalla razionalità, dalla materialità. Per “vivere” abbiamo
bisogno del cuore, dell’anima; la mente, la ragione, si limitano a spiegarne il
perché. Dio, resurrezione, fede, Vita, sono tutte realtà di cui inebriarsi,
appassionarsi, innamorarsi.
Chi
guarda alla vita con la ragione, con l’intransigenza e il raziocinio di Pietro,
non ne percepirà l’intera potenzialità, non vedrà in essa nulla di speciale. Scoprirà
tante cose interessanti, è vero, che però non riusciranno mai a provocare in
lui emozioni intime. Chi invece la guarda con il sentimento, con il cuore, con
l’anima di Giovanni, ne avvertirà immediatamente tutto l’amore, l’interiorità,
la dolcezza.
Quando
parliamo con chi ci sta a cuore, con una persona che amiamo, impariamo allora a
guardarla bene negli occhi, entriamole dentro: prestiamo attenzione non tanto a
quel che dice ma alle vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua gioia, il suo
amore, il suo slancio, la sua meraviglia, la sua tristezza. Quando abbracciamo una
persona che amiamo, “sentiamola”, percepiamola: chiudiamo gli occhi, e
riconosciamola attraverso i sensi, dall’odore della sua pelle, dal profumo del
suo corpo, dal tono della sua voce. Così pure quando siamo felici e cantiamo, ascoltiamo
la nostra voce, lasciamo che dentro di noi si sprigionino le emozioni più
profonde, quelle che fanno vibrare le corde della nostra anima. Quando siamo in
chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte le nostre preoccupazioni
materiali, ascoltiamo il battito del nostro cuore: è così che percepiremo forte
e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi, di Qualcuno con cui
parlare, con cui confrontarci, con cui aprirci, a cui affidarci. Facciamolo
ogni tanto: fermiamoci e ascoltiamoci dentro. Magari all’inizio sentiremo nella
nostra anima solo lo strepitare di demoni e mostri: momenti brutti della vita,
situazioni tragiche, scelte errate, cadute dolorose, che emergeranno prepotentemente
dal passato. Ma se avremo pazienza, con calma, con umiltà, con abbandono fiducioso,
scopriremo dentro di noi lo Spirito, la sorgente inesauribile della Vita, lo
splendore abbagliante della Luce, il calore avvolgente dell’Amore; scopriremo allora
che sì, uscire dal gelo della morte, dalla tirannia del male, è possibile; e
scopriremo felici che quella è la nostra Pasqua, che quella è la nostra
risurrezione.
Infine,
anche il personaggio di Maria Maddalena, ci offre spunti di meditazione;
suggerimenti che meritano tutta la nostra attenzione.
Maria,
come ce la presenta Giovanni, è una donna che ha amato follemente Gesù: lo ha
amato in maniera forte, passionale, viscerale. Gesù le aveva ridato la vita,
liberandola da sette demoni, e lei in cambio gli aveva donato tutta se stessa. Quella
mattina, andando al sepolcro, si rende conto che “il suo amore” non c’è più, è
morto, se n’è andato. Sente in maniera straziante la sua assenza, le mancano le
sue parole, il suo sguardo, lo stare insieme, il suo punto di riferimento.
Maria piange, esprime tutto il suo strazio ai due discepoli: “Hanno portato via il mio Signore e non so
dove l’hanno posto”. È un urlo disperato, lancinante, il suo: è sconvolta, le
hanno rubato anche il corpo della persona più cara che aveva.
C’è da
capirla: anche noi, quando la morte ci strappa un nostro famigliare, un nostro figlio,
qualcuno che amiamo profondamente, sentiamo dentro il cuore uno strappo
violento, una lacerazione, una frattura tremenda; la vita si è fermata, non è
più come prima. C’è però in lei un grosso handicap: che considerava Gesù come sua
proprietà esclusiva: Gesù era “suo”, era il “suo” Signore, punto. Dipendeva da
Lui in tutto; continuare a vivere senza di Lui, non avrebbe avuto più alcun
senso.
È un
handicap molto comune quello di considerare i nostri cari come se ci
appartenessero, come se la loro vita fosse una nostra “esclusiva”. Ma nessuno è
“nostro”, nessuno ci appartiene. Si tratta di una valutazione errata, cui
dobbiamo porre rimedio. È giusto e doveroso amare i nostri cari: ammiriamoli,
siamone orgogliosi, ma non soffochiamoli con le nostre gelosie, con le nostre
eccessive attenzioni. Guardiamoli, viviamo con loro, ma non possediamoli. Guardiamoli,
riserviamo loro tutto il nostro amore, senza pretendere in cambio nulla “di
magico”. Guardiamoli e condividiamo tutto con loro, ma non fagocitiamo la loro vita.
Guardiamoli e uniamoci profondamente a loro, ma senza succhiare la loro
identità. Guardiamoli, cantiamo con loro, facciamo festa, esultiamo per i loro
successi: ma non dimentichiamo mai che nella vita ognuno ha la sua strada: e quella
che dobbiamo percorrere noi è decisamente diversa dalla loro.
Giovanni
oggi ci fa capire che rimanere troppo legati alle persone, al passato, a ciò
che è stato, equivale morire, significa “morte”, significa “immobilismo”,
significa rinunciare ad andare avanti. Se ci fermiamo a guardare indietro, è
chiaro che non andremo mai avanti. E allora, non attacchiamoci a nulla: non
alle persone, non alle cose, non ai nostri problemi, non ai nostri crucci: anche
se siamo arrabbiati per la perdita di una persona cara, per aver perso il
lavoro; se ci brucia l’essere stati offesi in pubblico, se ci sentiamo umiliati
per essere stati definiti degli incapaci dai nostri superiori, se ci sentiamo
dimenticati perché le nostre richieste vengono accantonate, non tratteniamo
nulla: perdoniamo, lasciamo andare, non rimaniamo schiavi del passato, di ciò
che non c’è più, di ciò che non possiamo cambiare: perché ciò che è stato, è
stato; ciò che è successo, è successo! Viviamo da uomini liberi, non facciamoci
imprigionare dai legami mortali, passeggeri; viviamo e lasciamoci sedurre solo da
ciò che è eterno: siamo figli della Vita, stiamo con la Vita, viviamo la Vita.
Così
pure: la morte ci strappa una persona cara? Non disperiamoci, lasciamo correre:
che non vuol dire rimanere apatici, dimostrare disinteresse, indifferenza: è
certamente giusto piangere il nostro lutto, ma mettiamoci con umiltà nelle mani
di Dio, accettiamo la sua volontà, lasciamo che il dolore, l’angoscia, la
sofferenza, la disperazione facciano il loro corso, impariamo giorno dopo
giorno a vivere nello Spirito, il Consolatore per eccellenza: e avvertiremo
chiaramente la presenza dentro di noi di chi ci ha lasciati. Perché la morte in
Cristo diventa vita!
Ci
accorgiamo di essere interiormente vuoti, insoddisfatti, delusi? I nostri
ideali, le nostre scelte di vita, fatte una volta con tanto entusiasmo, si sono
rivelate fallimentari? Ci sentiamo soffocare dall’incalzare degli eventi? Non
abbiamo saputo mettere nelle mani di Dio la perdita di quello che avevamo di
più caro? Apriamo la finestra della nostra anima, liberiamoci di tutto ciò che materialmente
ancora ci turba, ci crea malessere: se vogliamo “vivere” dobbiamo affrontare la
morte, il distacco da tutto quanto in noi è temporaneo, transitorio, effimero. La
vita non è sufficientemente vita, se non siamo disponibili a queste perdite, a questi
tagli, a queste separazioni. È la grande verità della Pasqua: per risorgere,
dobbiamo prima accettare di morire a noi stessi, al nostro egoismo, al nostro
orgoglio, al nostro mondo. È sradicando il nostro cuore “malato” che torneremo a
vivere. All’inizio sarà dura; ma poi torneremo a sentire nuovamente la bellezza
e il sapore della vera Vita. È questa la nostra risurrezione. Amen.