«Il primo giorno della
settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora
buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).
Il
vangelo di Pasqua ci presenta tre figure in movimento: Pietro, Giovanni e Maria
Maddalena. Tutti e tre vanno al sepolcro, luogo di morte; ma per “vedere” Gesù, devono compiere questo tragitto e superare l'ostacolo della pietra. È un particolare che deve farci riflettere.
Nel “sepolcro”
noi pensiamo di trovare la morte, la fine, la rottura di un’esistenza, il buio;
invece... troviamo vita, bellezza, gioia di vivere. Il nostro incontro con
Cristo inizia proprio da lì. Ma per
poterlo incontrare, per poterlo “vedere”, dobbiamo fare i conti con un percorso e con quanto ci preclude ogni visuale: l’accesso a Gesù nel sepolcro è chiuso, ostruito
da una pietra: una pietra pesante, un macigno, la cui rimozione ci sembra
assolutamente impossibile; per cui, meglio ignorarla. Ma c’è: sì, perché la
“pietra” in questione è l'incapacità di provare dentro di noi sentimenti veri, profondi,
gioiosi; è la paura di mostrarci per quello che siamo, facendoci piuttosto esibire
maschere e facciate diverse; “pietra” è la paura della vulnerabilità, del
piangere; “pietra” è quel dolore silenzioso che ci urla dentro, quel segreto
che nascondiamo in noi; è il dolore e la sofferenza per chi ci ha lasciato;
pietra è il freddo, la solitudine che ci sentiamo dentro, che ci congela l’anima,
impedendoci di tirar fuori il nostro amore; pietra è il terrore di morire, la
paura delle malattie, l’angoscia di rimanere soli, il rimpianto per gli anni
che passano inesorabilmente. Tutti abbiamo una pietra del genere con cui fare i
conti: ma dobbiamo essere convinti che rimuovendola, troveremo qualcosa di
completamente nuovo, di diverso: la pietra è il nostro motivo di morte che va
superato, va spazzato via. Se lo ignoriamo, se lo evitiamo, non potremo mai incontrarci
con Lui, non potremo mai trovare la Vita.
Nel
nostro cammino, poi, dobbiamo come Giovanni, “inchinarci” per vedere l’interno del
sepolcro; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo accettare umilmente la nostra
debolezza, il nostro continuo cadere. Dobbiamo cambiare: e dobbiamo volerlo! perché
se non lo vogliamo, non cambierà mai nulla, tutto rimarrà nelle tenebre. Il
sepolcro rimarrà la nostra dimora stabile: ci sarà impossibile vedere lo
splendore della “risurrezione”, il cambiamento radicale della nostra esistenza.
Pietro
e Giovanni corrono: anche questo è importante,
decisivo: non basta trascinarci pesantemente, controvoglia; non basta adattarsi
a quello che fanno tutti. Siamo noi, io tu gli altri, che dobbiamo incontrarlo:
nella nostra diversità, pur essendo tutti speciali, dobbiamo spingere al
massimo; se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se traccheggiamo, non approdiamo
a nulla, se non cominciamo a correre, ci precludiamo ogni risultato. Rimanere
nel “sepolcro”, rimanere nelle nostre zone buie, significa rifiutare
volutamente ogni invito, ogni tentativo della Vita di farci uscire.
Ci
comportiamo un po’ come il bambino che sta per nascere: “Lasciami qui, non
voglio! Se esco muoio, sto bene così come sto: perché mettere fine ad una vita tanto
beata?”. Ma il bimbo non muore, anzi, al contrario, nasce alla vita! La stessa
identica cosa succede alla morte: “Oddio, che paura! Non voglio morire! Cosa mi
aspetta di là?” E anche questa volta si nasce a vita nuova, si entra in un’altra
esistenza: al cui ingresso ci saranno due mani aperte, misericordiose, piene di
amore, che ci accoglieranno, ci abbracceranno. Nel fondo della morte c'è sempre
la vita.
Ci
sono altre piccole cose che ci insegnano a Pasqua questa grande verità: per
esempio, l’usanza di regalare ai bambini un uovo (adesso è di cioccolata perché
è più buono, ma quand’ero bambino si usavano “le uova” bollite e colorate).
Perché? Perché Pasqua, come l’uovo, è appunto il simbolo della vita, di
qualcosa che nasce, di qualcosa di nuovo, di inaspettato, di imprevisto che viene
alla luce. È il simbolo della nostra trasformazione, della nostra rinascita, del
nostro passaggio decisivo da credenti in embrione, a discepoli maturi e convinti.
Ma “risorgere” non è cosa facile. Anche l’uovo, come la pietra del sepolcro
pasquale, offre una resistenza all’apertura: c’è uno scudo, una corazza, una
barriera da superare perché qualcosa di nuovo possa sorgere. Allora augurarci “Buona
Pasqua” vuol dire augurarci che questa trasformazione avvenga: che nella nostra
vita possa nascere finalmente qualcosa di totalmente nuovo, di lungamente atteso,
di meraviglioso.
La resurrezione deve essere per noi un salto
esistenziale decisivo:
il Gesù risorto non è tornato a vivere la vita di prima (il Gesù storico è
morto per sempre); il Gesù risorto è passato ad una nuova dimensione, completamente
diversa: ora Egli vive nella sua dimensione divina, celeste, eterna. In quanto
Dio glorioso, egli continua comunque a vivere in mezzo noi; continua a vivere in
ciascuno di noi, nell’uomo di ogni tempo. È una verità, questa, che ci lascia
abbastanza indifferenti: siamo decisamente molto poco “spirituali”; per credere
in Lui sul serio, vorremmo “vederlo”, toccarlo, sentirlo, percepirlo. Come san
Tommaso. Come gli apostoli: che, dimenticata ogni paura, ogni esitazione, hanno
poi affrontato ogni ostacolo, qualunque pericolo, perché lo sentivano vivo e
presente dentro di loro e con loro. Ma sappiamo bene cosa ha detto Gesù in
proposito: “…beati quelli che non vedranno e crederanno!”
La risurrezione, oltre che “conversione”, oltre
che nascita ad una vita nuova, deve diventare allora, anche per noi, una
missione, una risposta al suo invito di “testimoniarlo” nel mondo: “Sì,
Signore, andiamo noi!”.
E,
nonostante il nostro vezzo di scansare volentieri qualunque responsabilità, dobbiamo
fare al meglio la nostra parte. L'umanità ha bisogno di noi; ha bisogno che noi,
con la nostra vita da “risorti”, insegniamo agli uomini a vivere ad un livello di
valori superiore.
L'umanità
oggi è in grado di distruggersi: sembra che gli uomini, nella loro
dissennatezza, mirino proprio a questo. Non c’è tempo da perdere: prima che
accada, il “mondo” deve cambiare: la nostra società distratta, alienata,
ripiegata su se stessa, deve “rinascere in spirito e verità”; deve assolutamente
fare questo salto; ma per farlo ha bisogno di noi.
Nella
nostra “risurrezione” abbiamo incontrato Cristo: non deludiamolo. Crediamoci!
Non servono una cultura eccelsa, una lunga preparazione: gli apostoli erano
come noi, gente semplice, ignorante. Ma è l’incontro con Gesù che li ha
cambiati, come deve cambiare anche noi. Nel testimoniare Gesù, c’è una
sostanziale differenza tra i sapienti, i dotti, e gli umili credenti: i primi,
coloro che lo hanno studiato, trasmettono idee, teorie su di Lui; ma chi lo ha “incontrato”,
chi lo “vive”, chi crede in Lui, trasmette la Vita, trasmette l’Amore.
“Andate in
tutto il mondo... io sono con voi” continua a ripeterci il Risorto.
Che aspettiamo?
Noi
possiamo e dobbiamo: basta esserne convinti. Virgilio infatti diceva: “Possono,
perché credono di potere”. È proprio così!
Mostriamo il volto di Dio al mondo intero: in modo che tutti i nostri fratelli
possano finalmente esclamare in cuor loro, come Giobbe, “Dio, io ti conoscevo solo per sentito dire; ma ora i miei occhi ti
vedono”. Amen.
«Mentre
egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva:
«Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di
Galilea» (Mt 21,1-11).
Gerusalemme
è la città che rifiuta Gesù; i suoi abitanti, quelli che gli preparano la
croce.
Gesù
non vuole entrare in Gerusalemme in un modo qualunque, ma predispone tutta una
serie di preparativi che devono dare al suo ingresso un profondo significato
simbolico, conforme in tutto a quanto previsto nelle Scritture: “Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su
un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zc 9,9). Egli entra in
Gerusalemme non come un re che vuole impadronirsi del potere, che viene
a giudicare e punire, ma come un re che intende servire.
Con
questa azione simbolica Gesù vuole attribuire al suo ministero finale un valore paradossalmente regale. Colui che morirà in croce è colui
che è entrato “regalmente”, trionfalmente nella città; una regalità che proietta la sua luce sulla croce; una regalità quindi non conforme agli schemi
umani, ma alla logica di Dio: egli infatti non entra su carri trascinati da
cavalli, come fanno i re e i trionfatori mondani, poiché la sua regalità non è
basata sulla violenza, ma sulla giustizia e sulla pace.
La
reazione coinvolgente della folla lascia intravedere qualcosa dei fermenti
messianici che serpeggiavano nel popolo all’epoca del dominio romano. I loro
gesti richiamano peraltro quanto si faceva normalmente per le processioni nella
festa delle Capanne e quanto viene evocato dal Salmo 118: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. Le
loro acclamazioni “Osanna al figlio di David” dimostrano che essi riconoscono
in Gesù questo Re, che viene a salvare il suo popolo.
In
sostanza a Gerusalemme viene offerta l’ultima possibilità per ravvedersi: ma
questo non viene capito. La folla enorme e festante che accompagna Gesù infatti
non è costituita dagli abitanti di Gerusalemme, ma dai pellegrini, che arrivano
in città numerosi per l’imminente festa di Pasqua.
Gli
abitanti dunque ancora una volta non gli vanno incontro: mantengono lo stesso
atteggiamento di indifferenza, tenuto all’annuncio della sua nascita. Per essi Gesù
continua a rimanere uno sconosciuto. Sono anche questa volta gli umili, i
devoti, gli osservanti, i pellegrini, che in vista della città, stendono sulla
strada i loro mantelli e i rami recisi dagli alberi. È in questo modo, semplice
e popolare, che il re umile e mansueto viene intronizzato. Ma solo chi è
altrettanto umile, misericordioso, mansueto, può cogliere in lui la sua vera immagine
di Dio misericordioso: sotto la sua povertà può scorgere la ricchezza, sotto la
vergogna l'onore, sotto la morte la vita immortale.
Siamo dunque
alla fine del cammino di Gesù su questa terra. Ha faticato molto per far capire
a tutti, con la sua vita, la sua testimonianza, il vero volto di Dio; ma la
gente dimostra ancora di non aver capito nulla. A noi oggi viene spontaneo dire:
“Certo che a quel tempo erano proprio duri di comprendonio!” Ma noi, tanto
critici, siamo proprio certi che ci saremmo comportati diversamente? Non siamo
forse noi quelli che, quando ci fa comodo, pensiamo a Dio soltanto come ad uno che
ci aggiusta la vita? Accendiamo la candela e l'esame ci va bene; un po' di
acqua benedetta, e la salute è assicurata. In pratica cioè stiamo anche noi osannando
“il figlio di Davide”, e non il Figlio di Dio. In altre parole stiamo adorando un altro Dio, un Dio che ci fa comodo, un
Dio che non è quello di Gesù Cristo.
Il Dio
che è venuto a rivelarci Gesù è un Dio che non usa la forza, il potere, la
prepotenza; non è venuto per sottometterci al suo volere, ma usa nei nostri
confronti la debolezza dell'Amore, ci
lascia sempre liberi di scegliere Lui o chiunque altro: come il padre
misericordioso, ci lascia andare, liberi di fare la nostra vita lontano da lui,
ma tiene sempre lo sguardo fisso sulla strada, sperando di vederci tornare per
poterci riabbracciare, senza chiederci niente, pronto a fare festa per noi.
Il
nostro Dio non si contorna di gente colta e altolocata, ma sceglie gli ultimi,
i più bisognosi, perché sono quelli più oppressi, più schiacciati dal potere, che
poi sono anche quelli più disponibili ad accogliere la sua Parola di salvezza.
Per questo
motivo, a coronamento di una vita vissuta in questo modo, egli sceglie di
entrare in Gerusalemme cavalcando un'asina: e la gente continua a non capire,
perché un comportamento del genere è decisamente fuori dalla mentalità comune, da
ogni aspettativa; come lo è anche per la nostra. Non siamo forse noi quelli che
si guardano bene dal scegliere di stare dalla parte di chi non ha voce, del
disabile, dell'anziano, dello straniero, rispondendo ai loro bisogni e non
imponendo un aiuto a modo nostro? Non siamo forse noi quelli che, invece di
vivere sobriamente accontentandoci di quello che abbiamo, cerchiamo di
accumulare sempre di più, ci circondiamo di oggetti inutili, di chincaglierie
che riempiono le mensole delle nostre case, adoriamo il Dio denaro, invece di
condividere gioiosamente il poco con i poveri della terra? È una questione di
mentalità!
Se ci
riconosciamo in questa tipologia di persone, allora chiediamoci: “Cosa posso
fare per cambiare il mio modo di pensare, adottando quello di Gesù?” Beh, penso
che la prima cosa da fare sia proprio quella di conoscere a fondo il suo
pensiero, di capirlo, di assimilarlo, di metabolizzarlo: e questo lo possiamo
fare attraverso l’ascolto e la meditazione della sua Parola: magari riservando settimanalmente qualche momento di silenzio
per riflettere sul brano di vangelo della domenica.
In
questo modo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, noi impareremo
a conoscere Gesù sempre meglio; impareremo a vederlo come lui è veramente; ci
scopriremo sempre più somiglianti a lui, pronti a vivere anche noi la nostra “passione”,
ad amare l’altro fino in fondo, fino al punto di dare la nostra vita perché “l'altro abbia la Vita”. Amen.
«Le sorelle mandarono dunque a
dire a Gesù: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. All’udire questo, Gesù
disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio,
affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,1-45).
Quello
che ci colpisce, ad una prima lettura del vangelo di oggi, è il comportamento decisamente incoerente
di Gesù nei confronti di un suo carissimo amico: venuto infatti a conoscenza
della malattia di Lazzaro, Egli si preoccupa di tranquillizzare tutti – “questa malattia non porterà alla morte”
- ma poi in realtà avviene il contrario: Lazzaro muore; inoltre, dopo aver saputo
che l’amico stava male, invece di correre da lui, continua per altri due giorni
a predicare là dove si trovava: se veramente Lazzaro gli interessava, perché ha
perso del tempo prezioso? Non avrebbe fatto meglio a correre subito da lui, raggiungendolo
immediatamente? Nei suoi discorsi, Egli parla continuamente di resurrezione dai
morti, di immortalità, di vita eterna: tutti argomenti che implicano gioia, fiducia,
serenità; ma allora perché di fronte all’amico morto, lui scoppia in un pianto
dirotto, come se resurrezione e vita eterna, al dunque, non contassero nulla? Infine,
perché ha aspettato che Lazzaro morisse, che venisse sepolto, per resuscitarlo?
Non era più semplice e immediato “guarirlo” fintantoché era vivo, risparmiando
ai parenti il dolore straziante della morte, e a tanta gente il disagio di presenziare
alla sepoltura del cadavere?
Ebbene:
la spiegazione la troviamo in queste altre parole di Gesù: “[questi fatti sono successi] per la gloria
di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Che
vuol dire? Che
Lui ha volutamente aspettato che gli eventi precipitassero, perché così poteva dimostrare
di essere veramente l’inviato del Padre. È una spiegazione teologica: in altre
parole Gesù vuol dimostrare a tutti che la Vita (lui stesso) è più forte della
morte. L’amore (lui è l’Amore) è più forte della morte e chi lo ama, anche se
muore, non muore.
È
chiaro che questo vangelo va letto alla luce della resurrezione di Gesù; esso
vede infatti, nel ritorno in vita di Lazzaro, un preannuncio di quello che poi succederà
a Gesù, anche se la risurrezione di quest’ultimo avverrà su un piano esistenziale
totalmente diverso, comporterà conseguenze diametralmente opposte: infatti, mentre
il Lazzaro “risorto” torna a vivere la sua vita di prima, ancorché “nuova”,
potendo acquisire nuove esperienze, nuovi sentimenti, nuovi legami, nuova
spiritualità, Gesù invece non riprenderà le sue sembianze umane, ma continuerà il
suo esistere in un altro mondo, in un'altra forma; riprenderà cioè
esclusivamente la sua esistenza divina.
Quando
dunque Gesù giunge a Betania – come il vangelo si preoccupa di sottolineare - la
salma di Lazzaro già “manda odore, poiché
è di quattro giorni”. Presso gli Ebrei il funerale e la sepoltura
avvenivano nello stesso giorno della morte; si credeva però che lo spirito rimanesse
nel corpo fina a quando il cadavere era ancora riconoscibile. Il quarto giorno,
quando il processo di decomposizione era ormai avanzato, lo spirito abbandonava
il corpo del defunto e scendeva per sempre nella dimora dei morti, lo sheol, nel
quale rimaneva in attesa della resurrezione.
Cosa
vuol dire allora che uno di “quattro
giorni” - cioè certamente e definitivamente morto - ritorna in vita?
Vuol dire: “Anche quando uno è ormai morto, con l’anima che ha lasciato definitivamente
il corpo... anche quando ogni barlume di speranza è perduta... anche quando ormai
tutto sembra impossibile... Gesù, il Dio della Vita, dimostra di essere più
forte, più potente di ogni morte”. In altre parole la risurrezione di Lazzaro ci
dice che per Gesù non c'è “morte o sepolcro” dal quale Egli non possa farci uscire
(“Esci fuori!”); che non esiste legame
mortale (“piedi e mani avvolte da bende”)
dal quale poterci sciogliere; che non esiste maschera o camuffamento (“Volto coperto da un sudario”) che non possa
toglierci.
Ci
sono poi, nell’ultima parte del vangelo di oggi, altre sfumature da cogliere,
altre frasi di rara bellezza da meditare. Per esempio:
“Dove l'avete posto?”; cioè, che ne avete
fatto di lui? Dove l'avete messo? Traduco in vita pratica: che ne abbiamo fatto
della nostra voglia di vivere, del nostro impegno, del nostro entusiasmo? Che
ne abbiamo fatto dei sorrisi che regalavamo? Che ne abbiamo fatto dei nostri
sogni? Che ne abbiamo fatto di ciò che eravamo? Che ne abbiamo fatto della nostra
voglia di aiutare gli altri? Che ne abbiamo fatto delle doti che avevamo? Dove
li abbiamo sepolti? Perché siamo morti? Sì, perché quando seppelliamo ciò che
siamo, noi moriamo. Avevamo dei doni, dei talenti, ma per paura, per
conformismo, per non crearci “rogne”, li nascondiamo: e allora moriamo,
preferiamo la morte. Dio invece è Vita: in Lui e con Lui viviamo al massimo di noi
stessi. Se sopravviviamo, se trasciniamo stancamente e inutilmente i nostri
giorni, vanifichiamo il dono di Dio. Dio ci ha fatto un dono meraviglioso: la
vita. Viviamola come suo dono; viviamola come un dono che Lui continua a regalarci
ogni volta che noi cadiamo e ci allontaniamo da lui.
“Togliete la pietra”. Quante volte abbiamo “coperto”
le nostre vere intenzioni, quante volte abbiamo messo una pietra sopra la
nostra coscienza! Non vogliamo vederci “dentro”: non vogliamo che il nostro
intimo, la nostra anima, abbandonata e stagnante, riveli all’esterno il suo
olezzo nauseabondo. Ma togliamo dunque la pietra! Tiriamo fuori i nostri segreti!
Tiriamo fuori la vergogna, gli scheletri dall’armadio! Tiriamo fuori l'odio, la
sofferenza! Come possiamo pensare di vivere se continuiamo a custodire dentro
di noi la morte? Non ci può essere “vita” per chi vive nella morte. Apriamoci,
spalanchiamo il nostro cuore. Facciamo entrare Dio: Lui è perdono; Lui non si
vergogna di noi. Lui ci ama veramente. Non temiamo: perché con Lui tutto può
essere riportato alla luce, tutto può essere riportato in vita.
“Scioglietelo e lasciatelo andare”. Rimanere
legati, uccide; sciogliamo allora tutti i lacci che ci costringono, tutti i
nodi che ci limitano. Lasciamoci andare a Lui! Lasciamo “libero” l’altro: perché
questo è amore. Ognuno ha la sua strada e la sua missione. L'amore è permettere
a ciascuno di compiere il suo viaggio. Se il nostro cammino coincide con il suo,
bene. Se non è così, pazienza, ma noi dobbiamo lasciarlo andare. Se abbiamo
fatto del bene a qualcuno, lasciamolo andare: non pretendiamo che ci dimostri
riconoscenza per tutta la vita: ci ha già detto “grazie”; non rinfacciamogli ad
ogni occasione quel poco di bene che gli abbiamo fatto. Lasciamolo
libero!
“Vieni fuori”. Vogliamo smetterla di
nasconderci? Ci sentiamo rinchiusi in una prigione? Veniamone fuori! Siamo in
una situazione, in una relazione, che ci fa morire? Veniamone fuori! Siamo
convinti di non valere, di non farcela? Veniamone fuori! abbiamo sempre paura
di fare brutta figura, di sbagliare e ce ne stiamo sempre in disparte, in un
angolo? Veniamone fuori! Abbiamo paura di osare perché poi tutti ci vedono? Veniamo
fuori! Abbiamo delle doti, delle capacità, ma temiamo l'opposizione degli altri?
Veniamo fuori! Smettiamola di giustificarci: “Io sono umile; io non ho le
capacità; io non sono adatto”; diciamoci piuttosto la verità: “Io ho paura”;
non abbiamo il coraggio di venire fuori. Dio infatti vuole che noi emergiamo,
che ci realizziamo, che brilliamo. Dimostriamo a tutti, proprio attraverso i
doni immeritati che Lui riserva di continuo alla nostra persona, che Dio è Amore.
Assolutamente da provare. Amen.
«Condussero dai
farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva
fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi» (Gv 9,1-41).
Un
vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo che pone in primo piano molti
personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo
conoscevano, e infine Gesù; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere
con grande ricchezza di particolari, l’ottusità dei farisei e soprattutto la
loro disonestà mentale; un vangelo di luce e tenebre, di chi vede e di chi non
vede.
Tutto
ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un
tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai
farisei saputoni, agli interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i
protagonisti si interessano ad ogni cosa, vogliono conoscere ogni particolare
dell’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue
difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno
insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardano - tutti lo guardavano
da sempre - ma nessuno lo “vede”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti
preoccupati di loro stessi.
Innanzitutto
ci sono i discepoli: “Chi ha
peccato? Lui o i suoi genitori”. Gli ebrei dicevano: “Se uno è malato, lui o i
suoi predecessori devono aver peccato”. Punto. “Sbagliano i tuoi antenati? Paghi
tu!”. Questo è il principio, non si scappa. Quindi il problema dei discepoli è:
“Chi è il colpevole della cecità di quest’uomo? Dov'è l'errore? Chi ha
sbagliato?”. Essi vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: non vogliono
in ogni caso essere coinvolti personalmente nella vicissitudini dell’uomo: “È
colpa sua, noi non c'entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per
lui”.
È una
mentalità molto diffusa; anche oggi: è sufficiente vedere come ci poniamo di
fronte ai fatti di cronaca: corruzione, distrazione di capitali, montagne di
rifiuti abbandonati per strada, delinquenza diffusa, genitori che uccidono i figli,
figli che uccidono i genitori, immigrati che creano problemi sociali, criminalità
minorile in aumento esponenziale. L'unica preoccupazione è quella di scaricare
le colpe su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Così, poi, tutti ci
sentiamo più a posto, più tranquilli, con la nostra coscienza in pace. Trovato
il “nostro” colpevole, ci buttiamo in fretta tutto alle spalle. Ma è giusto
fare così?
Ci
sono poi gli amici, i conoscenti
del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui quello che era cieco”; altri, “no”; altri,
“gli assomiglia”. Sono quelle persone per le quali noi non possiamo cambiare.
Dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi diventiamo
migliori, di essere “altri”, soprattutto se questo cambiamento altera in
qualche modo il nostro rapporto con loro. “Ma come: era cieco ed ora ci vede? Impossibile:
com'è successo?” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato
in un certo modo, hanno già deciso a priori chi siamo o non siamo, cosa possiamo
fare o non fare, cosa poter dire, cosa poter rispondere.
Ci
sono i genitori. A quel tempo la
scomunica della sinagoga era una morte sociale. Essere scomunicati equivaleva a
morire socialmente. Chiamati dunque a testimoniare, quei genitori hanno paura,
cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “È abbastanza grande, può dire
tutto di sé lui stesso! Che c’entriamo noi? È un problema suo!”. Un
comportamento frequente anche oggi: e purtroppo, per un figlio, non c'è peggior
tradimento che sentirsi abbandonato, per paura del giudizio della gente, dai suoi
stessi genitori, le persone a lui più care, più vicine, di cui lui si fida ciecamente;
chi lo deve difendere e proteggere, lo abbandona, lo tradisce. Oppure, peggio
ancora, lo denigra, lo svergogna, lo rifiuta. È una situazione fin troppo
usuale: il figlio si sente solo, perso, abbandonato, disperato, ma soprattutto
tradito. Sente che il genitore pensa più a se stesso (paura di sfigurare, di
non esser all’altezza, ecc.) che a lui, e ciò innesca comportamenti spesso
tragici.
Poi ancora
ci sono i farisei. I farisei qui
sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza
negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo
figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la
saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può operare
per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. I farisei si barricano dietro
alla legge, alle regole perché hanno paura di ammettere che le cose sono
diverse da come le vedono loro; che sono cambiate; per cui sono terrorizzati
dalla prospettiva che essi stessi devono cambiare atteggiamento, devono cambiare
cuore; sono maturati altri tempi. Ma per loro è inammissibile: piuttosto di
cambiare, negano la realtà. Sono troppo preoccupati di salvare la loro immagine,
di essere considerati i discepoli autentici di Mosè; più che la verità, preferiscono
difendere il proprio ruolo esteriore.
Ecco,
i farisei rappresentano tutti quelli che negano la verità: è sufficiente che si
discosti dalle loro convinzioni, e per principio non la vogliono vedere, non la
accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del negativo
che c'è in loro, dovrebbero rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro
paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere
tutto. Perché, in pratica, “vedere” comporta necessariamente “cambiare”: meglio
quindi non vedere, ignorare a tutti i costi.
Infine,
per fortuna c'è anche Gesù. Gesù
non deve difendere nulla: egli è libero. Libero come colui che accetta di poter
fare brutta figura, di poter essere deriso, rifiutato, umiliato, malmenato, percosso,
pur di difendere la verità, la propria coscienza. Gesù non si deve preoccupare
degli altri, non gli interessa cosa diranno, e neppure deve salvare la faccia. Poiché
non deve preoccuparsi di sé, si preoccupa dell'altro. Gesù è colui che ci “vede”,
ci scorge, nota noi e i nostri problemi, perché non ha nessun interesse
personale da difendere. Chi invece è occupato dai suoi problemi, non può
occuparsi degli altri.
Ebbene:
capita che spesso ci ritroviamo in tutte queste “persone”: i loro pregi e
difetti sono i nostri. Sono i nostri “io” interiori. Apriamo allora per bene i
nostri occhi: scrutiamo attentamente il nostro intimo; ma soprattutto “vediamo”
e di conseguenza traiamo le nostre regole di vita. Non facciamo l’errore di fossilizzarci
sui nostri lati negativi: su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto,
su come avremmo dovuto essere e non siamo, sulle troppe difficoltà che incontriamo
nella ricerca di ottenere risultati soddisfacenti. Perché se concentriamo la
nostra attenzione soltanto sui fallimenti, sulle sconfitte, l’immagine di noi che
ne ricaviamo sarà decisamente negativa e fallimentare. Concentriamoci invece su
quello che facciamo, anche se è poco; lavoriamo sempre sul positivo, su quello
che possiamo costruire: così quando guardiamo il nostro prossimo, mettiamo in
luce le sue doti, le cose belle, le sue capacità: in questo modo si sentirà valorizzato,
amato, importante: si sentirà incoraggiato a fare sempre meglio. Ricordate le
nostre pagelle di scuola? Tutti 7 e 8, e magari solo un 5. Qual'era il commento
immancabile di nostro padre? “Perché quel 5? Sei proprio un somaro!”. Invece di
spronarci, apprezzarci e incoraggiarci per gli altri bei voti, ci faceva sentire
in colpa, disprezzati, falliti: una cosa che ci distruggeva, ci buttava a terra.
Al
contrario è l'amore, il “vedere” positivo, la fiducia riposta nelle persone,
che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non la considerazione del solo
negativo.
Il
vero peccato – ci dice il vangelo -non è il “non vedere”: è il non “voler”
vedere, l’ostinarsi nel rimanere ciechi a tutti i costi. È un avvertimento che va
preso molto sul serio: non dobbiamo addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo; è una
frase tremenda: «Se foste ciechi, non
avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato
rimane». Che significa? Che il peccato di tantissima gente è quello di
essere convinta di “vedere”, di sapere cioè cosa sia la verità (magari la insegna
anche agli altri); gente che si propone come esempio da seguire, gente che
crede di sapere chi è Dio, e cosa fare per seguirlo; gente convinta di essere dei
bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, ecc. Gente convinta di non aver
alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione: perché essi
sono i depositari della verità.
Brutta
cosa! Gesù a tutti questi illusi continua a ripetere: “Siete dei ciechi. Il vostro
dramma è di vivere nell’oscurità, nel buio totale; e nonostante ciò vi promuovete
come guide esperte per gli altri”. Impossibile: “può un cieco guidare un altro
cieco?”. Eppure quanti uomini, con una trave nell'occhio, passano la vita divertendosi
ad osservare soltanto “la pagliuzza nell'occhio degli altri?”.
Chiariamoci
le idee: luce, illuminazione, risveglio, occhi aperti, occhi che vedono bene,
significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare i figli della
luce, quelli che “vedono”, che si rendono conto sul da farsi, che non dormono
sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i figli
delle tenebre, preferiscono vivere nell’oscurità, nel peccato, nella notte dell'ignoranza.
Quindi: il grande peccato, l'unico, è rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi”
per principio, ad ogni costo, per paura.
La
grande domanda che Gesù ci rivolge, allora, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei
disposto ad accettare ciò che vedrai”?.
In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità
di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti eri fatto di me, il
Cristo, della Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee
personali, alle tue convinzioni errate, alla tua fede addomesticata, alla tua
vita irregolare?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, la
gioia, l’amore, la nostra risposta sarà sicuramente “si”. Cessiamo allora di
essere ciechi, di amare le tenebre. “Dio”, in sanscrito, vuol dire appunto “luce”:
viviamo in Dio, e godremo dello splendore della Luce, nel caldo luminoso del
suo Amore. E saremo felici. Amen.
«Gesù dunque, affaticato per il viaggio,
sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad
attingere acqua…» (Gv 4,5-42).
Il
vangelo di oggi propone alla nostra meditazione l’incontro e il colloquio stupendo
tra Gesù e la donna samaritana, avvenuto appunto nella terra pagana di Samaria,
durante il suo viaggio di ritorno in Galilea. Ora, per capire bene il
comportamento di Gesù, che è giudeo, e quindi “nemico” storico dei samaritani, dobbiamo
entrare nella logica e nella mentalità di quel tempo. Egli va infatti contro
ogni regola: rivolge cioè la parola ad una samaritana, che era “diversa” per
razza, nazionalità e religione (era impensabile e improponibile per i giudei!);
oltretutto si ferma a parlare fuori casa con una donna, cosa che equivaleva a
farle delle proposte indecenti. Un comportamento che scandalizza anche i suoi stessi
discepoli!
Ma Gesù
è un uomo libero, e non sono certo i pregiudizi e le maldicenze che lo
condizionano nel suo rapportarsi con le persone: lui incontra chiunque ne abbia
bisogno, a prescindere da tutto e da tutti: in tutta la sua vita non ha mai
detto “Questo si perché è ricco, nobile, potente; questo no perché dicono che è
un disonesto (Zaccheo), una donna di malaffare, (l'adultera), un ladro patentato
(Matteo Levi); no. Gesù non ha mai fatto questo: egli è fuori da ogni schema: è
decisamente agli antipodi di questa mentalità, è scomodo e inopportuno, e
soprattutto non rispetta tutte quelle regole rigide, frutto della mentalità
ristretta della gente del suo tempo.
Gesù dunque
giunge a Sicar. Il viaggio è stato lungo, sotto il sole, ed ha sete: si siede quindi
presso il famoso pozzo di Giacobbe, appena fuori della città, per abbeverarsi e
trovare un po’ di ristoro.
In
quel mentre sopraggiunge una donna, diretta al pozzo per attingere acqua: e qui
avviene l'incontro straordinario tra queste due persone, entrambe profondamente
assetate: Gesù dell’acqua del pozzo (“Dami da bere”) e la donna dell’acqua
soprannaturale dell’amore (“Signore, dammi di quest'acqua”).
I
preamboli si svolgono su due piani diversi: la donna che rimane colpita per l’atteggiamento
insolito di Gesù, decisamente contrario alle usanze, e Gesù che in pratica le risponde
“Tu non sai chi sono io e che genere di acqua straordinaria io posso darti”. La
donna ovviamente non comprende, e rimane interdetta: “Ma come, questo giudeo
spossato dal caldo e dall’arsura, sprovvisto di qualunque attrezzo per poter
attingere l’acqua, lui che chiede a me di dargli dell’acqua per dissetarsi, improvvisamente
si dice in grado di “dissetarmi” con un’acqua miracolosa! Mi sta prendendo in
giro?”
Ma poi,
via via che il dialogo procede, la donna capisce di trovarsi di fronte ad un
uomo fuori dal comune: Gesù la porta progressivamente da un punto di vista
basato sul materiale, sul pratico, sulla vita vissuta, ad un altro più nobile,
basato sul mistero, sul soprannaturale, rappresentato dalla sua stessa persona
divina.
Non a
caso questo colloquio tra i due avviene in prossimità di un pozzo: il pozzo è infatti
simbolo di profondità, costringe a scavare, ad andare dentro a noi stessi per
tirare fuori ciò che c'è sotto, ciò che c'è di nascosto. Gesù infatti non fa
sconti sulla nostra vita; non ci giudica, non ci condanna: ma vuole che andiamo
dentro di noi e che tiriamo fuori dal profondo della nostra anima le cose per
come stanno veramente.
D’altro
canto la samaritana è una donna decisa: una donna che di suo vuole andare fino
in fondo alle cose, tant’è che preferisce essere esclusa, rifiutata dalla
società per il suo comportamento anormale, pur di trovare la soluzione al suo
malessere interiore, alla sua sete. Lo stesso coraggio che la porta a peccare,
adesso l'aiuta a dialogare con quel forestiero, e per giunta giudeo. E proprio in
quel dialogo penetra finalmente la Luce: in quella donna - una prostituta senza
prezzo, con una lunga lista di uomini alle spalle, alla quale apparentemente
non importa assolutamente nulla di Dio, di religione, di preghiera, di adorazione
- un raggio improvviso illumina la sua mente, facendole capire in maniera chiara
ciò di cui il suo cuore ha veramente bisogno. Sì, perché nel suo cuore, pur impantanato
nel peccato, lei è alla ricerca del perché, del come, di cosa sia esattamente ciò
che la rende così inquieta! Delle domande senza risposta appesantiscono da
tanto tempo la sua anima. Ed ecco, incontrando Gesù, parlando con Lui, la sua
mente si spalanca, e Lei scopre finalmente se stessa.
A
questo punto si rende conto di essere alla presenza di un uomo eccezionale,
perché solo un Profeta, un inviato da Dio, poteva rispondere alle domande più
intime del suo cuore: domande che nessun altro, oltre lei, poteva conoscere. Quell’uomo
si rivela al suo cuore per quello che Lui è veramente: il Soccorritore, il
Salvatore, il Messia, che Dio ha mandato su questa terra in nostro aiuto.
Gesù con
lei non fa il moralista: semplicemente la mette di fronte alla sua vita, alla sua
verità; la costringe a dirsi tutta la verità, anche se è dura e difficile: “Non
ho marito; ho avuto tanti uomini, ma nessuno mi ha mai soddisfatto “dentro”; non
mi è mai bastato nessuno, perché nessuno è mai riuscito a placare la mia sete”.
Ecco
il primo insegnamento per noi: incontrare il Signore significa dirsi la verità,
tutta la verità; significa non mentirsi, non illudersi, non raccontarsi “frottole”.
Succede
anche a noi, a volte, di capire che dietro alle nostre convinzioni, al nostro
modo di pensare e di agire, c'è qualcosa che non va bene, che ha bisogno di
essere esaminato, tirato fuori, portato a galla, per essere corretto, rivisto. In
genere però noi non ci spingiamo oltre, perché “è meglio non farsi troppi
problemi”. Ma così sopravviviamo; così sfuggiamo alla verità, all'incontro con
noi stessi; così sfuggiamo al nostro cuore e a tutto ciò che c'è dentro.
Facendo
così viviamo una vita falsa, mascherata, una vita non nostra: esibiamo all’esterno
una verità costruita, illudendoci che sia invece quella autentica! Fuggiamo da
noi stessi pur di avere una “bella facciata” da mostrare agli altri. Ma vivere
una vita non nostra non può che portare inevitabilmente all'insoddisfazione e
all'infelicità.
La
verità, la sincerità, la retta intenzione, è invece l'unica strada che conduce a
Dio; dirsi la verità significa infatti calarci nel profondo di noi stessi, dove
Dio vive in noi, e metterci faccia a faccia con lui. Se la donna samaritana
infatti non si fosse detta la verità (“sì ho avuto sei uomini ma in realtà sono
ancora affamata d'amore”) non avrebbe mai potuto incontrare l'Amore vero, il
Signore, colui che sfama ogni sete.
È
chiaro che se noi siamo interessati solo al presente, se dobbiamo “difendere”
ad ogni costo la nostra posizione sociale, allora è molto difficile, se non impossibile,
dirci certe verità. Se la nostra famiglia “deve” essere perfetta, non possiamo
ammettere che ci siano dei gravi problemi in casa nostra: e se ci sono, li
sminuiamo, li nascondiamo, li seppelliamo. Se dobbiamo difendere la nostra
immagine di “brav’uomini” non possiamo certo far capire che siamo in crisi, non
possiamo chiedere aiuto, non possiamo ammettere di fare degli errori, non possiamo
vederci e farci vedere imperfetti.
Purtroppo,
nella vita, le relazioni umane sono sempre imperfette e parziali: noi chiediamo
agli altri una comprensione, un’amicizia, un amore, “infiniti”, assoluti,
perché abbiamo fame e desiderio di Dio, amore “infinito”; la nostra domanda è
sì di “infinito”, ma la risposta che otteniamo è sempre “finita”, limitata,
imperfetta. Ci illudiamo che l'altro ci riempia del “tutto”, ma il “poco” che
riceviamo ci lascia sempre delusi, scontenti. Il rischio che corriamo, se non
ci rivolgiamo al Signore per ottenere il dono dell'acqua viva, è quello di
“morire di sete”; ma se egli ci concede questo dono, allora capiamo
improvvisamente quanto sia sublime, quanto sia meraviglioso “morire d'amore”
per lui. La
storia della samaritana è quindi la storia dell’umanità: è la storia di
ciascuno di noi. Nel cuore dell’uomo manca infatti un qualcosa che
continuamente egli si affanna a cercare: ricordate Agostino? “Il nostro cuore è
inquieto, fino a quando non riposa in Te, Signore”. Nel nostro cuore, anche se
lontano da Dio, anche se dimentico di Lui, c’è sempre un vuoto a forma di Dio:
un vuoto che solo Lui può colmare. Un Dio che ci aspetta pazientemente al nostro
“pozzo”: che ci osserva durante il corso della nostra vita; pur essendo nel più
alto dei cieli egli continua a guardarci, a seguirci, ad aspettarci. E noi, per
quanto insensibili, per quanto distratti, per quanto “uomini duri”, ad un certo
punto ci accorgeremo di Lui, capiremo che Lui, nonostante tutto, è sempre stato
qui, al nostro fianco; Egli vuole incontrarci personalmente, vuole aiutarci, soccorrerci,
dissetarci, perdonarci; è venuto insomma a salvarci.
Non
facciamolo “stancare”. Non lasciamolo solo, assetato di noi, seduto ad
aspettarci accanto al “pozzo”. Egli, Dio infinito amore, ancora una volta come
sulla croce, non si vergogna di manifestarci la sua sete di noi, di chiederci
da bere; non si vergogna di essere stanco a causa della nostra “arsura”; non si
vergogna di chiederci un po' di sollievo d’amore.
E
allora preghiamo: Signore Gesù, se non ti pensassimo, seduto accanto a quel
pozzo, stanco per la fatica e per il caldo, forse non avremmo il coraggio di
credere in te. Se tu fossi vissuto fra noi sempre fresco e pimpante come i
personaggi della pubblicità, con un perenne sorriso “a trentadue denti” stampato
sul volto, forse non avremmo il coraggio di accostarci a te, di credere in te. Perché
anche noi siamo spesso stanchi: dello studio, del lavoro, degli amici e dei
nemici, di chi si comporta male e di chi si comporta bene ma ce lo fa pesare; siamo
stanchi di quelli che non sono mai stanchi e di quelli che sono sempre stanchi.
Di quelli che ci devono ubbidire, e di quelli che ci comandano. Siamo stanchi, anche
se non lo vogliamo ammettere. Per questo, Signore Gesù, noi spesso veniamo
vicino a te, vicino a quel tuo “pozzo” e, stanchi, ci sediamo accanto a te sotto
il sole di mezzogiorno. E ci sentiamo finalmente rinfrancati, tranquilli, amati.
Signore
Gesù, non sappiamo imitarti quando sei in piena forma; ma vicino a quel pozzo, ci
sentiamo come te: dacci da bere allora la tua acqua. Amen.
«Gesù prese con sé Pietro,
Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E
fu trasfigurato davanti a loro» (Mt 17,1-9)
Pietro
e gli altri discepoli non hanno ancora capito chi sia realmente Gesù. Essi
continuano a vedere in lui il Messia forte e potente, il Messia giunto finalmente
a sollevare le sorti del loro popolo, schiavizzato dalle grandi potenze dell’epoca;
un uomo che - ancora non sanno come, ma sicuramente con grande impiego della
forza – li affrancherà dall’oppressione romana in atto, riportando finalmente giustizia
ed equità in quel loro paese martoriato. Questo essi vedono in Gesù: ma questo
non è Gesù. Eppure Egli ha cercato in tutti i modi di spiegare loro la vera natura
della sua missione: anche soltanto pochi giorni prima era stato molto chiaro in
proposito: “Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”: parole
che lasciano ben poco spazio a visioni fantapolitiche. Ma niente e nessuno
poteva scuotere le convinzioni profondamente radicate in questi ruvidi
lavoratori: serviva una “catechesi” forte, immediata, di sicuro impatto
emotivo. Per questo egli “prende con sé”
Pietro, Giacomo e Giovanni. Perché loro? Perché erano i più “agguerriti”,
quelli più vicini e attenti. Pietro era il portavoce del gruppo, un tipo
sanguigno che prima agiva e poi pensava: uno che vedeva in Gesù il Messia
politico di cui era accanito sostenitore; i due fratelli Giacomo e Giovanni, erano
due tipi molto ambiziosi, convinti anch’essi del suo ruolo politico; erano soprannominati
entrambi “Boanèrghes”, “figli del tuono”,
per il loro carattere impulsivo, “fumino” e spesso collerico. Un trio
decisamente di punta, emergente e trascinatore.
L’esperienza
a cui Gesù vuole renderli partecipi, è una di quelle importanti, che deve durare
nel tempo, che deve essere documentata seriamente: per questo servono dei
testimoni attendibili, gente che si sappia imporre, gente persuasiva, con
carattere.
Con
essi dunque Gesù sale su “un alto monte”. E qui, mentre sono lontani dagli
altri, “in disparte”, egli si “trasfigura”; le sue sembianze di uomo, si
trasformano in sembianze divine: si riprende cioè le sue sembianze vere, quelle
che gli appartengono, quelle della sua natura divina, rivelandosi per quello
che Lui realmente è: il Dio amore e vittima sacrificale che, nella sua “kenosis”,
nello “svuotamento” cioè della sua divinità, ha accettato di assumere la nostra
natura umana per riscattare e riportare al Padre l’intera umanità mediante il sacrificio
della croce.
È un
evento difficile da capire e da descrivere nella sua realtà: i tre evangelisti
che ne parlano riflettono infatti l’inadeguatezza delle loro parole: il volto
di Gesù brilla “come il sole”, le sue
vesti diventano candide “come la luce,
sfolgoranti, splendenti, bianchissime”.
Sicuramente si rifanno ai testi delle Scritture che parlano di Dio come creatore della luce, sorgente di luce eterna, avvolto in un mantello di luce (cfr. Sal 104,2).
In
questa esplosione di luce, con gli occhi abbacinati da tanto splendore, improvvisamente
essi scorgono Mosè ed Elia, intenti a conversare con Gesù. Si tratta di due
personaggi biblici fondamentali per la storia di Israele: Mosè che rappresenta
la Legge, Elia che rappresenta i profeti: non si rivolgono ai discepoli, ma dialogano
direttamente con il Cristo. Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, non hanno più niente
da dire al popolo, se non attraverso Gesù. Perché è con Gesù che viene abolita
l'antica alleanza; per cui tutto ciò che Dio deve dire, da questo momento lo dirà
attraverso di Lui.
«Signore, è bello per noi
essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per
Elia». È
Pietro che parla: è preso dall’entusiasmo e dall’eccezionalità del momento:
vorrebbe che quella esperienza non finisse mai: l’idea delle “capanne” gli
viene naturale, è una prassi che lui conosce molto bene, poiché ogni anno, nella
festa delle capanne, ci si accampava in
capanne per sette giorni, facendo memoria della miracolosa liberazione
dall’Egitto, guidata appunto da Mosè. Ed è proprio Mosè che Pietro, nella sua proposta,
colloca al centro, non Gesù; la sua grande aspettativa era infatti che Gesù, il
nuovo Mosè, avrebbe seguito le orme dell’antico, liberando con la forza il
popolo dalla schiavitù dei Romani e dall'ingiustizia religiosa dei farisei.
Ma
Mosè ed Elia ignorano i tre; dialogano direttamente con Gesù; e come se non
bastasse, una voce tuona dall’alto: “Questo
è il figlio mio… ascoltatelo!”.
I tre,
già in preda ad una fortissima emozione, “caddero
a terra” e furono presi da “grande
timore”. Cadere a terra è segno di totale disfatta: a questo punto infatti
essi si sentono sconfitti, delusi; i loro sogni di restaurazione, le loro
pretese e aspettative politiche, si infrangono contro questa nuova realtà. “Abbiamo
creduto che tu fossi qualcuno che non sei”: si rendono conto di essersi
sbagliati: improvvisamente diventano consapevoli di trovarsi di fronte ad una autentica
manifestazione divina, e il timore li assale; hanno il terrore di morire, perché
ricordano la Scrittura che dice “Chi vede Dio faccia a faccia, muore”. Ma Gesù è
lì accanto, li tocca, li rassicura, li rialza. Fa cioè lo stesso gesto (toccare
e rialzare), dice le stesse parole che usa nelle guarigioni (“non abbiate paura”).
E i tre immediatamente guariscono: guariscono dalla falsa visione che avevano
su di Lui.
Adesso
lo vedono per quello che è veramente: infatti, riavutisi dallo spavento, vedono
soltanto Gesù. Non c'è più né Mosè, né Elia: Gesù è solo; Gesù è soltanto Gesù.
Pietro, Giacomo e Giovanni non proiettano più su Gesù le loro speranze e le
loro aspettative; si sono finalmente spogliati delle loro idee, delle loro previsioni
su di lui.
Questo
del “proiettare” sugli altri le nostre convinzioni, del “costruire” sugli altri
il verificarsi dei nostri sogni, è un fenomeno molto comune: in pratica
mettiamo addosso agli altri dei vestiti, delle maschere, dei ruoli, che non sono
loro, per cui li vediamo non per quello che sono ma per quello che decidiamo
che siano.
La “proiezione”
vede solo quello che vuol vedere. Quando poi scopriamo che l'altro non è così,
rimaniamo delusi: “Non sei come pensavo!”. Non lo è, e non lo è mai stato: eravamo
noi che vedevamo in lui uno che non c'era. Per questo motivo la proiezione ci
impedisce di amare l’altro: perché non è lui che noi amiamo, ma la
corrispondenza della sua immagine alla nostra idea.
Noi
abbiamo ben chiara nella nostra testa l’idea di capo, di amico, di prete: quando
capitano delle new entry, noi proiettiamo
sul nuovo arrivato questa nostra idea: e poiché difficilmente questi corrisponde
al nostro standard, al cliché da noi vagheggiato, ne rimaniamo delusi. E allora
diciamo: “Non ci piaci!”. E lo rifiutiamo.
Quante
unioni, quante vocazioni, quanti matrimoni nascono e muoiono così! Lei sposa
lui perché lo vede forte, vede in lui il suo paladino, colui che le garantisce
sicurezza e forza. Ma questo è il “tipo” di cui lei ha bisogno, non l’uomo che lei
ha scelto. Quando infatti, poco dopo, lui si rivela per uno che non parla, uno
che più che forte è violento, uno che non sa essere affettivo, lei si lamenta: “Non
sei più quello di una volta; non sei quello che ho sposato; non eri così prima
di sposarci!”. E invece no; lui è sempre stato così; è che lei vedeva un altro;
vedeva quello che aveva bisogno di vedere, quello che le “serviva” di vedere.
D’altro
canto, nella stessa lettura del vangelo noi siamo portati a “proiettare”: l’immagine
cioè che noi abbiamo di Dio spesso non è quella reale, ma quella che noi, in
quel momento, gli attribuiamo. Dio infatti, non è il burbero, forte, severo
“padrone” del mondo: non è l’intransigente giudice che gode nel punirci appena
ci allontaniamo un attimo dai suoi precetti. Lui non è così, non incute
assolutamente il terrore; non abbiamo alcun motivo per temerlo, ma innumerevoli
per amarlo; eppure per tanti secoli abbiamo proiettato su di lui le nostre
immagini di padre/padrone colte dalla vita sociale e dalla mentalità di allora.
Così ne è nato un Dio da temere, un Dio che pretende sacrifici continui,
ubbidienza ferrea dai suoi sudditi, un Dio che si arrabbia e che inesorabilmente
ci punisce (ci manda all'inferno) se non facciamo come dice lui.
Ma Dio
non è venuto a rinnovare la società esistente; Dio è venuto ad annunciare la
novità del suo regno, che è un'altra cosa: seguire Dio, diventare cristiani, nel
primo caso corrisponderebbe semplicemente al farsi battezzare e frequentare la
Chiesa; aderire al regno di Dio significa invece vivere la libertà, la verità,
l’amore che stanno al centro del nostro cuore: farne il nostro stile di vita. È
un'altra cosa.
Il
vangelo dice che Gesù “fu trasfigurato”
davanti a loro e che il suo volto “brillò
come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Cos'avranno
visto i tre accompagnatori? Cosa significa vedere Gesù “trasfigurato”? Come si
possono “vedere” queste cose? Ebbene: la “trasfigurazione” è vedere appunto cose
che non possiamo in alcun modo vedere con gli occhi fisici; significa vedere
cose che si possono percepire soltanto con il cuore. E siccome molti non hanno
gli occhi del cuore, non potranno mai avere queste “estasi”. “Trasfigurazione”
significa rivelare nei tratti esteriori del nostro volto la gioia, la
beatitudine incontenibile, prorompente, di quando ci sentiamo rapiti in cielo, di
quando cioè il nostro cuore è stracolmo di felicità perché si sente al centro
dell’amicizia con Dio, percepisce la sua presenza in lui, si sente abitato,
invaso, inondato dal suo amore.
Siamo
mai stati veramente innamorati? Se abbiamo perso la testa, se abbiamo fatto
cose pazze per qualcuno, se ci è capitato, almeno una volta, di vedere il mondo
come un paradiso celestiale, perché qualcuno ci ha dichiarato il suo amore,
allora, forse, riusciremo a capire questo brano del vangelo.
Se non
ci siamo mai innamorati, se non ci siamo mai lasciati andare, se non conosciamo
cosa voglia dire abbandonarsi completamente alle emozioni del cuore, agli
slanci dell'anima, non potremo mai conoscere il messaggio di Cristo: perché lui
su questa terra fu così: un innamorato, un passionale, un fuoco che divampava, che
bruciava, che incendiava chiunque lo incontrasse.
Dio è
Amore, dice l'evangelista Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi e vivere l'amore
può capire Dio. Tutti quelli che non sanno spalancare il loro cuore all’amore,
potranno sì avere un’idea di Dio, ma non lo potranno mai “sentire”; tutti
quelli che sono freddi, che vivono nell’isolamento del proprio io, incapaci di
commuoversi, di esaltarsi, non potranno mai percepire la grandezza del suo
cuore, la quantità del suo amore; tutti quelli che non sanno abbandonarsi ai
sentimenti, continueranno a cercarlo invano.
Ci
succede mai di commuoverci davanti alla dolcezza del volto di una donna, di un
bimbo, alla serenità di un silenzioso tramonto in montagna? Ci sentiamo mai così
pieni di gioia, da commuoverci, da sussultare, da non poter più trattenere la
gioia delle lacrime?
Ebbene,
quando vinciamo delle battaglie, quando facciamo delle conquiste o superiamo
delle paure, delle prove, delle barriere che sembravano insormontabili; quando ci
succedono cose impensabili ma meravigliose, quando nell’anima si aprono improvvisamente
spiragli inattesi, quando guariamo dalle gravi malattie dell'anima e del
fisico, non possiamo non commuoverci fino alle lacrime; non possiamo non
piangere di felicità, di gioia; non possiamo rimanere indifferenti di fronte
alla forza, alla bellezza, all'intensità della vita che ci invade il cuore.
Una
volta pensavo che commuoversi significasse essere deboli. Ma oggi so che provare
emozioni forti,vuol dire essere vivi, vuol dire “sentire” ciò che viviamo, facendone
partecipi anche gli altri; vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi coinvolgere
da ciò che succede, significa non essere gelidi come il ghiaccio o
impenetrabili come il marmo. Perché questi sono i nostri momenti di “trasfigurazione”;
sono i momenti in cui percepiamo con assoluta chiarezza che vale la pena di
vivere; sono i momenti in cui ci sentiamo riconoscenti a Dio per essere in
questo mondo, per aver avuto il grande dono di esistere. Sono i momenti che ci
danno l'energia, la fiducia, la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, affrontando
se necessario le cadute, le croci, le crocifissioni di ogni giorno; sì, perché senza
questi sprazzi di gioia, di felicità, di infinito, senza questi “momenti di Dio”,
non riusciremmo mai a trovare la forza per rialzarci e continuare il cammino.
E
concludo: se vogliamo “trasfigurarci”, dobbiamo permettere alla felicità di
entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita irrompi in noi, dobbiamo
lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si sviluppi, che l’amore nasca,
si espanda, si irrobustisca.
Perché
è quando ci innamoriamo che noi facciamo esperienza di “trasfigurazione”. Vediamo
cioè nell'altra persona, cose che soltanto noi riusciamo a vedere. Quando nel
buio di una situazione facciamo entrare la luce, quando da smarriti che
eravamo, ci ritroviamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando
scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e
ai sei miliardi di uomini che lo abitano, ha un suo senso e uno scopo ben preciso,
noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando riusciamo a vedere, a scorgere,
a percepire la bellezza, la forza, la sensibilità, la ricchezza d’animo di una
persona, anche se da fuori non si vede, questa è trasfigurazione.
Trasfigurazione
è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro vera faccia,
il loro vero volto, la loro figura integra, come è stata creata da Dio: non
deformata dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce
della vita.
Se ci
capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo; se ci
capita di essere così pieni d’amore, così ricchi da sentirci rapiti in cielo, così
immensi da sentirci caldi come il sole o profondi come il mare, beh questa è
trasfigurazione.
Il
mondo ci dirà che siamo matti: non ci capirà mai; ma mentre lui continuerà ad
essere infelice, noi saremo davvero tanto, tanto felici. Amen.
«In quel tempo, Gesù fu
condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo…» (Mt 4,1-11).
Con
questo vangelo sulle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce nel tempo di Quaresima.
È chiaro che Matteo non vuole qui presentare un fatto storico, reale, bensì un
“fatto teologico”; egli vuole cioè proporre alla nostra riflessione, traducendola
in immagini, una realtà che Gesù ha vissuto e provato nella sua vita: la
tentazione cioè di usare, in maniera diversa da come ha fatto, il suo potere di
leader, di maestro e guida, nonché, in quanto Figlio, la sua profonda conoscenza
di Dio-Padre. Praticamente Matteo ha concentrato, in quest’unico episodio, ciò
che nella realtà Gesù ha sopportato lungo tutto l’arco della sua esistenza
umana. Perché, per tutta la vita, Gesù fu continuamente “tentato” di seguire
altre strade (godimento, possesso, potenza) rispetto a quella da Lui scelta, l’unica
strada della Croce.
Fatte
queste precisazioni, leggiamo dunque il vangelo: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto”. Cosa vuol dire? Gesù
un attimo prima, durante il battesimo, aveva ricevuto lo Spirito: si erano cioè
aperti i cieli e lo Spirito di Dio era sceso su di lui. Uno Spirito che è
Amore: “Questi è il Figlio mio prediletto
nel quale mi sono compiaciuto”; e Gesù percepisce Dio come Padre, come
accoglienza, come presenza, come abbraccio, come amore incondizionato, come
amore di predilezione. Ora, quello stesso Spirito, lo spinge, lo manda, lo
conduce nel deserto. È lo stesso Dio-Amore di prima, ma questa volta lo manda laggiù,
in balia delle prove, del demonio.
Questo
ci aiuta a capire quanto sia falsata la nostra immagine di Dio: per noi se una
cosa è bella, buona, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene
da Dio; se una cosa, invece, è dura, ostica, dolorosa, difficile, vuol dire che
viene dal diavolo, dal male. Non ci sono alternative. In realtà tutto ciò che
ci riguarda proviene da Dio: è Lui che “vuole” il nostro bene, è Lui che “permette”
il nostro male, per farci raggiungere il bene. Sì, Lui lo permette: perché il
male rappresenta un passaggio necessario per la nostra conversione, per la
nostra perfezione; un passaggio che dobbiamo affrontare e superare.
Il
male non è il “tentatore” e la prova: sono le nostre azioni rivolte contro l’Amore.
Il serpente, il demonio, è semplicemente un ostacolo da evitare, un passaggio obbligato,
una “prova” che tutti dobbiamo superare per evolvere, per poter liberare tutta
l'energia e le potenzialità che sono dentro di noi. Satana, l'avversario, svolge
soltanto una funzione utile e necessaria per progredire nella nostra vita.
Dobbiamo
fare attenzione perché molto spesso noi vediamo il diavolo ovunque. È molto più
semplice scaricare ogni nostra responsabilità sul demonio, piuttosto che
affrontare i problemi. Ci piace tanto compatirci, fare i rassegnati, i fatalisti:
“che posso farci? è colpa del diavolo!”.
Ma non
è così: non giochiamo con noi stessi, non facciamo gli scaricabarile come Adamo
ed Eva nell’Eden: Satana il tentatore fa solo il suo mestiere, è soltanto un
ostacolo, una barriera da superare: e noi siamo chiamati a compiere questo
passaggio necessario, a superare questa prova, perché è così che facciamo
emergere quel qualcosa di prezioso che è nascosto in noi. È Dio stesso che ci
chiama a superare gli ostacoli che il diavolo pone sul nostro cammino. È Lui che
lo permette: in sostanza Lui vuole che noi affrontiamo e combattiamo i nostri
demoni, perché è così che ne riusciremo vincitori, non certo fuggendo continuamente! È
lo Spirito che spinge Gesù nel deserto, che lo costringe a confrontarsi con i
suoi demoni; è lo stesso Spirito che, per amore, chiede a noi di affrontare
faccia a faccia le difficoltà, le prove, per uscirne decisamente arricchiti,
vittoriosi, positivi.
La
parola “tentazione” (in greco peirazo)
vuol dire infatti “mettere alla prova,
verificare, fare un test”. Un po’ come succede a scuola: prima ci vengono spiegate
le varie materie, per studiarle e capirle; poi arrivano le “verifiche”, le “prove”
da superare; ed è esattamente in questi esami che dobbiamo dimostrare di aver raggiunto
la nostra “maturità”.
Nella
vita spirituale succede la stessa cosa. La tentazione, la prova, non è Dio che si
diverte a farci sbagliare; che ci seduce per vedere se cediamo. No: le
tentazioni, le prove, servono a noi, ci sono necessarie per dimostrare che
siamo “maturi”, che il nostro cuore sa il fatto suo, che sa trarre dalle
difficoltà utili progressi nella sequela del Maestro.
Per
questo dobbiamo entrare nel “deserto”, dobbiamo accettare di essere tentati, dobbiamo
affrontare i nostri demoni. Nel deserto non c'è niente e nessuno: ed è allora che
emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a
rischiare? Quanto? A che livello voglio vivere? Quali sono le paure che mi
frenano? Quali sono le bugie che mi racconto? Mi va di ascoltare le voci che ho
dentro?”. Domande che nel silenzio aspettano una nostra risposta. Perché possiamo
essere sfuggenti, possiamo mentire a tutti, ma non a noi stessi. Possiamo
“raccontarla” a tutti, ma mai al nostro io più intimo.
Ogni
nostra discesa nell'ombra, nel deserto, ottiene peraltro un dono di luce. I grandi regali
per il nostro compleanno non aspettiamoceli dagli altri; ce li facciamo da noi, se
abbiamo il coraggio di entrare nel nostro deserto, nelle nostre zone buie. Perché
è lì dentro che sono nascoste tutte le cose più belle di noi. Tutti i tesori
sono infatti ben nascosti; tutte le perle più preziose sono nel fondo del mare, dentro
le ostriche.
La
pienezza, la soddisfazione, non è data dall'aver tante cose, ma dal saperle “tirar
fuori”, dal saper estrarre i doni, i regali, le ricchezze che sono già dentro
di noi, ma che morirebbero con noi, se non avessimo il coraggio di andarle a
prendere. Ma per arrivare a ciò, ci vuole tanto tempo (quaranta giorni…) e tanta fatica (alla fine ebbe fame…).
E
concludo: vogliamo seguire davvero Gesù? Ci vuole tempo, impegno, studio,
passione. Vogliamo diventare persone capaci di amare veramente i fratelli? Ci
vuole ugualmente tempo, impegno, studio, passione. “È il tempo che tu dedichi
alla tua rosa che la fa importante”, diceva il Piccolo Principe. Se noi non dedichiamo
tempo, lavoro, applicazione ad una cosa, vuol dire che per noi quella cosa non
è importante. Tutti i nostri desideri, le nostre terre promesse, hanno bisogno
di un lungo cammino, di numerose “prove”, per essere raggiunti. Tutto ciò che è
grande, richiede qualcosa di grande. Una sera dopo un applauditissimo concerto,
il maestro Andrés Segovia, considerato il più grande chitarrista di tutti i
tempi, fu avvicinato da un ammiratore che estasiato gli disse: “Maestro, darei
la vita per suonare come lei!”. Segovia lo fissò intensamente e rispose: “È
esattamente il prezzo che ho pagato io!”.
Ricordiamolo
bene: più una cosa è grande, più il costo è elevato; più alta è la vetta da
raggiungere, più fatica fisica è richiesta; più è nobile la meta che ci siamo
prefissata, più si frappongono “tentazioni” per farci desistere. Non abbandoniamoci
al nulla, all’aridità del deserto. Reagiamo. Le tentazioni, le prove, non
devono farci paura: ci irrobustiscono, sono la nostra sfida; ci costringono a
togliere dal cuore le sedimentazioni della nostra mediocrità, per far brillare
in tutta la sua potenza la luce del nostro amore. Amen.