mercoledì 8 ottobre 2025

12 OTTOBRE 2025 – XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,11-19 
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo parla di dieci “guarigioni” e di un solo “miracolo”: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che realmente gli è successo, solo in lui avviene il miracolo della conversione. Perché “guarire spiritualmente” è molto più che ottenere la guarigione corporale; “guarire” non è un qualcosa di statico, di automatico: implica sempre una personale trasformazione, una conversione interiore. 
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un isolato, un escluso, non poteva avere più contatti con nessuno. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Nel caso di una improbabile guarigione, era il sacerdote che aveva il compito di esaminare il lebbroso e soltanto dopo averlo sottoposto a tutta una serie di riti, poteva dichiararlo “puro”, cioè guarito, e reinserirlo nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento nei casi di guarigione - non fa nulla: non tocca i lebbrosi, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro, sulla loro vita. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva guarirli subito? Gesù al contrario voleva mettere alla prova quanto la loro fede fosse sincera: la loro guarigione era condizionata al loro semplice presentarsi ai sacerdoti.
Non è semplice per loro avvicinarsi a quella gente e a quelle autorità che li rifiutavano proprio per la loro malattia: ma essi, pur vergognandosi della loro condizione, sfidano il giudizio e il rifiuto dell’intero villaggio e si recano comunque dai sacerdoti. Ecco: il segreto della loro guarigione sta proprio qui: nell’aver obbedito a Gesù credendo alle sue parole, e nell’affrontare proprio la situazione per essi più problematica e temibile.
Cosa significa: che se noi non crediamo veramente in qualcosa di più grande, di più utile e benefico per noi, e non facciamo nulla al riguardo, è impossibile che questo qualcosa si concretizzi spontaneamente. Se noi non crediamo che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra vita, la nostra condizione di peccatori, se dubitiamo di Lui, se siamo scettici, Dio non potrà mai trasformarci. Se non crediamo di poter veramente guarire, e non facciamo nulla per provarci, non guariremo mai!
Molte persone continuano a vivere nelle loro malattie, nelle loro paure, nelle loro situazioni negative, perché non credono che “la guarigione” possa capitare proprio a loro.
Purtroppo, quando siamo colpevoli, quando ci rendiamo conto di aver fallito, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare qualunque incontro. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di esporti? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere dai sacerdoti, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù infatti non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. Ciò che Lui richiede è un’azione, non un’attesa rassegnata, una staticità passiva, un girarsi dall’altra parte; la preghiera, la richiesta di guarigione, deve trasformarsi in “movimento”, in energia. Non basta chiedere; è necessario “pregare”, convinti e sinceri: perché pregare con fede, richiede l’agire, comporta il darsi da fare. In caso contrario la preghiera rimane un lamento inutile, una vuota e arida filastrocca. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, è obbedire esattamente a ciò che Lui ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo un’egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può intervenire. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se noi Gli crediamo veramente, dimostrando la nostra fedeltà con le opere, con una vita fedele ai suoi insegnamenti.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce il dono, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano “visto”. Hanno eseguito materialmente l’invito di Gesù andando dai sacerdoti: hanno obbedito al suo ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono guariti ma non hanno considerato l’amore di Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto un bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, di abbeverarsi alla fonte, di fare propria quella Forza che li aveva guariti.
Il “ritorno” del lebbroso samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” a ringraziare Gesù.
Gli altri nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuto! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione questa che è strettamente legata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
L’uomo in questo è particolarmente distratto. Le persone continuano a pensare che tutto sia loro dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti di Dio, degli altri, e di sé stessi: i privilegi non bastano mai. È refrattario alla riconoscenza. Così la nostra Messa, la nostra “Eucarestia”, (dal greco “eukarìzo”, ringrazio, sono grato, riconoscente) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita. Purtroppo le nostre Eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria occupazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci, non c’è “partecipazione”.
L'egocentrismo delle persone si manifesta infatti nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più. Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono tutti dallo stesso avverbio: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo, non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo allora per i nostri figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore che riceviamo, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la nostra vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di tutti questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo di tutti i doni del creato: del sole che ci riscalda, dei tramonti che ci incantano, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che tonifica l’anima, del cuore che batte in noi senza sosta; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo sorridere e piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni di migliorare che ci concede, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo è “gratis”, è dono. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore di Padre. Amen.

  

mercoledì 1 ottobre 2025

05 OTTOBRE 2025 – XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17,5-10 
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». 

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare un “gelso” qualsiasi, quell’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma quel gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, è la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; è il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società; la paura di una malattia improvvisa e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Avere fede non è quindi una questione di “quantità”, come pensavano gli apostoli (“aumentala, dammene di più”), ma di “qualità”: per fare miracoli, anche i più sensazionali, non serve una quantità enorme di fede, una fede immensa; ne basta pochissima, quanto un granello di senape, praticamente “un nulla”; l’essenziale è che sia vera, sincera, autentica, profonda.
Perché avere fede significa avere la certezza di poter realizzare qualcosa, anche se non sappiamo come; significa: “qualunque cosa Dio vorrà da me, io la farò sempre e comunque, anche se la mia testa la considera strana, inutile, inconcepibile, controproducente”.
Non confondiamo poi l’aver fede con la preghiera: pregare non significa aver fede: quanti purtroppo pregano senza fede, anche tra i preti! quante Eucaristie si vedono presiedute da ministri distratti e con la testa altrove, nonostante davanti a loro sia presente Dio in carne e sangue!
E non parliamo di noi “fedeli”: un disastro! Siamo convinti che l’aumento e la purezza della fede dipendano dal visitare i più celebri Santuari mondiali, dal partecipare ai pellegrinaggi di folle oceaniche a Medjugorje, a Fatima, a Pietrelcina o a Lourdes, piuttosto che dalla costante e fedele partecipazione alle umili liturgie settimanali delle proprie Parrocchie.
La fede infatti è una disposizione dell’anima, è prestare attenzione a Dio, è avere piena fiducia in Lui, è convinzione, è certezza incrollabile in Lui, è la percezione netta, convinta, di essere amati da Lui, di non meritare questo Suo amore ma di non poterne fare a meno, di sentirsi protetti da Lui, di poter affrontare e superare con Lui qualunque difficoltà la vita ci riservi.
Questo significa avere fede! In altre parole, la fede in Dio non è quello che sappiamo di Dio, quello che abbiamo studiato di Dio nei trattati di teologia e di mistica; ma è quello che viviamo, come lo viviamo, quanto viviamo di ciò che percepiamo dentro di noi: fede è sentimento, forza, energia, amore, un’emozione incondizionata che regola la nostra esistenza.
Certo, la fede non elimina i problemi e le difficoltà della vita: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni anche più gravi a suo favore.
Il Vangelo, poi, introduce alcune situazioni che non intendono tanto descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo, quanto, piuttosto, il nostro comportamento di uomini verso Dio: un comportamento nei suoi confronti che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti.
Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: “tante ore di lavoro, e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno”. Con Dio, dopo una giornata piena di lavoro, non possiamo dire “ho finito” e soprattutto non possiamo accampare diritti. Non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto, mai fare confronti con gli altri; ma semplicemente dire: “ho fatto solo il mio dovere, sono soltanto un tuo umile servo”.
L’esempio portato da Gesù è chiaro: non è infatti pensabile che un padrone dica ai suoi servi, al loro ritorno dai campi: “Beh, adesso sedetevi che vi preparo e vi servo la cena”. Piuttosto dirà: “Ora che siete qui, preparatemi la cena e servitemela!”. Non è infatti compito del padrone servire i servi; sono loro che devono servire il padrone. E il padrone, una volta servito, non deve certo sentirsi obbligato nei loro confronti, perché hanno fatto soltanto ciò che rientrava nei loro compiti. Così “anche voi quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili”.  
Ma cosa mai vorrà veramente dire Gesù con le parole “Servi inutili”? Nel testo greco questo aggettivo è “acreios”, tradotto in italiano con “inutili”, pur essendo evidente che i servi della parabola, avendo compiuto quanto era stato loro comandato, non sono stati affatto “inutili”; 
“acreios” è un termine particolare con cui si qualifica più che una persona, un suo atteggiamento: nel nostro caso, è latteggiamento di particolare modestia tipico delle persone umili, che lavorano senza ostentazione, senza presunzioni, che si sentono “inadeguati”, “incompetenti”; per cui, dopo aver eseguito l’ordine nel rispetto di tutte le regole impartite, e aver ottenuto un risultato eccellente, si sentono comunque in cuor loro degli incapaci”, decisamente “inferiori” rispetto a colui che impartisce loro gli ordini con tanta precisione: effettivamente lui è su un piano superiore, e  merita pertanto stima, obbedienza, ammirazione; si rendono conto insomma di essere dei servitori autonomamente incapaci, dei semplici  operatori”, e che il loro dovere è di eseguire sempre gli ordini dall’alto con cura, dedizione e perfezione. Questo è quanto: per cui “servire Dio” è per sua stessa natura gratuito, deve cioè rientrare nella logica del dono: è quanto ribadisce Gesù stesso, inviando i suoi discepoli per il mondo: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” (Mt 10,8).
Possiamo quindi dire che la parabola di oggi colpisce in particolare una certa mentalità dell’epoca, per i quali l’osservanza della Legge, la fedeltà ai precetti religiosi, costituivano un diritto, un titolo di credito divino; la loro fedeltà diventava merce di scambio: un “do ut des”: “Sono stato bravo, rispettoso, obbediente, non mi sono mai comportato male: per questo tu mi devi un premio; mi devi vicinanza, aiuto, amore: tutte cose che mi spettano di diritto!”.
Una mentalità che purtroppo è presente molto spesso anche tra noi, soprattutto quando rivolgiamo a Dio le nostre preghiere: l’aver fatto delle donazioni, delle offerte, l’essere stati caritatevoli, puntuali nei nostri doveri di cristiani, l’aver frequentato la Chiesa, ci dà in qualche modo la pretesa di avere in cambio da Lui grazie e benefici, di evitarci malattie, di risparmiarci tragedie, disgrazie, e via dicendo; quando preghiamo, invece, dobbiamo stare molto attenti a non mercanteggiare con Dio; evitiamo di imporgli la nostra volontà, rinfacciandogli, quasi, i nostri rari, inesistenti “meriti”.
La vera preghiera a Dio, al contrario, deve servirci solo per aprirgli il nostro cuore, per convertire la nostra anima, per accettare più docilmente la Sua volontà, per esprimergli tutto il nostro amore, la nostra riconoscenza, assumendo sempre nei Suoi confronti, lo stesso umile comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta” (1Sam 3,10).
Soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che siamo sempre e comunque dei servi “inutili”. Evitiamo dunque di armarci di quel sacro “zelo” da “affiliati”, del “lei non sa chi sono io”, così diffuso e così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate” personali, non pretendiamo incarichi per i quali spesso siamo decisamente inadeguati. Impariamo a stare umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri pastori, ancorché non condivise. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da persone di grande fede, che andiamo avanti per la sua strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli, pregando per il trionfo della sua Parola e della sua Chiesa: con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, inopportune e commiserevoli. Lasciamo fare a Dio il suo mestiere: perché, lo ripeto, noi non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Amen.