giovedì 9 agosto 2018

12 Agosto 2018 – XIX Domenica del Tempo Ordinario


“In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: Io sono il pane disceso dal cielo. E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6,41-51).

La protesta dei Giudei, la loro “mormorazione” nei confronti di Gesù, altro non è che un tentativo di manipolare, alterare, rendere diversa, quella che è la realtà, cercando di compromettere alla base la sua credibilità: “Ma costui non è il figlio del carpentiere? Conosciamo bene suo padre e sua madre, come può dire tali stupidaggini?”. Praticamente cercano di convincere loro stessi e gli altri che quanto egli dice non può essere vero. Per questo si agitano, mormorano e protestano.
Già la protesta: siamo tutti maestri in questo.
Basta che un nonnulla si scosti dai nostri parametri che immediatamente scatta la nostra reazione. Ma contro la realtà qualunque protesta è inutile: la realtà non si cambia, va accettata e vissuta.
Quando stiamo per protestare, dovremmo prima di tutto chiedercene il vero motivo, perché nella vita ci sono delle realtà inoppugnabili, indipendentemente dalla nostra comprensione e accettazione: per esempio che non siamo unici, che le persone non sono tutte uguali: ci sono quelle più sensibili, più intelligenti, più attraenti, più affascinanti di noi; ci sono persone decisamente “più” di noi in tutto; e questo non ci piace proprio, perché, anche se pubblicamente lo ammettiamo, in cuor nostro siamo sempre convinti di essere noi i migliori o quantomeno alla pari. Nel nostro egocentrismo siamo convinti di essere l’epicentro dell’universo, il perno su cui ruota il mondo intero. La realtà invece è che il mondo, la vita, l’universo, va avanti comunque anche senza di noi. Noi siamo soltanto un’insignificante goccia d’acqua nel mare, una piccola foglia in una foresta tropicale, una microscopica cellula dell’universo. Non ci piace ammetterlo, ma è così. Non siamo nessuno, siamo ininfluenti nello scorrere del tempo: vorremmo invece essere “qualcuno”, vorremmo che i posteri ci ricordassero con ammirazione, vorremmo essere nel cuore di tutta la gente, menzionati nei libri di storia. Ma tutto quanto facciamo, o abbiamo fatto, nel corso della nostra vita, sia in famiglia, che nel lavoro o nel sociale, tutto, dopo un po’, viene dimenticato. Chi vivrà dopo di noi, i nostri stessi figli, faranno scelte diverse dalle nostre, adotteranno strategie contrarie, e il mondo continuerà ad andare avanti come prima, o anche meglio di prima. È normale, è giusto che sia così.
Nella vita tutto inizia e tutto finisce, tutto si evolve troppo in fretta. Noi vorremmo che certi momenti particolari non finissero mai: come certe serate con i nostri cari, certi momenti di pace e serenità a contatto con la natura, le gioie dell’amore, il riabbracciare le persone care che ci stavano lontane. Invece no, tutto finisce, tutto passa. Tutto quello che da stolti pensavamo fosse eterno, si rivela poi caduco e provvisorio. La nostra stessa vita, il nostro “essere”, dipende dall’evolversi dell’età e delle cose. “Panta rei” dicevano gli antichi: tutto scorre, tutto è sfuggente, tutto è proiettato nel divenire, nel domani: il presente è l’attimo che appartiene già al passato, il tempo è uno scorrere implacabile di istanti inafferrabili.
Noi ne siamo condizionati, dominati; pensiamo di essere i protagonisti indiscussi, di essere noi a pianificare il futuro, a scegliere la nostra esistenza, le amicizie che vogliamo, il lavoro, la professione, la donna o l’uomo da sposare. E invece non è così. Non ci piace ma questa è la realtà! Tutti abbiamo bisogno degli altri. Vorremmo farne volentieri a meno, vorremmo essere completamente autonomi, gestori della prosperità, del benessere; vorremmo organizzare la nostra vita liberamente, senza alcuna interferenza, senza essere costretti a sorbirci il giudizio della gente, ad ascoltare ciò che pensano di noi. Vorremmo…
E, invece, ci ritroviamo deboli, insufficienti, incapaci, legati; talmente bisognosi degli altri, da non riuscire a stare da soli nemmeno pochi giorni della nostra vita; ci ritroviamo ad elemosinare compagnia e amore in mille modi, talvolta anche in maniera avvilente.
Ecco, queste sono le realtà contro cui non possiamo nulla, contro le quali la nostra “mormorazione” è inutile. Le vorremmo completamente diverse, come le immaginiamo, come ci piacciono. Ma le vicende della vita sono sempre diverse, più grandi di noi, indipendenti da noi. Abbiamo la pretesa di cambiarle, ma dobbiamo arrenderci. Quante volte esclamiamo angosciati: “Questo no! Questo non mi doveva capitare, Dio non me lo doveva fare!”. Dobbiamo imparare invece ad accettare le circostanze della vita come vengono, con serenità e rassegnazione, perché forse Dio, proprio attraverso di essi, vuole insegnarci ciò che dovremmo sapere, farci scoprire quella realtà che ci è più difficile accettare. La realtà, Dio, la Vita, sono più grandi di noi: avere fede, avere fiducia, significa accettarli, accoglierli, fidarci di loro e lasciarci portare. Perché tutto ha un senso anche se noi non lo capiamo.
Ma torniamo al vangelo: mentre dunque Gesù parla di un pane che scende dal cielo, i giudei non capiscono e mormorano: sono su un piano diverso, totalmente inconciliabile.
Un detto cinese dice: “Quando uno indica la luna con un dito, lo sciocco guarda il dito”.
È quanto succede ai Giudei: Gesù sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta rivelando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la fame, e loro non riescono ad andare oltre il dito. Per loro Gesù non può essere altro che il figlio di Giuseppe, il falegname; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è solo uno da pregare perché faccia vincere i nemici e tenga lontane le disgrazie. Non capiscono che Dio è Amore, e che l’Amore è felicità.
Purtroppo, per gli uomini d’oggi, la felicità è “avere” qualcosa. Felicità per essi è avere denaro, ricchezze, una posizione socialmente superiore, un’abitazione sontuosa, essere stimati, invidiati, temuti. Stolti!
Non capiscono che felicità è poter sentire la Vita che li inabita, che cresce, che diviene, che si espande dentro di loro. Felicità è poter vivere serenamente quel che si è, essere consapevoli dei propri limiti, gustare le piccole conquiste quotidiane. Felicità è percepire al proprio fianco la presenza costante e amorevole di Dio.
Dio, invece, lo hanno ridotto ad una preghierina scaramantica da dire ogni tanto, un rito distratto da compiere, ma soprattutto una “rottura” da evitare, un impiccio di cui non sanno che farsene. Sono ciechi. Dio è Vita, è la sensazione di essere immersi in Qualcosa di più grande, di più profondo; è vivere l’esperienza divina di appartenere ad un di Più incalcolabile, di essere risucchiati da una corrente impetuosa che ci mette in salvo, al sicuro; è sentirsi amati nonostante le nostre continue meschinità; è sentirsi felici e fortunati di esistere, perché per questo Qualcuno ci ha regalato l’esistenza; è sentire che non dobbiamo mai temere alcunché, perché c’è un grande Abbraccio che ci sorregge e che ci difende da ogni pericolo.
Tutto nella nostra vita è importante. Prendiamo per esempio i figli: i figli, per molti, rappresentano il successo, la realizzazione della loro vita: se non li hanno, la vita non ha senso; se li hanno, devono essere obbedienti, devono diventare i migliori per renderli felici e non deluderli. Sono solo degli sprovveduti! I figli sono il dono che la vita ci fa per consentirci di esprimere l’amore che portiamo dentro; sono il “mezzo” per realizzare la nostra vita, sono il senso delle nostre giornate. Ma sono un mezzo, non il fine: sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui imparare la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo pur sapendo che se ne andranno), l’alterità (sono “altri”, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.; sono noi stessi proiettati nel futuro: ma non sono il “fine” della nostra vita.
E così per tutte le cose. Possiamo banalizzare qualunque cosa ci riguardi, possiamo rendere tutto insignificante o inutile, ma anche entusiasmante, profondo, divino. Dipende solo da noi!
Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. Quindi c’è un pane vivo e c’è un pane morto: c’è un pane “vivo” che nutre l’anima, e un pane “morto” che nutre solo il corpo.
Quale dei due nutre veramente? Qual è insostituibile?”. Il pane era il cibo normale per gli antichi. Dire “pane” significava dire cibo, significa nutrirsi, sfamarsi; ogni giorno noi assumiamo cibo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente questo pane della terra a saziarci? O cerchiamo ancora qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore? Il cibo riempie il nostro stomaco, ma cos’è che riempie la nostra anima? Di cosa deve sfamarsi?
Ci siamo mai chiesti perché i maghi e le chiromanti sono sempre pieni di clienti? Perché gli studi dei terapeuti sono sempre stracolmi di persone? Perché siamo così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, depressi? Cos’è che ci manca? Semplicemente il pane che nutre la nostra anima.
La più grande fame dell’uomo è quella d’amore e noi non ne assumiamo a sufficienza. Siamo bisognosi d’amore. Abbiamo bisogno di essere amati, che qualcuno creda in noi, che qualcuno ci apprezzi, ci dia importanza e fiducia. Se non siamo amati, non siamo nessuno, non valiamo nulla: esserci o non esserci è la stessa cosa, vivere o morire non cambia nulla.
Le storie e le vicissitudini della gente sono le storie di uomini e donne che soffrono di enormi vuoti d’amore: senza che nessuno sia in grado di porvi rimedio. Quando ci capita di sentirci soli, chiamiamo un amico, qualcuno che ci faccia compagnia; quando ci sentiamo giù di morale, cerchiamo qualcuno che ci ascolti, che ci consoli. Ma quando sentiamo questa fame terribile di amore, niente e nessuno può saziarcela: l’unica soluzione è di agganciarci a Dio, di sentire che ci possiamo fidare di Lui, di percepire che Egli non ci lascerà mai soli, che non saremo mai dimenticati, che apparteniamo ad un Tutto che non finirà mai.
“Io sono il pane della vita”. Noi abbiamo un assoluto bisogno di questo pane disceso dal cielo, di questo pane Vero, di questo pane che nutre la parte migliore di noi stessi, la nostra parte divina, la nostra anima. È il pane dell’Amore: e noi, uomini deboli, abbiamo continuamente bisogno di mangiarlo, di riacquistare le nostre forze, il nostro coraggio, di sentire Qualcuno che ci rassicuri e ci ripeta: “Ti porto nel palmo delle mie mani, che hai da temere? Giammai ti lascerò cadere nel vuoto”. Amen.



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