giovedì 10 ottobre 2013

13 Ottobre 2013 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli vennero incontro dieci lebbrosi… “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano» (Lc 17,11-19)
Il vangelo racconta di dieci guarigioni e di un solo miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che gli è successo, solo in lui avviene il miracolo. Perché “guarire” è molto più che acquistare la guarigione corporale; “guarire” significa compiere una trasformazione, una conversione interiore.
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un escluso. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Era il sacerdote che, in caso di guarigione, aveva il compito di esaminare il lebbroso, di dichiararlo puro, cioè guarito. Allora il guarito si sottoponeva a tutta una serie di riti e poteva essere reintegrato nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento negli altri casi di guarigione - non fa nulla: non li tocca, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi,. Perché? Non poteva guarirli subito? O la loro guarigione dipendeva proprio dall'andare dai sacerdoti? In effetti è così: questi dieci credono alla parola di Gesù, hanno fede e questa loro fiducia li guarisce.
La fede di questi dieci è che sono convinti di poter guarire, di poter cambiare la loro situazione, e così avviene. Non è semplice per loro presentarsi a quell’autorità che li rifiutava proprio per la loro malattia: ma essi, anche se si vergognano della loro condizione, sfidano il giudizio pubblico e sociale, sfidano il rifiuto di quelle persone e vanno comunque da loro. Il segreto della loro guarigione sta qui: nell’aver recuperato la fiducia in sé e nell’andare incontro proprio a quelle situazioni che temono di più.
Se noi non crediamo in qualcosa di migliore per noi, non ci può succedere nulla di migliore. Se noi non crediamo che Dio ci ama, se dubitiamo, se siamo scettici, Dio non può trasformarci. Se noi non crediamo che possiamo guarire, non guariremo!
Molte persone non cambiano la loro vita, le loro malattie, le loro paure, i loro comportamenti negativi, perché non credono che “ la guarigione” possa succedere proprio a loro.
Quando ci sentiamo in colpa, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare incontri. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di andare? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. È l’azione che è richiesta; non una staticità passiva, un’attesa rassegnata; la loro preghiera deve diventare movimento, energia. Pregare è agire, altrimenti la preghiera rimane un lamento inutile, una filastrocca arida. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, fare ciò che Lui ci ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo una egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può farci nulla. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se ci crediamo.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano visto.
Gli altri nove hanno eseguito l’ordine di Gesù e sono andati dai sacerdoti: hanno obbedito all’ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono stati guariti ma non hanno visto Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, la fonte, la forza che li aveva guariti.
Il ritorno del samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” per ringraziare Gesù.
Le persone pensano che tutto sia dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti degli altri, e di se stessi: i privilegi non bastano mai. I nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuta! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione strettamente collegata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
Il verbo “rendere gloria”, in greco, è strettamente collegato all’accorgersi,
L’uomo in questo è particolarmente distratto. È refrattario alla riconoscenza.
Così la nostra “eucarestia” (dal greco eÇcar°zw, ringraziare, rendere grazie) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita.
Ma le nostre eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria amministrazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci.
L'egocentrismo delle persone si manifesta nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più.
Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono infatti dalla stessa parola: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo e non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo per i figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa e del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni che abbiamo, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo per noi è gratis. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore.
Chi non ringrazia, dimostra di non conoscere Dio. E non conoscendolo, si auto esclude dal rendergli lode. Al contrario “tornerà indietro” a ringraziare, a “bene-dire”, a  lodare Dio, colui che si rende conto di essere una insignificante particella di un immenso, meraviglioso mosaico; di appartenere cioè ad un mistero divino di amore incalcolabile, un mistero che lo trascende, che lo supera vorticosamente, nel quale si sente totalmente immerso.
Fare della nostra vita una lode perenne a Dio: è questo il senso della nostra vita. E ciò non significa esibire costantemente un sorriso beota stampato in faccia (oltretutto indice di grande falsità); ma significa dire sempre di sì a Dio; significa accoglierlo e dargli voce in tutti gli istanti della nostra vita. Una vita di lode è la vita di colui che non si sottrae alla Sua volontà; di colui che continua a “tornare” alla sua presenza; di colui che, dal suo profondo, gli innalza lode per tutto ciò che vive, in segno di umile ringraziamento. Perché egli ha veramente “visto”. Amen.
 

Nessun commento: