giovedì 26 settembre 2013

29 Settembre 2013 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe…» (Lc 16,19-31)
Ad un primo veloce approccio col Vangelo di oggi, si potrebbe concludere che i ricchi vanno all'inferno e i poveri in paradiso. Quindi, visto così, sarebbe un invito per i poveri a sopportare con pazienza le miserie di questa vita, in vista di una ricompensa lassù: fermo restando che quaggiù i poveri rimarrebbero sempre poveri e i ricchi sempre ricchi.
Il senso della parabola però è molto più profondo e indica in realtà quello che ci accadrà se continueremo a vivere disinteressandoci degli altri, del bisognoso che bussa alla nostra porta, mentre noi facciamo finta di non vedere quello che ci succede intorno, quello che, per qualche tornaconto, non vogliamo vedere e che invece dovremmo vedere.
Nel vangelo ci vengono proposti due personaggi, il ricco e il povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso (segno di grande agiatezza e di alta posizione sociale), una casa, cibo a volontà, che gli consente ogni giorno di mangiare lautamente e abbondantemente; ha “fratelli”, cioè relazioni, amici, amore; ha una sepoltura (cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo). Il ricco insomma ha tutto, non gli manca niente. L'unica cosa che non ha è un nome.
Poi c'è Lazzaro. Lazzaro non ha proprio nulla. Non ha casa, non ha cibo né amici (è solo con i cani!) e non ha nemmeno sepoltura. Lazzaro è indifeso, è mendicante, bisognoso, malato, ricoperto di piaghe, affamato e solo. L'unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro, che vuol dire “Dio aiuta”.
Ebbene: per la Bibbia avere un nome è fondamentale, perché il nome identifica una persona, è la persona stessa. Conoscere il proprio nome significa conoscersi, avere un'identità, una strada da percorrere, qualcosa da realizzare, essere vivi. Lazzaro, “Dio aiuta”, è il povero; il suo nome è la sua vita: ha bisogno di Dio, ha bisogno che qualcuno lo aiuti, che Dio si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione.
Il ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome. Il ricco non ha nome perché è incosciente, non si conosce, vive nella superficialità, si disinteressa completamente di ciò che succede alle porte di casa sua, e per questo non ha alcun potere sulla sua stessa vita.
Il ricco non si accorge di Lazzaro: non lo vede neppure; ma come avrà fatto a non vederlo? Era lì... alle porte di casa sua... tutti i giorni a mendicare: chiedeva aiuto e urlava il suo disagio.
Questo è il grave problema del ricco, questa è la sua condanna: il non accorgersi. E una stessa condanna sarà riservata anche a noi, ci dice il vangelo, se vivremo non accorgendoci dei Lazzaro nostri fratelli, ma soprattutto del Lazzaro che è in noi: non accorgendoci, cioè, del bisogno, del disagio della nostra anima, della nostra coscienza che urla, che strepita, che vuole la nostra attenzione, e che noi lasciamo fuori, alle porte della nostra casa.
L'inferno e il paradiso sono nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra Lazzaro o se lasciarlo fuori.
L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi: se facciamo i “ricchi”, se sfarfalliamo, se chiacchieriamo a vuoto, se non ci poniamo mai domande serie da scuoterci l’anima, se non affrontiamo mai questioni vitali, profonde; se ci guardiamo bene dallo scavare dentro di noi, se evitiamo insomma le difficoltà, i problemi, se evitiamo il bene perché è scomodo e ci dà fastidio, se in una parola non ascoltiamo la voce della nostra coscienza, finiremo sicuramente all'inferno, alla perdita dell’amore eterno.
Dobbiamo pertanto convertirci: la conversione è il passaggio che facciamo dall’inferno al paradiso, è il momento stesso in cui smettiamo di lusingarci da “ricchi”, e accettiamo, pur con dolore ma con un senso di liberazione e sollievo, che siamo tanti Lazzaro. È in quell'istante infatti che potremo sperimentare con mano che veramente “Dio salva”.
Noi siamo i Lazzaro: siamo i soli, gli indigenti, i pieni di miserie. Siamo i soli, perché in casa nostra non abbiamo proprio nessuno.
È triste ammetterlo, ma quante volte nella vita, siamo stati Lazzaro: quante volte ci siamo trovati anche noi a dover “mendicare” amore, affetto, comprensione, e non è arrivato nulla!
Fa male aver bisogno di amore; fa tanto male dover chiedere amore, riconoscere che ne abbiamo bisogno. Fa male tendere la mano per ricevere, dover mettere a nudo la nostra anima per poter essere nuovamente accettati, perché qualcuno possa farci entrare nella sua “casa”: abbiamo il terrore di venire nuovamente feriti. Siamo deboli e vulnerabili, anche se ostentiamo sicurezza e presunzione. Del resto non è facile accettare di essere Lazzaro: di dover mendicare amicizia, calore umano, di doverci accontentare di briciole d’amore, convinti che in fondo “qualcosa” è sempre meglio di niente! In certi momenti siamo addirittura pronti a scendere a dei compromessi con noi stessi, a permettere agli altri di fare di noi quello che vogliono, pur di avere in cambio un riconoscimento, calore, comprensione, sostegno.
Non ci piace vederci come Lazzaro che, solo e abbandonato, bussa ad una porta a cui nessuno apre, un Lazzaro che nessuno vede né sente; essere Lazzaro ci fa vergognare, ci fa soffrire.
Ma è molto peggio essere i “ricchi”, perché significa trasformare la nostra vita fin da ora in un inferno. Si, perché l'inferno è solitudine; inferno è chiudere per sempre la porta di casa nostra, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L'inferno è “chiusura”: è impedire a Dio di entrare con la sua luce, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono e misericordia là dove c'è tormento, solitudine e sofferenza.
L'inferno o il paradiso è quindi nelle nostre mani.
Tocca a noi decidere pertanto se ospitare in casa nostra gli altri Lazzaro, quelli che ci sono vicini, o se lasciarli fuori: dei Lazzaro che urlano, ma che noi non sentiamo. Ma se ci stanno urlando perché stanno male, guardiamoli una buona volta, e accogliamoli! Se ci stanno urlando silenziosamente la loro paura, le loro angosce, accorgiamoci delle loro urla silenziose, accogliamoli e ascoltiamoli. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito, il nostro partner, i nostri confratelli, i nostri amici, hanno bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che i nostri figli, i nostri nipoti, hanno bisogno di noi, del nostro incoraggiamento, del nostro apprezzamento? Non vediamo che i nostri fratelli soffrono, che hanno la tristezza e il pianto negli occhi? Non vediamo, non sentiamo l'angoscia di chi ci vive a fianco? Non vediamo i dolori e i pesi che si tengono dentro? Eppure questi Lazzaro ci sono così vicini, fuori della nostra porta: ma noi siamo occupati nelle nostre cose, occupati nei nostri affari, nel “giardino” della nostra casa, e non diamo loro ascolto.
Nella seconda parte del vangelo c'è poi la preghiera del ricco che vorrebbe andare dai suoi fratelli perché non facciano la sua stessa fine. Ma – interviene Abramo – ciò non è possibile. Del resto, se uno ha il cuore indurito, neppure davanti a Cristo in persona crederebbe.
I segni ci sono: chi vuol vedere vede, chi non vuol vedere non vedrà mai. Molte persone vivono una vita da sordi, non hanno orecchie per ascoltare, vivono senza udire le voci degli uomini di Dio che li ri-chiamano. Molte persone hanno vicino “Mosè e i Profeti”, hanno profeti e persone, possibilità ed esperienze per poter sentire e crescere, occasioni che ricordano loro di prendersi cura di Lazzaro, della loro anima, del loro mondo interiore, di chi soffre vicino a loro, di coltivare la propria sensibilità. Non sono i miracoli che salvano, è la fede. Esseri vivi e svegli al mattino è davvero un miracolo; i computer più sofisticati fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della vita: ma tutto questo neppure ci sfiora. Siamo immersi in un continuo miracolo che si chiama vita, ma tutto questo non ci stupisce né ci commuove. E chi non vuol credere, non crederà neppure se i morti resuscitano.
Noi siamo esseri di luce e di ombra. Siamo contemporaneamente l'uomo ricco e anche Lazzaro; siamo ciò che ci piace, ma siamo soprattutto ciò che rifiutiamo, che non vogliamo accettare e accogliere nella nostra vita, che è doloroso, insostenibile; siamo esseri divini, ma anche terribilmente umani. E se ci nascondiamo una cosa, non vuol dire che non ci appartenga.
Il grande compito della nostra vita è portare luce dove c'è buio. Ma chi vuole aver a che fare col buio? Nessuno. Perché il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa terribilmente paura. Chi vuole entrare con la propria flebile luce in certi inferni della vita? Ovvio, nessuno. L'ignoranza è l'illusione di credere che certe cose non esistono solo perché non le vediamo. Eppure è proprio questo che la vita ci chiama a fare. Entrare negli altri con la luce di Dio, della coscienza, della consapevolezza, con la fiducia e con la forza del Padre, per portare luce e liberazione negli inferni delle anime. L'inferno è tale perché è buio; ma se c'è una luce, per quanto debole sia, anche il buio più pesto può diventare abitabile.
Noi siamo figli della luce, noi siamo figli di Dio: non dimentichiamolo.
Il diavolo, il male, ama il buio, il sotterfugio, il nascondimento, l'anonimato, la notte, l'oscurità. L'ignoranza è il peccato più grave: vuol dire lasciare nel buio, nell'anonimato, nel nascondimento, ciò che chiede di essere portato alla luce. Anche il ricco ignorava Lazzaro, ed è per questo che ha creato il suo inferno. Il buio è ciò che non sappiamo, ciò che ci spaventa, ciò che evitiamo. Vera spiritualità è portare luce nelle tenebre della nostra vita; è portare consapevolezza nell'ignoranza della nostra esistenza; è vedere tutto ciò che è Lazzaro.
Per chi vive al buio, per i figli delle tenebre non c'è possibilità di salvezza; solo i figli della luce, solo chi avrà la fiducia di non nascondersi nulla e di far entrare la luce di Dio nella propria vita potrà salvarsi e potrà vivere.
C'è una storiella: è sera e un uomo sta cercando in casa sua qualcosa. Arriva un amico e gli chiede: “Cosa cerchi?” “Cerco le chiavi dell'auto”. Allora anche l'amico si mette ad aiutarlo ed entrambi cercano per un bel po' in quella camera. Ad un certo punto l’amico gli chiede: “ Ma dove di preciso le hai perse?”. “Le ho perse in cantina”. “Ma diamine, perché cerchiamo qui allora?”. “Perché qui c'è più luce!”.
Si potrebbe anche ridere, se non fosse che questa storiella ci propone una grande realtà.
Noi tutti preferiamo muoverci dove c’è luce, sicurezza, serenità: preferiamo non lasciarci coinvolgere dal buio, dalle difficoltà della vita presente, dalle necessità del prossimo. Ma come pensiamo di raggiungere la luce, la felicità, l’amore eterno di Dio, se ignoriamo il richiamo del nostro fratello Lazzaro, e lo lasciamo morire davanti alla nostra porta? Noi abbiamo il terrore della cecità degli occhi: ma per quella del cuore nessun timore ci sfiora. Pensiamoci. Amen.
 

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