«Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Un mistero, quello trinitario, che è costantemente al centro della vita cristiana; noi lo ricordiamo infatti ogni volta che facciamo il segno della croce: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Un gesto però che ormai ripetiamo automaticamente, senza pensare a quello che facciamo o diciamo, soprattutto a come lo facciamo. C’è anche da dire che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur rimanendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi non interessa più nessuno; anzi, insistere a spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a discutere sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene interpretato da molti come un tentativo di sviare l’attenzione da problematiche ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, del resto, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea stessa di Dio viene sempre più estromessa dalla vita personale e reale non solo degli uomini in genere, ma anche degli stessi cristiani.
La festa di oggi ci pone pertanto davanti a questo problema: perché il Dio della teologia non si lega, non si rapporta pienamente con il Dio della vita pratica? Problemi di comprensione? Di impenetrabilità di concetti? Suvvia: la Trinità divina ─ almeno a livello di “intuizione” ─ non ha bisogno di uno “sforzo speculativo”, di equilibrismo intellettuale, per essere afferrata dalla nostra mente. La Trinità, lasciatemelo dire, è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; è in pratica l'esperienza di Dio, quella stessa esperienza vissuta e capita direttamente dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio: e nella realtà si comportava proprio così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un infinito mondo d'amore, di comunione, una vita così grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare incommensurabile. E collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla: l’idea di famiglia, composta da un padre, un figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unico” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è la nostra origine, il nostro “utero”, il Dio che noi chiamiamo “Padre e Madre”; poi un Dio che sta “con” noi, che si fa compagno del nostro cammino, il Dio che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati, e che si chiama Figlio; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come entusiasmo (entusiasmo letteralmente vuol dire proprio avere un “Dio dentro”), come creatività, forza, passione, energia: il Dio che ci ha fatti “chiesa” e che si chiama Spirito Santo. Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare, come abbiamo detto, la famiglia stessa, prima cellula sociale, è eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte, nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco, elemento “altro” di fusione unitaria, generano un’altra persona, un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale funzionalità di questo “amore” come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare così evidente. Come evidente è la percezione quotidiana di un nostro ruolo “trinitario”. Nel mondo tutto è diverso ma tutto è intimamente e solidamente unito. Ricordate? Quando eravamo bambini abbiamo fatto esperienza di un “unum” indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, eravamo completamente fusi con lei, eravamo nel grembo della vita. Ci sembrava che fuori di noi non ci fosse nulla; ci sembrava di essere noi il tutto. Poi col tempo ci siamo accorti che non c'eravamo solo noi, ma che c'erano anche tante altre persone. Ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri: eravamo unici, ma eravamo anche in tanti… e abbiamo scoperto che qualcosa ci univa: un qualcosa ci legava, un qualcosa che si intesseva con le nostre vite: un qualcosa che, maturando, abbiamo riconosciuto come sentimento, amicizia, rispetto, amore.
Ci sono molti però che non sono riusciti a maturare, che sono rimasti allo stadio infantile, della non relazione: sono le persone narcisiste. Pensano di essere le uniche al mondo, che il mondo debba ruotare attorno a loro. Sono onnipotenti, si credono ancora Dio; non sono ancora nate. Non hanno ancora fatto l'esperienza trinitaria, l’esperienza dell’alterità, dell’altro. Con queste persone non si può proprio parlare: sanno tutto loro! “Io ho fatto così... io so... io capisco...”, e ti raccontano tutte le loro imprese e tutte le loro smisurate conoscenze. Esistono solo loro. Gli esempi abbondano: molti superiori, molti genitori, molti capi, gestiscono i loro confratelli, le loro consorelle, i loro figli, i loro dipendenti, come se fossero delle marionette: muovono, spostano, non chiedono niente, comandano, decidono loro, perché tanto chi sta sotto deve accettare tutto, non ha un cuore suo, non ha alcun diritto di esprimersi. Credono che tutto il mondo e tutte le persone siano in funzione loro.
Venire al mondo, nascere, è la cosa più bella, è il senso della vita, ma è anche una cosa che fa paura perché in quello stesso momento si diventa “altri”, perché ognuno poi se la dovrà vedere da solo, senza che qualcuno gli “copra le spalle”, dovrà necessariamente “altrificarsi”.
Così per molte persone essere diverse (di-versus vuol dire che ognuno ha la sua strada, il suo verso, il suo carattere, la sua corsia, la sua “chiamata”) è assai faticoso, perché le costringe ad esporsi, a mettersi in gioco, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode.
Dal lato opposto, vi sono tante altre persone che vivono la diversità non come elemento di fusione, ma come una competizione, come un continuo confronto: “Io sono meglio di te; io so più di te; tu sei più bello di me; tu sei più riuscito di me”. “Competere” significa per loro rifiutare la diversità; vuol dire dimostrare che esse valgono più degli altri. Vuol dire affrontarsi e farsi guerra; sentire l'altro come un nemico, un pericolo. Il mondo familiare, il mondo del lavoro e a volte anche le nostre comunità cristiane sono piene di persone che (di nascosto, soprattutto nelle comunità religiose!) si combattono. Sentiamo l'altro come un nemico e tentiamo di ucciderlo, di zittirlo, di eliminarlo: siccome non lo possiamo fare fisicamente lo facciamo con le parole, con i giudizi taglienti. Lo stesso vale quando ci arrabbiamo o ci indispettiamo perché gli altri non la pensano come noi, non fanno come noi o come noi vorremmo. Giudicare (kr°nw in greco vuol dire “dividere”, “separare”) è tentare di stabilire una superiorità tra me e te (naturalmente io sono superiore!). Chi giudica non ama e non si ama. Chi giudica non accetta gli altri perché non accetta in realtà neppure se stesso. Sminuisce gli altri solo per farsi più grande (devo tirare giù l'altro in modo che diventi più piccolo di me; che fare? Sparlo, emetto giudizi velenosi, creo maldicenza intorno a lui; gli creo intorno una fossa entro cui non potrà evitare di cadere: la sua caduta mi renderà automaticamente superiore a lui). Chi giudica, pretende di essere superiore. Quanto dobbiamo ancora crescere, fratelli!
Dobbiamo soprattutto vivere l'esperienza trinitaria. Io sono io e tu sei tu, ma c'è l’amore che ci unisce. Se io sviluppo e vivo trinitariamente la mia “alterità”, sono felice, mi sento realizzato, sono contento di me per come sono, e degli altri per come sono. Allora posso accettare anche altre strade e non ho motivo di essere invidioso di chi opera in maniera diversa. Io percorro la mia via e sono felice. Tu fai la tua e sei felice; e sono felice anche per te, perché capisco che questa è la tua via. Le cose a questo mondo si possono fare in tante maniere. Noi spesso definiamo “sbagliato” ciò che è soltanto diverso. Ci sono tanti modi di pregare; ci sono tanti modi di vivere la famiglia; ci sono tanti modi di amarsi; ci sono tanti modi di pensare; ci sono tante possibilità: il tanto riflette l'immensa grandezza di Dio, la sua varietà, la sua creatività. Pretendere l’unicità, significa essere malati: in realtà noi non amiamo gli altri, ma solo noi stessi: amiamo l’altro soltanto perché è la nostra identica immagine speculare: attraverso lui, ammiriamo e amiamo noi! E non appena la nostra diversità diventerà palese, lo rinnegheremo: “Non sei più come una volta. Sei cambiato. Non mi vai più bene”. Non capiamo che se Dio ci ha creati diversi, unici, amare in questo modo vuol dire rifiutare Dio. Il nostro incontro con l’altro è falso, perché io voglio incontrare soltanto me stesso. Qui non c'è crescita, non c'è novità, non c’è vita. Diversità è incontrare qualcosa che non sono io.
L'amore maturo, l’amore vero, l’amore offerta, oblazione, servizio, è invece quello di chi realizza l'unione non perché si è uguali, ma proprio perché si è diversi. “Ti amo perché tu sei tu, perché non sei me. Amo te perché sei altro da me”. È questa l'unione vera; è questo l'amore vero; è questo il legame che deve unirci; è questo lo Spirito che incontriamo al di là di ciò che facciamo o di ciò che pensiamo; insomma è l'unione, l'incontro delle anime. Amare non è pensare le stesse cose o avere le stesse idee. Amare non è neppure fare le stesse cose. Amare è incontrarsi nello Spirito, nel profondo, nell'anima. È nella “alterità” che si costruisce la propria identità, è nella “diversità” dell’unione, che Dio si manifesta e si rende visibile. Perché Dio è amore, e la Trinità è l’essenza di questo amore.
Ecco, tutto questo, fratelli, mi suggerisce oggi la festa della Trinità, e tutto questo, anche se confusamente, ho cercato di trasmettervi.
E concludo con un’ultima considerazione: noi cristiani di oggi più che chiederci se “crediamo o non crediamo”, dovremmo chiederci invece “in quale Dio crediamo”! C’è infatti una bella differenza tra credere in un Dio giusto sì, ma severo e inflessibile giudice, la cui ira e la sua irritazione si possono placare soltanto mediante preghiere, suppliche, digiuni e penitenza, e credere al contrario in un Dio Padre amoroso e misericordioso, talmente innamorato del mondo e di ciascuno di noi in particolare, “da dare suo Figlio unigenito”! Lo so: questo è un argomento ricorrente nelle mie riflessioni, ma penso che educare la nostra fede sia una delle priorità assolute nel tempo in cui viviamo. E la festa della Trinità, la festa dell’amore trinitario, ci offre appunto l’occasione per cancellare definitivamente queste false immagini di un Dio arcigno e vendicativo, ancora conservate in qualche angolo della nostra mente.
Inondati dal dono dello Spirito, lasciamoci dunque convertire al Dio Trinitario, al Dio che Gesù ci ha rivelato. Al Dio Trinità che, lo ripeto, è amore, festa, incontro, relazione, amicizia, comunione, famiglia... Ricordiamoci che questo Dio ci ha creati espressamente a sua immagine e somiglianza: ha impresso cioè dentro di noi un DNA trinitario, per cui anche noi come Lui siamo fatti per la relazione, per l'amore, per la comunione, per la fraternità.
Festeggiare la Trinità significa pertanto riscoprire le scelte e le priorità che rendono veramente bella e sana la vita. Proviamo a chiedercelo, fratelli miei: chiediamoci, con un po' di onestà, quali sono le nostre priorità fondamentali, quelle su cui stiamo costruendo la nostra vita; chiediamoci se nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali è chiaramente visibile il nostro DNA trinitario; chiediamoci con quale stile gestiamo le relazioni che quotidianamente siamo chiamati a vivere; quanto tempo regaliamo alle persone che ci vogliono bene e quanto ne investiamo a nostra volta per costruire relazioni sane e positive. Lo so, sono domande piuttosto antipatiche. Ma prima di rispondere facciamo un bel respiro e invochiamo lo Spirito perché ci aiuti a scavare nel profondo del nostro cuore e a dirci la verità. Amen!
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