giovedì 16 luglio 2020

19 Luglio 2020 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


“Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò” (Mt 13,24-43).

Anche oggi, come domenica scorsa, Matteo ci presenta una serie di “similitudini”, una serie di brevi parabole sul Regno di Dio: la zizzania, il granello si senape, il lievito.
Tutte hanno un filo conduttore, il “crescere”: lasciar crescere ciò che è piccolo, non impedire alle cose e alle persone di crescere, aspettare la maturazione.
La prima parabola è quella celebre della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con quanto Gesù vuole qui insegnare con le sue parole. 
Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta un dispetto diabolico, una realtà difficilmente accettabile, una situazione che contrasta con la loro idea di “discepolato”.
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico, sempre pronto a colpire, durante la notte, vi semina sopra la “zizzania”, una graminacea molto simile al frumento, e quindi impossibile da distinguere finché non arriva anch’essa a maturazione.
Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata, la loro missione evangelica dagli interventi velenosi del maligno, non venga presa molto bene dagli apostoli: perché accettare passivamente tale evenienza? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe preferibile metterlo subito fuori causa? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il bene, il grano, poiché le radici di entrambi sono già sul nascere strettamente intrecciate.
Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole non spetta a noi stabilire in partenza chi è buono e chi no.
 Nel libro della Genesi, nel raccontare la creazione del mondo, la Bibbia non dice che “prima” non c'era nulla, ma che c'era il “caos”, l'informe, l'indefinito. Cioè: c'era un qualcosa ma non era chiaro cosa. L'opera di Dio creatore è stata pertanto quella di “distinguere” (termine più appropriato del nostro “separare”): la luce dal buio; le acque dalla terra; le acque del mare dalle acque del cielo e via dicendo. Ebbene: questo è esattamente ciò che siamo chiamati a fare anche noi nella nostra vita: distinguere, discernere, dividere, per ridiventare quelle creature che Dio ha voluto a sua immagine. 
Accettiamo allora il nostro vuoto, perché è un pieno in confusione: è in essa che dobbiamo “agire”, portare luce, discernere, capire cosa dev'essere tenuto e cosa no.
In pratica Gesù ci ricorda che non ci siamo solo noi al mondo e che non tutto dipende da noi. Nel nostro campo personale non seminiamo solo noi. Hanno seminato i nostri genitori, la nostra infanzia, le persone che abbiamo incontrato, le esperienze della vita, le idee che circolavano nel nostro ambiente, le paure, i complessi, le ansie e le scelte di altri. Noi non siamo solo quello che vogliamo noi, ma siamo anche soggetti a condizionamenti, influssi e intrusioni. È da illusi pensare che siamo gli unici artefici della nostra vita. La tv e i media ci condizionano; l'ambiente, la moda, le persone vicine ci condizionano. Noi condizioniamo con il nostro vivere il mondo esterno, ma il mondo esterno a sua volta ci condiziona. A volte ci ritroviamo che la nostra vita è come quel campo. C'è il seme buono, ma c'è anche tanta zizzania. E a volte non dipende da noi. Altri hanno seminato cose che non volevamo.  
Dobbiamo pertanto accettare il fatto che la nostra vita non è solo nostra, ma che noi viviamo in un mondo. Dobbiamo accettare il fatto che anche altri abbiano seminato la loro semente: quella che avevano, quella che potevano o volevano seminare! E certe semine sono purtroppo mortifere. Ma è così. Qualcuno ha seminato zizzania: è una realtà. Ma qualunque cosa sia stata seminata, questo è e rimane il nostro campo: amiamolo, accettiamolo, accogliamolo, consapevoli che questo campo così come produce zizzania, negatività, insoddisfazione, può produrre anche vita, positività, luce. Accettiamo pure ciò che altri vi hanno seminato, ma iniziamo a seminare noi cose diverse e buone per noi. Non esiste infatti in assoluto il bene senza il male, la zizzania senza il grano, il positivo senza il negativo.
È molto infantile dividere il mondo in buoni e cattivi, in santi e delinquenti. È un principio troppo semplicistico. È un non voler accettare la complessità della vita e delle relazioni.
Noi tutti sogniamo l'uomo perfetto, un amore perfetto, un lavoro perfetto, una relazione perfetta, una vita perfetta. Questa illusione però rischia di distruggerci la vita, ci fa rincorrere un'utopia, una illusione che ci impedisce di goderla così com’è, tanto imperfetta, ma anche tanto bella.
In questo senso Gesù intende mettere in guardia tutti gli uomini dalla tentazione, molto diffusa anche oggi nelle maggiori religioni, di considerarsi gli autentici rappresentanti della volontà di Dio, i soli interpreti della sua Parola; di essere cioè a pieno titolo gli unici giusti e quindi gli unici eletti.
Egli però, in tutta la sua vita terrena, si è sempre espresso contro la “presunzione” dei migliori, degli arroganti, di quanti cioè si ritenevano impeccabili, giusti, osservanti, e che consideravano tutti gli altri dei peccatori, gente persa da condannare, gente sbagliata da convertire. Esempi di questo tipo sovrabbondano nel Vangelo: Farisei, Scribi, Maestri della Legge, erano davvero maestri nel disprezzare il prossimo.
Evidentemente egli doveva aver notato che la stessa tentazione si stava insinuando anche tra i suoi discepoli, tra coloro cioè che, seguendolo da vicino e ritenendosi i suoi confidenti, pensavano erroneamente di essere superiori agli altri.
Un errore, una ideologia, che nei secoli ha avuto una grande diffusione anche nella sua Chiesa, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, infatti, quanti “difensori” della fede e di Dio, hanno condannato innocenti, hanno ucciso, fatto guerre per estirpare gli “eretici”, per debellare il male dal mondo? La fanatica volontà di fare il bene ad ogni costo eliminando dal mondo ogni parvenza di male, ha fomentato guerre sante, rivoluzioni, inquisizioni, epurazioni, stermini razziali, arrivando a legittimare anche le più ripugnanti crudeltà.
Una religione che si ritenga strumentalmente superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità imposta crea necessariamente inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: di qua i buoni e di là i cattivi, da un lato gente salvata per diritto divino e dall’altro gente condannata senza appello. Ma il Dio di Cristo, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha predicato un Dio come questo. Anzi Lui è il Padre di tutti, e ha mandato suo Figlio per tutti, per salvare tutti, ma proprio tutti.
Applicata alla nostra vita concreta, dunque, questa parabola ci dice che il campo su cui avviene la semina, è la nostra anima, siamo noi; e che in questo campo, nella nostra vita, crescono insieme grano e zizzania.
Non possiamo quindi vivere pensando, o sperando, di essere talmente bravi da produrre esclusivamente grano di prima qualità. Dobbiamo purtroppo fare i conti anche con la nostra zizzania, che a volte è delle peggiori. È un dato di fatto e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche per i nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la nostra mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci dice Gesù. “Fai attenzione, perché se vuoi raccogliere solo grano scelto, estirpando la zizzania presente nel tuo campo, non ti rimarrà in mano nulla di nulla. Accettati umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse; ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Questo è importante: non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”, al di sopra delle nostre possibilità. Cerchiamo invece di capire bene a quale grado di perfezione il Signore ci ha chiamati.
Perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la nostra vocazione; un altro è mirare ad una perfezione assoluta, eroica, da “perfezionista”, che non ci appartiene: perché in questo caso otterremmo soltanto la soddisfazione del nostro “ego”, attraverso una continua e affannosa ricerca del riconoscimento e dell’ammirazione altrui.
Un perfezionista di questo genere è, oltretutto, un intransigente: per lui il mondo si divide unicamente in buoni e cattivi: non esistono altre possibilità. La sua vita è di conseguenza continuamente sotto stress, in totale ansia; spinto dalle sue vertiginose ed esclusive aspirazioni al bene, egli sarà sempre insoddisfatto di qualunque progresso, poiché la sua è una ricerca volta esclusivamente alla temporanea bontà del finito, e non a quella eterna dell’infinito, di Dio.
Egli vive fuori di sé, proiettato tutto all’esterno: è uno che non ha dubbi, uno che non ascolta mai i suggerimenti della sua coscienza, che non dà alcuna importanza a quanto gli suggerisce il cuore e, soprattutto, a quanto gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
La nostra perfezione cristiana consiste dunque nell’attuare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma semplice, adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, delle nostre debolezze.
Del resto Gesù ha ottenuto le cose migliori proprio da persone nient’affatto perfette: da peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli “teme” piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo il vero senso della nostra vita.
L’uomo totalmente “perfetto” in questo mondo non esiste, perché tutti, chi meno chi più, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo vittoriosi, in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza. Ebbene, in questo sta la nostra perfezione: trasformare vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio e ai fratelli.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, e con un velo di tristezza gli disse: “È vero, figlio mio; ma le tue mani sono anche vuote”.
Non perdiamo tempo allora, non intestardiamoci a voler scalare a tutti i costi le alte vette di una immaginaria “perfezione”. Stiamo con i piedi per terra, accettiamo umilmente dal Signore i nostri limiti, le nostre debolezze. Concentriamoci sul nostro più agibile “campetto”, coltiviamolo, seminiamo e facciamo crescere il nostro “grano” migliore, anche se frammisto all’inevitabile zizzania. È esattamente questo che il vangelo di oggi vuol dirci di molto importante. Amen.




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