venerdì 27 dicembre 2019

29 Dicembre 2019 – S. Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.


“Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt 2,13-15.19-23).

Oggi, festa della Santa Famiglia. Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una minuscola comunità esente da ogni difficoltà e contrarietà. Di essa ci è stata talvolta tramandata un’immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con più problemi di tante altre: una madre rimasta incinta non si sa come; un padre che, dopo la nascita del figlio, scompare (che fine ha fatto Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala” questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici, che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà le avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe, nel piccolo paesino di Nazareth: ed essi erano veramente santi! Perché allora noi, che non siamo proprio dei santi, dovremmo esserne esenti?
La famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi paradisiaci, del “tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come sappiamo, è quello che è, parziale, limitato, mai perfetto, perché legato alla fragilità umana; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo anche se molte famiglie si ritrovano a vivere insieme, anche se siedono sempre attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”: c’è infatti la famiglia-autogrill in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma, in cui uno ordina, uno comanda, e gli altri devono obbedire; c’è la famiglia-albergo in cui tutto è perfetto, ordinato, ma dove non c’è vita, non si ride e non si scherza insieme, non ci si racconta e non ci si ascolta; c’è la famiglia-tv dove il padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono stare in silenzio.
Nella nostra società ci sono molte tipologie di case, molte abitazioni: c’è la casa al mare, in montagna, all’estero; c’è una “seconda casa” che è il pub, l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante case, tante stanze, tanti locali diversi, tante scelte di vita, ma di “famiglie” vere, ce ne sono ben poche. Molto poche!
Perché non basta che due individui si mettano insieme, vivano sotto lo stesso tetto, per essere una “famiglia”. Ci vogliono soprattutto due genitori esperti, maturi, un padre e una madre consapevoli di affrontare un ruolo estremamente importante.
Ora, se per i bambini c’è la scuola materna, elementare, media, superiore, l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, se per fare un qualsiasi lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi di formazione specializzati, per chi vuol formare una famiglia, per essere genitori responsabili, in grado di educare, non esiste purtroppo nessuna scuola. Eppure ci sarebbe anche per loro una grande necessità di andare a scuola! Ma chi può insegnare loro? Da chi possono imparare?
Eppure una famiglia esemplare, una famiglia che può insegnare a tutti, una famiglia autentica maestra, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio, ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, con il comportamento ci ha indicato quei principi fondamentali che ciascun genitore dovrebbe praticare e trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione, la preghiera.
Tutti i genitori, papà e mamme, sono chiamati ad imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova in sé stessa entusiasmo, amore, sopportazione, rispetto reciproco, momenti di crescita spirituale, è destinata ad appiattirsi, a rinsecchirsi, ad esaurirsi e, prima o poi, a perdere ogni linfa vitale, a morire. In tale contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di Gesù.
La storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che, in qualche modo, è il “destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha un suo “Erode”: per crescere deve soffrire, superare difficoltà, conflitti, umiliazioni. Ogni bambino deve, in qualche modo, fuggire dalla propria abitazione, da quello che lui è, dalla profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare un altro. E tutto questo per salvarsi, per affermarsi. Ogni bambino, fortunatamente, ha una forza interna, la forza del suo voler vivere ad ogni costo, che è più grande di tutte le forze contrarie, avverse e che gli permette di tornare sempre nella “sua casa”, nella terra promessa.
Soffocare, uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera strage degli innocenti: perché egli è quella parte di noi che sa stupirsi; che sa amare pienamente, completamente, sinceramente, che si dà senza trattenere niente; è la parte di noi che sente, che ascolta, che vive tutto con intensità, che nel bisogno sa chiedere aiuto, che non si sopravvaluta, che conosce i propri limiti; ma è anche quella parte di noi che è felice, che danza, che canta, che ride, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne frega di cosa dice la gente.
È così bello lasciarsi andare! Perché è la vita che è bella! Dobbiamo soltanto vincere la paura del nostro “Erode”: che però, a ben guardare, è lui che ci teme di più!
La festa di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli un bambino? Eppure Erode è terrorizzato da quel bambino, ha paura a lasciargli spazio, ha paura che cresca, che prenda forza; ha paura di non saperlo più controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è, invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire, che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza del “nostro” bambino: ed altri innocenti (che non c’entrano niente) saranno costretti a subire la nostra collera, il nostro disagio, la nostra rabbia. E saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena senza fine.
Guardare quel nostro “bambino”, è tornare a guardare oltre le nostre deformità, a quando i mali e i condizionamenti subiti, non avevano ancora segnato il nostro vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nel nostro esistere per un motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è una parte di noi che nessun Erode potrà mai distruggere. È trovare la forza, un punto d’appoggio, per ripartire.
Perché solo rialzandoci dalle miserie della vita, potremo vederci come Dio ci ha pensato, prima che il nostro volto si sfigurasse: solo allora potremo vedere la nostra infinita bellezza, la nostra grandezza e preziosità, e ci sarà chiaro che siamo angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a vedere il bambino che egli era, riesce a capire finalmente cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.


giovedì 19 dicembre 2019

22 Dicembre 2019 – IV Domenica di Avvento


“Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto” (Mt 1,18-24).

Per Giuseppe non fu sicuramente una notte facile quella! Lui i suoi progetti li aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene, merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e, addirittura, trasferirsi nella vicina Sefforis. Da lì a poco avrebbe preso in casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, il pensiero di una famiglia con quella ragazza che gli aveva rapito il cuore, era fonte di gioia incontenibile.
Improvvisamente però, i progetti di Giuseppe vengono frantumati da un impensabile intervento di Dio: l’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è responsabile, lo getta nell’angoscia. Ma come: Maria? Proprio lei? Come è potuto succedere? Lui è l'unico a sapere che quel figlio non è frutto del suo seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa fare?
Non è il tempo della rabbia, questo, né del piangersi addosso; è il tempo di agire. Consegnarla alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sa bene che il destino delle donne adultere è la pubblica lapidazione. No, non può fare questo.
La notte sopraggiunta alla tragica notizia, deve essere stata quindi terribile per il povero Giuseppe: l’ansia che lo tiene sveglio, il rigirarsi continuamente nel pagliericcio, le orribili visioni del domani che continuano a gettarlo nella disperazione più cupa. Ha sempre davanti agli occhi il volto sorridente di Maria: non riesce a capacitarsi, a credere alla realtà, non vuole arrendersi all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio è sicuramente ferito, ma la tenerezza e le lacrime dell’innamorato hanno ben presto la meglio.
Il suo cuore improvvisamente si placa quando decide di seguire una soluzione alternativa: al rabbino avrebbe detto che si è stancato di Maria, che non l’ama più e che quindi scioglieva il contratto matrimoniale. Maria ne sarebbe uscita con l'onore compromesso, certo, ma avrebbe avuto la vita salva. Ecco, sì, questa è una buona idea. Perché Lui amava immensamente la sua giovane promessa sposa.
Il racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci nella nostra vita personale con tutti i sogni infranti da un imprevisto, da una malattia, da un incidente, da una ingiustizia patita, dalle tante contrarietà che ci hanno ingiustamente frenato nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi progetti di vita, alla realizzazione di un futuro familiare e professionale dignitoso e stabile. Anche nel nostro cammino di fede possiamo a volte sperimentare impedimenti e disagi, quando pensiamo che Dio si sia allontanato da noi, e percepiamo la chiesa non come rifugio, ma come un ostacolo, con il risultato che quanto credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina nemmeno con il suo proposito di agire nei confronti di Maria con bontà e rettitudine.
Dopo il dormiveglia tormentato dai dubbi e dall’angoscia, finalmente il sonno arriva: lo prende sul fare del mattino. Ed è lì che succede: un angelo, materializzatosi improvvisamente nel sonno, gli parla di una missione da compiere, di un figlio che avrebbe salvato il mondo, che lui, Giuseppe, non deve preoccuparsi di nulla, perché questa è la volontà dell’Altissimo. Un sogno strano, dolce, quasi vero. Maria era sua, era la sua sposa, ma Dio dall’eternità si era innamorato di lei, e aveva scelto il suo grembo verginale per la nascita del Verbo, suo Figlio.
Nel sogno Giuseppe tace: è stupito, attonito, senza parole. Poi si sveglia, sereno. I pensieri bui sono lontani, fuggiti con le tenebre: ora Giuseppe ha riacquistato tutta la sua forza e il suo entusiasmo: se Maria ha accettato di prestare il grembo a Dio, lui, Giuseppe, può anche fargli da padre a quel Dio che sarebbe nato.
Un nuovo progetto prende forma in Lui proprio dalle rovine del precedente, ormai irreparabilmente distrutto: Dio lo vuole coinvolgere in una storia che è decisamente superiore alle sue umane possibilità, una storia che vede come protagonista Maria, la sua giovane sposa:
Dio vuole entrare nella storia umana, servendosi della loro collaborazione.
Matteo, ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe è “giusto”: cioè irreprensibile, autentico, onesto, un uomo pieno di dignità, non vendicativo; uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito come marito, capisce che Dio, per assumere le sembianze umane, ha scelto Maria, e nella generosità del suo cuore, lascia prevalere la tenerezza e l’amore per quella sposa che deve condividere con Lui. È “giusto” perché, mettendosi dalla parte di Dio, si oppone alla follia dominante e al giudizio di morte della gente. Giuseppe è “giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo sapessimo amare come lui, e permettessimo umilmente a Dio di disporre di noi secondo la sua volontà.
Cerchiamo allora di imitarlo: mettiamo da parte la nostra voglia di apparire, coltiviamo seriamente in noi quelle virtù che devono essere sempre i nostri valori fondamentali: la mitezza, la bontà, la pazienza, la carità; impariamo a vivere la chiamata di Dio con il massimo impegno nell’umiltà, nel nascondimento: del resto, Dio conosce già perfettamente il nostro intimo e tutto quanto ci riguarda, e non gli serve una campagna pubblicitaria per quel poco che facciamo; il protagonismo ad ogni costo lasciamolo agli uomini del mondo: uomini che purtroppo oggi sono sempre più arroganti e ipocriti, gente che urla soltanto, per imporre il nulla che è in loro.
Di quanti Giuseppe avrebbe bisogno oggi la società! In politica, negli uffici, in famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose: uomini e donne “giusti”, sui quali Dio può veramente contare, dei quali può fidarsi in tutto, per realizzare nel mondo i suoi progetti di salvezza!
Ma non basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei “sognatori”, gente che in questo mondo disincantato e cinico, ha il coraggio di credere ancora negli ideali, nelle promesse di Dio. Come Giuseppe, dobbiamo avere il coraggio del sogno, di piegare la nostra volontà a quella di Dio che ci chiede di collaborare al Suo progetto divino di salvare il mondo: un progetto che, dopo il suo ritorno al Padre, egli ha affidato alla sua Chiesa; un progetto divino che pertanto ci vede tutti responsabilmente coinvolti, consapevoli che se non sappiamo più sognare il nostro inserimento in Dio, se non inseguiamo gli ideali che Lui ci ha lasciato nel Vangelo, se non li ascoltiamo, se non li dimostriamo al mondo con la nostra vita, finiamo per soffocare lo Spirito di Dio in noi, continuando a vivere da parassiti, servi inutili, tralci infruttuosi, destinati ad essere recisi e bruciati.
Viviamo allora anche noi l’imminente Natale con la stessa fede di Giuseppe: viviamolo coinvolti come lui, nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci vuole inerti spettatori, pusillanimi e rinunciatari, ma discepoli innamorati in continua tensione verso il compimento della Sua volontà.
Questo è il mio cordiale e sincero augurio a tutti voi. Buon Natale.
Amen.



giovedì 12 dicembre 2019

15 Dicembre 2019 – III Domenica di Avvento


Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-11).

Oggi, la Parola ci fa incontrare ancora una volta Giovanni: questa volta però è un uomo ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore del deserto: è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia covata nei suoi confronti da una isterica cortigiana che manovrava la debolezza di un re-fantoccio.
Giovanni ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo solo per preparare la strada al Messia, senza alcun riguardo verso coloro che vivevano nel peccato e nel vizio; e quando lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare, lo ha accolto schernendosi, riconoscendo in lui il “potente” che dopo di lui avrebbe battezzato non con l’acqua ma con lo Spirito santo e fuoco; in cuor suo però era rimasto stupito, confuso per l'atteggiamento riservato e umile, con cui si era presentato colui che doveva essere il Salvatore del mondo.
Ora, nella solitudine del carcere, Giovanni è perplesso; pensa, è dubbioso. Le notizie che i suoi inviati gli riportano non fanno che accrescere le sue perplessità, lasciandolo costernato: il Messia non si sta comportando come un condottiero, un capo del popolo, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario né tantomeno catastrofico, non annuncia l’imminente giudizio di Dio, non minaccia la sua vendetta con il fuoco divorante. Gesù, al contrario, continuando nel suo profilo basso, semplice, suadente: offre perdono incondizionato a tutti, rimette le colpe, non minaccia né attua vendette, dice che quel “fuoco divorante” Lui lo vuole accendere, certo, ma partendo dall'amore, non dal terrore. È insomma un Messia troppo dissimile da quello che Giovanni e Israele si aspettavano, è un personaggio completamente fuori schema, fuori da ogni loro sospirata previsione.
Del resto Dio spiazza sempre tutti: anche quelle persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiando di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta plateale, una irruzione nella storia con un frastuono assordante, accompagnata da schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, è solo; ci svela il volto di un Dio riservato, quasi nascosto: evidente, certo, ma pieno di ogni tenerezza e sensibilità, in ogni caso mai in maniera banale.
Gesù praticamente ci svela un Dio che divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no, in chi cioè gli volta le spalle. L'amore è una possibilità immensa, è l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare, nella fragilità di ciò che siamo o che ci impegniamo di essere.
Ma noi, dal canto nostro, siamo certi di Dio? Riprendiamo allora in mano il Vangelo e chiediamo a Dio, nella preghiera, di condurci sempre per mano nella nostra autenticità. Siamo sempre pieni di dubbi? Consoliamoci, non siamo i soli: anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.
“Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…” replica Gesù ai discepoli che il Battista aveva inviato per informarsi sulla sua identità; non dà loro una risposta esauriente. Devono trarla da soli. La fede non richiede l’evidenza, non necessita di “prove certe”, Dio non è il risultato di un teorema scientifico, con buona pace di quei simpaticoni, che pretendono di vedere l’anima nelle radiografie! Ci vengono offerti degli indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, siamo noi che dobbiamo trovarlo, accantonando le nostre ideologie, prendendo coscienza e conoscenza di noi stessi e del Dio che abita in noi.
“Guardati intorno, Giovanni”, è in pratica l’incoraggiamento di Gesù a suo cugino, dopo avergli elencato i grandi segni messianici profetizzati al popolo da Isaia.
Ecco, questo è il punto: per riconoscere i segni della presenza di Dio, dobbiamo anche noi “guardarci intorno”: renderci conto di quante persone nel mondo hanno incontrato Dio, e continuano ad incontrarlo: magari gente disperata, che trovandolo, ha dato un senso alla loro vita, convertendo il proprio cuore; persone straziate dal dolore, arrabbiate con Dio, che hanno imparato grazie a Lui, a perdonare; persone accecate dall'invidia o dalla cupidigia che con Lui hanno messo le ali, trasformandosi in gioia, in bontà, in amore quotidiano, in donazione di sé stessi! Dobbiamo guardare anche noi, come Giovanni, quelli che sono i segni della vittoria silenziosa del Messia, la forza dirompente del Vangelo sulle persone che cambiano, che guariscono, che scoprono Dio, potendo così ammirare, nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto, gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in deserti di solitudine e di egoismo.
Dobbiamo guardare e riconoscere in questi segni la presenza del Regno di Dio.
Purtroppo spesso non li vediamo, non ce ne rendiamo conto, non li vogliamo vedere, non li possiamo vedere, perché il problema tragico del nostro tempo è proprio quella cecità interiore che impedisce di vedere, di toccare con mano la presenza di Dio, nascosta, silenziosa, ma decisamente reale e concreta, in tutto ciò che ci circonda.
Quante sfumature della natura i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a cogliere! Meraviglie che ci lasciano indifferenti, che non ci colpiscono, non ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il cuore, nulla purtroppo di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui rimaniamo solo tanti ciechi famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo, la insudiciamo; la osserviamo, ma solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo, scrutiamo, ma non “vediamo”! 
“I ciechi riacquistano la vista”: chi invece incontra Dio, vede, ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia e si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case attraverso i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non si impadronisce di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla. Entra ed esce delicatamente, senza alterare o sconvolgere nulla.
Prepararsi al Natale significa, allora, modificare il nostro sguardo, far constatare ai tanti distratti, a noi ovviamente per primi, che il Regno avanza, è presente, che tutti possiamo renderlo presente, contribuire a realizzarlo. Impariamo tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dalla nostra indifferenza, dal nostro dolore, per accorgerci della presenza e della salvezza di Dio, che si attua continuamente nelle nostre soffocate città.
In questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di speranza per quanti a Natale si sentono abbandonati, soli, dimenticati! Pochi giorni per assicurare chi non sa se Dio c'è, e si chiede se anche il Nazareno, in fondo, non sia che un grande inganno, che Dio c'è, che è amore: diciamo loro come Dio abbia cambiato la nostra vita, come ci abbia soccorso nel dolore e nelle prove della vita. Perché Dio c’è veramente! Ecco, sia questa la nostra prospettiva, in un mondo che si dibatte tra problemi irrisolti, ipotesi strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Domandiamoci, come singoli credenti e come Chiesa, se siamo la risposta vivente alle domande profonde e incalzanti di tante persone che si dibattono nel buio; domandiamoci se siamo veramente quella risposta, che si trasforma in offerta di solidarietà, in atteggiamento di ascolto, in annuncio di speranza... Amen.


giovedì 5 dicembre 2019

8 Dicembre 2019 – Immacolata Concezione di Maria SS.


“Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te” (Lc 1,26-38)

Un angelo, un messaggero di Dio, si presenta in una casupola, meglio una grotta, situata tra le montagne della sperduta Galilea, abitata da un’umile e povera ragazza. E proprio qui la Parola di Dio, pur incomprensibile e inspiegabile, trova da parte della fanciulla la massima accoglienza.
Dio aveva già inviato il suo portavoce in una precedente occasione: nella religiosissima Giudea, nella civilissima e celebre Gerusalemme; e lo aveva mandato da un sacerdote del Tempio, Zaccaria, un “giusto”, un addetto alle cerimonie sacrificali, uno che era in costante contatto col “divino”. Solo che quel giusto, quel sacerdote, non gli aveva creduto, gli aveva argomentato che il messaggio recapitatogli, vista la situazione, non poteva essere altro che una “fandonia”. Un sacerdote che non crede, però, non ha nulla da dire al popolo: dice magari tante parole, racconta un sacco di cose, ma non trasmette nulla, non è un portavoce (pro-feta) di Dio. Per questo, Dio lo ha reso muto. Eppure, ciò che Dio attraverso il suo angelo gli proponeva, non doveva poi suonargli tanto strano, visto che lui era uno che conosceva molto bene la Bibbia: tante altre volte, infatti, Dio aveva fatto nascere figli da donne sterili: per esempio Sara, prima di avere Isacco, era sterile; Rebecca prima di avere Esaù e Giacobbe era sterile; i loro mariti erano Abramo e Isacco, personaggi famosissimi. Anche la madre di Sansone era sterile; anche Anna, Michal, la donna Shunammita, ecc. Perché non poteva succedere anche a sua moglie Elisabetta?
Zaccaria insomma era un sant’uomo, uno che sapeva tutto di Dio, ma che, in pratica, non “aveva” Dio. E a volte il troppo nasconde proprio l'insufficienza: uno cerca di sapere tutto, proprio perché non “possiede” ciò che cerca: e non “possiede” perché cerca con la mente ciò che invece va cercato con il cuore e con l’anima.
Dunque: dopo aver fallito il primo tentativo (con Zaccaria), l’angelo Gabriele ci riprova. Ma questa volta fa tutto in maniera completamente diversa. Prima era andato nella Giudea, terra santa e fedele a Dio, protagonista della storia della salvezza; ora va in Galilea, regione del nord, dove la popolazione si è mescolata con i pagani; una regione marchiata dal profeta Isaia come “Terra pagana”. Giuseppe Flavio, storico del tempo, aggiunge che i galilei erano persone litigiose, piantagrane; erano i poveri, i diseredati del tempo, i braccianti dell’epoca, sfruttati dai latifondisti della Giudea, e per questo continuamente in ebollizione, in rivoluzione. Al punto da far esclamare Natanaele: “Cosa può venire mai di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Erano insomma considerati degli incivili, abitavano in case per la maggior parte ricavate in caverne, nelle grotte; gente che era meglio lasciar perdere. 
In stridente contrasto con le pietre preziose, con la sontuosità e lo splendore del tempio, questa volta l’angelo entra in una misera casupola, in parte ricavata dalla roccia, con delle mura fatiscenti. Prima da un uomo e adesso da una ragazza, da una donna: cosa riprovevole, una bestemmia, un’eresia. La nascita di una donna infatti era considerata una disgrazia, una punizione lanciata da Dio contro determinati peccati; la nascita di una bambina veniva vista come un fastidio. Le donne non avevano nessun diritto, erano impure, e per giustificare questo si chiamava in causa la Bibbia. Quindi, che Dio si potesse rivolgere ad una donna era totalmente impensabile, fuori da ogni ragionamento.
Ma ciò che è assurdo per gli uomini non lo è affatto per Dio! Dio non guarda ciò che guarda l’uomo. Cosa fa allora l’angelo Gabriele?
«Nel sesto mese...». I numeri per la Bibbia hanno sempre un valore ben definito. Per esempio nella creazione, Dio ha lavorato per sei giorni: il settimo l’ha riservato a sé stesso: dopo i sei giorni è arrivato quindi il giorno di Dio, un evento divino, un incontro con Dio. Per cui quando Luca scrive qui “nel sesto mese” lascia già capire che più tardi arriverà qualcosa di soprannaturale, di divino.
E da chi va Gabriele? Da una donna, promessa sposa, che si chiama Maria. Luca inserisce volutamente il nome; ora, per noi, “Maria” è un nome soave; ma di certo non lo era a quel tempo: nella Bibbia esiste una sola Maria, la sorella di Mosè; una donna molto ambiziosa, che aveva cercato di fare le scarpe al fratello Mosè. Per questo Dio la maledisse con la lebbra (la lebbra era la maledizione di Dio). Dopo quella Maria nessuna più si chiamerà con quel nome fino alla madre di Gesù. Perché? Perché era un nome maledetto, oggetto di maledizione. Nessuno di noi metterebbe nome a suo figlio “Giuda”, un nome che si collega ad un traditore. Così era per Maria.
Quando l’angelo entra le dice: «Ti saluto o piena di grazia»: “Kecaritwmnj”, “riempita di grazia”; non si riferisce alla bravura di Maria, ai suoi meriti, al fatto che nessuna donna era brava quanto lei. No! Si riferisce all’azione di Dio. Lei è niente (Galilea, Nazareth, donna, Maria, ecc.) eppure Dio, di sua iniziativa, gratuitamente la riempie, la colma. Questa è la grandezza di Maria: Maria è grande non perché era santa o perfetta (come viene descritta in certe litanie) ma perché è la prima ad accogliere senza pretese l’amore gratuito di Dio.
Mentre Zaccaria e i sacerdoti del Tempio volevano conquistarsi l’amore di Dio con le preghiere, i riti e la santità, Maria non fa nient’altro che dirgli: “Sì”. Perché l’amore di Dio è immeritato, è sempre gratuito.
L’angelo poi le dice: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce, e lo chiamerai Gesù». Ma le donne ebree non potevano mai mettere il nome ai figli: erano sempre e solo i padri che lo facevano! Questa volta però sta succedendo veramente qualcosa di straordinario: Dio rompe completamente con ogni tradizione precedente, inizia un nuovo corso, qualcosa di completamente nuovo.
È Dio infatti che si manifesta come il totalmente nuovo: nessuno lo può controllare, nessuno può chiedergli spiegazioni, rassicurazioni, perché nessuno conosce questo “nuovo”. Qual è allora l’unica cosa da dire? La stessa di Maria: “Non so dove, non so come, non so perché, non so quando, ma mi fido di te”. Tutto qui.
E Maria risponde all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo!». Zaccaria era stato incredulo, Maria no. Lei vuole soltanto sapere il come, come avverrà tutto questo. In passato qualcuno, appellandosi proprio a questa frase, affermava che Maria avesse fatto voto di verginità. Ma questa cosa è impossibile per il mondo ebraico. Noi invece sappiamo perché Maria ha delle perplessità: perché era nella prima fase del suo matrimonio: era cioè fidanzata, già sposata, ma non ancora convivente: oltretutto risultare incinta in quel periodo, significava condanna e morte sicura.
E l’angelo spiega: «Lo Spirito Santo scenderà su di te». Emblematica questa frase; Luca mette qui in parallelo la discesa dello Spirito Santo su Maria, con la discesa dello Spirito Santo sulla prima chiesa. E chi è presente ora, come anche allora? Sempre Maria (At 1,14)!
Per il vangelo, dunque, Maria è la donna dello Spirito, è colei che vive, dall’inizio alla fine, guidata sempre dallo Spirito. Lui la guida e lei lo segue.
«Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». I “servi del Signore”, nella Bibbia, sono quelli che hanno obbedito ai comandi di Dio e che lo hanno seguito. Maria è l’ultima serva del Signore. È colei che chiude un tempo: dopo di lei nessuno sarà più “servo”, ma soltanto “figlio”.
Maria quindi affida all’angelo il suo “Sì” da riferire a Dio; anche se non sa esattamente a cosa dice sì; il suo è un sì totalmente nuovo, totalmente diverso da ciò che lei poteva pensare e capire. Ma apre comunque il suo cuore, offre la sua piena disponibilità. Perché Lei si fida di Dio. È per questo che apre un tempo nuovo, un nuovo corso storico: il tempo della fiducia. “Mi fido di te”. Essere uomini e donne “dello Spirito”, vuol dire appunto fidarsi di Dio: significa rispondere ad ogni sua chiamata con un “Sì” pieno e generoso.
Al contrario noi ci chiudiamo ermeticamente, recalcitriamo, dubitiamo, non ci fidiamo: siamo diffidenti perché guardiamo solo a noi stessi e non a Lui. Non vorremmo avere problemi: ma i problemi li troviamo, e numerosi anche, se continuiamo ad assecondare il nostro egoismo, se ascoltiamo solo noi stessi. Per questo dobbiamo rinforzare la nostra fede. Perché solo una fede sincera, disinteressata, umile, potrà far sgorgare, dal profondo del cuore, il nostro “si” a Dio: “Sì, Signore, mi fido di te!”. Sull’esempio di Maria. Amen.



giovedì 28 novembre 2019

1° Dicembre 2019 – I Domenica di Avvento – Ciclo “A”


“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,37-44).

Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, e magari stoltamente convinti di averlo trovato, ci adagiamo senza fare più nulla, lasciando che la vita continui a scorrerci addosso, con i suoi desideri, le sue delusioni, le sue scoperte, le sue paure, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti.
Per questo abbiamo bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, per guardare dove stiamo andando, di trovare un filo conduttore che dia un senso a tutte le nostre vicende.
Con l'avvento, tempo di silenzio, di meditazione e di revisione interiore, un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al grande appuntamento col Dio in noi: il Natale.
Non il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso: uno stravolgimento del vero Natale, una fiera insopportabile della bontà posticcia e fasulla, che ha ridotto il Natale di Gesù ad una festa di compleanno, priva di qualunque espressione d’amore per il festeggiato.
Non è questo il nostro Natale: perché noi abbiamo necessità di incontrare solo quel Dio, che ogni anno cerca di rinascere bambino nei nostri cuori, diventando nuovamente accessibile, incontrabile, con il suo volto sorridente, ben riconoscibile e invitante.
Da oggi iniziamo a leggere Matteo, il pubblicano peccatore divenuto discepolo di Gesù: il suo vangelo, ci accompagnerà e ci incoraggerà sull'impervia strada della nostra conversione.
Il brano di oggi, tipicamente escatologico, non è facilmente comprensibile, e rischia di essere letto in chiave sbagliata.
Gesù, come al solito, è straordinario; si spiega cioè riferendosi agli eventi antichi: al tempo di Noè, per esempio, tutti, buoni e cattivi, vivevano nella superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli ma non si accorgevano di nulla, non pensavano a nulla. Tutti vivevano nelle loro illusioni, tutti si guardavano bene dall’accorgersi di ciò che succedeva intorno a loro, dall’aprire gli occhi sul futuro, perché aprirli avrebbe richiesto un cambiamento radicale della loro condotta. Così venne il diluvio e travolse tutti. “Tenetevi pronti” è dunque il suo invito conclusivo, vegliate, state allerta, pronti, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. In quel giorno, infatti, uno sarà preso, l'altro lasciato; uno incontrerà Dio, l'altro no; uno sarà salvato, l'altro abbandonato a sé stesso. Dio è discreto, modesto, non impone la sua presenza, ma la sua venuta finale è improvvisa, imprevedibile, tremenda. Un chiaro riferimento, ovviamente, all’“eskaton”, alle realtà ultime, al ritorno finale e glorioso di Dio.
A noi però è chiesto, nel frattempo, di prepararci a fare memoria anche di un’altra venuta, meno traumatica e decisamente più consolante, quella di Cristo redentore che, assumendo le nostre sembianze umane, è venuto per riscattare l’umanità dal peccato.
La Chiesa dedica a questo evento quattro settimane: un “tempo favorevole” in cui spalancare il nostro cuore, aprire gli occhi, e lasciar esplodere il desiderio di incontrare Dio. Come?
Le vie sono tante, basta convinzione e buona volontà: da umili principianti, per esempio, cerchiamo di avvicinarci a Lui, ritagliandoci magari uno spazio quotidiano per la preghiera, per la meditazione della Parola; oppure prima di iniziare il lavoro o durante la giornata, facciamo una piccola deviazione per entrare in una chiesa e salutare Gesù Eucaristia; ancora: cerchiamo di aiutare, secondo le nostre possibilità, qualche nostro fratello più sfortunato di noi, con un gesto di solidarietà, una buona parola e così via. Sono piccole cose che, se vissute bene, ci aiuteranno sicuramente a sintonizzare la nostra anima col divino, preparandoci ad accogliere più degnamente l’Emmanuele, il Dio con noi.
Purtroppo in questo periodo veniamo sempre più bombardati da una assillante pubblicità in vista del Natale, che ne stravolge il suo messaggio religioso; immagini di un buonismo fasullo, che esaltano puramente l’aspetto gaudente di una festività senz’anima, ostentato con superficialità e stupidità.
Evitiamo allora che il Dio dei poveri, il Dio che viene per gli emarginati di ogni tempo, il Dio che a Natale non nasce nel sontuoso Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, continui ad essere sostituito da questo mondo con un buonismo sdolcinato e ipocrita. Se gli anziani soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita, non hanno anch’essi un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro essere cristiani, la nostra vita, il nostro esempio, il nostro annuncio di pace divina, sono ancora confusi, ambigui, travolti anch’essi da una inutile corsa al divertimento, alla spensieratezza, al benessere materiale.
Cerchiamo nei prossimi giorni di attesa che sono davanti a noi, di non farci travolgere da questo diluvio di parole e di immagini virtuali. Non lasciamoci fuorviare dalla mentalità edonistica del mondo, che è riuscito a banalizzare la festa sconvolgente di Dio che irrompe nella storia umana per salvarci da morte sicura.
Dobbiamo essere consapevoli di questo dramma che purtroppo si consuma ogni anno: da un lato Dio che si offre e si fa presente, dall’altro un’umanità assente, disinteressata, ignorante, che gli volta le spalle, che non si accorge di nulla: figli di Dio, che non vogliono vederlo.
Purtroppo Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato.
Per noi credenti, la solennità del Natale deve essere pertanto un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che ci obbliga a schierarci decisamente con Dio che, nella sua comprensione, nella sua dolcezza di Bambino, ci invita alla conversione.
In queste quattro settimane in Chiesa, nella tradizionale corona d’Avvento, viene accesa una nuova candela a settimana: quattro domeniche, quattro candele: per indicare un cammino di luce durante il quale siamo invitati a fare maggior chiarezza nella nostra vita, a far entrare in noi ogni giorno sempre più la luce di Dio, perché possa illuminare i nostri instabili passi.
Quattro candele che acquistano un significato solo se rappresentano un reale avanzamento, ancorché minimo, nel nostro cammino spirituale, se esprimono veramente la luce che rischiara il nostro buio opprimente, che illumina le nostre paure e le vince; se ci illuminano con la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate paura, con me nessun buio vi potrà mai ostacolare. Non lasciatevi prendere dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento, io sono con voi!”.
Ecco: a questo deve servirci l’Avvento: a riprenderci la nostra dignità di cristiani, per prepararci ad accogliere Colui che vuole abitare in noi, nella nostra “anima”, quel soffio divino del Padre, che “anima” la nostra vita.
Perché questo è tempo di riflessione, di cambiamento, di metamorfosi; un tempo vitale per poterci trasformare da inguardabili bruchi vermiformi, in leggiadre farfalle che si librano in alto, attratte dalla luce del Sole eterno. Amen.



giovedì 21 novembre 2019

24 Novembre 2019 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo


“In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,35-43)

La festa di oggi, Gesù Cristo re dell’Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, una sfida alla nostra fragile contemporaneità, al nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re dell’universo, significa che Lui avrà l’ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla nostra breve storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio in questo mondo; dire che Cristo è re, significa credere invece che il mondo, nonostante tutto, non sta precipitando nel caos, ma nell’abbraccio tenerissimo e amoroso del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di testimonianza nel Regno, là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi dimostrativi, per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti, “ecco, Dio vi ama”.
Cristo è un re fuori dagli schemi. Anzi: la regalità di Gesù è una regalità che va contro ogni nostra visione di un Re, per di più Dio; perché questo Dio Re è, agli occhi del mondo, il più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità: un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, messo alla gogna, sfigurato, piagato, sconfitto.
Una sconfitta, però, solo apparente, perché in realtà è la più esaltante vittoria dell’amore, un impensabile dono di sé per la salvezza del mondo.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che, contro ogni logica umana, manifesta la sua grandezza nel dono di sé stesso e nel perdono. Lui si è messo completamente in gioco, consegnandosi al mondo: non in maniera nascosta, non misteriosamente, ma in modo evidente, provocatoriamente evidente! Appeso ad una croce, ha giocato il tutto per tutto per piegare la durezza di cuore dell’uomo.
Gesù, è venuto a dirci di Dio, a raccontarci il suo amore, la sua vicinanza, la sua misericordia. Lui, figlio del Padre, ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E nonostante ciò, gli uomini ancora rispondono: “No, grazie! Non ci serve un Dio così! Preferiamo un Dio più lontano, magari scostante ed egoista, ma un po’ credulone, che quando serve lo possiamo facilmente convincere con le nostre chiacchiere e tenercelo buono con poco”.
Anche noi, forse, preferiamo farci un Dio simile, un Dio che soddisfi di più le nostre voglie, che ci assomigli di più nelle nostre fragilità umane, che non ci costringa ad una conversione impegnativa, che non ci chieda una adesione esclusiva, ma che si accontenti ogni tanto di qualche piccola attenzione; sicuramente preferiamo un Dio che non condanni le nostre infedeltà, ma semplicemente un Dio che le ignori, permettendoci di campare come meglio ci aggrada!
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell’inquietante affermazione della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: perché tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza salvare gli altri.
Il potente, così come lo pensa il mondo, è colui che salva sé stesso, che può permettersi di pensare solo a sé stesso, che ne ha i mezzi per farlo, senza bisogno degli altri.
In quest’ottica, Dio è un Dio con cui anche noi non possiamo misurarci: è il più potente dei potenti, Colui che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno! È un Dio che è per noi solo la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell’uomo potente, riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
Ma il nostro Dio sulla croce, non salva sé stesso, non pensa a sé stesso, al contrario pensa a noi, salva noi, ciascuno di noi! Perché è un Dio che si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendo il suo cuore misericordioso al mondo, a me, a tutti.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono l’immagine del nostro essere discepoli.
Sono due malfattori, due uomini giustiziati secondo le leggi di quel tempo. Quello che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Il primo dei due non lo ammette e non può ricevere il perdono, il secondo si.
Il primo infatti sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa’ che accada quanto ti chiedo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; egli, cioè, concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente un suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, la sua salvezza in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta puerilmente il colpo, se va va. La sua richiesta non è amorevole: trasuda piccineria ed egoismo. Un po’ come il comportamento di tanti nei confronti della fede. “Cosa ci guadagno se credo?”
L’altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza, la sua, che è conseguenza delle sue scelte; mentre quella di Dio è innocente e pura. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, misericordia, salvezza.
Ecco: questa è l’icona del vero discepolo: di colui cioè che capisce che il volto di Dio è compassione, tenerezza, amore e perdono.
Nella nostra sofferenza umana, dobbiamo anche noi riconoscere: “davvero quest’uomo è il Figlio di Dio! Questo è il nostro Dio, questo è il Re che vogliamo!”
Allora, se finora abbiamo vissuto disinteressandoci di Dio, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo approfittati degli altri, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo disinteressati delle nostre infedeltà, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo inveito contro Dio per ciò che ci succede, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi dobbiamo cambiare. Perché solo cambiando possiamo immetterci sull’unica via che ci conduce a Dio, sulla via che ci permette di unirci a Lui, nel suo amore. Amen.



giovedì 14 novembre 2019

17 Novembre 2019 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario


“Mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta” (Lc 21,5-19).

Leggendo il vangelo di oggi, tre passaggi mi hanno particolarmente colpito: le considerazioni che ne ho tratto, probabilmente non corrispondono alla usuale interpretazione che viene data al testo, ma voglio comunque condividerle, sperando che diventino motivo di meditazione anche per voi.
Primo passaggio: “alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi…” (21,5).
Sono parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del Tempio”, cioè a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse io per primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in pubblico le nostre “pietre preziose” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone” opere, la nostra messa, i nostri rosari, le nostre elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che forse in realtà non abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a portare al collo costosi ornamenti esteriori, come corone del rosario, preziosi crocifissi d’oro e medaglie sacre, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio!
Per molti, l’essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza alcun valore.
Secondo passaggio: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!” (21,8).
Dobbiamo veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi moderni, medium, guaritori, ciarlatani vari ecc.); con gente che pur di consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto affermazione.
Terzo passaggio: Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto (21,16-18).
Capiterà che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli. Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto, qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci alcunché di “male”.
Allora, se siamo convinti di ciò, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia, lo sappiamo, è un male tremendo, mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante in un baratro profondo, vittime del male, senza che nessuno possa aiutarci.
È un terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e totale di tutto ciò che ci circonda.
È un sentimento oggi molto diffuso nella nostra società moderna: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di nuove guerre, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo, quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo, da tutto ciò che abbiamo, da tutto ciò che amiamo.
Cosa dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura, cioè, di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare.
Gesù nel vangelo dice: “Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10,26ss).
Molte persone sono particolarmente angosciate dal doversi guardare dentro, dalla paura di scoprire nel loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna; temono di essere sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da umiliazioni, da ferite. Ma non è così.
Più abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo nell’angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno sarà la nostra ansia, meno saremo assaliti dall’inquietudine.
Superata questa nostra difficile situazione, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà.
Se iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare le cose, al fatto che c’è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
Per questo dobbiamo vivere con i piedi per terra, stare a contatto con la realtà, convinti che il più forte antidoto all’angoscia è la fiducia in Dio. Sì, perché aver fiducia in Lui significa percepire, sentire che Lui è con noi, che ci accompagna, che non ci abbandona mai.
La fede vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto opposto dell’angoscia: Lui c’è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio.
E questo ci deve bastare.
Ma per arrivare a tanto, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio, umilmente, nella solitudine del nostro cuore.
Del resto, cos’ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era una morte terribile: ebbene, Lui ha pregato intensamente, affidando al Padre tutta la sua angoscia, la sua paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che Lui c’era anche in quel momento terribile. E quando l’ha sentito vicino, ha ritrovato la forza e a serenità per proseguire con dignità e fermezza nella sua missione redentrice.
Questo è stato il grande esempio lasciatoci da Gesù: seguiamolo anche noi, e vivremo sicuramente nella tranquillità di sapere che il Padre è al nostro fianco. Amen.


venerdì 8 novembre 2019

10 Novembre 2019 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario


“Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. (Lc 20,27-38)

Quest’affermazione perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare uno dei misteri del fine vita: la risurrezione dei morti. L’occasione è una discussione di Gesù con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l’ala aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, sviluppatasi lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un’inutile aggiunta alla dottrina di Mosè.
Così, incrociando la negata teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un figlio alla cognata vedova!) essi pongono a Gesù un caso paradossale: la famosa storia della vedova “ammazza mariti”!).
Gesù come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta oltre la morte le ansie e le attese di questa vita terrena.
È una nuova dimensione quella che Gesù propone dopo la morte, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti, ma che contraddice la visione attuale della reincarnazione, poiché è una visione che ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo.
Il mondo è diviso in due “eoni”, due secoli: quello presente e quello futuro. Nel primo gli uomini “prendono” moglie, ma prendere significa possesso e il possesso genera soltanto morte.
Il secondo, quello futuro, è invece sotto il segno del dono, della vita, non ci si sposa più e non si muore più. Il matrimonio dà la vita a chi poi muore; la risurrezione invece dà a chi è morto una vita nuova, una vita in Dio, ormai libera dalla morte e dal generare.
“Dio è Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”. Pertanto chi in questo secolo abbandonando le leggi di questo mondo, decide di vivere con Dio, la sua morte si trasformerà in vita, una vita che non avrà mai fine: questa è la certezza che ci deve far guardare ora al nostro futuro ultimo con serena fiducia.
A questo punto però una domanda si impone, alla quale dobbiamo darci una risposta: ma noi, personalmente, viviamo con Dio?
Capirlo è abbastanza semplice: viviamo con il Dio dei vivi se per noi la fede in lui è costante ricerca, non stanca abitudine; è doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere; è slancio e preghiera, non rito e superstizione.
Crediamo in un Dio vivo se accogliamo la Parola Viva che ci interroga, ci scuote, ma che ci dona anche risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci parlano di lui, quanti amano Lui, quanti già vivono per Lui: nel mare infinito di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di ogni genere di violenze, in cui quotidianamente i media ci sommergono, è infatti veramente emozionante vedere riproposte delle storie fatte di luce: una Chiesa che aiuta i disperati di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri che aiutano i poveri, suore che si consumano per gli scarti umani, missionari che promuovono dignità alle persone, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla schiavitù del male. È la gente che crede nel Dio dei vivi, che lavora e soffre perché tutti abbiano vita. Schiere di testimoni che ci hanno preceduto, e di tanti che vivono il nostro oggi.
Ecco: Dio è vivo in noi, se ci lasciamo sedurre come Pietro, incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, per i quali, dopo il suo incontro, nulla è stato più come prima.
Saremo altrettanto vivi anche noi, se impareremo ad andare con fermezza dietro a Lui; se non ci lasceremo ingannare dalle sirene che ci promettono felicità momentanee, se sapremo perdonare, se capiremo che questa vita ha un valore soprannaturale tutto da scoprire, quel “di più” che è nascosto nelle pieghe della nostra storia.
Questa deve essere la nostra convinzione, questa deve essere la nostra Fede: una fede che diventa possibilità di vivere e produrre bontà, di condividere con gli altri l’attesa di quella vita meravigliosa senza fine, in Lui, nel suo Amore.
Diversamente la nostra non è vita, è sprecare l’esistenza! Per essere Suoi discepoli “dinamici”, dobbiamo andare sempre avanti, nonostante la fatica, nonostante le paure, nonostante le nostre tante debolezze, miserie, incongruenze, certi che Lui sarà sempre lì con noi, pronto a condividere i nostri problemi.
“Dio non è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e con lui”: neppure la morte potrà mai spezzare questa realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di speranza.
Dio non si sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui ci ama veramente.
Avere fede nella resurrezione, significa appoggiarsi alla fedeltà del suo amore, alla Sua fedeltà. Perché Dio è Fedele, sempre. Lui è la mano che ci tiene forte, che non ci lascia, che non ci abbandonerà mai.
Poi, che c’importa conoscere con esattezza in cosa consista la “resurrezione dei morti”? L’importante è sapere con certezza che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore; e che se ora viviamo “con” Lui, continueremo, risorti, a vivere eternamente “in” Lui. Amen.



giovedì 31 ottobre 2019

3 Novembre 2019 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario


“Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura” (Lc 19,1-10).

Gesù sta andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua posizione la città costituiva un punto strategico per l’amministrazione romana; era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell’esercito ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui che Zaccheo incontra Gesù. O è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze, defraudando la povera gente.
Il nome Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona donna”, anche se sembra un pervertito o quant’altro, Dio vede la sua piccola parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non viene mai meno.
Zaccheo dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio: c’è un’insoddisfazione dentro di lui, c’è un tormento, una inquietudine, una irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos’altro; quello che ha, per quanto sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché la felicità non sta nelle cose ma nei valori morali. Le cose sono solo uno strumento per raggiungere quei valori che danno piena serenità e appagamento.
Per questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos’altro. Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo è piccolo: “piccolo” non tanto di statura, ma della percezione interiore che egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora cos’ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più amato: ma non è stato così!
Allora reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato” dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io credo in te Zaccheo; io vedo che in te c’è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto con un po’ d’amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati; taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Ma egli ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto finalmente la via dell’amore.
Ma l’amore è condivisione. L’amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano essere al massimo di sé. L’amore non è dare ma darsi. E Zaccheo si dà, dando tutto ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non hanno nulla o se sono poveri. Per l’amore basta avere un cuore. Ci si converte all’amore non perché l’ha fatto qualche santo, o perché qualcuno ci dice che bisogna fare così, che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, ma morire.
Dio ci cerca: è lui che prende l’iniziativa, che ci ama senza giudicarci. Cerchiamo allora sul serio colui che ci cerca. Smettiamola di giocare a rimpiattino con Dio, lasciamoci raggiungere!
Dio non ci ama per il fatto che siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona continuamente, senza condizioni. Se Egli avesse detto: “Zaccheo, so che sei un ladro: se restituisci il quadruplo di ciò che hai rubato, vengo a casa tua”, credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero!
Dio ci perdona prima ancora del nostro pentimento: è il suo perdono che ci converte.
Ecco: chi vuole seguire Gesù si faccia avanti, scenda dall’albero, si schieri. Non importa chi siamo veramente, né quanta strada abbiamo fatto o che errori portiamo nel cuore. Non importa se guardiamo il passaggio del Maestro per semplice curiosità. Non importa nulla; perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, Lui vuole entrare in casa nostra. Amen!


giovedì 24 ottobre 2019

27 Ottobre 2019 – XXX Domenica del Tempo Ordinario


“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc 18,9-14).

La parabola di oggi ci propone due personaggi, un fariseo e un pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici degli occupanti Romani; erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
Entrambi questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé” in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia: in greco questa forma verbale significa letteralmente “egli prega sé stesso”. Nella sua preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di sé stesso. Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva che veniva devoluta al tempio e ai poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Il “pubblicano”, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Egli era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”. Faceva un mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei particolari.
Il fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucaristia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Egli non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con sé stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Purtroppo, c'è sempre qualcuno che, pensando di essere perfetto, “scaglia per primo la pietra”; sempre! C'è sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
Nella sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà: e gli dispiace sinceramente. Per questo chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Egli riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a sé stesso, non si inganna. Sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che è Dio. Per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e pacificato. 
Di fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far passare qualunque menzogna per verità; possiamo fingere sulla nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra falsa “verità”, nudi e spogli.
È dalla “verità” che sgorga la preghiera vera: quella verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono solo il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma essi non possono vederci dentro, noi lo sappiamo, per questo nascondiamo loro la cruda realtà, ciò che è imperfetto, doloroso, negativo, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati oscuri. Riusciamo a nasconderli così bene anche a noi stessi, che addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi ci convinciamo che non esistano più. Non li vediamo più e quindi pensiamo di essere migliori degli altri: più bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Ecco perché la preghiera non deve essere formale, esteriore; deve invece essere intima, sincera, onesta, vera: pregare è aprire a Dio tutte le stanze della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Lui spanda la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Egli non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme le nostre nefandezze e ci ama comunque, in tutto il nostro squallore. Lui può andare ovunque noi ci rifiutiamo di andare: “pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi ci nascondiamo.
Dobbiamo convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà, dobbiamo distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili: solo così potremo far spazio all’amore di Dio. Perché noi, a ben guardare la realtà, assomigliamo un po' tutti al fariseo. Amen.