giovedì 31 agosto 2017

3 Settembre 2017 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,21-27).
Gesù oggi, per la prima volta, annuncia ai discepoli la sua morte. La sua missione è di cambiare il mondo, di cambiare la religione del suo tempo, di dare al mondo un volto nuovo: ma per fare tutto questo deve andare a Gerusalemme, centro del mondo; deve andare là, anche se conosce perfettamente la situazione che l’attende, anche se sa che il clima in cui deve operare sarà molto diverso rispetto a quello della Galilea, dove attualmente svolge la sua predicazione. Gesù sa che a Gerusalemme il potere religioso è in mano a scribi e farisei, e per loro Lui è un sovversivo, un anarchico, un trasgressivo, uno che deve essere eliminato ad ogni costo.
Così, quando Gesù anticipa ai suoi la possibilità di uno scontro frontale decisivo, duro, mortale, con i suoi nemici, Pietro reagisce e con la sua solita irruenza gli grida: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
E qui decade Pietro, il “beato” di poco prima. Come mai? Guardiamo meglio: Gesù ha deciso di raggiungere la sua destinazione, Gerusalemme. Deve compiere la sua missione: e Pietro che fa? lo “trae in disparte”, lo distoglie, cerca di sviarlo, di chiudergli la strada; in altre parole lo “tenta”; gli dice: “No, non fare così!”. E glielo dice con forza, con rabbia, gridando, come si fa quando si rimprovera uno che sbaglia e che non vuol capire il proprio errore: il verbo greco “epi-timao” significa proprio questo. Praticamente Pietro gli si para davanti, lo affronta, vuol decidere lui la vita di Gesù, vuol dirgli cosa deve o non deve fare; in pratica gli urla in faccia: “Tu non capisci, ti sbagli, non puoi fare così!”. E Gesù: “No, amico, tu sei satana. Vai indietro e non ti permettere di intralciare la mia strada”. Gesù infatti usa qui nei confronti di Pietro le stesse parole con cui aveva cacciato satana, il tentatore del deserto: “Vattene, satana(Mt 4,10). E quel Pietro che poco prima era il discepolo guida, che era il “beato, perché ispirato dal Padre”, qui, improvvisamente, diventa il demonio, il diavolo, satana, il tentatore. 
Esattamente come siamo noi quando ci ostiniamo, quando ci mettiamo contro, quando testardamente facciamo resistenza al piano di Dio. Siamo anche noi altrettanti “satana”.
Ma chi è esattamente questo Satana? Satana nella Bibbia non è mai un nemico di Dio; lo è però continuamente nei confronti dell’uomo. È un ostacolo forte nella strada che l’uomo deve percorrere per andare a Dio: “satana” (l’avversario), oppure il “diavolo” (colui che divide), è un’entità che separa, che spezza, che sconquassa l’uomo: ma attenzione: non è un’entità esterna, separata dall’uomo, autonoma, divisa da noi; non è un’entità altra da noi. Satana, il diavolo, è in noi, siamo noi stessi, è la proiezione della nostra volontà deviata, la nostra “mala manus”!
Certo, il male c’è, la perversione e il diabolico esistono! Sarebbe sciocco negarlo: ma sono realtà che non nascono spontaneamente, di loro iniziativa, autonomamente: esistono perché noi le vogliamo; sono il prodotto del nostro cuore, siamo noi quando non ci evolviamo nell’Amore divino, quando nel nostro cuore non lasciamo spazio a Dio, e veniamo dominati dal buio, dalle tenebre, dall’ignoto; quando i nostri impulsi prendono il sopravvento; quando la rabbia e l’odio ristagnano nell’anima e ci dominano.
Certo, è più semplice per noi pensare all’esistenza di una entità esterna, personalizzata, chiamata “demonio”, su cui scaricare la colpa di tutto ciò che ci capita di male, di tutto quello che non capiamo, di quello che nella nostra vita non riusciamo a spiegarci: è sicuramente molto più comodo che accettare la realtà, che cioè tutti noi, e solo noi, possiamo essere i “satana”, gli artefici del male. 
Dopo dunque aver ridimensionato la figura del povero Pietro, Gesù prosegue: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Un invito perentorio, categorico, le cui parole meritano di essere approfondite. 
Prima di tutto c’è quel “rinneghi se stesso”; letteralmente: “dica di no a se stesso”. Un’espressione che in passato veniva generalmente spiegata con la necessità, per raggiungere la perfezione, di penalizzare se stessi, ignorarsi, spersonalizzarsi, spendersi completamente per gli altri, piuttosto che, più positivamente, coltivare quel personale seme di vita che Dio ha posto in noi: con i risultato che esaudire, ascoltare i bisogni del proprio cuore, promuovere i propri carismi, realizzare i propri sogni, era considerato peccato, un fatto negativo, sicuramente in contrasto con la fedele sequela di Cristo.
Ebbene, niente di tutto ciò: quel rinnegare, quel dire no, va riferito a satana che è in noi, significa, in altre parole, dire “no” a quanto ci divide, ci allontana da Dio; dire “no” a qualunque cosa ci sia d’inciampo sulla strada che abbiamo scelto per seguirlo. E con quanti “no” dobbiamo fare i conti! Con quanti “no” abbiamo dovuto e dobbiamo rispondere ai suggerimenti, alle lusinghe, alle tentazioni del nostro io-satana che ci tormenta in continuazione! 
Questa è la nostra croce: la croce, come dice Gesù, che ognuno deve prendere su di sé. Sì, perché tutti, indistintamente, abbiamo la nostra croce, nessuno escluso. 
Gesù ha avuto la sua di croce, noi abbiamo la nostra. Ma la vera croce di Gesù non è stato tanto il suo patibolo materiale, la morte in croce: questa è stata la “forma” esteriore, gloriosa, di accettarla: ma la sua vera croce, quella che lui ha coraggiosamente portato, è stata quella di essere fedele, lui Dio, alla sua umanità, a se stesso, alla sua missione di uomo-Dio; l’essere cioè fedele al volere del Padre, al Dio che era in lui (Padre, sia fatta la tua volontà).
E questa è anche la nostra croce: l’essere anche noi autentici fedeli al Dio che abbiamo dentro: l’essere fedeli sempre, ogni momento, senza ricorrere a stupidi compromessi; questa è la nostra vera “croce”, una croce pesantissima, poiché è motivo di continui scontri, di dure opposizioni, di rifiuto totale, di odio profondo da parte del mondo. Ci saranno giorni in cui le nostre convinzioni, le nostre scelte, non allineate alle ideologie di massa, ci esporranno alla disapprovazione, allo scherno, al disprezzo, alla commiserazione.
La nostra croce, insomma, come per Gesù, è seguire la volontà del Padre, andare fino in fondo senza mai deflettere, alla nostra vocazione, alla nostra strada, a ciò che Dio-Vita ci chiede singolarmente di vivere. Significa non sottrarci alle inevitabili contrarietà, non cedere alla voce della paura e del compromesso. 
Poi Gesù dice: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. La vita non può essere conservata! Non si può rimanere sempre giovani! Non si può vivere per sempre! Non ci si può garantire contro ogni imprevisto! Non esiste un’assicurazione sulla vita che ci preservi da ogni malanno o contrarietà! Chi vive così, non vive, perché tutto il suo esistere è concentrato a conservare un qualcosa, piuttosto che a sfruttarlo, svilupparlo, goderlo. 
Prima o poi la vita finirà per tutti! È illusione pensare di conservarla! Allora spendiamola, giocamola, investiamola per qualcosa di elevato, di nobile, di meritorio, per qualcosa che sia utile, che sia significativo. Solo così sentiremo che la nostra esistenza ha un senso, il “suo” senso. Che ha prodotto cioè quei frutti per cui ci era stata donata. Altrimenti abbiamo fallito: la nostra vita è stata una vita insulsa, banale, sprecata.
Ironicamente Gesù commenta: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”. Questo è il punto. Ci sono persone che spendono la propria vita per conquistare l’intero mondo, e ci riescono anche, ma non sono felici, non possono esserlo. Perché ciò che dà vera felicità è la Vita della propria anima. Se l’anima (la parte di noi spirituale, divina) vive, si sviluppa, cresce, dà frutto, allora noi viviamo in pace con tutti, siamo soddisfatti, felici, sereni; altrimenti no. Possiamo avere i figli più dotati del mondo, ma se non abbiamo trasmesso loro la nostra anima, la comprensione, la presenza costante, la tenerezza, l’amore e il timore di Dio, il meglio della nostra vita spirituale, alla prima difficoltà li perderemo. Possiamo avere la più elegante e ricca casa del mondo, ma se nella nostra famiglia non c’è comunicazione, non c’è scambio di sentimenti, intensità, coinvolgimento, amore, a che ci serve una reggia faraonica? La nostra persona può godere di fama, prestigio, considerazione, onori, possiamo essere rispettati, acclamati, apprezzati da tutti, ma se dentro di noi, nella nostra anima, ci sentiamo vuoti, senza valore, falliti, depressi, a che ci serve la gloria? Possiamo avere un sacco di soldi, possiamo permetterci cose grandiose, ma se non sentiamo, se non percepiamo la vitalità, l’ebbrezza, la gioia che viene dall’essere fedeli servitori di Dio, riconosciamolo, a che ci serve tutto il resto?
E Gesù conclude: “Poiché il Figlio dell’uomo verrà e renderà a ciascuno secondo le sue azioni”. Alla fine della nostra vita raccoglieremo i frutti che abbiamo seminato. La vita è onesta, leale: ci restituisce sempre quello che le chiediamo: se le chiediamo chiasso, frastuono, spensieratezza, delirio di onnipotenza, poi non chiediamoci perché siamo così ansiosi, stralunati, pieni di nevrosi; una esistenza proiettata esclusivamente all’esterno, non può amare il silenzio, la tranquillità, la quiete, indispensabili per poter parlare con la nostra anima, ascoltare la sua voce. Se non preghiamo mai e non coltiviamo mai i sentimenti del nostro cuore, non chiediamoci perché ci sentiamo così aridi, così inutili. Se non abbiamo mai tempo per stare con i nostri cari, con i nostri figli, se li ignoriamo, se non li ascoltiamo, se le nostre anime non comunicano tra loro, non chiediamoci poi perché li sentiamo così lontani, indifferenti, duri e ribelli. Se siamo chiusi nella nostra mentalità, se non cambiamo mai, se rimaniamo bloccati nelle nostre posizioni, se non ci rinnoviamo aprendoci allo Spirito, non chiediamoci poi perché non siamo capiti dagli altri, perché ci sentiamo “fuori”, perché ci sentiamo vecchi, fuori posto.
Il vero problema, in definitiva, è uno solo: dobbiamo affrontare i nostri demoni interiori, le nostre paure, dobbiamo saper rispondere a tono al nostro satana, dobbiamo puntare i piedi e gridare i nostri “no”: altrimenti è inutile poi, alla resa dei conti, piagnucolare “Signore, Signore”, tendendogli le nostre mani sporche e vuote. Sì, la misericordia divina è senza limiti, il cuore di Dio trabocca d’amore, ma non vi sembra un po’ troppo illusorio e pretenzioso contare unicamente sulla bontà divina, buttandoci alle spalle qualunque richiamo della nostra coscienza, ora che abbiamo ancora il tempo di rimediare? Non vale forse la pena di ascoltarla quella voce di Dio, per saperla almeno riconoscere quel giorno in cui ci chiamerà? Pensiamoci. Amen.



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