giovedì 24 novembre 2016

27 Novembre 2016 – I Domenica di Avvento

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).

Con questa domenica entriamo nel tempo liturgico dell’Avvento: un periodo di quattro settimane che ci conduce al Natale. Ogni settimana, durante la liturgia eucaristica, accenderemo un nuovo cero della tradizionale “corona” d’Avvento; quattro domeniche, quattro ceri. Come a dire: “con questo avvento, preludio della venuta di Dio,il mio cammino di fede verrà progressivamente illuminato dalla Luce di Cristo”. Solo così le quattro candele avranno un senso: se rappresentano il segno dei nostri piccoli passi in avanti sulla difficile via della crescita spirituale. Altrimenti sono solo quattro candele che bruciano e basta.
L’Avvento, in pratica, ci ripropone ogni anno il suo richiamo costante: “Svegliatevi, non permettete che il sonno intorpidisca il vostri passi; andate verso la Luce: soprattutto illuminate quei giorni della vostra vita che ancora ristagnano nel buio, nell’oscurità della lontananza da Dio”.
Per questo vivere l’avvento è difficile: perché aprirsi all’Emmanuele, “al Dio-che-viene”, significa mettere in crisi proprio quelle posizioni che riteniamo fondamentali, e alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Ecco perché il periodo dell’avvento, alla maggioranza dei cristiani, non dice più nulla: è un tempo uguale agli altri, per cui non fanno assolutamente nulla. Aspettano il Natale come una qualunque altra festa: una grande abbuffata, e basta. Non si rendono conto che anch’essi sono figli di Dio, che personalmente in loro Dio ha posto carne, dimora, tenda, casa.
Con la loro indifferenza, con il dubbio, con il cinismo, con il pessimismo, con la banalizzazione della loro vita, praticamente impediscono alla “Luce-che-viene” di entrar dentro di loro; fanno di tutto per evitare qualunque loro coinvolgimento.
Ma veniamo al vangelo di oggi: con la festa di Cristo Re di domenica scorsa, abbiamo concluso l’anno liturgico, che prevedeva la lettura di Luca: oggi, e per tutto il nuovo anno, la liturgia ci propone la meditazione del vangelo di Matteo.
Un Matteo che si pone immediatamente alla nostra attenzione con un testo dall’inizio oscuro, con riferimenti piuttosto difficili da collegare. Per capirne il senso, dobbiamo quindi partire dal versetto che lo precede: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24,36).
Gesù sta parlando della fine della nostra vita: ora, se riguardo alla fine di Gerusalemme, Egli aveva precisato: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada” (Mt 24,34) - e infatti la distruzione di Gerusalemme avviene nel 70 d.C. - riguardo alla fine di ciascuno di noi, al suo incontro personale con Dio, Gesù si rimette al Padre. È quindi inutile pretendere di conoscere quando, come, cosa succederà: nessuno lo può sapere! Punto.
Ci indica soltanto un vago indizio, mediante un termine di paragone: “Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,37).
Ma che avrà mai voluto dire con questo? Cerchiamo di capirlo: prima di tutto Gesù paragona i fenomeni legati alla “sua” venuta salvifica, a quelli dell’intervento salvifico di Dio operato per mezzo di Noè: con Noè, infatti, non ci fu la fine del mondo (visto che il mondo continuò anche dopo Noè) ma un radicale rinnovamento del genere umano, una nuova umanità. Pertanto sia quella avvenuta ai tempi di Noè che quella di Gesù, sono due proposte di salvezza: Noè l’avrebbe concretizzata mediante l’arca, Gesù con l’apertura a tutti del Regno di Dio.
Due “eventi” che si verificano in circostanze analoghe, in presenza di uno stesso stato d’animo: l’indifferenza.
In particolare, al tempo di Noè, tutti vivevano nella superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano, facevano figli, e non si accorgevano di nulla. Tutti vivevano nella falsità, tutti si dicevano bugie, tutti erano interessati a non accorgersi di ciò che accadeva, a non aprire gli occhi: perché aprirli, avrebbe voluto dire “cambiare”.
La gente, ci dice Gesù, non si è accorta di nulla: il momento di incontrare Dio è giunto nel disinteresse generale. È successo allora, è successo al tempo di Gesù, succede anche oggi: l’incontro personale con Dio avverrà per tutti: ma nessuno se ne preoccupa più di tanto, nessuno vuol “vedere” la realtà. Perché se “vediamo” una cosa, se ne prendiamo seriamente atto, se pensiamo alle conseguenze di questo evento inevitabile, allora non possiamo essere più gli stessi: dobbiamo riprogrammare la nostra vita, e questo ci “scoccia”, ci “brucia”, al punto che, dicono molti, è meglio non sapere. Aprire gli occhi è doloroso. Preferiamo vivere nell’illusione, preferiamo ingannare noi stessi. E questo dice quanta falsità regni nell’uomo.
Dio viene per salvarli, ma molti non se ne curano. Preferiscono essere inghiottiti dalla vita, dal piacere, dalle cose passeggere, per poi esclamare: “Che sfortuna! Che destino terribile!”.
Nossignori: non è sfortuna, non è destino: siamo noi che dovevamo pensarci per tempo. Abbiamo preferito dormire; abbiamo preferito vegetare, trastullarci, lasciarci vivere, e poi, al dunque, ci meravigliamo, ci sorprendiamo, ci rammarichiamo: invece no! “dovevi accorgertene prima!”.
Ecco perché Gesù ci invita ad essere svegli, attenti, a non farci prendere dalla routine della vita quotidiana che rischia, oggi come sempre, di soffocare la nostra anima.
Ma possiamo fare anche un’altra considerazione, sempre sul paragone con Noè, fatto da Gesù: chi è questo Noè, e qual è il senso profondo della sua storia?
In ebraico “noah” significa “condurre”. Cosa fa Noè? “Conduce” tutti gli animali in salvo. Ma ciò che noi traduciamo “animali” (zòon), vuol dire “esseri viventi, tutto ciò che vive”. In altre parole Noè salva tutta la “vita” esistente, non la lascia morire. E il senso di salvarne due, una coppia per ogni animale, è quello di far sì che la vita progredisca, si evolva, cresca, si moltiplichi. Ed è interessante: perché dove conduce Noè gli animali? Nell’arca, cioè nella “arché”, in ciò che esiste da sempre, fin da principio.
Cosa significa tutto questo? Cosa vuol farci capire Gesù con questo paragone?
Ciascuno di noi è quell’arca in cui, fin da principio, c’è tanta vita che vuol vivere: il nostro compito è quello di salvarla, di non farla morire, di non permettere che tutta la forza che c’è in noi, giorno dopo giorno, muoia, si spenga, si esaurisca. Nostro compito è quindi di far crescere, far moltiplicare tutto ciò che abbiamo dentro, riempiendo il mondo.
Perché il grande rischio, presi dalla quotidianità, dalle preoccupazioni e soprattutto da mille distrazioni, è quello di “lasciar morire” proprio la parte più vera di noi, la nostra vitalità interiore.
“Morte”, infatti, non è solo uccidere qualcuno, ferire, denigrare o picchiare. Morte è “non essere” ciò che possiamo essere. Morte è non far uscire l’energia, la vitalità, che c’è in noi. Morte è non tirare fuori le nostre doti, le nostre capacità. Morte è vivere a bassa quota, quando invece siamo aquile. Morte è non provare più nulla, essere freddi, non sapersi né entusiasmare né indignare, essere apatici, abulici, senza emozioni. Morte è non sapersi più innamorare per paura di ciò che poi potrebbe succedere, o non credere più nell’amore. Morte è non saper più piangere, ridere o commuoversi, è non saper amare. Alcuni muoiono una volta sola, altri tutti i giorni.
Allora il compito di ciascuno di noi, piccoli Noè, è quello di dare alla luce tutto il potenziale che c’è in noi. Ripeto, siamo aquile, viviamo da aquile. Siamo dei leoni, non accontentiamoci di essere dei gattini. Siamo dei re, non viviamo da sudditi indolenti.
Dobbiamo farlo subito, perché la realizzazione della Buona Novella annunciata da Gesù, un giorno si realizzerà anche per noi: Dio verrà ad incontrarci: ma se nell’attesa continuiamo a dormire, ci coglierà impreparati! Se vogliamo “vedere Dio”, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo vegliare, rimanere desti. Non basta produrre benessere per vedere Dio!
All’inizio della creazione, Dio ha detto: “Crescete e moltiplicatevi”, che noi abbiamo tradotto con: “Fate figli, realizzate i vostri sogni”. Ma possiamo anche porre quel mito della Genesi su di un livello molto più profondo, più intimo. Lo sviluppo, la crescita, cioè, non riguarderebbe solo l’aspetto “quantitativo”, quello esteriore, ma soprattutto quello “qualitativo ”, quello interiore. In altri termini: “Sviluppate la vita che è dentro di voi”, crescete interiormente, rinvigorite la vostra vita spirituale. “Crescere e moltiplicarsi” in tal caso vuol dire evolvere, divenire, sviluppare nuova vita.
Questo era il compito dell’umanità: ma cos’è successo poi? È successo che l’uomo fin da allora si è moltiplicato solo “esteriormente”, nel regno della quantità, giungendo progressivamente fino ai nostri giorni, completamente anestetizzato: mangiare, bere, correre, lavorare; ingolfarsi di prodotti, di esperienze, di relazioni, di scoop, di piaceri frivoli; preoccupandosi solo di moltiplicarsi fuori, senza crescere dentro; ad “avere di più”, piuttosto che ad “essere di più”: tutte cose che lo hanno portato a vivere da morto: una esistenza vissuta nelle tenebre, nella cecità più totale.
Quando poi improvvisamente si trovano a dover fare i conti con i “segni” della venuta di Dio, allora si disperano, accampano scuse, pretendono la “misericordia” divina: ma talvolta è troppo tardi. Perché Dio è sì infinita misericordia, ma è anche infinita giustizia.
Questo ci suggerisce oggi il Vangelo: questo ci propone il tempo di avvento. E se esaminandoci dentro, arriviamo a constatare amaramente: “Mi sento vuoto, non provo nulla; non mi riconosco più!”, allora è arrivato il momento di prendere in mano la nostra vita, e ricominciare tutto da capo.
E concludo: non lasciamoci sorprendere dalle situazioni, perché quando i ladri sono già entrati e ci hanno derubati di tutto, chiudere la porta è troppo tardi. Quando l’uovo è caduto, la frittata è già fatta!
Allora svegliamoci, prendiamoci cura di noi stessi, della nostra anima, non facciamo gli indifferenti, stiamo in guardia, leggiamo attentamente i “segnali” di Dio, interpretiamo correttamente i suoi suggerimenti premonitori. “Vegliare” è saper attendere, è non dormire, perché Dio è “sorpresa”, è fuori da ogni nostro schema; la sua venuta è imprevedibile, incalcolabile, non pianificabile,. Non facciamoci sorprendere, non inganniamo noi stessi, perché prima o poi arriva il momento in cui sarà troppo tardi per qualunque ripensamento, il momento in cui non potremo fare più nulla.
Impariamo da subito a riconoscere la voce della nostra coscienza, accettiamo umilmente la continua offerta di aiuto e di amore da parte del Dio che abita in noi: approfittiamo ora della sua misericordia: è un dono sempre presente, non un diritto finale!

Non perdiamo tempo. All’inizio un fiume è un semplice rigagnolo d’acqua. Fermarlo è facile. Ma fermare un fiume alla foce, è impossibile. Non corriamo il rischio, di fronte a certe situazioni, di dover purtroppo ammettere: “Troppo tardi! Dovevo pensarci prima!”. Buon Avvento! Amen.

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