«Si avvicinarono a Gesù alcuni
sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa
domanda: Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la
moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette
fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese
il secondo e poi il terzo”…» ( c 20,27-38).
La
pagina del vangelo di oggi per noi, per la nostra mentalità, è difficile da
capire, anacronistica, molto lontana dalla nostra cultura e dal nostro
linguaggio. Vediamo di che si tratta.
C’è
ancora una discussione tra Gesù e le autorità religiose: questa volta sono i Sadducei
che la provocano, gente colta, che rappresenta quella parte dell’aristocrazia
sacerdotale razionalista, che non crede nella risurrezione dei morti. Essi
dunque si avvicinano a Gesù non per chiedere un suo parere, ma con lo scopo
evidente di metterlo in difficoltà, di commiserarlo, di prenderlo in giro; come
al solito però sarà sempre Gesù ad avere la meglio, mettendoli in ridicolo per
la loro saccente presunzione e per la loro ottusità.
Il
caso che propongono a Gesù è decisamente artificioso, ridicolo, grottesco. Partono
da una prescrizione della Torah che dice: “Se
una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal cognato per avere una
discendenza” (Dt 25, 5), per prospettare una situazione decisamente
impossibile, assurda, e arrivare a delle conclusioni altrettanto impossibili e assurde.
Tant’è che Gesù neppure risponde alla loro provocazione: coglie al volo, però, il
riferimento alla “risurrezione” dei morti, per cercare di spiegare, anche se in
termini di non immediata comprensione, quello che succederà dopo la morte, nella
vita futura.
Ho
detto volutamente “di non immediata comprensione”, perché alcune espressioni
già in passato sono state oggetto di una errata e superficiale interpretazione.
Ad esempio, quando Gesù dice che: “Quelli
che sono giudicati degni dell’altro mondo e della resurrezione dai morti, non
prendono moglie né marito”; oppure: “Perché
sono uguali agli angeli”: qualcuno ha interpretato queste parole come un velato
disprezzo della sessualità, o che
nell’aldilà saremo tutti asessuati.
Ciò che invece Gesù vuol qui far capire, è che in cielo, nell’altro mondo, ci
sarà un altro modo di stare insieme, un modo non più vincolato dalle leggi del
matrimonio e della nascita terrena, che saranno ormai superate; ma tutti
saranno uniti indissolubilmente da un solo Amore, che assorbirà tutti e tutto nella
sua Unicità: una prospettiva la cui modalità e fattibilità concreta noi non potremo
mai capire; al massimo potremo immaginarla, ma con difficoltà e solo con la
fede.
Gesù dunque
superando la banale questione dei Sadducei, ne approfitta per parlare del
mistero della risurrezione e della vita futura, dando in proposito due risposte.
La
prima di ordine formale: non è possibile servirsi dei nostri attuali criteri razionali
per parlare e spiegare l’aldilà. Tutto quello che diciamo sono solo ipotesi, balbettii,
allusioni, immagini, parabole. I Sadducei utilizzano invece immagini terrene,
limitate e inappropriate, per parlare dell’altro mondo. In genere, ogni
religione quando affronta il problema della destinazione finale dell’uomo dopo la
morte, parla di luoghi incantevoli, di latte e miele, di pascoli erbosi, di luce
splendente, di giardini fioriti, quando va bene; se va male, al contrario, di fuoco,
di tenebre, di tormenti, di angosciose sofferenze. Ma sono solo supposizioni: è
come se un bambino, ancora nel grembo della madre, volesse descrivere il cielo,
il mare, un fiore, la fisionomia delle persone: ma come potrebbe descrivere il
volto del papà o della mamma? Impossibile, non può.
Succede
la stessa cosa anche a noi quando pensiamo l’aldilà. Abbiamo solo dei
presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, che possiamo cogliere
dall’osservazione della natura, che possiamo trarre dai nostri sentimenti,
dalla nostra fantasia: l’alternarsi delle stagioni con fiori e piante che
muoiono e rinascono; il seme piantato che “muore” per rinascere, crescere, e
dare frutto; il sentimento dell’amore vero che ci estasia, che ci fa toccare il
cielo, che ci unisce in maniera indissolubile; sono tutte semplici “trasposizioni”
logiche che, quando oggi “balbettiamo” di aldilà, ci offrono un’idea, vaga e
imprecisa, di cosa potrebbe significare “risurrezione, rapporto con Dio, paradiso,
vita beata”: ma sappiamo per fede che la vita in Dio, l’Amore eterno, sarà un’esperienza
completamente diversa, sarà un’altra cosa, indescrivibile, talmente sublime da
farci cadere in deliquio.
Di
concreto non possiamo dire nulla, non possiamo descrivere nulla, non abbiamo
alcuna certezza. Anche se noi credenti una certezza ce l’abbiamo, da sempre; una
certezza su cui non possiamo assolutamente dubitare: di essere cioè figli di
Dio. E questo dovrebbe bastarci. Perché se arriviamo a capire sul serio che siamo
figli dell’Altissimo, non avremo più alcun motivo per preoccuparci di alcunché.
Siamo figli della risurrezione: la morte futura non può farci paura. Viviamo allora
serenamente, con fede, con fiducia, questa verità sacrosanta.
La
seconda risposta è di ordine concettuale: c’è un aldilà e Gesù lo fonda sul
rapporto di amicizia che l’uomo, durante la sua vita terrena ha stabilito con Lui.
Dice: “Dio non è un Dio dei morti, ma dei
vivi” e poi ancora: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco
e Dio di Giacobbe”. I Patriarchi che Gesù qui ricorda, sono state persone
che nella loro vita hanno amato e servito Dio: sono state creature amiche di
Dio, “vive”, fedeli a Lui. Con queste persone, e con tutta la loro discendenza,
con tutta l’umanità grazie a loro, Dio ha stabilito un legame indissolubile di
amicizia, di amore, di speranza. E poiché Dio è fedele, noi dobbiamo credere a
questa promessa, è sulla certezza di questa Sua fedeltà che dobbiamo poggiare
la nostra fede nella “risurrezione”. Chi si appoggia a Lui è come un ramo su
una pianta: anche se non porta frutto, anche se la linfa non scorre più in
esso, anche muore, non può separarsi, non può staccarsi di sua iniziativa da
quel tronco che l’ha originato. Fidiamoci. Come un amico si appoggia ad un
altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo alla mamma, così noi dobbiamo appoggiarci
a Dio. Perché Dio è colui che non abbandona le sue creature.
Ogni
giorno sperimentiamo questa Sua fedeltà: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo
un po’ da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo ciò che ci propone,
anche se a volte gli siamo infedeli e lo tradiamo (che poi non facciamo nient’altro
che tradire noi stessi), Lui rimane con noi, Lui è sempre presente. Lui è roccia
(in ebraico hesed=amore fedele): Lui
è granito; Lui è la mano che non si stanca di sorreggerci, che non se ne va,
che ci tiene forte.
Non sappiamo
con esattezza cosa voglia dire “Risorto”: sappiamo però che Lui è Vita, è Amicizia,
è Amore, è Colui che non ci abbandona mai, qualunque cosa succeda: e questo ci deve
bastare. Dobbiamo solo affidarci a Lui, consapevoli che con Lui non cadremo nel
buio, nel vuoto. Se la nostra vita poggia su di Lui, durerà per sempre, perché
Dio è eterno e offre ai suoi figli solo amicizia eterna.
Se noi
in questo cammino terreno abbiamo riconosciuto Dio, l’abbiamo fatto diventare
centro della nostra vita, se lo abbiamo amato,nonostante le nostre fragilità, non
abbiamo alcun motivo di temere: il nostro incontro con Lui, alla fine del
nostro percorso, sarà l’incontro tra due che si amano.
Ma se
Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, se lo abbiamo relegato tra le cose
inutili, se nella nostra esistenza lo abbiamo ignorato, contrastato,
oltraggiato, vilipeso, allora sì che dovremo avere paura!
Ecco
perché la morte, con quello che lo aspetta nell’aldilà, costituiscono per l’uomo
l’incognita più tragica e angosciante. Ma ciò non deve meravigliarci: risponde
al suo bisogno naturale di voler sapere, di avere il controllo su tutto, di essere
sempre lui a gestire qualunque situazione. Gesù al contrario oggi ci chiede di
abbandonare queste fantasie, questa innata presunzione; ci chiede semplicemente
di aver fiducia; ci chiede di fidarci di Lui. “Perché?”, chiediamo. Perche “Ti
amo”, risponde Lui: “Osserva attentamente la tua vita, e vedrai quanto ti ho
amato e quanto continuo ad amarti. E se ti amo così intensamente, come potrei abbandonarti?
Fidati di me!”.
Giusto:
solo che la fiducia, quella sincera, quella totale, esige confidenza, adesione,
amore. Soprattutto amore: perché è soprattutto l’amore che ci spinge, che
determina il nostro fidarci, il nostro andare avanti con sicurezza: e questo,
credetemi, non perché già conosciamo dove andremo, cosa faremo, come saremo; ma
solo perché conosciamo bene, perché ci fidiamo ciecamente di Colui che ci guida.
Una
sera di tanti anni fa, alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di
fidarmi e di lasciarmi condurre. Non era il mio compleanno, non c’erano motivi
particolari per questa sceneggiata. Non mi fidavo molto; anzi, poiché non
capivo il senso della cosa, avevo paura di qualche brutta sorpresa, facevo un
sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non
avevo la più pallida idea di come sarebbe finita. Quando mi tolsero la benda, meraviglia:
c’era una grande tavola imbandita con tutti i miei amici più cari seduti intorno.
Volevano solo festeggiare con me i decenni trascorsi insieme in grande e
sincera amicizia. È stato emozionante.
Ebbene,
questo rappresenta un po’ quella che è la nostra vita attuale; quello che succederà
a noi quando andremo di là: avremo tanta paura nell’andare, ma poi una visione
incantevole ci apparirà. Sarà una festa decisamente diversa da come la possiamo
immaginare ora: inutile pensarci; inutile cercare di farci delle idee a modo
nostro; inutile voler sapere ad ogni costo i particolari. Sarà un tripudio d’amore.
Punto!
Noi siamo
come i bambini: sono traumatizzati dal dover nascere, non sanno che quel
passaggio così difficile è la loro unica salvezza, è l’inizio di una vita stupenda,
una meravigliosa avventura tra le braccia accoglienti, calde, protettive e
amorevoli della madre.
Allora
anche a noi tutto sarà chiaro, tutto sarà compiuto, tutto il dopo sarà in
pienezza.
La
nostra vita è un seme che già contiene l’albero eterno dell’Amore. Nessuno di
noi, dalla nostra attuale prospettiva, può dire come realmente sarà: ci deve bastare
l’idea che sarà totale fecondità, frutti dolcissimi, sviluppo armonioso, amore
senza fine.
Tante persone
sono convinte che il risultato finale, l’inferno o il paradiso, sia solo una
questione di fortuna, un po’ come giocare al lotto: sperano soltanto che vada
bene, perché può capitare questo o quello. Nossignori. L’inferno o il paradiso
non capitano a caso: ce li costruiamo noi. L’inferno o il paradiso ce li
scegliamo noi; la scelta è solo nelle nostre mani: quando andremo di là, Dio
non farà nient’altro che confermare quella nostra scelta.
Scegliamo
la vita, allora, amici! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l’amore! Amen.
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