giovedì 28 luglio 2016

31 Luglio 2016 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc 12,13-21).

Gesù sta parlando a migliaia di persone. Dice che chi lo seguirà sarà rinnegato dal mondo, disprezzato, portato di fronte ai tribunali, ma di non aver paura “perché anche i capelli del vostro capo sono tutti contati” (Lc 12,7.9). Gesù sta parlando di cose profonde, della natura della vita, dell’ essenza del vivere.
E cosa succede? Improvvisamente un tale se ne esce con una domanda su un suo problema privato, personale, specifico. Tanto da far pensare: “Ma questo sta veramente ascoltando Gesù o sta rimuginando sugli affari suoi?”. Certo doveva essere completamente concentrato su se stesso se, nel bel mezzo di quelle profonde parole di vita, di fronte a migliaia di persone, interrompe Gesù per porgli una questione tanto banale e privata: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”.
È chiaro che quello che gli sta a cuore non sono certo le parole di Gesù, ma le sue proprietà, in particolare quella parte di raccolto con cui avrebbe colmato i suoi magazzini, e che suo fratello, evidentemente, non vuole cedergli. La sua unica preoccupazione è dunque trovare un modo per rientrare in possesso dei suoi beni.
Gesù è una persona importante, la sua autorità di fronte alla gente è indiscussa: in pratica il tizio sta cercando di “appropriarsi” di Gesù, di portarlo dalla sua parte, di sfruttare il peso della sua persuasione; in pratica gli mette già in bocca la risposta: “Mio fratello sta commettendo un’ingiustizia, come puoi non darmi ragione Gesù!?”.
Ma Gesù gli legge dentro: “Amico, tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché ne sei avido, perché invidi chi li ha, perché li desideri con tutto il tuo cuore. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, per i tuoi interessi”.
Non gli dice: “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Ma: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che confidano solo nelle ricchezze perderanno la vita, perderanno l’anima, perderanno la parte feconda, creativa, vera della loro vita”.
Gesù va oltre la divisione tra giusto/sbagliato e dice: “Tutti quelli che vivono così, moriranno così”. Perché se uno è preoccupato esclusivamente di accrescere il suo benessere materiale, esteriore, se uno si lascia dominare dall’ansia continua del “di più” (più di immagine, di potere, di fama, di ricchezza), ovviamente non farà altro che trascurare la sua vita interiore, l’anima, le relazioni, il regno di Dio. È inevitabile!
Quante volte sarà capitato anche a noi, in certi momenti della vita, pregando magari per nobili motivi, di chiedere a Dio di far crescere il nostro “magazzino” di potere, di successo, di ammirazione!
Ebbene: con questa parabola Gesù vuol riportarci, anche se bruscamente, alla realtà della vita.
Le sue parole sono così perentorie e drastiche da sembrare, più che un insegnamento, una maledizione: “Tu hai fatto di tutto per accumulare così tanto, ed io ti tolgo tutto”. Sembra quasi che Dio voglia farci un dispetto, che se la rida dei “ricchi”, che li prenda in giro aspettando il momento giusto per privarli di tutto: ma non è questo il messaggio della parabola.
È piuttosto l’amara constatazione di ciò che inevitabilmente accadrà a tutti quelli che sprecano la loro vita rincorrendo unicamente le ricchezze materiali, a tutti quelli che non si arricchiscono di Dio, a tutti quelli che non pensano per nulla alla loro anima, ma preferiscono proiettarsi unicamente sui loro “magazzini strapieni”, sul possedere, sul riempirsi di cose frivole e caduche; in pratica Gesù ci dice: “Fate attenzione, perché chi vive così, finirà così, senza nulla in mano, non dimenticatelo!”.
Spesso ci lamentiamo che in questa società non c’è più amore, che in questo mondo non ci si capisce più nulla, che i giovani sono intrattabili, ribelli, nevrotici, infelici; ma cosa pretendiamo di diverso? Cosa pensavamo succedesse in un mondo completamente materializzato, laicizzato, in cui nessuno più si prende cura dei valori morali, dell’anima, del mondo interiore, del soprannaturale? In un mondo in cui noi stessi, che ci professiamo cattolici osservanti, assistiamo passivamente alla deriva della nostra religione, delle nostre tradizioni, dei nostri principi; in cui pensiamo sempre a tutt’altro, in cui giriamo sistematicamente la testa altrove, concentrandoci esclusivamente nei nostri minuscoli interessi materiali?
L’uomo della parabola non ha nome come, quasi sempre, i ricchi del vangelo. Il “ricco”, nel vangelo, non ha un nome; è anonimo, perché ha perso la sua identità, la sua personalità, il suo carattere. Non ha più un nome perché si è autoescluso dal reale, ha spostato ogni suo interesse dal mondo interiore, spirituale, dell’anima, del regno di Dio dentro di lui, al mondo esteriore, al “fuori di sé”, alle ricchezze, al benessere, a tutto ciò che ancora non possiede, e che forse non potrà mai possedere, ma che comunque vuole ad ogni costo.
In questa affannosa ricerca egli ha perso l’unica cosa preziosa che aveva: se stesso, il suo tesoro, la sua vera ricchezza. Gesù dice: “A che serve guadagnare il mondo intero se poi si perde la propria anima (psiché)?”. Già, a che serve conquistare il mondo, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra creatività, la nostra voglia di vivere; se perdiamo chi amiamo; se perdiamo le cose più belle della vita, come l’infanzia e la crescita dei nostri figli, l’amore di nostra moglie o di nostro marito, la forza consolante di una sincera amicizia?
È questo senso di terribile “irrealtà” che tormenta l’uomo del vangelo. Il suo rapporto spazio-tempo è completamente sfasato. Parla sempre al futuro: “Farò, demolirò, costruirò, raccoglierò”. Ignora il presente, ha perduto completamente il concetto di “limite temporale”, pensa solo in termini di “eternità”. Ma dove vive? Non sa che tutto finisce, che tutto passa, che tutto ha sì un inizio, ma anche e soprattutto una fine?
Tutto passa. Nessuno di noi è eterno. Ciò che è andato è andato per sempre e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato a suo tempo, non lo potremo gustare mai più. Quante persone per prendere delle decisioni sulla loro vita aspettano la pensione, aspettano che i figli crescano e diventino grandi, aspettano di essere “liberi”, senza altre preoccupazioni: attenzione, perché molto spesso, questo rimandare, significa “mai”.
Se non gustiamo, se non assaporiamo oggi, se non siamo capaci di farlo oggi, ora, chi ci dice che potremo farlo domani?
La vita non è domani, è ora. Un celebre giornalista, stroncato all’apice della sua carriera da una grave forma tumorale, prima di morire scrisse: “Volete far ridere Dio? Parlategli dei vostri progetti futuri!”.
Se da un lato l’uomo del vangelo ignora volutamente il fattore “tempo”, dall’altro dimostra invece di essere completamente preso dal fattore “spazio”: la sua unica preoccupazione è quella di ampliarsi sempre più, ingrandirsi, costruire nuovi granai, più capienti, per poterne trarre maggiori ricchezze.
Ma farsi case sempre più grandi, avere sempre più soldi, proprietà sempre più vaste, è assolutamente irrilevante per l’anima: vuol dire che si cerca la grandiosità esteriore, per riempire il nostro vuoto, il nostro nulla interiore! Costruiamo fuori, perché dentro non abbiamo realizzato nulla; cresciamo fuori perché dentro non siamo mai nati; continuiamo ad allargarci fuori per bilanciare la nostra limitatezza interiore.
La vita per molte persone è una continua, ininterrotta frustrazione, poiché condizionano la loro felicità non sull’essere ma sull’avere; sono convinte cioè che solo ottenendo un qualcosa, saranno felici: per questo lottano, combattono, spendono tutto il loro tempo. Salvo poi constatare che proprio quelle cose tanto desiderate, una volta conquistate, perdono ogni valore, ogni attrattiva, non bastano più; non sanno più che farsene, vengono subito attratti da altre cose, secondo loro ben più grandi, più spaziose, più importanti, più appetibili.
È inutile illuderci pensando che, raggiunti i nostri traguardi (soldi, posizione sociale, ammirazione della gente), saremo finalmente felici. Saremmo dei fuori di testa, dei completamente “out”. Perché la realtà è un’altra, completamente diversa: l’unica ricchezza da conquistare, l’unico tesoro che conserverà sempre il suo valore, siamo solo noi stessi, la nostra anima. Niente e nessuno, oltre noi, potrà farci sentire importanti, se non siamo noi stessi a sentirci importanti; nulla potrà farci sentire sicuri, se non siamo noi a sentirci tali; nessun amore potrà farci sentire amabili se non siamo noi ad amarci per primi; nessun Dio potrà farci sentire vivi, se non riusciamo a vivere noi ciò che siamo”. Questa è la differenza sostanziale tra chi continua ad accumulare tesori esteriori, e chi invece raccoglie ricchezze interiori, davanti a Dio: perché il nostro unico tesoro è Lui che vive in noi, nel nostro cuore, nella nostra anima.
Questo vangelo ci interroga pertanto, e a ragion veduta, sul nostro rapporto con i soldi.
La saggezza popolare diceva una volta che i soldi “sono lo sterco del demonio”. Ma, sterco o non sterco, gran parte della gente vive purtroppo solo per i soldi.
Va detto che il denaro in sé non è né buono né cattivo: ma è il mezzo con cui noi dimostriamo di percepire la realtà: il denaro altro non è che la “materializzazione” dei nostri valori, la dimostrazione di quello in cui crediamo sul serio, con il conseguente svilimento di tutto ciò che possediamo “dentro”, in profondità.
Molte persone che da piccole non sono state amate, che hanno sofferto molto della mancanza o della scarsità d’amore, una volta cresciute pensano di poterlo comprare con il denaro. Ma nessuna somma di denaro ci garantisce l’amore oggi, né ci ripaga per la sua mancanza di ieri.
Il denaro è solo un surrogato dell’amore: essere ricchi, importanti, potenti, essere famosi, può anche convincere gli altri, quelli che ci ammirano, giammai però noi stessi; influisce sicuramente sul nostro “apparire”, sull’immagine che gli altri possono farsi di noi, ma non cambia di una virgola ciò che noi siamo realmente. Potremo avere tutti i soldi di questo mondo, ma per assicurarci la felicità, la serenità interiore, non saranno mai sufficienti, non basteranno mai, perché non è il denaro a farci felici ma l’amore vero. È solo l’amore, l’amare e il sentirsi amato, che riesce a soddisfare pienamente l’uomo.
Molte persone si gettano a capofitto nel possedere, nell’avere, nel raggiungere obiettivi economici, perché si sentono insicure dentro, avvertono distintamente il continuo riemergere del loro vuoto interiore. Sono convinte di poter coprire col denaro l’angoscia della morte, i segni ineluttabili del tempo che passa, di una vita che inesorabilmente declina. Si affidano ai soldi per non invecchiare: cure cosmetiche, lifting, gioielli, vestiti; con il denaro, con la notorietà, cercano in qualche modo di proteggersi dalla paura di venire dimenticati, di non essere più “nessuno”, di dover morire. Ma non è il denaro che toglie l’angoscia della fine, bensì una vita sensata, una vita vera, piena, morigerata, nella fiducia in Dio.
E concludo. Usiamo i soldi, ma non facciamoci mai usare dai soldi. Tutte le ricchezze che abbiamo non potranno mai restituirci la dignità interiore una volta che l’abbiamo “barattata” per la gloria, per una inottenibile immortalità.
“Rabbì, cosa pensi del denaro?”, chiese un giovane monaco al suo maestro. “Guarda dalla finestra”, disse il maestro. “Cosa vedi?”. “Vedo una donna con un bambino, una carrozza trainata da due cavalli e un contadino che va al mercato”. “Bene. Adesso guarda allo specchio: cosa vedi?”. “Beh, vedo me stesso, naturalmente”. “È vero. Ora pensa: la finestra è fatta di vetro, esattamente come lo specchio. Ma se sul vetro metti anche solo un sottilissimo strato di costoso argento, allora vedi solo te stesso!”.
Questo purtroppo è l’effetto del denaro: fa vedere solo noi stessi! Amen.




mercoledì 20 luglio 2016

24 Luglio 2016 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando pregate dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11,1-13).

Gesù, nel vangelo di oggi, ci insegna come dobbiamo pregare. Il testo del “Padre Nostro” nella versione di Luca, è più breve rispetto a quella di Matteo, e quindi, come dicono gli studiosi, con ogni probabilità, è anche quella più vicina all’originale. Era più naturale infatti, per le prime comunità cristiane, aggiungere parole e concetti esplicativi ad un testo iniziale breve, piuttosto che accorciarne uno successivo più lungo.
Qui Gesù spiega ai discepoli non solo il motivo per cui devono pregare, ma soprattutto con quali parole e con quale disposizione d’animo, devono farlo.
«Quando pregate dite: Padre».
“Padre” è una parola che per noi, abituati all’immagine umana del nostro genitore, potrebbe anche trarci in inganno: non sempre infatti la figura del padre è positiva, sinonimo di amore per i figli. Ma noi non dobbiamo proiettare su Dio le nostre esperienze, le immagini della nostra fragilità. Dio è Padre alla maniera di Dio, Egli è un “Padre” il cui amore va decisamente oltre i limiti della nostra comprensione.
Un giorno un bambino chiese alla madre: “Mamma chi è Dio?”. Allora la madre lo prese, lo strinse forte tra le sue braccia e gli disse: “Cosa senti?”. “Sento che mi vuoi tanto bene”. E la mamma: “Questo è Dio, figlio mio!”.
Dio è Padre così. Finché non faremo questa esperienza di amore totale, finché non avremo più alcuna paura di abbandonarci completamente a Lui, finché non proveremo la sensazione di libertà infinita, di massima accoglienza, di estrema sicurezza tra le sue braccia, noi saremo ancora nell’anticamera di Dio.
È Gesù che ci ha parlato di Dio come di un Padre. Come? “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Il credente, colui che vuol seguire Gesù, non è uno che si limita a osservare le leggi, che ubbidisce e basta, che non “sgarra mai”: è uno che cerca soprattutto di amare come ama Lui, con il suo stesso amore.
Quella che Gesù ci propone è un’immagine di Dio tutta nuova: a Dio infatti non interessa tanto fare il giudice inflessibile, pronto a penalizzare quelli che sbagliano, ma: “Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,35); ama cioè tutti, usa misericordia a tutti, vuole la vita per tutti! Non a caso, come abbiamo visto, ci propone come modello di credente un samaritano, un eretico, un lontano, un maledetto; perché solo lui ha misericordia, solo lui si ferma e si prende cura dell’uomo moribondo, mentre i religiosi, i puri, gli osservanti, come il sacerdote e il levita, tirano dritto. Gesù non vuole osservanza (sacerdote e levita) ma che l’amore che Lui nutre per noi (un amore che dobbiamo sentire, percepire, accettare) si dilati e si espanda a tutta l’umanità: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Per la religione di quel tempo, Dio doveva essere temuto e “servito”. Dio era il Re, l’uomo era il servo che gli ubbidiva con preghiere, digiuni, penitenze, una retta condotta e una totale sottomissione alla sua volontà,.
Ma con Gesù tutto è cambiato; Dio non vuole più essere servito, è Lui che ci serve. Esattamente come ha fatto nell’Ultima Cena, quando si e messo a servire i discepoli e a lavare loro i piedi. “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27:).
Se la religione ci dice ciò che l’uomo deve fare per Dio (preghiere, fioretti, digiuni, cerimonie, ecc.) il vangelo, la “buona notizia”, ci dice ciò che Dio fa spontaneamente per l’uomo: lo ama aldilà di tutto e di ogni cosa.
San Paolo si esprime in proposito in modo meraviglioso: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15).
Quindi qualunque sia la nostra situazione, la nostra povertà, il nostro disagio, il nostro peccato, la nostra morte, la nostra vergogna, ricordiamoci sempre che siamo figli di Dio: rivolgiamoci a Lui... e mai, assolutamente mai, Lui ci respingerà.
«Sia santificato il tuo nome».
Molte persone, quando leggono questa frase, pensano alle bestemmie, al parlar male, all’usare in malo modo il nome di Dio. Ma noi non “santifichiamo il nome di Dio”, ossia già lo “bestemmiamo”, vivendo al di sotto delle nostre possibilità; bestemmiamo Dio quando ci lasciamo vivere, quando per paura, per dipendenza o per attaccamento alle cose di questo mondo, smarriamo il nostro cammino; noi bestemmiamo Dio quando i nostri occhi non colgono la sua presenza in mezzo a noi. Le vite di molte persone sono una bestemmia a Dio perché sono costruite senza amore, senza fondamenta, perché così come sono rinnegano la Vita, perché sono inutili, futili, superficiali e banali. Allora possiamo anche confessarci di aver pronunciato bestemmie e parolacce nei confronti di Dio, ma dobbiamo soprattutto chiedere perdono e convertirci, quando con la nostra vita rinneghiamo la grandezza, la meraviglia, lo stupore che Dio ha riposto in noi. Ogni volta che viviamo al di sotto delle nostre possibilità, della nostra grandezza, noi non santifichiamo Dio, bestemmiamo colui che ci ha creato grandi.
Qadosh (q-d-sh), “santo” in ebraico, indica anche “la cruna di un ago (q), l’ingresso, la porta (d) nella santa montagna di Dio (sh)”. Cos’è un ago nei confronti di una montagna? Nulla. Ebbene, ciò è quanto sappiamo di Dio. Allora: “Non limitiamo Dio alla nostra mente”. Dio è più grande, Dio è oltre, Dio è un’esperienza che non finiremo mai di scoprire, di capire, di conoscere, di sperimentare, e per quanto ci sforziamo di fare, Egli sarà sempre oltre, ci stupirà sempre, ci sbalordirà in ogni caso”. Questo è il mistero di Dio.
Gli Ebrei non pronunciavano mai il nome “Jahwèh” per dire Dio, ma dicevano sempre “Adonai”. Come a dire: “Dio non lo si può pronunciare perché nessuno lo conosce, nessuno sa chi è, nessuno possiede il suo nome: Egli è l’impensabile, l’impronunciabile, il terribile”.
Noi invece parliamo liberamente di Dio: ci sentiamo toccati dal suo amore e abbiamo bisogno di esprimere ciò che pensiamo di Lui; cerchiamo di manifestare all’esterno ciò che con Lui viviamo all’interno, nel nostro cuore, nella nostra anima. Quando parliamo di Lui parliamo sempre della nostra esperienza di Lui, mai di Lui, perché Dio è, anche per noi, l’in-definito, l’in-finito, cioè colui che sta sempre oltre i nostri limiti.
Bestemmia Dio quando la gente arriva a conoscere la “cruna di un ago” e dice: “Questo è Dio”. Bestemmia Dio, quando usa Dio per scopi politici, per rappresaglie, per interessi religiosi, per fare seguaci, per legare a sé le persone, per sottometterle a qualche autorità, riducendolo a qualche pratica religiosa. Di fronte a Lui tutti dobbiamo solo inchinarci e fare silenzio: perché Lui è Santo, è Altro, è Oltre.
«Venga il tuo regno: si realizzi, si compia, in me ciò che tu vuoi».
In tutte le culture c’è il desiderio di un regno di pace, di giustizia, di verità.
Anche nell’Antico Testamento c’era questa speranza. Dapprima il popolo la pose su di un re che avrebbe eseguito, applicato, manifestato la giustizia di Dio. Ma nessun re era così! Poi si affidò ai sacerdoti e al culto del tempio, ma il culto, senza la conversione del cuore, è stato inefficace. Quindi si pose in attesa di un intervento diretto di Dio (apocalissi). Una piccola parte, una minoranza, voleva instaurare questo regno con la forza (gli zeloti) o con la fedele osservanza delle leggi (i farisei). Poi venne Gesù che non disse più: “Il regno verrà!”, ma: “Il regno è vicino” (Mc 1,15). È vicino a noi, perché il regno è la possibilità che abbiamo di instaurare la signoria di Dio in noi stessi. Noi soli possiamo trasformare questa possibilità in realtà, possiamo permettere al regno di realizzarsi, di accadere: rendendolo manifesto con la nostra vita, con le nostre scelte, con i nostri pensieri. Altrimenti, pur essendo una possibilità reale, vicina, a portata di mano, rimane non realizzata.
Quando ci impegniamo a far diventare la nostra vita più vera, il regno di Dio avviene in noi. Quando il nostro amore diventa meno possessivo e condizionante, quando diventiamo più aperti e meno giudicanti, il regno avviene in noi. Quando nel nostro ambiente lottiamo contro l’ingiustizia, quando alziamo la voce di fronte alle ipocrisie, quando non permettiamo agli altri di umiliarci e di umiliare, allora il regno avviene in noi. Quando ci esponiamo, quando non ci tiriamo indietro di fronte alle sfide, ai conflitti, al male che ci si oppone, quando mettiamo in gioco la nostra vita per la solidarietà, la comunione, la verità, il regno avviene in noi.
Ogni volta che noi preghiamo “venga il tuo regno” stiamo chiedendo a Dio che faccia di noi il suo strumento, che ciò che Lui vuole, si realizzi attraverso di noi.
«Dacci ogni giorno il pane quotidiano».
Gesù dovette usare l’espressione “lehem huqi” che vuol dire il “pane che costruisce”. Questa espressione, in greco “epiousion”, in latino “super-substantialem”, “sopra la sostanza”, si riferisce a qualcosa che comprende ma che va ben oltre la formula “pane quotidiano”, che è piuttosto riduttiva.
L’idea di nutrimento in ebraico (hatrifeni) contiene l’idea di “conquista”, di trofeo, di qualcosa che raggiungi mangiando (non a caso in greco tropheuein, “conquistare”, vuol dire anche “nutrire”).
Allora: ciò che mangiamo ci nutre, ci costruisce, ci realizza. Come il cibo naturale (pane, pizza, verdura, frutta...) ci costruisce, ci fa vivere o ci intossica, diventa noi stessi (noi diventiamo ciò che mangiamo e ciò che mangiamo diventa noi) così ciò “di cui ci nutriamo” ogni giorno, ci costruisce, ci realizza, ci forma o ci de-forma.
“Mangiare” esperienze positive, momenti di preghiera, stare con persone positive, che ammettono i propri errori, vivere in ambienti mentalmente aperti e affettivamente ricchi, essere in movimento e in cambiamento, perdonare, cambiare, è un “cibo” che, giorno dopo giorno, ci costruisce e ci forma. Andare a messa ogni domenica, partecipare a liturgie ricche di vita, piene di Dio, nel tempo ci costruisce, ci alimenta, delinea la nostra fisionomia.
“Mangiare” invece esperienze negative, rimanere con famigliari, amici, colleghi in ambienti di chiusura, di odio, di rancore, di soffocamento; non perdonare, vivere stressati senza darci occasioni di silenzio, di pace, di gioco, d’amore; essere sempre rigidi, controllati e prevenuti; vivere maledicendo o con persone che maledicono sempre, ci “demolisce”, ci deforma, ci smantella.
Ecco allora che la scelta più importante della nostra vita, è quella di mantenere coscientemente il “cibo” che ci costruisce, che ci fa bene, ed eliminare quello “guasto”, quello che ci fa male.
Quando scopriamo che in frigo un cibo è avariato, lo gettiamo via, è ovvio: ora, se lo facciamo per la salute del corpo, perché non farlo anche per la salute della nostra anima? Se un cibo ci fa male, non si mangia, punto! Eppure noi continuiamo a nutrire la nostra anima di robaccia, di cibi avariati, vecchi, malsani. Anche se sappiamo benissimo che diventeremo ciò di cui ci nutriamo: all’inizio la differenza sembra un nulla, ma nel tempo sarà chilometrica.
“Quotidiano” (epiousion-supersubstantalem) non indica qui di certo il pane quotidiano del fornaio. È il pane sostanzioso, il pane vero, quello che sfama l’anima, quello “sopra la sostanza”. Ogni giorno noi abbiamo bisogno del pane dell’anima: un po’ di silenzio, un dialogo profondo con noi, su di noi, sulla nostra vita, su Dio, sull’anima; una parola, una lettura che ci insegni qualcosa, che ci faccia riflettere, il contatto con la natura, un abbraccio dove poterci sentire “contenuti”, amati; uno sguardo che non ci giudichi, che ci entri dentro l’anima e che non si vergogni di noi, un po’di preghiera con cui sentirci a casa, al sicuro, tra le Sue braccia, ascoltare il canto dell’anima, concentrarci sul nostro respiro per sentire la vita che vibra in noi, chiudere i conti in sospeso, dire ciò che dobbiamo dire, concentrarci sulla nostra strada, sul nostro motivo di vita. Ogni giorno: la felicità, la pienezza, la sazietà della vita dipende da questo nostro coraggio, da questa nostra disciplina quotidiana.
Noi infatti possiamo pian piano plasmare la nostra vita, nutrirla, darle la forma che desideriamo. Non è vero che siamo in balia degli altri, della società, del mondo. Dobbiamo smetterla di dire che è difficile, che non si può, che la società non aiuta. Tocca solo a noi scegliere ciò che deve nutrirci. Non scegliere, è già una scelta!
Non è vero che una cosa vale l’altra: una donna non vale l’altra; avere per amico una persona o un’altra non è la stessa cosa; non vale per il cibo materiale, figuriamoci per quello spirituale. Se per l’igiene quotidiana stiamo attenti a scegliere lo shampoo, il bagnoschiuma, il dentifricio solo di una determinata marca e non di altre, perché non dovremmo farlo anche per l’ “igiene” della nostra anima? Sarà ben più importante, che ne dite? Non prendiamo mai dagli scaffali della vita la prima cosa che ci capita davanti, ciò che abbiamo sottomano; non prendiamo mai una cosa solo perché ci sta di fronte, ma decidiamo, scegliamo noi quella che fa bene alla nostra anima. Siamo noi che decidiamo come costruire la nostra vita, noi ne siamo gli artefici, i protagonisti, i creatori, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta; siamo noi che dobbiamo dire “sì” ad un nutrimento e “no” ad un altro.
Il nostro “pane”, lehem, se invertiamo le lettere, diventa meleh, “sale, saggezza”: la nostra “saggezza” deve essere pertanto il nutrimento di ogni giorno, il mattone con cui costruire la nostra vita, quel pane substantialem che ci rende fecondi, “salati”, gustosi, pieni di senso e di significato, penetranti nel mistero della vita, di Dio e dell’universo.
«E condona (afiemi ) i nostri peccati…»
Il “pane” (lehem: l-h-m) e la “saggezza” (meleh: m-l-h), sono anche “perdono”, (mahol: m-h-l).
Il perdono è quindi anch’esso il pane di ogni giorno, è ciò di cui ogni giorno dobbiamo nutrirci per alimentarci, perché le nostre energie siano libere e vitali, e non incatenate nel risentimento e nell’odio.
Ogni giorno dobbiamo affrontare la nostra collera, la nostra rabbia, i nostri sentimenti di odio, tutto ciò che ci ferisce. Ogni giorno, quando ci alziamo, dobbiamo ricordare che il nostro “pane sostanziale”, nutriente, per l’intera giornata, sarà il perdono. Dobbiamo perdonarci perché abbiamo sbagliato, perché abbiamo fatto un errore; dobbiamo perdonarci perché ci succedono delle cose che non possiamo controllare, su cui non possiamo intervenire. Dobbiamo perdonare le persone che criticano senza motivo il nostro comportamento, il nostro modo di fare, di parlare, di vivere, che parlano e non sanno, che malignano. Sono cose che ci indispettiscono, è vero, ma che possiamo farci? Se possiamo, chiariamo; altrimenti a che pro’ continuare a pensarci, continuare a star male per giorni e giorni? Non è forse meglio perdonare, accettare che possano pensare così, accettare di essere feriti?
“Perdono” in ebraico si dice anche kafor, che vuol dire “ricoprire la ferita”. Kafor allora è prendere in mano ogni giorno le nostre ferite e ricoprirle di perdono per poter vivere.
Il perdono deve essere la nostra veste di tutti i giorni, il vestito con cui dobbiamo camminare nel mondo; perché il perdono è la nostra unica possibilità di fecondità, di essere felici. La felicità è nelle nostre mani solo se sapremo perdonare.
«… perché anche noi li abbiamo cancellati, condonati, ai nostri debitori».
Condonare vuol dire mandare via, togliere tutto, non lasciare più nulla.
Noi possiamo condonare tutto ai nostri fratelli solo se noi abbiamo fatto esperienza di condono. Altrimenti non sappiamo di che si tratta!
Chi non condona, chi non toglie ogni contrasto con i fratelli, non ha ancora conosciuto chi è Dio. Perché chi conosce Dio, chi vive il Vangelo, chi sa cosa Dio ha fatto nei suoi confronti, non può fare diversamente: può solo condonare.
«Non abbandonarci alla tentazione».
Nell’Antico Testamento il verbo “provare” non indica mai una tentazione, una sollecitazione al male. Indica semplicemente una “prova”, una “verifica”, che viene fatta per vedere cosa c’è realmente nel cuore dell’uomo.
Un po’ come a scuola: uno studia e poi si fa la verifica per vedere se sa quello che ha studiato. Lo scopo non è di mettergli un voto insufficiente, di farlo “cadere”, ma di vedere cosa sa e cosa non sa. Il senso quindi è sempre positivo.
In tal caso, quindi, la tentazione è una prova, un passaggio obbligato per poter crescere, per andare avanti. Infatti nahasc (il serpente tentatore) in ebraico indica un ostacolo, una barriera da superare: se noi lo superiamo, nella nostra anima si libera una luce, una consapevolezza, una forza, che prima ci era nascosta. Il senso quindi è sempre positivo: Dio ci mette alla prova non per divertirsi ma perché dobbiamo crescere, perché dobbiamo tirar fuori la luce, la consapevolezza, che c’è in noi.
Nel vangelo di Luca il verbo tentare appare solo due volte; ed entrambe le volte, contrariamente all’Antico Testamento, ha sempre un senso negativo: la prima volta è il diavolo che tenta Gesù (Lc 4,2); nella seconda sono invece quelli che lo seguono che lo “tentano” perché faccia un segno dal cielo (Lc 11,16). Qui il senso è negativo: si cerca cioè di far fare a Gesù qualcosa di spettacolare, di trionfale, di impressionante.
Ma allora come dobbiamo prendere il verbo “tentare”? Come prova o come induzione al male?
Chiarisce tutto Giacomo (1,13-14): “Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria cupidigia che lo attrae e lo seduce”. Dio non tenta, mai.
Dopo averci insegnato la preghiera, Gesù ci suggerisce anche in che modo e con quale disposizione dobbiamo pregare: e lo fa ricorrendo a due parabole: nella prima ci indica che dobbiamo rivolgerci a Dio come ad un amico: anche in modo inopportuno, anche in modo sfacciato. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto; a Dio possiamo aprirci, possiamo esporgli, fargli vedere, tutto ciò che siamo e tutto ciò che pensiamo: anche ciò che non è dignitoso, anche ciò che è meschino, anche ciò di cui ci vergogniamo, anche i nostri pensieri cattivi, ripugnanti, aggressivi. Nella preghiera c’è spazio per tutto. Ed Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà.
Con la seconda parabola (11,9-13) ci spiega invece cosa significa avere Dio per padre.
Ogni padre sa cosa serve ai propri figli. Nessun padre darà al figlio, che gli chiede da mangiare, una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo. È pacifico. Allo stesso modo Dio, che è nostro Padre, non ci darà mai nulla che possa nuocerci, nulla che non sia superabile. E sapere che Dio non ci riserverà mai nulla di male, anche nelle prove più dure, vuol dire entrare nella logica che tutto ciò che ci succede ha un senso, un significato, un valore, anche se a prima vista noi non lo capiamo, o lo rifiutiamo, o non lo vediamo o addirittura lo consideriamo un male, una tragedia.
In tutto ciò che ci succede, in tutto ciò che la vita ci riserva, Dio ci parla, ci risponde, ci ammaestra, seguendo la sua logica: noi chiediamo e Lui ci risponde, anche se non sempre ci risponde come vogliamo; noi cerchiamo e Lui ci fa trovare, anche se non sempre ci fa trovare ciò che vorremmo; noi bussiamo e Lui ci apre delle porte e delle strade, anche se non sempre sono le porte e le strade che noi avremmo gradito. In ogni caso, però, siamo sempre sicuri che Lui non ci ferisce, non ci vuol male. E allora, anche se noi non capiamo, possiamo tranquillamente fidarci, perché, in realtà, noi non capiremo mai cosa sia meglio per noi. Un vecchio monaco amava ripetere: “Io so che Dio è buono, e questo mi basta”. Amen.


giovedì 14 luglio 2016

17 Luglio 2016 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola» (Lc 10,38-42).

Gesù in viaggio verso Gerusalemme si ferma dalle sue amiche Marta e Maria, sorelle di Lazzaro. A noi sembra un gesto normale, ma Gesù in realtà rompe con gli schemi convenzionali.
Prima di tutto perché va a casa di due donne e non vi sono uomini presenti! Il gesto a quel tempo non poteva che venire letto come dubbio, se non scandaloso, o provocatorio. 
Non si poteva incontrare una donna senza la presenza di un uomo. L’ambiente ebraico era fortemente maschilista, e le innegabili prepotenze cui venivano sottoposte le donne venivano giustificate come “volontà di Dio”. La donna era “impura” per definizione, era l’essenza del peccato.
La legge infatti proibiva alle donne di leggere la Torah, esse non potevano partecipare alle liturgie nella sinagoga o nel tempio, non potevano neppure frequentare le scuole.
Ma Gesù se ne infischia altamente di tutte queste regole assurde e stupide, tenute però in considerazione da tutti, uomini e donne, e va nella casa di queste due donne e parla loro proprio di Dio. Perché ogni volta che una legge è contro l’uomo, è contro Dio.
Quello di Gesù è un atto sovversivo: facendo così Egli vuole rovesciare un modo di pensare e di agire. Per questo i maschi del tempo e gli uomini della legge, quando lo vedevano agire così, lo consideravano un eretico. E per la legge in effetti, lo era! Come tale, infatti, come bestemmiatore e amico del diavolo, Egli fu condannato e ucciso! Fu condannato perché la sua esistenza era equivoca, dubbia, amorale, provocatoria, areligiosa. Ciò che è drammatico della sua esistenza è che Dio (il Figlio) è stato condannato come un non-Dio, come un anti-Dio.
Pensate poi cosa dovevano provare le donne, che finalmente si sentivano amate, rispettate, degne di esistere.
Gesù non fu l’uomo di pace che intendiamo noi. Noi siamo cresciuti con l’immagine del Gesù “buono e dolce”, di quello che non litiga mai, che appiana ogni contrasto, che non entra in conflitto. Le immaginette che una volta si vendevano lo presentavano con gli occhi azzurri e con la faccia angelica.
Nel vangelo Gesù non è assolutamente così. Gesù è un punto di rottura, un rivoluzionario, un uomo che rompe con schemi, idee e falsità. Non dobbiamo mai dimenticare che Egli fu ucciso non perché il suo messaggio era “buono”, ma perché era “nuovo”.
Leggendo il vangelo di oggi, immaginiamo che le cose siano andate in questo modo: Gesù arriva dal viaggio, è stanco fuori e soprattutto dentro. Marta si agita a preparargli da mangiare, a far sì che tutto sia in ordine, ad accoglierlo esternamente. Maria, invece, lo accoglie dentro: lo ascolta, ascolta il suo cuore, le sue difficoltà e le sue paure.
Nel tempo questo episodio è diventato un modello dell’ascolto della Parola e della priorità dell’essere rispetto al fare. Le parole di Gesù, che Maria ascolta e Marta no, sono diventate la Parola da ascoltare.
La scena si svolge fra tre personaggi: Marta, Maria e Gesù. Con in primo piano le loro reazioni.
Marta non è cattiva, anzi. È lei che accoglie Gesù. Il vangelo dice che lo “accoglie nella sua casa”. È un’espressione molto simbolica: gli vuole veramente bene e lo vuole per davvero accogliere nel suo cuore. Quell’uomo, Gesù, le è entrato dentro e lei lo porta, lo conserva, nella sua parte più intima (casa). Ma non è questo il punto. Il problema? È lei, Marta, che ha stabilito di cosa avesse bisogno Gesù.
Ora, qual è il primo bisogno di ogni persona? Ovvio, l’essere accolti.
Arrivando a casa noi tutti, adulti e bambini, abbiamo bisogno di essere festeggiati, accolti, coccolati; solo dopo, ci faremo le domande su come è andata, faremo i lavori di casa e ciò che c’è da fare.
Quando Gesù arriva in casa di Marta e Maria, di che cosa ha bisogno? Non ha bisogno di mangiare, di bere, di una casa pulita. Ha bisogno di essere accolto, abbracciato, rassicurato, ascoltato.
Marta è il modello di quelle persone che si distruggono dal lavorare. Di fronte ad una che è stanca dal lavoro fatto per noi, che ci ha preparato da mangiare, che ci ha sistemato la casa, che lava, che stira, come facciamo a chiederle qualcos’altro? Si può dirle qualcosa?
Molti papà e mamma si schermano dietro frasi del tipo: “Ho dato la mia vita per te! Ci ho rimesso la salute! Ho vissuto per te! Ho lavoravo anche sedici ore per portarti a casa il pane!”. Allora il figlio si sente in colpa; di fronte ad uno che dice così, cosa si può aggiungere? Cosa si può dire? Eppure, se guardiamo più in profondità, possiamo vedere che questo è un modo per non lasciarsi coinvolgere in altre cose. È un modo per giustificare il rifiuto di cambiare, di accettare altri impegni, un sistema per mettersi la coscienza a posto: “Ma come, con tutto quello che faccio?
Anche Marta si sentiva al sicuro: faceva tanto, è vero, ma non faceva quello che serviva a Gesù.
In realtà è Marta che ha un gran bisogno di essere riconosciuta e accettata da Gesù. Ma questo suo bisogno non le è chiaro, non lo riconosce, non lo esprime e così accusa Gesù e sua sorella.
Ha bisogno di fare bella figura con Gesù, in modo che lui possa dire: “Ma come sei brava! Ma che cibo squisito! Che bella casa! Ma quanto ti sei data da fare per me: grazie!”.
Quante volte ci comportiamo anche noi come Marta! Attacchiamo l’altro e accusiamo!
Perché è più facile accusare che manifestare i propri bisogni; è più facile colpire che mostrarsi vulnerabili e bisognosi.
Per Marta, Gesù deve sentirsi completamente a suo agio, deve trovare ogni confort, in modo da poter dire: “Che brava donna!”. Ma questo è il suo di bisogno, non quello di Gesù.
Marta ha già deciso da sola di cosa Gesù avesse bisogno. Ha le sue categorie in testa, i suoi schemi, e non si è minimamente posta nessuna alternativa. Lei aveva già deciso
Perché non l’ha chiesto a Gesù? Era così semplice! Invece no, si è data da fare come una forsennata per poi offendersi e sentirsi vittima, delusa, perché lui non l’ha riconosciuta.
E quando Gesù se ne sta con Maria, lei si sente offesa: “ma questo è il tuo di bisogno, cara Marta, non il suo. Sei tu che vorresti che tutto fosse in ordine, a posto, secondo le tue regole. Sei tu che vorresti essere riconosciuta da Gesù e fare bella figura con lui. Ma questo è solo il tuo bisogno”.
Spesso noi proiettiamo sugli altri i nostri desideri e poiché gli altri non li esaudiscono, ci arrabbiamo con loro. Ci sembrano cattivi, ci sentiamo offesi perché non hanno risposto alle nostre aspettative. Appunto, hanno fatto secondo le loro esigenze!
Dobbiamo imparare a riconoscere i nostri bisogni ed esprimerli. Dobbiamo imparare a riconoscere le nostre aspettative e a non proiettarle sugli altri, arrabbiandoci perché non vengono esaudite.
Gesù usa due parole per definire ciò che sta vivendo e facendo Marta: “merimnas” e “thoribaze”. “Merimnas” vuol dire “preoccuparsi” nel senso di affannarsi, di angustiarsi, di essere in pensiero: è l’ansia del fare. “Thoribaze” vuol dire agitarsi; “thoribos” è il tumulto, la confusione, il mormorio di voci dentro di noi.
I due verbi indicano il frullare dei pensieri, nella testa di Marta, che poi diventano azioni. È chiaro: arriva Gesù, è un personaggio importante, è una persona a cui Marta vuole bene. Vuole fare una gran bella figura e vuole sentirsi stimata da lui. Ma è preoccupata di deluderlo, di non essere come lui si aspetta. Allora fa’, fa’ e fa’, si agita e si dimena come un’ossessa. Allora emergono tutti i pensieri della mente: “Sarà contento? Sarà soddisfatto di essere stato qui con noi? Gli andrà bene quello che gli ho preparato da mangiare? Lo deluderò?”.
Quando si innesca questo meccanismo è la fine. Perché i pensieri diventano un ossessione che si ripete all’infinito. E finché non diciamo basta, tutto diventa possibile e pericoloso.
Marta e Maria non si parlano mai, non si dicono niente.
Perché Marta non è diretta con sua sorella? Perché non glielo dice in faccia? Perché mugugna di nascosto? Perché cerca di portare Gesù dalla sua parte, contro Maria? È qui che Marta sbaglia: deve invece parlare con lei, dirle ciò che non va! Trovare consensi dagli altri non fa che rinforzare in noi l’idea che siamo nel giusto, nella ragione, per cui l’altro è dalla parte del torto. Ma questo non risolve il problema.
Maria, al contrario, capisce di che cosa Gesù ha bisogno e lo ascolta. Maria non ha deciso prima, per conto suo, cosa doveva fare per Gesù. Lo ascolta quando arriva. Maria non dice una sola parola, si fa vuoto, spazio, perché Gesù possa entrare. Questa è l’ospitalità che tutti noi cerchiamo: trovare qualcuno con cui poter essere noi stessi, senza essere giudicati.
Il vangelo dice che Maria stava ai piedi di Gesù. Stare a contatto con i piedi, indica il suo atteggiamento di umiltà. Maria è lì, tutta per lui. E Gesù lo sente.
“Puoi stare qui; sono felice che tu sia qui; qui sei a casa; qui sei amato; qui puoi aprirti e farti vedere per quello che sei; puoi essere te stesso”. Questo è l’amore!
Trovare Maria è trovare uno spazio d’amore dove poter esprimere le proprie paure, le proprie angosce, le proprie aspettative, i propri bisogni, i propri amori, le proprie contraddizioni, le proprie ambiguità, i propri lati d’ombra; uno spazio dove piangere e dove ridere; uno spazio dove disperarsi ed essere abbracciati e accarezzati; uno spazio dove si è al sicuro, protetti, dove rifugiarsi e dove essere accolti. Questo è l’amore.
Allora, invece di “chiuderci” dentro di noi, apriamoci, costruiamo distese d’amore, diamoci da fare per ascoltare e accogliere l’altro, il bisognoso, l’ultimo, quello che è stanco: perché solo così il mondo sarà migliore. Di questo noi abbiamo bisogno. Poi verrà Marta con il lavoro, il cibo, le cose da fare, i problemi, le pulizie, il riordinare e quant’altro. Ma prima di tutto deve esserci Maria: questa è l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno. Questo è l’essenziale, che non ci può essere tolto, altrimenti soffriamo e moriamo dentro. Amen.


mercoledì 6 luglio 2016

10 Luglio 2016 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto...” (Lc 10,25-37).

Il vangelo di oggi si concentra sulla parabola del buon samaritano, sull’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo spunto viene offerto a Gesù dall’intervento, puramente provocatorio, di un “dottore della legge”. L’interrogante è un autorevole rappresentante della classe dirigente ebraica; è un’autorità, è l’uomo delle regole, colui che sa con esattezza cosa è bene e cosa no, cosa si debba o non si debba fare. Insomma è un “maestro” molto competente nel suo campo. Il guaio è che, ritenendosi anche molto scaltro, pensa di poter in qualche modo mettere in ridicolo Gesù, l’unico vero “maestro”. Che lui si ritenga all’altezza di ciò, traspare dal fatto che, mentre tutti ascoltano in silenzio e seduti le parole di Gesù, egli “si alza”: si rivolge a Lui, cioè, stando in piedi (solo i maestri parlavano in piedi), rivelando apertamente l’intenzione di cercare una sfida tra “maestri”, un confronto/scontro tra “pari”.
Il testo italiano traduce blandamente: “Per metterlo alla prova”. Ma il testo greco, più incisivo, usa “ek-peirazo”, che significa tentare con cattiveria, tendere un tranello per far cadere l’altro: troviamo insomma il classico verbo usato per descrivere le tentazioni del maligno.
La domanda che gli pone, non certo dettata dall’amore per la verità, è infatti tendenziosa; gli chiede cioè di pronunciarsi su un argomento abbastanza banale, sul quale tutto sommato c’era ben poco da chiarire, visto che tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’argomento: “Maestro, cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Il tentativo di screditarlo, di deriderlo, è già evidente nell’attribuirgli il titolo di “maestro”, anche se in cuor suo non lo considera tale; sembra infatti dire: “Tu che ti definisci maestro, vediamo un po’ come te la cavi con questa questione”.
La sua, oltretutto, è la classica domanda, una delle domande fondamentali, tipica della gente comune, non particolarmente religiosa; gente cioè il cui scopo primo della vita non era certo amare, non era “vivere in pieno”, non era relazionarsi con gli altri con tutta la forza dei propri sentimenti, con tutta l’intensità dell’anima, con tutta la vibrazione del cuore. No, nella loro vita la preoccupazione più importante era di trovarsi “in regola”. Nessuno di essi, in pratica, cercava veramente Dio, nessuno cercava l’altro, nessuno cercava di “vivere”. Ciò che contava era “essere osservanti”. In pratica, l’unica domanda che tutti si ponevano, adattata all’oggi, poteva suonare più o meno così: “Cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Cosa dicono le regole, i comandamenti, il Catechismo, i precetti della Chiesa? Una domanda sicuramente lecita, carica di preoccupazione se uno l’avesse posta a Gesù in sincerità, con umiltà e retta intenzione. Ma ciò esula dalle intenzioni del dotto ebreo, che lascia trasparire in essa tutta la sua sarcastica sicurezza. Ma Gesù non cade nel tranello, capisce dove vuole arrivare l’altro; non si scompone e gli rigira la domanda: “Cosa dice la legge?”. In pratica lo “trascina” nella sua materia, nel suo campo di specializzazione; all’uomo di legge, a questo punto, stuzzicato nella sua vanità di “maestro”, non par vero di rispondere a raffica: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Bene”, continua Gesù. “Che vuoi di più? Che altro vai cercando? È semplice, sai tutto: comportati osservando la legge, e sarai certo di avere la ricompensa prevista dalla legge”. Finito. Tutto chiaro!
Ma il dottore della legge non demorde: vedendo sfumare il suo momento di gloria, gli pone un’altra domanda, altrettanto pretestuosa: “Ma chi è il mio prossimo?”.
E qui Gesù lo confonde completamente; la sua risposta questa volta richiede una chiave di lettura completamente diversa da quella dell’esperto legale, con una mentalità fredda, statica, puramente razionale. Egli non potrà mai capire le ragioni di Gesù, improntate sull’amore e sulla carità. Per lui tutto viene ricondotto a disposizioni, ordinamenti, prescrizioni di legge, per cui “prossimo” poteva essere solo un suo concittadino, al massimo un connazionale. Gli altri no, esclusi! Per Gesù invece l’amore per il prossimo non ha confini né di tempo né di luogo; con Lui non esiste più la distinzione “fino a che punto” o “fino a che momento”. Se uno ha un cuore, lo deve seguire sempre, punto. Chi ama non pone paletti, non discrimina, non fa differenze: è il cuore che ordina chi amare, non la legge!
Ogni discriminazione, ogni “tu sì e tu no”, è tipico di poveracci, completamente amorfi, che per stabilire cosa è giusto e cosa no, si lasciano condizionare dalle regole, dal partito, dalla religione. Chi ama, lascia che sia il proprio cuore a vivere e a far vivere. Ama e basta!
Il dottore della legge non può capire questo linguaggio. Per questo Gesù gli chiarisce meglio il concetto, esponendogli una parabola: “C’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico...”.
Un racconto molto realista: Gerusalemme dista ventisette chilometri da Gerico; la strada di collegamento, con un dislivello di circa mille metri, è purtroppo nota per la sua pericolosità, piena di agguati, di rapine, di imboscate. Sarebbe preferibile evitarla, ma un uomo è costretto a farla quella strada, sfidando i pericoli: per sua sfortuna, gli capita di cadere vittima dei briganti che lo picchiano, lo bastonano, e lo spogliano di tutto; e lo abbandonano sulla strada mezzo morto, solo con se stesso, con nessuno vicino, con nessuno capace di capirlo e di accoglierlo. A chi ricorrere? Chi chiamare? Su chi può fare affidamento quel poveretto per essere soccorso? È logico pensare che il suo primo pensiero vada sicuramente ai genitori, a qualche amico o collega fidato, a qualche assistente sociale, a qualche ecclesiastico di sua conoscenza, che ne so, un prete, un frate, ecc. “Nossignori”, risponde Gesù tra le righe: “se dovesse capitare a voi non contate sulle istituzioni, sui chi ha dei “doveri”nei vostri confronti, anche se stabiliti per legge. Non è certo in base al suo “ruolo” che uno vi verrà in soccorso; perché soltanto chi ha un cuore pieno d’amore può vedervi come “prossimo”, correndo da voi. Nella vita non aspettatevi mai l’aiuto da dove “non può” venire: non contate sulla funzione, sulla carica, sulle prescrizioni legali: contate solo sul cuore delle persone”.
Del resto, proseguendo la lettura a senso della parabola, se nessuno interviene, l’uomo ferito è destinato a morire. In questo caso, chi l’ha ucciso? I briganti? Soltanto loro? O non l’ha ucciso anche chi, potendo fare qualcosa, non l’ha fatto? Quante persone nella realtà si giustificano con la famosa frase: “Non è colpa mia, io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in certe situazioni non intervenire, non fare nulla, vuol dire condannare, vuol dire procurare la morte.
Nel seguito del racconto, poi, incontriamo tre personaggi che casualmente si trovano a passare proprio per quella strada. Sono un sacerdote, un levita, un samaritano.
Il sacerdote è l’addetto al culto (il prete di oggi), mentre il levita è l’addetto al tempio (il nostro sacrestano). Ora c’era una legge (come poteva mancare?) che impediva ai sacerdoti di toccare persone morte. Ma quest’uomo non era morto; semmai poteva sembrarlo! Nel dubbio però meglio tirare dritto. E il levita? Per lui quella legge non valeva, Lui non era un sacerdote; è vero, non era addetto al culto, alle liturgie, però toccava gli oggetti sacri; quindi, a ragionarci su, quella legge valeva anche per lui!
Come vediamo, c’è sempre una scusa quando non si vuole fare una cosa!
Purtroppo sia il sacerdote che il levita hanno un grosso problema con cui fare i conti: il loro “ruolo sacro”, il loro “mestiere” direbbe qualcuno di noi, prima o poi rischia di uccidere la loro anima, di soffocare il loro cuore: “Tu sei un sacerdote, sei un levita, non puoi abbassarti a fare queste cose materiali, non sono previste dal tuo rango!”.
C’è poi un altro personaggio, più defilato, ma altrettanto colpevole di essere insensibile, anche lui condizionato dal suo ruolo: l’albergatore. Quando arriva l’uomo mezzo morto, non dice al samaritano che lo vuol pagare: “Ma sì, in una situazione del genere non ti preoccupare, scherzi? Non se ne parla neanche: mi prendo cura io di quest’uomo, non voglio assolutamente nulla da te; tu hai già fatto anche troppo portando fin qui questo poveretto”. Nulla di tutto questo: quando arriva il samaritano se ne sta zitto e incassa il denaro. Anzi, fiutato l’affare, pensa di battere cassa anche al suo ritorno. Anche lui è vittima del suo ruolo: “Io non guardo in faccia a nessuno, mi faccio gli affari miei”. Il suo mestiere lo ha ucciso dentro, impedendogli di provare amore, compassione, di sentire la “vita”.
Questo ci dice oggi Gesù: “State attenti, perché il ruolo che rappresentate può soffocare il vostro cuore, può stroncare la vita dell’anima”. Se non stiamo attenti, il ruolo ci distacca da noi stessi, dalla nostra sensibilità, da ciò che abbiamo dentro; non ci ascoltiamo più; coerenti col ruolo, continuiamo a dare risposte senza senso, vaghe, preconfezionate. Non siamo più noi che sentiamo e decidiamo, ma è il nostro ruolo che sente e agisce per noi in maniera automatica.
Dobbiamo allora evitare di pensare sempre, in qualunque situazione della vita, da genitori, da insegnanti, da preti, da carabinieri, da avvocati: perché prima o poi il nostro ruolo fagociterà la nostra personalità, ci renderà insensibili, intransigenti, duri, intolleranti. Ascoltiamo prima di tutto il nostro cuore! Ascoltiamo cosa ci suggerisce di volta in volta lo Spirito che è in noi. Agiamo liberamente, al di fuori degli schemi costrittivi imposti dai vari ruoli.
Imitiamo l’unico personaggio che, nella parabola, dimostra la sua indipendenza da qualunque schema mentale: l’unico uomo che è libero, autonomo, non schiavizzato dal suo ruolo: il samaritano.
Egli non ha maschere o funzioni da difendere; in lui la “vita” circola libera e vibrante.
Tutti e tre (sacerdote, levita e samaritano) passano per la stessa strada e tutti e tre vedono l’uomo ferito. Ma del solo samaritano il vangelo sottolinea un particolare, che volutamente non dice degli altri due: “ne ebbe compassione”. È l’unico che si è lasciato guidare dal cuore. Il suo è un sentimento esclusivo: il verbo greco “splanchnizomai” (avere compassione) chiama in causa le viscere, l’utero materno; un’emozione fortissima, quindi, che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare, che scuote: un’emozione pari a quella che prova una madre nello stringere tra le braccia il suo figlioletto appena partorito.
Come poteva quest’uomo tirare dritto? Come poteva questo samaritano far finta di niente? Il suo cuore urlava, era vivo, batteva a mille: i cuori del sacerdote e del levita erano invece morti, atrofizzati, impassibili, soffocati dal ruolo, paralizzati dalle regole del “lecito” o “non lecito”.
Nulla di straordinario: ricordiamoci sempre in proposito che anche noi possiamo incorrere nella nostra vita in due tipi di morte: quella fisica e quella spirituale.
Con la morte fisica, quella naturale, che segna la fine della nostra vita, moriamo dentro e fuori; con la morte spirituale, invece, viviamo sì all’esterno, ma con la morte nell’anima. Non dimentichiamoci mai, allora, di “sentire” il nostro cuore, di assicurarci che batta sempre per amore; siamo sempre vigili nell’ascolto dello Spirito, per non correre il rischio di vivere come degli zombie, dei morti che camminano. Amen.