giovedì 5 maggio 2016

8 Maggio 2016 – Ascensione del Signore

«Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». 
(Lc 24,46-53).

Oggi la chiesa celebra la festa dell’Ascensione, una ricorrenza liturgica annuale con cui facciamo memoria di come Gesù risorto sia “salito in cielo”.
Ma dove? Quando? In che modo? Non esiste in assoluto nessuna documentazione storica che attesti l’esistenza di testimoni “oculari” della risurrezione e ascensione in cielo di Gesù; e questo per il semplice motivo che si tratta di fatti metastorici, di fatti cioè che, essendo patrimonio di fede, vanno oltre la storia. Come mai allora Luca nel Vangelo e negli Atti, li descrive così minuziosamente, quasi volesse fare un pezzo di cronaca? Cosa vuol dire esattamente Luca con questi racconti?
Semplice: egli tenta di esprimere, mediante una descrizione fotografica degli avvenimenti, delle verità fondamentali e inoppugnabili della nostra fede, verità che altrimenti sarebbero incomprensibili alla maggior parte della gente: in altre parole egli cerca di spiegare “umanamente” delle realtà divine, in se stesse inspiegabili.
Per capire meglio questo proposito di Luca dobbiamo calarci, oltre che nelle usanze letterarie dell’epoca, anche e soprattutto nelle sue intenzioni di autore ispirato.
A monte di tutto, come presupposto irrinunciabile, Egli pone infatti una verità fondamentale: che Gesù, nonostante la sua morte in croce, vive e continua a vivere.
Per avallare ciò egli ricorre ad un genere letterario, allora molto comune, conosciuto come “ascesa in cielo”, con il quale i biografi descrivevano la “fine terrena” dei grandi uomini del loro tempo. Ci sono testi antichissimi, per esempio, che raccontano di personaggi celebri, quali Eracle, Empedocle, Alessandro Magno, Apollonio di Tiana, che per mantenere inalterata la loro fama, sono letteralmente “ascesi” nei cieli; lo stesso Tito Livio, nella sua “Storia di Roma”, scrive che Romolo, dopo un’assemblea col popolo, tenuta durante un forte temporale, fu avvolto improvvisamente da una coltre di nubi che, diradandosi e alzandosi nel cielo, lo portarono con sé: non essendo più su questa terra, egli da allora fu venerato pertanto come un Dio e come padre della città di Roma. Non va dimenticato infine che anche nell’Antico Testamento, libro rivelato e “canonico”, troviamo due celebri riferimenti al fenomeno “ascensione”: col rapimento in cielo di Elia (2Re 2,1-18) e con l’ascensione di Enoch (Gn 5,24).
In pratica, ricorrendo a questo genere letterario, si voleva dimostrare l’immortalità dell’eroe di turno che, per mantenere vivo il ricordo della sua vita esemplare e dei suoi insegnamenti, profondi e intramontabili, veniva rapito in cielo: in questo modo il suo corpo veniva risparmiato dalla morte e dal sepolcro, come tutti i comuni mortali: egli infatti doveva “vivere” per sempre, e la sua gloria brillare in cielo nei secoli avvenire, ad imperitura memoria.
Luca dunque, non fa altro che adattarsi all'usanza dei tempi: per testimoniare un Gesù, che è “un grande”, anzi “il più grande” di ogni tempo, che è vivo, e che ha assicurato la sua viva e continua presenza spirituale su questa terra fino alla fine dei tempi, tutte verità di cui i discepoli ne sono testimoni oculari attendibili, ricorre alla soluzione dell'ascesa in cielo: la verità che egli vuole sancire in maniera definitiva è che un uomo Dio, morto e risorto, è asceso “vivo” in cielo, continuando a vivere con il suo Spirito a fianco delle sue creature, lungo tutti i secoli a venire.
Nel descrivere l’ascensione di Gesù, pertanto, anche Luca parla di una “nube” che “lo sottrae” agli occhi dei discepoli. Una “nube” però che per lui non rappresenta come per gli altri biografi un comune fenomeno atmosferico ma, come del resto in tutta la Bibbia, è il segno rivelatore della presenza dinamica e misteriosa di Dio: è infatti la stessa nube (Dio) che avvolse Mosè una volta salito sul monte Sinai, ricoprendolo per sei giorni (Es 24,15-16); ed è sempre quella nuvola che riempì completamente il tempio di Salomone, allorquando venne collocata al suo interno l’arca dell’alleanza (1Re 8,10).
Una nube divina che, se da una parte rivela la presenza effettiva di Dio, dall’altra, come tutte le nubi, lo “nasconde” agli occhi dei suoi fedeli.
Ed è esattamente quello che succede da allora nel mondo : Dio è presente, ma non si vede; noi non lo vediamo, ma siamo sicuri che c’è.
Fino ad allora gli apostoli avevano potuto ammirarlo in carne ed ossa con i loro occhi; dopo l’ascensione, Egli continua ad esserci, ma noi ora lo possiamo vedere solo con “altri occhi”. La realtà della sua presenza si pone su due piani diversi. Per chi ha infatti gli “occhi della fede”, Dio è visibile ovunque, in ogni luogo; per chi invece non ha questi occhi, Dio è assente, sempre e ovunque. 
Credere, essere certi della presenza di Dio, dipende infatti soltanto da noi: “Dio c’è? No, non c’è! Dio c’è? Sì, c’è!” Entrambe le possibilità sono vere, solo che si pongono su livelli diversi: se noi infatti non vediamo  le cose nella realtà che ci circonda, non vuol dire che queste non ci siano, che non  esistano. Lo stesso con Dio: Egli è sicuramente presente in questo mondo, anche nella sua “assenza”, anche se noi non lo vediamo: la sua è una presenza misteriosa, rivelata, silenziosa, discreta. Una presenza che noi, pur arrivando miracolosamente a vederla, la possiamo in ogni caso contemplare e capire solo in maniera parziale.
Ricordate le ultime parole dell’Apocalisse? Concludono l’intera Bibbia con l’invocazione “Maràna-thà”: “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20). Ci fanno cioè capire che Dio è presente nel mondo, ma non in maniera totale, completa; non si è ancora rivelato del tutto: c’è già, ma non ancora in maniera aperta e definitiva; per cui preghiamo “Vieni, Signore Gesù!”. Anche nel Padre Nostro noi diciamo la stessa cosa: “Venga il tuo regno” (Mt 6,10). In pratica chiediamo a Dio: “Tu, o Padre, che non ti sei ancora rivelato del tutto, mostrati, renditi comprensibile alle nostre menti, renditi visibile ai nostri occhi”.
Questa è la nostra situazione: Dio quaggiù è misterioso: sappiamo che è presente, che ci è vicino, ma non lo possiamo ancora vedere del tutto, non lo possiamo capire del tutto, non lo abbiamo scoperto del tutto: perché lui stesso non si è ancora rivelato del tutto.
È proprio per questo motivo che la Chiesa attende la “Parusia”, la “piena manifestazione” del Signore. Verrà infatti un giorno (l’èskaton) in cui Dio sarà tutto in tutti in maniera evidente, un giorno in cui tutto sarà chiaro e splendente, in cui tutto brillerà della Sua luce e tutti lo potranno vedere per quello che è.
Oggi non è così. Siamo ancora nella fase della “nube”. E questo cosa ci comporta? Cosa ci impone? Che non dobbiamo mai smettere di cercare Dio. È vero: quando ci succede di trovarlo, ce ne riempiamo il cuore; ma Egli è sempre oltre, è sempre più grande, più profondo, più in là. Dio è desiderio costante, è anelito incessante: lo viviamo, lo sentiamo vicino, ma non riusciamo mai ad afferrarlo in pieno. I sacramenti, le preghiere, i riti, la chiesa stessa, sono solo i mezzi per arrivare a Lui: quando saremo di là, non ci sarà più bisogno di tutto questo perché saremo in maniera chiara e aperta in Lui.
Per ora non conosciamo granché di Dio: ma siamo in cammino. La nostra comprensione è in continua evoluzione, in continuo cammino. Per questo, cerchiamo di non assolutizzarci troppo, di non cristallizzarci sulle nostre posizioni: perché tutto quello che oggi sappiamo di Dio, forse domani si rivelerà diverso, imperfetto, o addirittura l’opposto. Non pretendiamo di possedere già la completa e perfetta formulazione della nostra fede. Ripeto, siamo in cammino, e Lui stesso non si è ancora rivelato del tutto. Siamo sulla buona strada che porta a Dio, ma non siamo ancora arrivati a Lui: non dobbiamo aver paura di professarLo per come noi lo conosciamo, con tutti i nostri limiti: dobbiamo però essere consapevoli che Dio è e sarà sempre nuovo, diverso da tutti i nostri schemi, da tutte le nostre teologie e da tutte le nostre idee. Lui è Più Grande.
Altra considerazione da tener sempre presente nella nostra vita: che se oggi Gesù non è più presente di persona tra noi, ci siamo noi qui a rappresentarlo, ci siamo noi che in qualche modo dobbiamo “sostituirlo”.
Prima di partire egli ha fatto un vero e proprio passaggio di poteri, ha fatto un'autentica investitura nei confronti dei discepoli: “Io non ci sono più, adesso ci siete voi; e voi avete tutti i poteri e la forza, per fare ciò che io ho fatto”.
Significativa in questo senso è la scenetta riportata da Luca, nella prima lettura proposta dalla liturgia di oggi, in cui due angeli chiedono agli apostoli: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?” (At 1,11).
In pratica: “Cosa vi aspettate dal cielo? Forse la manna o un miracolo che cada dall’alto? State lì a guardare aspettando una magia? Non ci sono e non ci saranno magie;, basta con i miracoli: ora tocca a voi darvi da fare”. Ed è vero: ora Lui materialmente non c’è più: ma ci siamo noi, ci sono io, ci sei tu!.
Sono celebri le parole con cui un anonimo fiammingo del XIV secolo conferma questo concetto: “Cristo non ha più le mani, ha soltanto le nostre mani per fare oggi il suo lavoro. Cristo non ha più piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Cristo non ha più voce, ha soltanto la nostra voce per raccontare di sé agli uomini di oggi. Cristo non ha più forze, ha bisogno del nostro aiuto per condurre a sé gli uomini. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora; siamo l’unico messaggio di Dio scritto in opere e parole”.
Il vangelo ha una visione delle cose completamente diversa dalla nostra: Dio ci ha dato forza e poteri per superare tutte le prove, tutte le difficoltà. Ma noi non lo capiamo; preferiamo chiedere continuamente il suo intervento: “Signore, dammi questo, dammi quello, fa’ che succeda questo, fa’ che non accada quello”. Ma quando andremo di là e, arrabbiati, ci lamenteremo: “Ma perché Gesù non mi hai fatto questo? Perché non sei intervenuto quando ti ho chiamato? Perché mi hai lasciato solo?”, sarà Lui che ci dirà: “Perché ti lamenti? Ti ho dato la forza, ti ho dato la luce, ti ho dato tutto ciò che ti serviva. Perché non ne hai tenuto conto? Perché non ti sei comportato da operaio fedele? Ti sei disinteressato dei miei consigli, non mi hai onorato, hai lasciato morire il tuo matrimonio, non hai educato degnamente i tuoi figli, non hai soccorso con amore i tuoi fratelli bisognosi! Perché non hai fatto nulla di quanto ti avevo raccomandato? Per fare questo non c’era bisogno della mia presenza. Perché non ti sei mosso?”.
Ecco perché dobbiamo aver ben chiaro che se Lui non c’è più, ci siamo noi. Se come cristiani continuiamo a pregare Dio perché cambi questo mondo, vuol dire che non conosciamo bene Dio. Dobbiamo pregarlo certamente, ma non perché Lui cambi il mondo, ma perché dia maggior forza a noi per cambiarlo. Lui oggi vive attraverso di noi: le sue mani sono le nostre mani. Quindi non dobbiamo pretendere continuamente il suo intervento, perché è Lui ad aver bisogno del nostro intervento, perché in questo mondo, senza di noi, Lui non può far nulla.
Quando noi alla domenica andiamo in chiesa, lo ascoltiamo, lo cantiamo, lo viviamo, lo prendiamo nelle nostre mani, e Lui viene nel nostro cuore. Lui entra in noi e diventa la nostra forza per andare avanti. Ecco perché ogni volta che andiamo a messa dobbiamo fare “il pieno di Lui”: perché è Lui che ci dà quell’energia, quella vitalità, quel coraggio, quella passione, quella decisione, che ci serve per vivere, per scegliere, per essere veri, per compiere la nostra strada, per realizzare concretamente quel progetto che Lui ha fatto per noi. Amen.



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