mercoledì 27 maggio 2015

31 Maggio 2015 – SS. Trinità

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,16-20).

Oggi la Chiesa celebra la festa della Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli: essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo. Noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato; lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza. E per la Chiesa nascente questo bastava.
Col passare degli anni però i primi cristiani cominciano a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.
Per noi questa è una verità trinitaria definita e raggiunta, ma all’inizio non fu affatto così. I primi secoli furono tormentati dal tentativo di capire chi era Dio e il suo rapporto con Gesù. C’era chi diceva: “Il Padre è divino, il Figlio (Gesù), in quanto Figlio, viene dopo. Gesù è un Dio minore rispetto al Padre”. Altri dicevano: “Il Padre, il Figlio e lo Spirito sono solo tre modi con i quali Dio si è manifestato”. Altri ancora: “Gesù era un uomo uguale a tutti gli altri: poi Dio si è incarnato su di lui e lo ha scelto per farlo suo Figlio. Gesù quindi non era da sempre Figlio di Dio”.
Nel 325 a Nicea ci fu finalmente un concilio che stabilì: “Il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza”, usando per “sostanza” il temine greco “omousios” che vuol dire esattamente “della stessa essenza”. Il concilio di Costantinopoli, infine, nel 381 stabilì che anche lo Spirito Santo è “omousios”, cioè della stessa sostanza del Padre e del Figlio.
Ma colui che chiarì in maniera chiara, accessibile a tutti, il mistero della Trinità, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: il Padre è l’Amore (Amans), il Figlio è l’Amato (Amatus) e lo Spirito è l’Amore (Amor) reciproco tra Padre e Figlio.
Le tre persone divine non sono quindi assolutamente statiche (cioè tre dei diversi, che se ne stanno per conto loro), ma sono dinamiche, sono cioè in continua relazione tra loro. “Dio è Amore; Dio è Relazione”. Una verità inesprimibile, teologicamente abbastanza ostica per noi: tant’è che per parlare di questa relazione che intercorre tra i tre, Padre, Figlio e Spirito Santo, il Concilio usò la parola “pericoresi”: dal greco “peri-coreo” che vuol dire andare attorno, girare intorno, danzare. La Trinità è pertanto Vita, Relazione, Danza, Divenire, Amore, Comunicazione, un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno.
La prima grande verità della festa di oggi è quindi che, ad immagine della Trinità, tutta la vita, tutto il creato, tutto ciò che ci riguarda, tutto ciò che accade è in costante relazione: quindi è sbagliato pensare che le nostre azioni, tutto ciò che facciamo, riguardi solo noi. Al contrario, ciò che facciamo, nel bene e nel male, si ripercuote immancabilmente anche su tutti gli altri, su ogni creatura. Ugualmente, tutto ciò che gli altri fanno, ricade inevitabilmente anche su di noi.
Pertanto, se noi diventiamo più consapevoli, tutto il mondo diventerà più consapevole; se diventiamo più fiduciosi nella Vita, più coraggiosi nelle scelte, più illuminati o più maturi nel nostro essere uomini di fede, tutto il mondo diventerà così. Quando noi odiamo qualcuno, non solo noi ma tutto il mondo subirà gli effetti del nostro odio. Quando malediciamo la vita, malediciamo tutta la Vita. Quando nutriamo pensieri omicidi per qualcuno, tutto il mondo subirà l’onda lunga di questi nostri pensieri. Così quando amiamo, tutto il mondo godrà dell’onda lunga del nostro amore.
Identica cosa succede soprattutto quando noi preghiamo, quando il nostro cuore è unito a Dio: i benefici che ne traiamo da questa unione soprannaturale, non sono riservati solo a noi, ma ricadono per davvero anche su tutto il mondo. E in questo modo tutto il mondo diventerà più aperto, più spirituale, più profondo, più vicino al Cuore di Dio.
Purtroppo noi non pensiamo mai abbastanza a questa potenza vitale della preghiera! Ma se pregassimo di più, se i nostri cuori viaggiassero più spesso sulla frequenza dell’Amore di Dio, tutto il mondo (oltre ovviamente noi) diventerebbe decisamente migliore, più santo, più elevato, più umanamente sostenibile.
Tutto è collegato al Tutto. Tutto è Uno e Trino; cioè tutto è interconnesso, comunicante, con il Tutto, con l’Amore assoluto (Gv 17,11). Per cui nulla può esistere di separato, di isolato, di “al di fuori”; niente e nessuno può esistere, se non entrando in relazione con il Creatore e con il resto del creato.
Quando la cronaca ci informa di delitti, di tragedie, di malcostume, la nostra miopia ci porta a considerarci sempre personalmente estranei, come se ciò fosse possibile (cfr. Mt 13,24-30). E una volta trovato il colpevole, tiriamo un sospiro di sollievo, e tutto torna come prima nella spensieratezza: tutti ci sentiamo più tranquilli, sereni, a posto, visto che il colpevole è stato individuato e assicurato alla giustizia; e purtroppo non ci rendiamo conto che la società intera è individualmente coinvolta in quei delitti; tutti indistintamente ne siamo responsabili.
La festa della Trinità ci insegna oggi anche un’altra grandissima verità: che “l’Amore sostiene ogni cosa”.
Cosa significa: abbiamo detto che la Trinità è l’Amore; dire Trinità è infatti un altro modo per dire Amore (ricordate? Pater Amans, Filius Amatus, Spiritus Amor).
L’amore è dunque la realtà ultima e più profonda di ogni cosa. Tutti cerchiamo l’amore. Tutti vogliamo essere felici; tutti siamo “sostenuti” dall’amore.
Ma perché allora siamo così spesso tristi, disperati, infelici? Perché, avendo un cuore “marchiato” dall’Amore, non riusciamo ad amare così come Gesù ci ha insegnato, e conseguentemente non ci sentiamo amati come vorremmo. In pratica non abbiamo ancora una sufficiente esperienza del Vero Amore, di quello autentico, di quello di Dio, vero, totale, sincero: e ciò procura uno scompenso nella nostra vita, un’intima inquietudine, un tormento profondo, un vivere quasi nell’anticamera dell’inferno.
L’amore divino è infatti quella forza-debolezza che ci sostiene, che è dentro di noi, che ci riscalda e ci guarisce. È forza, perché se ci sentiamo amati, possiamo affrontare qualunque cosa, possiamo superare qualunque difficoltà, niente più ci incute timore o insicurezza. Ma è anche debolezza, delicatezza, nel senso che l’amore di Dio è dolce, sensibile, gratuito, talmente appagante da commuoverci; un amore che non ci viene imposto, che non possiamo comprare, che non possiamo pretendere, che non possiamo comandare. È una forza, quella dell’amore di Dio, che infonde coraggio, potenza, entusiasmo, autorevolezza, ma solo per consentirci di ri-amare gli altri con umiltà, discrezione, tatto e gentilezza. Come ci ha insegnato l’uomo Gesù. Il suo amore è stato un amore crocifisso; un amore che non si è difeso contro le infamie dei suoi carnefici, che non ha voluto sottrarsi all’odio dei suoi persecutori. Che c’è infatti di più debole, di più fragile, di più esposto alla cattiveria umana di questo amore? Che c’è di più vulnerabile, di più indifeso di questo amore? Eppure questo è l’amore che ha salvato il mondo: e che continuerà a salvarlo fino alla fine dei tempi. Gesù amava in questo modo: con dolcezza, con comprensione, con garbo; ma anche con forza, con grande chiarezza, con onestà, con determinazione: non si imponeva, non faceva paura alle persone, non le terrorizzava; faceva una proposta e se non era accolta, non ne faceva una questione personale; non era aggressivo, non manipolava nessuno. Gesù avvicinava i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, e diceva a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti và di aprirmi il tuo cuore?”. Non forzava e non buttava giù la porta; sapeva benissimo che a volte la paura di aprirsi, di abbandonarsi, di lasciarsi amare nonostante una vita miserabile, era talmente così grande e invalidante, che le persone interpellate preferivano rifiutare.
A tutti, in ogni caso, egli diceva: “Anche se ora tu non mi ami, non preoccuparti, perché io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te”.
Pensiamo allora anche solo per un minuto alla meraviglia di questo amore divino, così forte e così debole insieme; pensiamo al dono impareggiabile che Dio mette a nostra disposizione, amandoci come solo Lui sa fare; un modo di amare assolutamente appagante e totalmente gratuito, che noi purtroppo sistematicamente ignoriamo: ma – scusate - che c’è di più forte, di più entusiasmante, di più corroborante, del sentirci dire da Dio: “Io ti amo!”. “Ma io Signore sono indegno, ho fatto le peggiori cose, mi sono macchiato delle colpe più infamanti”. “Non importa, io ti amo comunque; ti amo per quello che sei, qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso”; e che c’è di più debole, di più dolce, di più affettuoso che sentirci rassicurare: “Non voglio niente da te, non mi aspetto niente, non ti chiedo niente, non ti impongo niente: io sono qui con te, sarò sempre alla porta del tuo cuore: entrerò solo se e quando tu vorrai”.
Straordinario! Vi ricordate la scena del figliol prodigo, quando tornò dal Padre? Si era preparato per bene il suo discorso: “Gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te: e bla... bla... bla...”. Ma prima ancora che aprisse bocca, il Padre, appena lo vede da lontano, gli corre incontro, lo abbraccia, e nel suo commosso silenzio gli dice: “Ti aspettavo”. Nient’altro: nessun rimprovero, nessuna recriminazione, nessuna accusa.
Ebbene, in quel preciso istante il figlio disgraziato capisce l’amore: la debolezza del Padre gli entra dentro l’anima, gli invade il cuore. Sì, perché l’amore è la forza esplosiva più potente che esista: ma è anche la più debole, la più fragile, delicata: perché ci basta un nulla per vanificarla. Amen.

 

venerdì 22 maggio 2015

24 Maggio 2015 – Pentecoste

«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio» (Gv 15, 26-27).

Pentecoste è una parola greca e significa cinquantesimo giorno; è la festa che si celebra cinquanta giorni dopo Pasqua. Per gli antichi cinquanta era il numero della pienezza di un tempo. La Pentecoste, i cinquanta giorni, indicano che un tempo è finito: è giunto cioè a compimento il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni, e si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Cosa è successo in quei giorni a Gerusalemme? Gesù è morto e gli apostoli sono presi dalla paura: “Che accadrà adesso? Gesù, il nostro capo, se ne è andato, è stato ucciso, cosa ne sarà di noi?” Per loro è un momento di crisi profonda, radicale, decisiva.
Quante volte ci troviamo anche noi in questa situazione.
Stiamo vivendo tranquillamente la nostra vita: il lavoro, la salute, la famiglia, gli amici, tutto sembra andare bene: in realtà dentro siamo spenti e procediamo per forza d’inerzia: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole cristiane, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione; quando parliamo di Dio sembriamo degli insegnanti non degli innamorati, perché?
Siamo delle brave persone, siamo rispettati da tutti, ma siamo insoddisfatti perché ci rendiamo conto dentro di noi che non è esattamente questa la vita che dovremmo vivere. Che dobbiamo fare allora? Cosa bisogna fare in queste situazioni? Cosa è successo agli apostoli?
Per loro il giorno di Pentecoste ha segnato una decisiva catarsi. Da un livello di superficie, di esteriorità, sono passati ad un livello massimo di profondità, di interiorità; da una dipendenza totale, quasi infantile, sono passati alla maturità, alla piena autonomia, alla libertà.
Parlavano una lingua “altra”, che però tutti capivano, perché dentro di loro erano entrati in contatto diretto con Dio. Prima Gesù era fuori: avevano vissuto con lui, avevano mangiato e parlato insieme. Ma ora quel Gesù, risorto, non era più fuori ma dentro (lo Spirito Santo), lo sentivano forte e chiaro, potente e presente.
Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora sapevano benissimo che nessuno avrebbe più potuto toglierlo loro. Pentecoste fu per loro un “passaggio” che li sconvolse, che li rovesciò, che li mise in crisi.
Le due immagini “rombo come di vento” e “fuoco che si divideva(At 2,2-3) indicano un passaggio potente, destabilizzante, terribile: il vento indica un passaggio di libertà e di decisione: il vento spazza via, purifica, scompiglia e sconvolge, è un uragano che si abbatte (rombo), che libera da paure e dalla dipendenza dagli altri. Il fuoco indica il calore, la passione, l’essere presi, toccati dall’unicità di ciascun soggetto.
Ebbene: questo è il nostro salto qualitativo: un salto che porterà anche noi, come gli apostoli, dall’essere freddi, insignificanti, insapori, all’essere ardenti, fuoco che brucia, carichi di senso e di passione. Significa calarsi nell’intimità ed entrare in contatto con il Dio in noi; contatto che ci permette di analizzarci, di individuarci, di trovare la nostra forma autentica, la nostra unicità.
Nella vita è solo così che avvengono i grandi salti di qualità: se non c’è Spirito, se non c’è vento, se non c’è fuoco, non andiamo da nessuna parte! Soprattutto non possiamo fare le grandi scelte, non possiamo andare in tutto il mondo.
Se non avviene questo salto qualitativo, la nostra vita continuerà a trascinarsi nella mediocrità, nella tiepidezza. Fare invece questo salto significa “sentire” lo Spirito di Dio dentro di noi; significa sentirlo presente, forte, incontenibile, significa rendersi conto che è Lui la nostra forza, la nostra guida, il nostro tutto. Significa insomma vivere in un’altra dimensione.
Così per esempio il nostro andare in chiesa: se non avviene questo salto qualitativo, rimarremo dei semplici esecutori di regole religiose, la nostra fede rimarrà sempre bambina. Con questa nuova dimensione, invece Dio non sarà più una regola, un precetto, una formula; ma una Persona di cui innamorarsi, una Persona che ci prende dentro, che diventa esempio e modello di energia, di coraggio, di forza, di libertà, di passione; ed è guardando questo fuoco, che noi possiamo sprigionare il nostro di fuoco; perché tutto nella vita è esattamente in funzione di questo Fuoco divino, che è lo Spirito Santo!
Ma cos’è in pratica questo Spirito Santo? Se lo chiediamo alle persone, la maggior parte non saprà cosa rispondere. E se non sa rispondere, è perché non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto. Molti pensano che lo Spirito sia un’aggiunta a ciò che siamo, un di più. Quindi un qualcosa di cui possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di più, è qualcosa che noi già siamo. È il nostro essere, il nostro esistere: lo Spirito non decide di scendere in noi così, improvvisamente, un bel giorno della nostra vita; lo Spirito abita già in noi da sempre, dal primissimo istante del nostro concepimento. Essere spirituali, pertanto, non è pregare molto o fare cose religiose o frequentare la chiesa o fare pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire vivere dando spazio, facendo emergere lo Spirito di Dio che ci abita dentro. È il modo di vedere Dio, e di amarlo, in tutto ciò che ci circonda. Quando i santi guardavano le persone, la natura, le cose, non vedevano il loro essere materia, ma la luce, lo Spirito che abitava in loro.
Ogni cosa è materia e spirito (luce, energia). Lo spirito quindi si trova in tutte le particelle del corpo umano, in tutte le cose che ci circondano. Attenzione però: non c’è uno spirito dentro la materia, ma è la materia che è insieme “spirito” e materia. Non esiste uno spirito staccato dalla materia ma la materia stessa è spirito. Rilevarli, dipende da cosa noi vogliamo vedere; dipende cioè se noi entriamo dentro alla materia, oppure se ci fermiamo all’apparenza esteriore.
Ora cosa centra tutto questo con la festa di Pentecoste di oggi? Centra eccome: lo Spirito abita ogni cosa, è ogni cosa. Tutto è spirito e tutto è materia: dipende solo da come noi guardiamo le cose. Si tratta di andare alla ricerca dello Spirito, oltre le apparenze.
Gesù fu l’uomo del vedere oltre l’apparenza, dentro la realtà. Questa cosa Lui la chiamava “regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso, ma è qui, oggi, adesso. Dipende dai tuoi occhi”. Gesù vedeva un fiore e vedeva Dio (vedeva la luce, lo spirito del fiore). Gesù vedeva gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che meraviglia; chi può vestire come loro?; che liberi!”. Gesù vedeva i fatti di cronaca e vi vedeva dentro, leggeva la mano di Dio che insegnava. Gesù vedeva i sofferenti, i poveracci, le donne, e mentre tutti se ne stavano lontani, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava e coglieva il loro desiderio, il loro bisogno d’amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza (“Siete dei disgraziati lontani da Dio!”), Lui andava dentro. Lui sapeva cogliere la luce che li abitava; Lui sapeva vedere la forza, il desiderio di vita, che dormiva dentro di loro. Sulla croce era vicino ad un peccatore che aveva ucciso e mentre tutti vedevano il malfattore, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Fu condannato a morte e mentre noi non proviamo che rabbia verso coloro che lo condannarono, Lui vide la luce che si nascondeva nel profondo delle loro tenebre: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Gesù dunque non vedeva la materia; Gesù vedeva lo Spirito, la luce che c’è dentro ad ogni cosa. Questo significa essere uomini “spirituali”.
Ma noi continuiamo a correre, a fare, a produrre, e in questo modo continuiamo a rimanere nell’ordine della materia. Non possiamo accedere allo spirito che c’è in ogni cosa. Non possiamo vedere il divino che si nasconde dentro le persone e la vita stessa.
Perché sbattiamo le porte così forte? Perché urliamo sempre quando parliamo? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché non c’è luce nel nostro volto? Perché non sappiamo esprimere un sentimento che sia uno? Perché se possiamo “fregare” gli altri non ci pensiamo due volte? Perché non sappiamo sorridere? Perché non sappiamo dire “grazie”? Perché non sappiamo pregare?
Ciò che è tremendo della nostra società è l’incapacità di essere spirituale. È una vera disabilità. Il segno evidente della nostra malattia, della nostra materialità, è: “Quanto costa? Quanti soldi servono?” Oppure, altro segno eclatante, è l’espressione continua: “Io, io”. “Io faccio così; io faccio cosà; se non ci fossi io; io di qua, io di là”. Ritenersi i reggitori del mondo!
Ebbene: quando giudichiamo o valutiamo le persone in base al vestito; quando ammiriamo le auto e le case della gente, invidiandole; quando il nostro unico pensiero è il conto in banca; quando lavoro e carriera vengono prima di ogni cosa; quando tutto viene monetizzato, noi non siamo altro che “materia”: materia è quando vediamo nei vicini, nei colleghi, negli amici solo delle persone che rompono i nostri progetti, che scocciano, che ci danno fastidio. Spirito invece è quando iniziamo a vedere uno che soffre, uno che ha un cuore e un’anima. Materia è quando vediamo nel nuovo giorno solo un altro giorno di lavoro; Spirito è quando possiamo vedervi un’altra opportunità offertaci per sperimentare la vita. Materia è quando qualcosa ci fa innervosire. Spirito è quando iniziamo a chiederci il perché, cosa dobbiamo imparare o cosa dobbiamo cambiare del nostro comportamento o del nostro modo di pensare. Materia è quando guardiamo una donna e vogliamo possedere il suo corpo. Spirito è quando iniziamo a percepire che quella donna è una creatura, con un cuore che batte e che pulsa. Materia è mangiare, spirito è gustare. Materia è respirare (avviene in automatico), spirito è essere consapevoli del respiro, della “ruah” (spirito, soffio vitale). Materia è udire il canto degli uccelli, spirito è ascoltare il loro canto. La stessa vita può essere terribilmente materiale o meravigliosamente spirituale, piena di buio deprimente o di luce esaltante: dipende dai nostri occhi. Amen.
 
 

giovedì 14 maggio 2015

17 Maggio 2015 – Ascensione del Signore

«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti…» (Mc 16, 15-20).
Oggi la chiesa celebra la festa dell’Ascensione, la salita di Gesù in cielo. Marco ce ne fa una descrizione molto particolareggiata. Sarà successo tutto come lui racconta? No! La sua non è una cronaca, ma una descrizione teologica (oltretutto queste righe sono un’aggiunta successiva al vangelo di Marco). In pratica il testo qui vuol dire: “Io me ne vado, non ci sarò più; ma rimarrete voi. Io non parlo più, non opero più, ma continuerò a farlo attraverso voi. Voi siete le mie labbra, le mie mani, i miei piedi, i miei occhi e il mio cuore. Io sarò ancora materialmente presente in questo mondo grazie a voi”.
Quindi l’ultima raccomandazione: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». Per ben due volte il testo usa il verbo andare e per due volte predicare; l’invito è seguito dal suo compimento: Allora essi partirono e predicarono dappertutto (16,15.20). Un compito che nessuno in futuro dovrà mai dimenticare.
Chi c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore? Gesù, ovviamente. Ma adesso Lui non c’è più e manda i suoi discepoli. Loro sono i nuovi Gesù. E attenzione: “In tutto il mondo... ad ogni creatura... dappertutto”: il vangelo (eu-anghelion = buona/bella notizia) è per tutti.
Cos’aveva fatto Gesù? Mentre i religiosi ebrei discriminavano e dicevano: “Questi sì e quelli no; questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta d’identità, la bellezza, la simpatia; io guardo il cuore. Ho un messaggio da proporre al tuo cuore, un messaggio di luce, di vita, d’amore, di riconciliazione, di pace, di verità. E vengo da te. Se lo accogli, bene; se non lo accogli vado da un’altra parte. Ma Dio è per te e per tutti”. E proprio per questo Gesù dice: “Andate da tutti, dappertutto, da ogni creatura”.
Una volta si interpretavano queste parole dicendo: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna rendere cristiani tutti gli abitanti del mondo. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non voleva fare né proseliti, né servi. Gesù voleva solo portare a tutti il vangelo, il suo annuncio di salvezza. Voleva dire: “Guarda, Dio è dentro di te; tiralo fuori, fallo vivere, esprimilo. Non hai neppure idea che forza, che potenza, che energia tu abbia dentro di te. Tu sei già di Dio, sei “divino”: io non vengo per importi qualcosa ma solo per convincerti a guardarti dentro, ad esprimerti, a renderti conto di ciò che tu, senza saperlo, già sei; a convincerti che se tu vuoi, puoi dimostrare a tutti quello che sei realmente”. Chi gli credeva, guariva dalle malattie del corpo (ciechi, zoppi, lebbrosi, ecc.), guariva dalle malattie della vita (depressione, attaccamento, paura di ogni cosa, indifferenza, voglia di morire), guariva dall’aridità del cuore, dalla freddezza e dalla rigidità interna. Alcuni di questi credenti erano così “presi”, così entusiasti, così “toccati” da questa nuova prospettiva, che lasciavano tutto (casa, famiglia, moglie, figli, lavoro, giudizio della gente) e lo seguivano. Erano così cambiati, da chiamare “vita vera, vita autentica” perfino la morte corporale.
Quindi non si tratta tanto di “andare” a convertire il mondo intero, ma di “proclamare il vangelo”, di far capire che il Dio del vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei giusti e dei non giusti.
In particolare, cosa vogliono dire queste parole? Che Dio è di tutti: soprattutto lo è già di tutti. Non si tratta di mettere dentro al loro cuore un qualcosa di nuovo; al contrario di tirar fuori qualcosa che già hanno dentro! Dio è la possibilità di un incontro, di un’esperienza che tutti possiamo fare con lui, perché egli vive già, dormiente, in ciascuno di noi.
Nessuno ha l’esclusiva di Dio. Dio non appartiene a nessuno: non è né mio né tuo. Non è neppure della Chiesa cattolica: semmai è la chiesa cattolica che appartiene a Dio, non Dio alla Chiesa. Nessuno può dire: “Io conosco già tutto di Dio, e questo mi basta”; al contrario: “Io voglio vivere fino in fondo tutto quello che conosco di Dio”.
La catechesi, la predicazione, non devono aggiungere niente di nuovo; devono soltanto far emergere, far risvegliare, far risplendere quel Dio che nella sua grandezza, nella sua potenza, nel suo amore infinito, vive già in ogni creatura umana.
Tutti abbiamo Dio in dono (siamo di Dio!). Ma tutti lo abbiamo in maniera “diversa”, con particolari personalissimi carismi: “Tu hai la tua esperienza di Dio; io la mia. Non devi darmi ad ogni costo la tua; aiutami soltanto a trovare la mia”. Dio non è una formula, né una preghiera, né una pagina di catechesi: Dio è una presenza. Educare a Dio vuol dire mettere gli altri in collegamento, in relazione, col Dio che già vive in loro. Altrimenti non facciamo “annuncio”, ma “costrizione”, vogliamo cioè imporre soltanto la nostra idea, la nostra immagine di Dio (piena tra l’altro delle nostre proiezioni), senza pensare che così facendo allontaniamo la gente dal loro Dio.
Noi siamo i nuovi Gesù. Lui non c’è più, ora ci siamo noi. Gesù ha vissuto un tempo storico, circa trentatre anni, ventun secoli fa. Poi se ne è andato. Adesso ci siamo noi, tocca a noi continuare la sua opera.
Il vangelo è chiaro: “Essi (cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (16,20).
Sono le ultimissime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; da questo momento inizia quella della chiesa, inizia la “nostra” storia. Ma Lui comunque c’è sempre, Lui vive in noi, vive attraverso le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra. Lui “opera” con noi, attraverso di noi. In pratica è Lui che “conferma” quello di buono che facciamo.
“Operando insieme” (16,20) in greco è “sinerguntos”, da “sin-ergo”: collaborare, cooperare, essere coadiutore, socio, collega: praticamente agiamo in “sinergia”, noi siamo il telaio, le ruote, il volante; Lui è il motore, la potenza, la forza motrice, la nostra energheia.
Eppure, quante volte diciamo: “Ma tu Signore, di fronte a tutto ciò che mi succede, non fai proprio niente? Perché non intervieni direttamente come facevi una volta? Perché non fai qualcosa? Perché non sistemi le cose?”, e ci arrabbiamo, non ci rendiamo conto che ora siamo noi che dobbiamo metterci in gioco per primi, siamo noi che dobbiamo cercare una soluzione: non possiamo pretendere sempre la soluzione già pronta, il risultato finale già in tasca. C’è in atto una stretta cooperazione: Lui fa sempre la sua parte; ma noi? Lui ci ispira, ci da il coraggio, la forza, la costanza di insistere, la “rassegnazione” finale se qualcosa non riesce come noi vorremmo. Tutto nella nostra vita ha un perché, una motivazione, una spiegazione: spetta a noi semplicemente trovarla e capirla.
Con l’Ascensione Dio non agisce più direttamente, in prima persona: lo fa solo attraverso di noi.
Purtroppo il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: chiediamo tutto a Dio: che faccia questo, che ci tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci mandi il miracolo o quello che ci serve. Siamo come i bambini che chiedono, chiedono, chiedono sempre e tutto alla mamma e al papà. I piccoli, è vero, hanno bisogno di ricevere il biberon e la pappa pronta. Ma noi siamo grandi e il nostro cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti.
Dio non c’è più, non è più materialmente qui per fare al nostro posto le cose che dobbiamo fare noi. È asceso in cielo. Dio, in questo mondo, non interviene più, non scende più. Non possiamo più appellarci a Lui. Ma attenzione, Dio c’è ancora, eccome! È Lui la forza che c’è in noi, la fiducia e la vita che abitano in noi; a Lui possiamo ricorrere, da Lui possiamo attingere la grazia a piene mani. Da questo punto di vista, dunque, Lui è sempre con noi; interviene e lavora sempre, ma solo con noi, (sin-energia), attraverso noi.
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16,15).
Per Gesù “salvezza” è vivere alla luce del vangelo, avere cioè una vita vibrante, appassionata, una vita che esprime gioia, in cui l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, una vita in cui poter andare con la fede oltre noi stessi, in cui, insomma, poterci sentire vivi, realizzati, accolti.
In questo infatti consiste il nostro “credere”: infiammarci quando incontriamo Dio, bruciare di vita nuova sentendolo vicino. Prima eravamo freddi, di ghiaccio, morti; con la fede ci riscaldiamo, ci sciogliamo e diventiamo terribilmente vivi, infuocati.
Il vangelo, a questo proposito, enumera anche i segni che distingueranno coloro che credono (16,17). Quando leggiamo la vita dei Santi ci viene spontaneo dire: “Che uomini straordinari! Come hanno fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati; li consideriamo degli uomini “superiori”, dei super eroi. La verità invece è un’altra: non sono loro ad aver vissuto da supereroi, ma siamo noi che viviamo al di sotto delle nostre possibilità. Quello che hanno fatto loro, è esattamente quello che noi, se vogliamo, possiamo fare.
E vediamo allora questi segni rivelatori: prima di tutto saper “scacciare i demoni”. Nel vangelo i demoni parlano e hanno voce. Nella nostra vita c’è tutto un vociare, un ammasso di programmi, di discorsi, di prediche, di schemi inutili; un peso superfluo che ci appesantisce, che ci impedisce di volare in alto, che ci uccide d’inedia, che ci fa morire di sovrappeso. Ebbene noi possiamo scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi schemi: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui. Gli schemi, le parole, sono solo schemi e parole: si possono cambiare, sostituire, eliminare.
“Parlare lingue nuove”. Abbiamo mai ascoltato i nostri discorsi? Di cosa parla la gente? Del tempo, di ciò che ha fatto il vicino, il collega, il capoufficio, dell’ultimo gossip; e poi tante “chiacchiere” inutili, insinuazioni, discorsi vuoti, spersonalizzati, senza un’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi! Quali sono allora le lingue nuove di cui si parla qui? Semplice: è il linguaggio del silenzio, il grande linguaggio del frenare la lingua, chiudere la bocca e ascoltare: “Sto in silenzio e ti ascolto. Ascolto le parole della tua anima, del tuo cuore. Ascolto la natura, il canto degli uccelli, ascolto il mio e il tuo cuore che batte, il mio e il tuo respiro vitale.
È il linguaggio degli occhi: fermiamoci e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima. È il linguaggio del cuore: parlarsi intimamente, esprimere le proprie emozioni, le proprie paure, i propri bisogni, i propri desideri. È il linguaggio dell’anima: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere felici. Le persone neppure immaginano quale vibrazione, quanta vita, quanta energia, quanta forza, diano quelle parole, che non sono “parole”, ma effusioni dell’anima.
Altro segno che caratterizza l’uomo di fede è “Prendere in mano i serpenti”. Il serpente è pericoloso, a volte mortale. Quante volte evitiamo cose e persone perché ci sembrano viscide, sfuggenti come serpenti: ci fanno ribrezzo, paura, pensiamo di non farcela ad affrontarle; sono situazioni troppo impegnative per noi, troppo pericolose, troppo insidiose. Ma la nostra è solo paura. “Con me puoi tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Prendiamo in mano i nostri serpenti: non crediamo più in niente, non andiamo più in chiesa, ci siamo stancati di sentire sempre le stesse prediche, i preti non ci trasmettono più nulla? Esaminiamo il problema! Non abbiamo più fiducia né stima per i nostri colleghi, i nostri vicini, i nostri parenti, i nostri amici, non li sopportiamo più, la loro presenza ci arreca fastidio? Fermiamoci: affrontiamo la questione, prendiamo in mano il serpente, analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza. Svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Lui nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Perché tiriamo avanti fingendo che tutto vada bene? Non permettiamo che il serpente si nasconda, strisciando nella nostra vita. Pensiamo che un nostro richiamo, un nostro rimprovero, una nostra ramanzina nei confronti di qualcuno sia utile e necessaria? Facciamola! Cosa aspettiamo? “Ma non so come reagirà! Ho paura che se la prenda a male, temo che intervenire sia peggio!”. Le nostre sono solo scuse, delle bugie belle e buone! Se abbiamo fede, se ci comportiamo come ha fatto Gesù, se usiamo la Sua carità, il Suo amore, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivi i nostri serpenti! Lui è sempre con noi, lo sappiamo: e con Lui possiamo affrontare tutto.
È vero: l’uomo Gesù se n’è andato da questa terrà, è asceso in cielo, ha raggiunto il Padre; ma ora qui ci siamo noi. E in noi, sue membra, scorre la sua stessa forza vitale, il suo stesso Spirito. Quello che Lui, il Figlio di Dio, ha umanamente fatto, noi lo possiamo ripetere. Se siamo convinti di questo, se la nostra fede è tale da smuovere le montagne, niente ci sarà impossibile. Gesù stesso lo ha detto: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12). Meditiamo e preghiamo. Amen.

 

giovedì 7 maggio 2015

10 Maggio 2015 – VI Domenica di Pasqua

«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,9-17).
Dio ci ama gratuitamente, illimitatamente, al di là di tutto. Lui non ci chiede di essere puri, giusti, buoni; Lui ci chiede solo di accoglierlo e di lasciarci amare.
Il suo è un amore gratuito, un amore immeritato: è l’amore di Dio.
L’amore degli uomini è invece condizionato, interessato. Le persone ci amano ma pongono dei limiti al loro amore: “Se vai oltre un certo limite, io non ti amerò più”. Possiamo accettare per una volta il tradimento di un amico, di una persona cara, ma se dovesse persistere gli diciamo: “Ora basta!” e tronchiamo l’amicizia.
Possiamo accettare per una volta dall’amico, dal fratello, un attacco diretto, forse anche un comportamento violento; ma se la cosa dovesse continuare, ci vediamo costretti a dirgli: “Ti voglio bene ma non posso più stare con te”, e ce ne andiamo per la nostra strada.
L’amore degli uomini rispetta determinate condizioni; e tutti gli uomini le rispettano.
Ma l’amore di Dio no; l’amore di Dio non ha limiti; per questo abbiamo con Lui un debito di riconoscenza fin dall'inizio: volendolo ricambiare partiamo tutti svantaggiati, perché egli ci amati da sempre, prima ancora che nascessimo; e lo ha fatto in un modo che noi non potremmo mai imitare.
Egli ci ha amati e ci ama di un amore libero, incondizionato, gratuito.
Però se nulla possiamo fare per il passato, altrettanto non possiamo dire per il presente e per il futuro: dobbiamo pertanto impegnarci a riversare sugli altri, sul prossimo, un amore almeno “simile” a quello con cui lui da sempre ci ama. Siamo da lui amati senza meriti, senza aspettative e senza pretese? Cerchiamo di fare altrettanto anche noi! “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8).
Un amore unico, quello di Dio: l’amore di un Dio che viene per servirci, che viene gratuitamente per noi, di sua spontanea volontà. Se riusciamo a capire l’importanza e la portata dell’essere amati da Dio in questo modo, è impossibile non amare anche noi gratuitamente, senza pregiudizi e senza pretese.
Poi Gesù dice: “Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore…” (Gv 15,10).
Quando noi sentiamo parlare di “comandamenti” pensiamo automaticamente ai Dieci Comandamenti. Ma in Giovanni non troviamo nessuna lista di comandamenti di Gesù.
E nei vangeli, se Gesù invita a qualcosa, non è a seguire i Dieci Comandamenti ma, casomai, le otto Beatitudini.
Così quando sentiamo parlare di “comandamento dell’amore”, il nostro pensiero corre immediatamente alle parole: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. E pensiamo che Gesù volesse identificarlo proprio in questo. Ma non è così. Questa era la spiegazione data dalla spiritualità ebraica, dai primi cristiani provenienti dall’ebraismo, ma non Gesù; per loro oltretutto era un comandamento abbastanza ovvio, in quanto, per un ebreo, il “prossimo” non erano tutti gli “altri”, ma solo gli altri ebrei. Gesù lo spiega più avanti cosa intende per comandamento dell’amore: “Amatevi come io vi ho amati” (Gv 15,12) e il riferimento è la lavanda dei piedi. Essere al servizio di tutti, con amore e umiltà!
Inoltre Gesù dice: “Vi do un comandamento nuovo (kainèn)”. Ora, nuovo in greco si può dire in due modi: neòs se usato in senso numerico (mi hanno regalato una penna nuova; ora ne ho due); oppure kainòs se usato in senso qualitativo, cioè “un’altra cosa!” (mi hanno regalato dei libri, un regalo completamente nuovo rispetto ai giocattoli di  prima); la novità sta sull'altro livello del dono, un dono di tutt’altra qualità.
Nel nostro caso, gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti e Gesù non ne dà un undicesimo (neòs). Avevano già 613 regole da seguire, bastavano quelle, erano più che sufficienti! Gesù non aggiunge un’altra regola, ma in pratica le riduce ad una; Egli dà un’unica regola, ma totalmente nuova (kainòs); un comandamento che è tutta un’altra cosa, un comandamento che sta su un altro piano, che soppianta tutti quelli che c’erano prima. Gesù dice semplicemente di amare, ma di un amore nuovo, un amore che produce gioia: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Non a caso la parola “amore” (charis) deriva proprio dalla radice charà = gioia, festa, godere.
Questa è la novità importante, fondamentale, che lo rende unico: l’amore, per essere come quello di Dio, deve produrre gioia, allegria, felicità; se il nostro amore non produce questi sentimenti in noi e nelle persone che “diciamo” di amare, allora dobbiamo porci seriamente delle domande, dobbiamo analizzarci in profondità. L’essere nella gioia, non vuol dire provare quella gioia che sentiamo quando tutto ci va bene, quando siamo fortunati. La gioia dell’amore è quel sentimento profondo, intimo, rassicurante, che ci tranquillizza, che ci fa sentire al nostro posto, che ci fa sentire amati, che ci assicura sulla bontà dei nostri progetti, sulla strada che stiamo percorrendo, che ci fa capire che siamo qui, in questo mondo, per qualcosa di veramente importante, che ci crea una sensazione di vitalità, di gioia interiore, di libertà.
Si può amare il Signore ed essere sempre seri, tristi, contriti, irreprensibili? Se noi non dimostriamo mai i segni della gioia, dell’amore, che sono appunto il sorriso, la serenità, la generosità, la pace, ecc., dobbiamo cominciare a preoccuparci seriamente sull’autenticità del nostro amare Dio! Forse, tutto sommato, non siamo troppo convinti che Dio ci ama. Dio è gioia! È amore vero! Se diciamo di amarlo, perché viviamo dimostrando all'esterno il contrario?
Poi Gesù, continuando la sua lezione sull’amore, dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Questa affermazione è stata in passato ed è ancora oggi, decisamente distorta, incompresa. Un’iperbole difficilmente attuabile: il “dare la vita”, è interpretato come “morire” per gli altri: in altre parole uno per amare veramente gli altri, deve rinunciare alla propria vita, deve sacrificarsi fino alla fine ultima, deve rinunciare alla propria esistenza materiale; per cui il darsi agli altri, in mancanza della morte, è un darsi non evangelico, non in linea con l’amore di Gesù che ha sacrificato la sua vita sulla croce per amore nostro; è un darsi incompleto, un darsi limitato, un vivere in maniera incompleta il “comandamento” di Gesù.
Ma non è questo il significato: Dio non ci impone eroismi, non vuole che rinunciamo al grande dono della vita che lui stesso ci ha dato: lo richiede solo a poche persone, ai santi, in particolari casi e in particolari situazioni. La nostra santità passa attraverso gli eroismi della normalità. Attraverso un donare quella “vita” che coincide con il nostro essere spirituale.
Il vangelo di Giovanni è chiaro: quando egli scrive dare la vita, non usa le parole “zoé” che indica la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), oppure “bios” che allude al modo in cui noi viviamo (quam vivimus); usa invece il termine “psyché”, che nella lingua greca del Nuovo Testamento significa "anima,respiro, soffio vitale”.
È dunque questa la vita che dobbiamo dare ai nostri amici: è la nostra anima, ciò che abbiamo dentro, quello che siamo nel nostro intimo, il nostro essere spirituale. Dare la vita materiale, quella esteriore, non serve. Neppure quando parliamo di figli. Il dono più grande per un figlio non è assicurargli una vita al top: non sono i soldi, né il cognome famoso, né i beni, né un’adeguata posizione sociale; il vero dono è mettergli a disposizione totale tutto ciò che noi siamo e abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda, è dargli la nostra anima, il nostro amore, i nostri slanci, le nostre convinzioni, i nostri ideali.
Se noi, da parte nostra,non abbiamo nessuna vitalità, nessun entusiasmo, nessun ideale, nessun valore radicato in noi; se non abbiamo nessuna sicurezza, nessuna fede, nessuna apertura, che tipo di “vita” potremo mai “sacrificare”, quale “vita” potremo mai donare ai nostri cari e agli altri?
Spesso marito e moglie stanno insieme per anni: si sono donati corpo, tempo, ore, cose preziose, ma mai la loro “vita”; pur vivendo sotto lo stesso tetto per anni, sono rimasti sempre degli estranei. Tra i due non c’è complicità spirituale, non si fanno dono vicendevole della loro psyché, non si scambiano l’anima, il loro sentire più intimo e riservato, la loro essenza spirituale; non arrivano e mettere a nudo la loro fragilità, la loro vulnerabilità, le loro paure, i loro sogni segreti. Non c’è complicità interiore. Ecco perché prima o poi le coppie inesorabilmente scoppiano: non perché non si amano più, ma perché non sanno amarsi in questo modo. Non conoscono l’essenza del vero amore, l’amore con cui Dio li ama entrambi, e non sanno condividere e convivere questo amore. “Stanno insieme” perché fanno tante cose in comune, abitano nella stessa casa, hanno gli stessi interessi: ma se tra loro non c’è questa simbiosi interiore, non c’è questo incontro, questa fusione di anime, il loro non è “psychéin”, non è “dare la propria vita per l’altro”, non è “vivere insieme un’unica vita”, non è la “fusione dell’essere”, il respirare insieme, il sentire insieme, il pensare all’unisono. In altre parole le coppie scoppiano, perché il loro amore non arriva ad essere come quello “più grande” in assoluto, quello descritto nel vangelo di oggi.
Purtroppo la regola è la stessa per tutti: la vita passa inesorabilmente. Sta a noi scegliere come volerla far passare: la lasciamo semplicemente scorrere alla deriva senza alcuna direzione? Oppure vogliamo imprimerle un qualcosa di significativo, di valido, di “eterno”?
 “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga”. Il mandato ricevuto è chiaro e inequivocabile. I mezzi per attuarlo, altrettanto. Pensiamoci. Amen.