venerdì 27 febbraio 2015

1 Marzo 2015 – II Domenica di Quaresima


“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse in disparte, essi soli, su un alto monte” (Mc 9,2-10).
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: sono quelli stessi che lui ha personalmente chiamato al suo seguito, ai quali ha messo anche un soprannome: Simone diventa Pietro, cioè “testa dura”, Giacomo e Giovanni sono invece i “Boanèrghes”, ossia “i figli del tuono”, dei fanatici, dei collerici, dei violenti, a cui non sta mai bene nulla.
Sappiamo però dal vangelo che tutti gli apostoli, Pietro in particolare, cambiano radicalmente modo di pensare e di agire: Pietro si diventa il “capo”, la guida, il punto di riferimento del gruppo; Giovanni diventa addirittura il “discepolo amato, quello che posava il capo sul petto di Gesù” (per dire la trasformazione in amore, in dolcezza, in tenerezza): il loro è stato quindi un cambiamento radicale, definitivo: una revisione totale e profonda della loro vita.
Un cambiamento che ci mette di fronte ad una realtà: per poter seguire Gesù, è necessario trasformare non solo il nome, ma anche e soprattutto il carattere. In altre parole è necessario “convertirsi”; la conversione infatti comporta proprio questo: smettere di essere “noi stessi”. Certo noi rimaniamo sempre “noi stessi”, ma siamo “diversi”, non sentiamo, non pensiamo, non viviamo più come prima, perché abbiamo fatto una nuova esperienza che ci ha cambiati completamente. Gli orientali la chiamano “illuminazione”: prima eravamo ciechi, ora ci vediamo perfettamente; i cristiani “conversione”: vivere cioè una nuova vita con Lui, in Lui; in maniera diametralmente opposta allo stato di “peccato” che implica un comportamento lontano da Lui.
Gesù quindi “li condusse sopra un monte, in un luogo appartato, in disparte”.
Il monte non è tanto un'indicazione topografica, ma teologica. Cos'era il monte nell'antichità? Era il luogo della terra più elevato verso il cielo, quindi il luogo più vicino a Dio (che stava nei cieli). “In disparte” poi, nei vangeli, ha sempre una valenza negativa: significa, cioè, che questi discepoli sono in qualche modo in contrasto con Gesù, hanno cioè combinato qualcosa che non andava bene. È di poco prima, infatti, la ribellione testarda di Pietro, allorquando Gesù annuncia la possibilità di essere rifiutato e addirittura ucciso (anche qui Marco sottolinea che Pietro “lo prese in disparte”); uno scontro piuttosto violento, tanto che Gesù gli grida: “Lungi da me satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro vede ancora Gesù come un Messia potente, forte, uno che deve in ogni caso imporsi; non vuole saperne di un Gesù mite, remissivo, che predica parole di amore, di perdono e di misericordia.
Anche Gesù, quindi, li prende “in disparte”: deve cioè dimostrare, in maniera forte e inequivocabile, che Lui non è il messia che loro si aspettano; Lui non è un nuovo Elia, non è un nuovo Mosè, come essi avrebbero voluto. Dicevano sì di amarlo: ma amare significa vedere le persone per quello che sono, e non per quello che noi vorremmo che fossero.
A questo punto Gesù si trasfigura: Marco usa il verbo meta-morfeo, cioè “mi metamorfizzo”, entro in una completa metamorfosi. Inoltre il verbo è usato al passivo e, come sempre in questi casi, sta ad indicare un diretto intervento di Dio: quindi non è Gesù che “si” trasforma, ma è Dio stesso che “lo” trasforma. Dunque Dio lo trasfigura: un particolare colpisce l’attenzione dei tre discepoli: le sue vesti erano così bianche che “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Cosa vuol dire? Che per quanto noi facciamo (anche il miglior lavandaio) non potremo mai raggiungere da soli lo splendore di questa condizione: uno splendore che soltanto chi si lascia invadere da Dio può raggiungere; solo chi si lascia trasfigurare da Dio.
Vi ricordate Madre Teresa? Il suo volto era pieno di rughe, scavato, ma aveva uno sguardo splendido. Perché? Perché in lei Dio si rendeva visibilmente splendente; Dio la trasfigurava. Guardandola si vedeva in lei qualcosa di oltre, di più in là del suo volto: in lei risplendeva Lui.
La radice greca di “splendore” deriva da spodèo, che vuol dire “ridurre in cenere, eliminare, distruggere”. Lo splendore ha sempre a che fare con una trasformazione radicale, con un bruciare il vecchio, ridurlo in cenere, eliminarlo, per diventare qualcosa di completamente nuovo, di rinato.
Poi il testo continua: “E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù(Mc 9,4). È il massimo del massimo. Sono i due più grandi personaggi della tradizione d'Israele. Mosè il grande legislatore, il grande condottiero, il liberatore del popolo dalla schiavitù d'Egitto; Elia, il riformatore religioso, colui che con ferma determinazione, attraverso anche la violenza, aveva imposto al popolo “disperso” la legge di Mosè. Quelli che, secondo la tradizione, non erano neppure morti; quelli che, soli, avevano incontrato Dio a tu per tu, e avevano parlato con Lui. Qui però non parlano più con Dio, ma parlano con Gesù: si vuole cioè dimostrare che Dio e Gesù sono un tutt’uno. È chiaro. E fin qui tutto bene. Ma ora scatta la reazione di Pietro. Marco gli mette addirittura l'articolo: “Il Pietro”, come a dire il testardo, il duro. E cosa dice Pietro? “Rabbì”; Pietro chiama Gesù “Rabbì”; ma chi era il Rabbì? Era colui che si atteneva strettamente alla tradizione degli antichi. Solo due persone, in Marco, chiamano Gesù con questo nome: Pietro e Giuda. Sono coloro che, identificandolo con il messia annunciato dalla tradizione, non accettano le sue novità “rivoluzionarie”, destinate solo a stravolgerne la missione. In pratica Pietro gli dice: “No! Tu non puoi essere così. Devi essere diverso; devi essere colui che incarna la tradizione, quel liberatore che i nostri padri ci hanno predetto”. In altre parole rifiuta Gesù e gli dice: “Così come sei, noi non ti vogliamo!”. Egli nella sua testa ha un’idea chiara di come deve essere il “maestro”, il “Rabbì” e invece di essere lui a conformarsi alle idee di Gesù, pretende che sia Gesù a conformarsi alla sua idea.
In genere ci sono due modi di rapportarsi alle cose, alle persone, agli eventi.
Il primo dice: “Questo non è come io penso: quindi non vale”. In pratica riduciamo la realtà a ciò che pensiamo nel nostro cervello. Per cui se una cosa non è come noi la pensiamo, la eliminiamo, la scartiamo.
Il secondo invece dice: “Questo non è come io penso, ma può essere vero. Cercherò, studierò e, se sarà vero, lo accetterò anche se non è come io penso”. In questo caso la mente è disponibile ad adattarsi alla realtà.
Nel primo, identifichiamo tutto con noi stessi: rifiutiamo cioè la realtà in quanto tutto è e deve essere come pensiamo noi. Nel secondo ci apriamo invece alla realtà: riconosciamo cioè che la realtà è più grande di noi, esula da noi, non è come la pensiamo. Vivere, imparare, vuol dire aprire la nostra mente alla realtà, non ridurre la realtà alla nostra mente. Infatti, anche se una cosa ci sembra impossibile, non è detto che lo sia; anche se una cosa ci sembra evidente, non è detto che sia vera, reale.
Dunque: cosa dice Pietro? “Rabbi è bene per noi stare qui; facciamo tre capanne”. Perché tre capanne? Nella tradizione ebraica si sapeva tutto del Messia. E alla domanda: “Quando verrà il Messia?”, la risposta era chiara: “Durante la festa delle capanne”: la festa religiosa in cui si commemoravano i quarant'anni di deserto, dopo la liberazione dagli Egiziani e dalla schiavitù, ottenuta grazie a Mosè. Fare tre capanne significa allora cercare di tenersi buono Gesù: essi sapevano infatti che contrastando rudemente il suo operato, così diverso da come essi se lo aspettavano, prima o poi sarebbero incorsi nelle sue punizioni, nei suoi castighi. Lo vedono ancora con i loro “vecchi” occhi, e questo incute loro paura: “erano stati presi dallo spavento”.
Del resto, come se non bastasse la visione della “trasfigurazione”, sentono improvvisamente la voce di Dio che dalla nube che li sovrastava, esclama in maniera perentoria: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. È Lui che dovete ascoltare: non Mosè, non Elia, come avete sempre fatto, attaccati come siete al vecchio, alla tradizione, a ciò che è stato. Inutile insistere nel voler fare di testa vostra, come volete continuare a fare.
E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro”.
Per accettare Gesù, il Gesù che è davanti a loro, essi devono abbandonare, devono lasciare, rigettare, tutto ciò in cui prima credevano ciecamente. Un decisivo salto di qualità, che richiede la loro completa fiducia: devono credere anche se non capiscono e non condividono. Inoltre, una volta tornati giù, Egli si fa promettere di non parlare con nessuno di ciò che avevano visto, “fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti”. Altro particolare che li mette ancor più in confusione. Per loro è veramente troppo: obbediscono all’ordine di Gesù, anche se non riescono ancora a capirci nulla, soprattutto “cosa significasse quel risorgere dai morti”. Ma capiranno anche questo: lo capiranno più tardi, dopo la resurrezione.
E concludo: a noi cristiani del XXI secolo, cosa dice questo vangelo? Prima di tutto dobbiamo evitare il comportamento di Pietro che non accettava Gesù: lo voleva “diverso”. Oggi purtroppo quasi tutti amano un Gesù diverso: un Gesù che ognuno costruisce per sé, secondo le proprie idee, le proprie voglie. Ma così facendo amiamo un falso Gesù, un Gesù che ci siamo creati noi nella nostra testa, non il Gesù del Vangelo. Amiamo la nostra idea di Gesù, non Gesù.
Inoltre dobbiamo imparare ad accettare le persone per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero: dobbiamo amare la realtà, perché è l'unica cosa che esiste veramente. Se noi amiamo gli altri perché sono come noi, pensano come noi, fanno quello che vogliamo noi, non amiamo gli altri, ma soltanto noi stessi. Dobbiamo invece accettare che gli altri siano diversi da noi. Perché in questo consiste l'amore: accettare che ciascuno faccia una strada diversa da quella che noi vorremmo per lui. Amare è dire: “Io mi comporterei diversamente, ma accetto la tua scelta”. Accettiamo infine ciò che ci accade. Accettiamo questo mondo. “Questo mondo mi fa schifo; è pieno di ladri, di imbroglioni; ciascuno pensa solo a se stesso, non c'è solidarietà, non c’è carità, non c’è amore; è impossibile amarlo, non lo posso accettare!”. Avremo anche ragione: ma se eliminiamo questo mondo “di schifo”, quale altro mondo ci rimane? E se invece provassimo ad amarlo sul serio? Se provassimo noi, nel nostro piccolo, a migliorarlo, a farlo diverso? L'amore è anche accettazione: possiamo non condividere, possiamo essere contrari, possiamo dissentire, ma alla fine accettiamo le scelte degli altri; anche se non corrispondono ai nostri parametri. Dice Gesù, “se amate quelli che vi amano (cioè quelli che la pensano come voi), che merito ne avrete?” (Lc 6,32). È solo amando, sempre e comunque, che verremo riconosciuti come figli di Dio e riamati da Lui. Amen.  


giovedì 19 febbraio 2015

22 Febbraio 2015 – I Domenica di Quaresima

«In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-15).
Con il vangelo che fa riferimento alle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce ogni anno nel tempo della Quaresima. Nei due versetti che immediatamente precedono il brano di oggi, parlando del Battesimo di Gesù, Marco dice che “i cieli si spalancano, e su di Lui scende lo Spirito di Dio”. È ovviamente lo Spirito dell’Amore, che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. In questo istante Gesù percepisce Dio come Padre, come Madre, come accoglienza, come amore incondizionato, come presenza, come abbraccio, come predilezione.
Subito dopo però, nel versetto che segue, quello stesso Spirito d’Amore sospinge Gesù nel deserto. Lo stesso Dio che nella teofania battesimale lo dichiarava “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti e di penitenza, luogo di azione dei demoni e del male. “Come è possibile?” ci chiediamo: qui lo Spirito si dimostra chiaramente contrastante, incoerente! Ma se pensiamo così, siamo noi che non abbiamo capito Dio, siamo noi che ci siamo fatti di Dio un’idea completamente falsa. Noi, infatti, ci siamo abituati a ragionare di testa nostra: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un regalo da parte sua. Se una cosa, al contrario, è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non è di Dio, è un castigo che viene dal diavolo, dal male. Il vangelo di oggi ci insegna invece che tutto ciò che capita, bene o male che sia, viene da Dio, è lui, e lui solo, che lo permette. Quindi, non perdiamo tempo nel voler stabilire la provenienza buona o cattiva di un certo evento, di una certa situazione: l’origine è unica; preoccupiamoci invece di capire, di volta in volta, il vero motivo di quell’evento, di quella “prova” che Dio ci manda: qual è la strada, quale il passaggio da percorrere, quale la strettoia da superare.
Ricordate le prime pagine della Genesi? All'inizio della storia umana il serpente tenta Adamo ed Eva: esso viene automaticamente simboleggiato come il “male” che cerca di far cadere nel peccato i nostri primogenitori.
Ma il serpente non è il male; non è lui il peccato: egli è invece un passaggio necessario, una strada che dobbiamo obbligatoriamente percorrere per maturare, per evolvere, per liberare tutta l'energia e le potenzialità che abbiamo dentro di noi. In altre parole il serpente, Satana, l’avversario, svolge una funzione necessaria, una funzione positiva, utile nella nostra vita, in quanto ci educa, ci matura, ci rende possibile l’esercizio della nostra libertà, della nostra discrezionalità.
Ci sono persone che vedono il diavolo dappertutto, e scaricano fatalmente su di lui le conseguenze della loro accidia: del resto è più semplice scaricare tutto su di lui piuttosto che affrontare a viso aperto i problemi: ed è ovvio, perché se è il demonio che ci punisce, cosa possiamo farci noi? Niente!
Se però consideriamo le contrarietà che ci capitano, se consideriamo le prove della vita, come prove, come un ostacolo-barriera da superare, allora capiamo che siamo chiamati a compiere un passaggio, un percorso; e non è il diavolo che ci chiama a compiere questo passaggio. ma è Dio stesso. Dio, cioè, non vuole il nostro male; non vuole che ci abbandoniamo fatalmente al male, senza combattere, senza capire che Lui vuole da noi una reazione, che affrontiamo coraggiosamente i nostri demoni, e non che fuggiamo impauriti da loro. Lo Spirito infatti costringe nel deserto (nelle prove) Gesù (e anche noi), proprio perché si confronti faccia a faccia con i suoi demoni.
La parola tentazione (Mc 1,13: peirasmos) vuol dire “mettere alla prova, verificare, fare un test”. Un po’ come succede nelle nostre scuole: gli alunni studiano durante l’anno, e poi sono chiamati a sostenere una verifica, per vedere se hanno capito, se hanno studiato. È la stessa cosa. La tentazione non è Dio che vuol “farci sbagliare”. Assolutamente no. Egli ci mostra, ci documenta, ci rivela ciò che siamo in realtà, quali sono le nostre forze, la nostra volontà, la nostra fede, il nostro amore; ci fa capire, insomma, quali sono sul campo le nostre potenzialità.
La tentazione non è il male, ma è l’occasione che ci rivela il male, che ce lo rende visibile, è la manifestazione del nostro “alter ego”, quello che noi non vogliamo vedere né far vedere, quelle sembianze che preferiamo tenere nascoste, che preferiamo tenere lontane da noi; in altre parole la tentazione non fa altro che rendere pubblica l’altra nostra faccia, non quella “perbenista”, ma quella contraria, quella che si coniuga felicemente con quello che noi definiamo “il male”. Ogni uomo ha un lato oscuro di se stesso che non vuol vedere, che nasconde nel segreto, che non vuole soprattutto rivelare a nessuno. La tentazione, nostro malgrado, ci costringe a guardarlo in faccia, questo nostro demone, ci obbliga a prenderlo in seria considerazione, ci obbliga a stanarlo dalla nostra zona d’ombra: perché è attraverso questa lotta interiore, che possiamo far emergere la bellezza, la luce interiore, i doni, le grazie divine che Dio ha nascosto dentro di noi. E allora, nella nostra vita, tutto sarà più bello, tutto sarà più chiaro, tutto sarà più facile ed entusiasmante.
Se infatti osserviamo bene, una volta che Gesù ha superato l'esperienza delle tentazioni, non lo ferma più nessuno. Sì, perché il “dono” delle tentazioni è una forza irresistibile: tant’è che da quel momento Gesù non si preoccupa più di quello che la gente si aspetta da Lui, di quello che pensa di Lui; rinfrancato dalla ritrovata vicinanza col Padre, lascia cadere le attese della gente, e segue imperterrito la sua strada, la sua missione. Per questo dobbiamo entrare anche noi nel deserto: dobbiamo essere tentati, dobbiamo affrontare anche noi i nostri demoni. Ogni discesa nell'ombra, nel mistero di noi stessi, anche se all'inizio ci incute timore, consegue sempre un risultato inaspettato: quello di portare alla luce qualche “dono” nascosto e sconosciuto. I grandi regali non ce li fanno gli altri per il nostro compleanno: ce li facciamo noi, quando abbiamo il coraggio di entrare nel deserto, nel buio, nella nostra zona d’ombra, e individuare quelli che sono i nostri tesori nascosti, le nostre perle, le nostre gemme. La piena soddisfazione del cuore non è data dal possedere tante cose, ma dal saper “tirare fuori” quelle meraviglie che Dio ha piantato dentro di noi; e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere e valorizzarle. Per questo lo Spirito ci spinge nel deserto: dobbiamo vivere la nostra quaresima, dobbiamo entrare nella tentazione per verificare chi siamo realmente. Non a caso il vangelo parla proprio di deserto. Il deserto è duro, difficile, impegnativo; ci mette crudamente, senza fronzoli, di fronte alla realtà, a ciò che siamo davvero. Il deserto ci ricorda la faticosissima esperienza vissuta dal popolo ebraico, i quarant’anni di peregrinazione per raggiungere la terra promessa. In pratica ci fa capire che per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di incredibile, ci vogliono tempo e costanza. Se non diamo tempo, lavoro, impegno, considerazione ad una cosa, vuol dire che quella cosa non ci interessa, non è importante per noi. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre “terre promesse”, hanno bisogno di un lungo e faticoso cammino per essere raggiunte. Tutto ciò che è grande, richiede sempre qualcosa di grande. Ed è là, nel deserto totale, nel silenzio assoluto, dove non c'è niente e nessuno, che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto?”. Sono domande che aspettano una nostra risposta: perché possiamo eludere ogni aspettativa che gli altri nutrono su di noi, ma non possiamo eludere la nostra coscienza; possiamo darla da bere a tutti, ma non a noi stessi; possiamo tenere sulla corda il mondo intero per tutta una vita, ma prima o poi arriverà la nostra “quaresima”: e da quel momento il “bluff” non è più ammesso. Amen.

giovedì 12 febbraio 2015

15 Febbraio 2015 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!» (Mc 1, 40-45).
Il vangelo di oggi ci riporta lo stupendo incontro tra Gesù e un lebbroso. Noi difficilmente riusciamo a capire oggi cosa volesse dire essere lebbrosi a quel tempo. In pratica erano dei morti viventi. E se per noi oggi è molto difficile contrarre questa malattia, tuttavia abbiamo molte probabilità di ritrovarci pienamente in quel lebbroso.
La lebbra è una malattia della pelle, e la pelle per noi è l’organo di relazione per eccellenza: ci mette cioè in contatto con l’esterno. Tutti noi sentiamo il bisogno naturale del contatto, dell’essere accarezzati, abbracciati, toccati. A volte ne abbiamo paura; a volte, per i fatti della vita, fuggiamo da qualunque vicinanza, ci dà fastidio; magari la evitiamo proprio perché ci ricorda esperienze amare, violente o sporche. Ma, nonostante ciò, noi tutti abbiamo il bisogno innato di essere avvicinati, toccati, accarezzati.
Il contatto ci rassicura. Quando qualcuno ci abbraccia ci sentiamo protetti: “Ci sono io, qui sei al sicuro, non aver paura”. I neonati, al loro affacciarsi alla vita, quando sono abbracciati, si sentono esattamente così: al sicuro, protetti; non hanno paure e non conoscono l’angoscia dell’ignoto. Ma quando ciò non avviene, un’ansia tremenda li invade e si sentono perduti: e piangono finché qualcuno non li riprende in braccio. Ebbene: noi siamo esattamente come i bambini. Quando stiamo male, un abbraccio silenzioso ci solleva più di tante parole, ci aiuta più di qualunque altra cosa. Anche il solo guardarsi negli occhi, può esprimere l’amore più di mille parole affettuose. Il darsi la mano, il tenersi per mano, ci esprime sicuramente l’interesse dell’altro nei nostri confronti, più qualunque sua rassicurazione vocale; un contatto, una vicinanza, ci rilassano, ci distendono, ci fanno sentire amati e accettati per quello che siamo, ci scaricano le tensioni: ci fanno ritrovare insomma il benessere, la piena armonia del corpo e dello spirito.
Eppure un tempo si diceva: “Il corpo è male; il corpo è peccato; state attenti, evitate di toccarvi!”. E ogni contatto sembrava essere una proposta sessuale. Ma allora perché Dio ci avrebbe dato un corpo, e lui stesso si sarebbe fatto corpo umano? Basta leggere il vangelo: quando la cultura di allora, molto più chiusa e moralista della nostra, proibiva addirittura di sfiorarsi in pubblico, Gesù non solo abbraccia le donne, accarezza i bambini, ma tocca anche i lebbrosi, le persone infette; tocca gli occhi dei ciechi, le orecchie dei sordi, prende per mano i paralizzati e impone le mani sulla loro testa. Egli stesso si lascia toccare dai lebbrosi, dai malati, dalle donne; anche dalle donne di assai dubbia moralità come quella che gli lava i piedi con le lacrime o quella che lo unge.
Ma il contatto è decisivo per un altro motivo. Quando uno ci tocca noi ci percepiamo, ci “sentiamo”. Abbiamo detto che quando una madre accarezza il figlio, senza fretta e con partecipazione, questi sente di esistere, di esserci, percepisce i propri limiti, i propri confini. L’esperienza ci dice infatti che se un bambino non è toccato, avrà grossi problemi di identità: non sa esattamente chi sia, non conosce i suoi confini, non sa distinguere tra sé e gli altri.
Quando in un clima di silenzio, di presenza, di consapevolezza, le persone si incontrano e si toccano, si sfiorano, o semplicemente si danno la mano, il contatto fa uscire tutto quello che c’è dentro: paura, traumi, dolori, sofferenze, ricordi, ecc. La mente talvolta può ingannare, ma il contatto no, non inganna mai, perché ripeto, il contatto ci “contatta”, ci mette in relazione con ciò che abbiamo dentro, con ciò che c’è dentro di noi. E questo può far paura, può far scappare, può procurarci un tremendo fastidio. In qualche modo noi stessi ci sentiamo sporchi, ci sentiamo da evitare, ci sentiamo “lebbrosi” come quello del vangelo.
Sì, perché la lebbra, oltre che una malattia personale, al tempo di Gesù, era una malattia sociale. Il lebbroso veniva escluso dalla comunità, doveva vivere fuori dal paese, lontano da tutti. Il lebbroso quando qualcuno gli si avvicinava doveva gridare: “Lebbroso, lebbroso” e suonare una campana per segnalare la sua presenza. Si credeva infatti che fosse una malattia contagiosa, trasmissibile. Non solo erano malati ma erano anche una vergogna sociale e non potevano essere toccati da nessuno.
Oggi, più comunemente, ci sono tante altre tipologie di lebbra: c’è la lebbra di quel giudizio tagliente e ingiusto da parte della gente, quell’etichetta che gli altri ci appiccicano addosso e noi non riusciamo più a togliere; c’è la lebbra di chi non si sopporta così com’è, non sopporta il proprio fisico, il proprio corpo, il proprio carattere, la propria vita; c’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra di chi non è sopportato dagli altri, di chi è escluso dal suo ambiente, di chi è messo in disparte nelle scelte lavorative, di chi è disprezzato, di chi è preso in giro, di chi è oggetto di scherno e viene umiliato per qualunque cosa; c’è la lebbra della vergogna, di quando si viene continuamente additati per degli errori commessi tanto tempo addietro; la lebbra di chi non perdona mai gli altri, di chi confessa da anni sempre lo stesso peccato senza mai pentirsi; di chi al contrario si trova colpevole sempre e di tutto; c’è la lebbra di chi si sente inferiore perché non ha avuto la possibilità di studiare, di fare carriera, di chi è convinto di non essere fisicamente bello, affascinante, attraente. Chi di noi non è affetto da qualcuna di queste forme di lebbra? Chi di noi può affermare in cuor suo di non assomigliare in qualche modo al lebbroso del vangelo di oggi?
Ma vediamo come si sono svolte le cose fra lui e Gesù. Prima di tutto sulla scena appare lui, il lebbroso, che si butta in ginocchio e lo supplica: “Se vuoi puoi guarirmi!”: egli sente che non può più continuare a vivere in questo modo, sente che da solo non potrà mai venirne fuori. Si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”.
Buttarsi in ginocchio equivale a smettere di resistere; piegare le ginocchia significa riconoscere di aver bisogno di qualcuno. Perché chi non si crede malato, non può guarire; chi si crede sano, non va dal medico. Il primo passo è pertanto: “Ho un problema, ho bisogno di una mano”.
Poi appare Gesù, il quale dimostra subito di provare nei suoi confronti qualcosa di forte ed intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco indica l’amore tipicamente al femminile, quello che ti tocca dentro, che ti “contorce le viscere”; le viscere, per gli antichi, sono il luogo dei sentimenti vulnerabili, come l’amore, la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Ora, quando un uomo arriva ad essere rifiutato da tutti, come prima cosa ha bisogno di sentirsi amato, di sentirsi accettato, accolto, di sapere che c’è qualcuno che non lo disprezza, qualcuno che non lo rifiuta, qualcuno che gli riserva quell’amore che salva: nient’altro. Perché solo quando ci sentiamo davvero amati, soltanto quando ci sentiamo stimati, ci rendiamo conto di avere un valore, di non essere dei miserabili, che la nostra vita vale veramente la pena di essere vissuta in pieno.
Gesù guarda quest’uomo, che tutti evitano e rifiutano, ma lo fa con occhi diversi: “Io credo in te; io so che in mezzo al tuo schifo c’è una perla, c’è una rosa, c’è qualcosa di grande. Sei così, in quanto deformato dal dolore della vita, ma io so e vedo la tua bellezza. Voglio che tu possa tornare a risplendere”.
Lo sanno bene i preti, gli educatori, gli psicologi, i maestri, gli insegnanti: se essi non credono sinceramente che l’alunno possa diventare migliore, questi non lo diventerà mai. Devono essere sicuri che lui riuscirà, che potrà migliorare, che potrà essere diverso da com’è. E se lui percepisce in loro questa sicurezza, è fatta. Se al contrario non rileva in loro alcuna certezza, nessuna fiducia, per lui non c’è alcuna possibilità.
Il sentimento di Gesù si trasforma quindi in azione: “Stese la mano”. Gesù lo ama, e il suo amore si fa azione, “lo tocca”. È il miracolo dell’amore.
Caliamoci per un istante nella realtà di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole tra i piedi, tutti gli stanno alla larga. Tutti dicono: “Sei ammalato perché sei un peccatore, non hai speranze, devi scontare!”; Gesù invece, il maestro, sfidando una religione per la quale anche solo toccare un lebbroso significava contrarre l’impurità, gli va incontro, lo tocca; stende le mani e lo abbraccia. È sufficiente questo gesto perché dentro di sé quest’uomo riconosca: “Ma allora non sono sbagliato completamente; allora anch’io posso essere amato; allora non faccio proprio schifo; allora posso vivere!”. Riconoscendo però la propria impurità, quasi si ritrae: “No, no, non farlo; sono un peccatore, faccio schifo, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non ho paura della tua malattia”. L’uomo tenta ancora di ritrarsi, ma Gesù lo trattiene tra le braccia e gli dice: “Lo voglio, guarisci”. Il testo greco per dire “guarire”, usa il verbo katarizo, che significa tornare puro, limpido, diventare puro come una sorgente. In altre parole: “Sii te stesso: sii puro, chiaro, schietto. Torna ad essere la sorgente limpida che eri quando Dio ti ha creato. Se getti via da te tutto il rancore, l’amarezza, la vergogna, il rifiuto che hai subito, torni ad essere te stesso”.
Ecco, questo è per Gesù il vero significato di guarire: è essere se stessi, tornare ad essere quella forma autentica, quell’idea originale che Dio, Vita, ha attuato creandoci, e che i fatti e le circostanze della nostra vita hanno deformato, alienato, distrutto. “Fare la volontà di Dio”, pertanto, altro non è che essere pienamente noi stessi. Le persone sono infelici perché non vivono la propria conformazione: vogliono essere qualcos’altro che non sono. Neppure sanno chi sono e cercano di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare ciò per cui siamo stati “pensati” da Dio. Se uno non vive la propria forma si sforma, si deforma.
Molti a questo punto si chiedono: “Cosa devo fare?”. Hanno purtroppo perso il senso della propria origine, del proprio essere. “Sono finito!”. Si sentono perduti, alla deriva. Ma se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di scendere dentro di noi, potremo vedere che c’è uno spiraglio, una piccola parte che non è deformata, che non è corrotta, distrutta.
È proprio così: la sorgente di luce che Dio ha posto in noi, può anche essersi spenta, offuscata, coperta, ma non si è distrutta. È come essere in una stanza al buio: non si vede nulla. Ma la luce c’è, basta accenderla. Basta fare contatto con la Sorgente e la luce tornerà a brillare.
Gesù dice: “Io lo voglio!” Ma noi? Lo vogliamo noi? È per questo che Gesù non poteva guarire tutti. A casa sua, nel suo paese, non guarì praticamente nessuno: erano diffidenti nei suoi confronti, non volevano. Dio non può niente se noi non lo vogliamo; mentre può tutto, se lo vogliamo anche noi. Potremmo dire: “Ma chi è quell’ammalato terminale che non vorrebbe guarire? Di sicuro tutti lo vorrebbero!”. Ma non è proprio così. Infatti guarire, come abbiamo visto, significa “diventare puri, immacolati, tornare ad essere limpidi, cristallini”; significa cioè portare luce nel nostro buio, eliminare l’impurità, le incrostazioni che tolgono la lucentezza. Ora, tutti dicono di voler guarire; ma non tutti sono disposti ad accettare le conseguenze della guarigione. Abbiamo acquisito una forma che non è la nostra, non siamo più noi; guarire vuol dire appunto eliminare questa forma fasulla di noi stessi, per tornare nella nostra autenticità, nella nostra originalità. Le persone vorrebbero certo guarire, ma senza cambiare le loro idee, i loro pensieri, le loro certezze, il loro modo di vivere: non essere pronti ad operare una radicale trasformazione, significa in pratica non voler guarire! Significa rinunciare a vivere, a guarire, a riemergere alla luce. Gesù è pronto: “Io lo voglio”, ci dice. E noi? Che aspettiamo? Amen.

giovedì 5 febbraio 2015

8 Febbraio 2015 – V Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).
Il vangelo di oggi ci presenta Gesù nel pieno della sua attività: Egli predica e guarisce tutti gli ammalati che incontra. Succede che anche la suocera di Pietro sia ammalata: ha la febbre; è chiaro che Gesù, appena la vede, guarisce anche lei. E potremmo fermarci qui: niente di strano, lo fa con tutti, perché non farlo proprio con la suocera di Simone?
Ma, volendo scendere più in profondità, viene spontaneo chiederci: qual è il motivo, qual è la causa che ha scatenato nella suocera un febbrone così grave e preoccupante, da richiedere addirittura l’intervento di Gesù? Intanto, parlando di suocera, veniamo a sapere che Pietro è sposato, ha una famiglia. Sappiamo anche che poco prima egli è stato chiamato da Gesù, insieme ad Andrea, Giacomo e Giovanni, e che tutti lo hanno seguito lasciando perdere ogni cosa. E allora pensiamo: non sarà forse questo il vero motivo della febbre che coglie improvvisamente la madre della moglie di Pietro? Le due donne non lavorano, si occupano della casa e Pietro è l’unico loro sostentamento: “Ma cosa stai combinando Simone? Ti rendi conto di quello che stai facendo? Noi non siamo ricche, non possiamo permettere che tu te ne vada piantandoci in asso! Come pensi che camperemo? Chi ci permetterà di sopravvivere? E poi, cosa dirà la gente? Ci giudicheranno, ci disprezzeranno; alcuni già dicono: “bell’affare: tuo genero vi ha lasciate per seguire un esaltato che guarisce la gente in nome del demonio e che con il suo comportamento si è messo contro tutta la sinagoga e le autorità religiose. Ma chi è questo Gesù? Certo, tuo genero dimostra di essere un irresponsabile!”. Un buon motivo per far venire la febbre a questa povera donna!
Ora, per indicare questa febbre, Marco usa il termine greco "puršesso", che significa appunto “avere febbre, calore, fuoco” ma anche “essere alterato dentro, bruciare dentro, essere fortemente indignato, irritato”: significato che ci fa pensare ad una suocera “alterata, infuocata” più che all’esterno, proprio dentro di sé, nell’intimo; in altre parole era arrabbiata, furiosa contro Pietro, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità famigliare, e contro questo Gesù, un tipo strano e per nulla affidabile. È chiaro che la scelta di Simon Pietro ha delle gravi ripercussioni economiche e sociali per questa donna e per sua figlia, sulla cui sicurezza economica Simone, sposandola, aveva assunto dei precisi obblighi. Invece tutto viene dimenticato, tutto passa in secondo ordine: una prospettiva questa che la infiamma d’ira, che scatena in lei tutte le paure; una situazione che la sconvolge, che le procura collera, addirittura odio; è un fuoco rabbioso che le brucia l’anima. E più ci pensa, più cresce in lei il rancore, una febbre che cresce a dismisura.
A questo punto cosa fa Gesù? Egli intuisce il vero dramma di questa donna, egli sa in cosa consiste la sua malattia, la sua febbre: “questa donna ce l’ha con me”. Poteva benissimo far finta di nulla; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, se sta male per causa mia, me lo venga a dire! Sono problemi suoi, non miei!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa si avvicina, la fa alzare e la prende per mano.
Fra i due prima c’era distanza, incomprensione, non si conoscevano: Gesù quindi “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la incontra, si fa conoscere.
La sollevò”: la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si solleva cioè dalla sua paura, dal suo disappunto, dalla rabbia che la domina, dalle sue preoccupazioni per ciò che sta accadendo. “La prese per mano”: Gesù vuole proprio incontrarla, toccarla, entrare in simbiosi con lei; vuole che senta chi è lui, che se ne faccia un’esperienza personale, diretta, che lo possa conoscere a fondo. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”. Non sappiamo cosa si siano detti o cosa di preciso sia successo. Ma da queste poche parole capiamo che Gesù, venuto a conoscenza del risentimento della donna (“gli parlarono di lei”), prende lui l’iniziativa e va da lei: e la donna capisce che quell’uomo non è né un pazzo, né uno fuori di testa.
Il vangelo dice che addirittura passa a “servirli”. Dov’è finita tutta la sua rabbia? Il suo passaggio da uno stato d’animo all’altro è istantaneo, decisivo: dall’odio, all’umile servizio, dal rancore all’amore per quest’uomo straordinario; dal volergli stare il più lontano possibile, allo stargli vicino, al mettersi a sua completa disposizione; dal sentirlo come un nemico, al considerarlo un amico, uno che è con lei e per lei.
Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza. Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, in una parola la sua febbre, improvvisamente scompaiono.
Allora impariamo: Capita anche a noi di avere del rancore, del risentimento, della rabbia nei confronti di qualcuno? Chiariamoci subito, confrontiamoci subito con lui. Perché l’odio genera odio, il fuoco della rabbia montante brucerà sempre più l’anima, fino ad oscurare del tutto il lume della nostra mente.
C’è un problema? Risolviamolo! Non illudiamoci che, di fronte ad un problema, a un’incomprensione, a un dissapore, il metodo migliore sia quello di chiudere gli occhi, di ignorarne l’esistenza: in questo modo, non facciamo altro che alimentare lo stato di tensione derivante da quel problema.
Molte persone odiano perché sono concentrate solo su se stesse: non si mettono nei panni degli altri, non vogliono ascoltarli, non vogliono sentire le loro ragioni. Vedono solo se stesse, e sentono solo il proprio dolore. Ma se noi riusciamo a far sentire loro il nostro dolore, le nostre ragioni, le nostre spiegazioni, sicuramente riusciamo a stabilire un contatto, possiamo incontrarci; e in questo modo riusciamo anche a cancellare le ragioni dell’odio.
Comportiamoci seguendo l’esempio di Gesù. Egli fondamentalmente compie due azioni: per prima cosa è Lui che prende l’iniziativa, è Lui che si muove e va di persona. Noi invece il più delle volte ci chiudiamo in noi stessi, nella nostra rabbia, facciamo gli offesi, ci isoliamo. Certo, è piuttosto normale che quando uno è ferito, si chiuda in se stesso: ma se continuiamo a rimanere così, avvolti nel risentimento, non c’è alcuna possibilità di incontro, di apertura. E in questo modo non risolviamo assolutamente nulla.
La seconda cosa che fa Gesù è quella di usare una grande tenerezza, un amore autentico. Gesù infatti ha capito bene le ragioni di questa donna: è arrabbiata perché non lo conosce, perché lui ha un modo di vivere diverso da “quello di tutti”; tant’è che Simon Pietro, decidendo di seguirlo, ha fatto una scelta radicale, difficile, che lo ha messo contro i suoi famigliari.
L’ignoranza è causa sempre di tanta rabbia, di tanto dolore: ed è naturale. Ma proprio per questo, se vogliamo interagire con una persona arrabbiata con noi, ferita, dobbiamo usarle tanta comprensione, tanta delicatezza; altrimenti non si aprirà mai. Dobbiamo ascoltarla, dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto capire il perché del suo dolore, della sua rabbia. Se rimaniamo entrambi sul piano del rancore, continueremo a farci solo guerra; ma se la incontriamo nel dolore, se gli apriamo il nostro cuore, allora sicuramente apprezzerà la nostra vicinanza, la nostra amicizia.
Poi il vangelo continua: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Sono parole che ci fanno immaginare la presenza di una grande quantità di demoni; sembra quasi che all’epoca ci fossero demoni dappertutto. Ora noi, nella nostra mentalità, pensiamo che il demonio sia “una creatura reale” indipendente e autonoma, che stia ed operi al di fuori di noi: e siccome noi non lo vediamo, stiamo tranquilli. Non ci riguarda. Invece, sappiamo che non è così. Il demonio, come ci spiega il Vangelo, è un essere puramente spirituale, uno spirito ribelle, un “qualcosa” che accompagna e segue l’uomo in ogni suo passo; un “qualcosa” che ci riguarda molto da vicino, che riguarda la nostra libertà, la nostra natura umana, che suggerisce, persuade la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che esulano dall’Amore. “Demoni” sono le allettanti lusinghe del male, i luccichii invitanti del peccato, che ci oscurano la ragione. “Demoni” siamo noi quando, posseduti da questo spirito cattivo cui abbiamo permesso di annidarsi nel nostro cuore, adottiamo uno stile di vita completamente opposto da quello suggerito alla nostra coscienza dallo Spirito di Dio; siamo “demoni” quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente inerte, insensibile, svuotata, morta. Molto spesso purtroppo noi non ci rendiamo conto della presenza e della potenza di azione di questo “malefico tentatore”: tant’è che il demonio peggiore ce l’hanno proprio quelli che sono convinti di non averne! Il “Demonio”, insomma, è una grave malattia dell’anima, che riesce a indebolire e a incancrenire la nostra vita spirituale.
Come combatterlo? Matteo ci dice che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione: ma in luogo deserto. È infatti nel “deserto” della penitenza, nella solitudine, nel mettere a nudo la nostra anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che possiamo individuare e combattere i nostri demoni: e li possiamo vincere, come Gesù, soprattutto con la preghiera: una preghiera a Dio intensa, umile, sincera, riconoscente; è questa, infatti, come ci hanno insegnato anche i santi, l’unica arma valida con cui possiamo smascherare, cacciare e sconfiggere i nostri demoni interiori. Di qualunque genere essi siano. Amen.