giovedì 13 novembre 2014

16 Novembre 2014 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30).
La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa succede allora?
Ciascuno riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa quindi che dovrà riconsegnarglielo. C’è inoltre una diversità: non tutti hanno lo stesso patrimonio. Ciascuno, dice il vangelo, ha secondo la propria capacità. Hanno cioè talenti diversi perché sono diversi, ognuno ha il massimo di ciò che può avere.
Ciascuno nella vita ha il suo talento. Il talento è la possibilità che uno ha, il patrimonio che uno incarna con la sua vita, che uno ha dentro di se, che Dio ha riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità, talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere. La grande domanda è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio?”. La gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare a chi è, insegue cose che non sono proprie e che pertanto sono irraggiungibili.
Qual è il nostro talento? Qual è la nostra essenza? Qual è la nostra peculiarità?
Perché quello che ha un talento lo nasconde? Perché si confronta con gli altri. Se noi ci confrontiamo con gli altri, è chiaro che non siamo contenti di quello che siamo, di quello che abbiamo. Per cui troveremo che gli altri hanno sempre di più, che sono più fortunati, che magari se noi fossimo stati al loro posto. Ma è così solo perché invece di guardare a cos’abbiamo, continuiamo ad invidiare quello che hanno gli altri.
Cosa dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta corrente perché denotava una cifra enorme. Era solamente una unità di misura. Sarebbe come dire una tonnellata di euro: non si può girare con una tonnellata di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva a 60 mine, a 6000 dracme, a 6000 denari (la dracma era parificata infatti ad un denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora: ciascuno ha molto. Ma se noi guardiamo a quello che hanno gli altri, se ci confrontiamo, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Se invece guardiamo a noi stessi, troveremo che siamo ricchi, pieni e abbondanti.
La gente non è povera di doti, talenti o vitalità: è che vuole sempre quello che non ha. È che invece di sviluppare ciò che ha, invidia quello che gli altri hanno già sviluppato. La gente vorrebbe avere a basso prezzo, senza impegno, con grande facilità, quello che gli altri hanno invece conquistato con grandi sacrifici, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora: solo se guardiamo a noi stessi, a quello che abbiamo, potremo essere soddisfatti e felici. Dobbiamo ricordarci, inoltre, che nessuno di quei servi è proprietario di ciò che ha. Tutto gli è stato dato in consegna: quindi avere più talenti comporta solo maggiori responsabilità, maggior impegno, non un maggiore arricchimento personale, visto che poi tutto dovrà essere riconsegnato al padrone.
Bene: cosa succede a questo punto? I primi due investono il loro patrimonio e lo fanno crescere, moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e nasconde il suo denaro.
La differenza è tutta qui: i primi due vivono osando, giocandosi, mettendosi in gioco, rischiando, provandoci. Il secondo, invece, ha paura e la paura lo blocca. Tutto dipende dal comportamento dei personaggi.
In pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che avete ricevuto, ciò che siete (il patrimonio)”. I talenti rappresentano pertanto la nostra vita: perché non la mettiamo a frutto? Perché non la viviamo? Cosa aspettiamo a vivere? Cosa aspettiamo a scendere in campo? Alcune persone passano l’esistenza da “panchinari”: ci sono, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, una direzione alla loro vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità. La loro scelta? Di non scegliere mai: il partner? il primo che trovano; gli amici? quelli che incontrano; gli hobby? quello che fanno tutti; le idee? quelle che hanno tutti. Non si chiedono mai: “Ma a me cosa sta bene? Cosa voglio? Cosa fa per me?”. E così sciupano la vita, la guardano passare invano. Avevano la possibilità di viverla e invece si sono lasciati vivere: il treno passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi, progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché è il treno che va avanti, che viaggia: loro vanno semplicemente dove va lui”.
Alcune persone, come fa quell’uomo, nascondono la loro esistenza sottoterra, cercano di essere invisibili, di passare inosservati e muoiono senza vivere.
Solo la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono che Dio ci fa: se la viviamo è il nostro dono che restituiamo a Dio. Ma se non la viviamo, se ci nascondiamo, se sotterriamo ciò che possiamo essere, se permettiamo alla paura di vincerci, allora vanifichiamo il dono che Dio ci ha dato in consegna.
La vita ci restituisce sempre quello che noi le abbiamo dato. Il padrone ritorna, e regola i conti con i servi: il risultato dipende da come uno si è comportato con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono in conseguenza del loro impegno; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente guadagnato, ma perché hanno provato, perché hanno avuto fiducia, perché hanno osato, perché si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. È la paura infatti che lo ha immobilizzato, che gli ha impedito di mettersi in gioco.
Lui ha avuto paura: non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo, se avesse rischiato, vissuto, avrebbe potuto perdere il suo talento, avrebbe potuto sbagliarsi e perdere tutto, avrebbe potuto esser giudicato o criticato per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un esito felice. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
La vita è così: un patrimonio da far fruttificare, da realizzare, da far fiorire. La vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di cambiare. Tutti noi abbiamo avuto delle occasioni che ci hanno portato in una certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci hanno fatto respirare un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci, ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto delle situazioni (morte di un amico, di un caro parente; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci hanno suggerito insistentemente di cambiare rotta, di vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito di fronte a tali inviti? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno in cui non potremo più fare “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Questo è il tuo raccolto!”. Allora sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.

 

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