giovedì 27 novembre 2014

30 Novembre 2014 – I Domenica di Avvento – Anno B

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento…» (Mc 13, 33-37).
L’avvento è il tempo liturgico che ci prepara al natale. È l’attesa di Gesù che deve venire.
A noi, quando parlano di attesa, di arrivo, capita che la prima cosa cui pensiamo sia l’autobus, o il treno, o l’aereo: siamo lì, aspettiamo il mezzo di trasporto che ci viene a prelevare: quello arriva, noi saliamo su, ci sediamo tranquilli, ci leggiamo il giornale o sonnecchiamo fino all’arrivo. Nessun problema per quest’attesa; nessun problema per questo arrivo. È un’occasione per lasciarci cullare tranquillamente, senza problemi, dalla vita.
Ma l’Avvento non è questo. Nei vangeli non è mai così: la venuta di Dio è sempre sconvolgente, destabilizzante: è sempre un’avventura! Quando Dio viene, Lui chiama a qualcosa di impossibile. Impossibile perché puntualmente, quando arriva il momento dell’arrivo, dobbiamo ancora farlo, dobbiamo ancora partire.
Dio viene e passa, ma non viene mai come noi ce l’aspettiamo o come noi vorremmo. A fatica lo riconosciamo, non ha un volto qualunque, ma ha un “portamento” che non conosciamo, che non sappiamo, che non ci aspettiamo.
Saremo particolarmente all’erta per riconoscerlo? Avremo il coraggio di tenere costantemente la porta aperta per accoglierlo?
Non conosciamo l’ora, il momento; praticamente non conosciamo quando è “tempo”: però qui Marco usa la parola kairos (Mc 13,33): non conosciamo cioè quando sarà il tempo propizio, il tempo favorevole, ben diverso dal chronos, che è il tempo dell’orologio: quello passa e basta: passa comunque, sia che siamo pronti o no. Natale verrà e questo è certo: sarà il 25 di dicembre. Ma per noi sarà per davvero un Natale “propizio, favorevole, preparato(kairos), oppure sarà soltanto una festa del calendario (chronos)? Cristo viene per davvero: ma noi ci saremo? Saremo in grado di accoglierlo? Sapremo accettare la sua visita? Sapremo riconoscerlo? Sapremo dirgli: “Ti accoglierò in qualunque modo tu verrai!”?
Il vangelo inizia infatti dicendo: “State attenti, vegliate, vigilate”. Tre verbi che in sostanza sottolineano la stessa cosa: che non dobbiamo dormire, non dobbiamo addormentarci, dobbiamo essere svegli e desti.
Il messaggio è semplice e non ammette dubbi: “non addormentarti, rimani desto, rimani sveglio”. Perché se dormi, quando ti sveglierai, scoprirai che la realtà non è quella che tu pensavi, o quella che ti eri faticosamente costruito o nascosto.
La gente in genere non vuole verità, non vuole essere svegliata; la gente vuole dormire.
Quando facciamo “gli addormentati” diciamo: “È così, non possiamo farci nulla; siamo dentro al sistema”. Sveglia! Non è vero! Il fatto è che se ci svegliamo, dobbiamo prendere in mano la nostra vita e riconoscere che il come vivere dipende solo da noi. Oppure quando diciamo: “Tu sei la mia felicità!” pensando magari che soltanto quando troveremo l’uomo o la donna giusti saremo veramente felici, svegliamoci, non è vero. Se non siamo felici “dentro” di noi, non lo saremo mai!
Oppure: “Io non valgo nulla”. Sveglia, non è vero. Perché il giorno in cui lo scopriremo sul serio, non potremo più colpevolizzare gli altri e fingere dicendo: “guardate quanto sono sfortunato!”.
Oppure: “Io sono buono”. Sveglia, non è vero. Siamo buoni perché non ci conosciamo e non ci guardiamo dentro. Siamo buoni perché vogliamo ritenerci superiori, migliori degli altri e poi magari giudicarli. “Nessuno è buono, se non Dio solo”, ha detto Gesù (Mc 10,18).
Oppure: “Non possiamo farci niente”. Sveglia! Non è vero: è che è difficile mettersi in gioco in prima persona ed esporsi; è che è più comodo dire così, piuttosto che sporcarsi le mani.
Oppure: “Quando avrò ottenuto quella cosa, allora finalmente sarò felice”. Sveglia, non è così. Se pensiamo che siano le cose o le persone a farci felici, non saremo mai felici. La felicità non è un fine ma la conseguenza di una vita soddisfacente, significativa, realizzata, piena d’amore.
Il Natale è questo: prenderci cura della nostra dimensione interiore, di ciò che siamo, di ciò che abbiamo dentro.
Perché, immersi nella vita di tutti i giorni, rischiamo di perderci. Ci alziamo, facciamo colazione, portiamo i figli a scuola, andiamo a lavorare, lavoriamo sodo tutto il giorno; riprendiamo i figli e torniamo a casa. A casa poi si apre un’altra giornata: laviamo, stiriamo, sistemiamo, facciamo la spesa, prepariamo da mangiare, telefoniamo ai nostri “vecchi”, controlliamo i compiti dei figli, ecc. E poi: paghiamo le tasse, controlliamo il conto corrente, ci interessiamo dei problemi condominiali, stiamo attenti che non ci “imbroglino” con le bollette, con i conti della spesa ecc. La vita sembra una corsa, una guerra, un fare fare, ecc. E questo ogni giorno. E se non stiamo attenti, ci addormentiamo, dall’essere passiamo al fare: e quando vendiamo l’essere per il fare, per il materiale... allora il sonno è profondo. Quando per interesse non guardiamo in faccia nessuno... allora è sonno profondo. Quando le persone possono essere spostate, trattate, usate, come pacchi-oggetto (chiamiamole pure ristrutturazioni di società!), senza tener conto che sono esseri umani... allora è sonno profondo. Quando non ci interessa nulla della natura e inquiniamo, sporchiamo, distruggiamo, credendo che tutto il mondo sia nostro o che “non è niente” e neppure ci accorgiamo che anche quella è vita al pari della mia... allora è sonno profondo. Quando per divertirci, per trovare complicità, “sparliamo” della gente, magari senza sapere... è sonno profondo. Quando il lavoro viene prima dei figli e della moglie o quando i lavori di casa vengono prima delle carezze, dei baci, del ridere, dello scherzare e della complicità... è sonno profondo. Quando una regola viene applicata perché è una regola e non si tiene conto della sofferenza, dei bisogni, della diversità, del dolore che si arreca all’altro... allora è sonno profondo. Quando ci stordiamo davanti alla tv, al computer, allo smartphone, con mille chat e mille parole, pur di non entrare in contatto con noi stessi, con ciò che abbiamo dentro, con le nostre paure... allora è sonno profondo. Quando per sicurezza, per non andare in crisi, per non crearci problemi, evitiamo di farci certe domande, o evitiamo certe verità per non metterci in confusione... allora è sonno profondo.
Dal sonno profondo o ci si sveglia o si muore. Terribile è vivere una vita dormendo.
Svegliarsi significa accettare di vedere quella realtà che prima non vedevamo (o non volevamo vedere). Svegliarsi è accettare che la verità che credevamo di vedere, non è la verità: svegliarsi non è mai piacevole, ma è vivere la Vita. Amen.

giovedì 20 novembre 2014

23 Novembre 2014 – Cristo Re

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,31-46).
La parabola di oggi, conosciuta come “Il giudizio finale” viene vista sempre negativamente, in un modo tragico: Dio giudice esigente e fiscale che controlla tutto, che annota tutte le nostre azioni in un grande libro dei conti e che, alla fine della nostra vita, tira le somme: se le azioni cattive superano quelle buone, castigo eterno. Se, invece, risulta il contrario, premio eterno.
Un tempo la Chiesa metteva in risalto questa idea di Dio, giudice intransigente: “iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit”: quando il Giudice prenderà posto nel giorno dell’ira (“dies irae”), tutto ciò che abbiamo tenuto nascosto verrà reso pubblico…”. Non abbiamo scampo: un’idea molto diffusa, che portava a dipingere nelle Chiese un grande occhio di Dio all’interno di un triangolo, che era la Trinità: “l’occhio di Dio ti controlla, vede e sa tutto, stai attento!”.
Ma un Dio così non è esattamente il Dio evangelico, il Dio che Gesù ci ha insegnato ad amare e a pregare. Non dobbiamo fermarci a certe interpretazioni, talvolta sono fuorvianti.
La parabola inizia dicendo: “Quando il Figlio dell’Uomo verrà”: Gesù, quando parla di sé, usa sempre questo termine: “Il Figlio dell’Uomo”. Un titolo che pochissimi autori sacri attribuiscono a Gesù: ed è strano, singolare, visto che Lui si identifica sempre in questo modo!
Cosa vuol dire Figlio dell’Uomo? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato in sé il progetto di Dio, è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive nella propria vita: esattamente come ha fatto Gesù. Chiunque può essere Figlio dell’Uomo: anzi, tutti dobbiamo esserlo. Tutti dobbiamo accogliere il piano, il progetto di Dio su di noi, che è esattamente il motivo per cui siamo nati ed esistiamo.
Che Dio abbia un progetto su ciascuno di noi sta a significare che la nostra esistenza di creature insignificanti, è invece importantissima, ha un senso profondo: vuol dire che non siamo qui per caso, ma siamo qui per uno scopo, un motivo ben preciso. Ed è questo motivo che noi dobbiamo recuperare, il senso della nostra vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. È questo motivo che ci nobilita e ci rende irresistibili. Le persone che sono tristi, depresse, senza vitalità o voglia di vivere, lo sono perché non hanno motivi validi, forti, ragionevoli per vivere. Non ci rendiamo conto che la nostra vita è una piccola tessera di un mosaico meraviglioso, grandioso, imponente: l’essere a somiglianza di Dio.
Dunque: il Figlio dell’uomo “verrà nella sua gloria” con tutti gli angeli, e siederà sul suo trono, davanti a tutti i popoli radunati.
Quando noi pensiamo agli angeli, pensiamo subito ad una creatura con le ali. Ma l’angelo (“ànghelos”, annunciatore) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni, incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda per consentirci di andare avanti e seguire la Sua chiamata.
Abbiamo mai incontrato un angelo? No, se pensiamo all’essere angelico con le ali.
Abbiamo mai incontrato un angelo? Sì, tantissime volte, se sappiamo riconoscerlo: perché “angelo” sono tutti quelli che vogliono aiutarci a diventare migliori. Noi viviamo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di metterci in gioco, di guardarci dentro, non sfruttiamo le nostre potenzialità, la nostra riserva di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che abbiamo dentro. Viviamo sempre sulla difensiva, non sfruttiamo il patrimonio che Dio ci ha dato. Allora arriva un angelo che ci mostra che possiamo essere migliori: possiamo osare, scegliere, smettere di vivere così e volare in alto.
Chi ci ama non vede ciò che siamo ma ci mostra ciò che possiamo essere. L’angelo è questo. Quindi gli angeli con i quali il Figlio dell’uomo verrà, sono semplicemente tutti quelli che vivono realizzando con la vita il progetto che Dio ha su di loro.
“Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo”.
Noi, dicevo, ci siamo fatti l’idea strampalata di un Dio “guardone” che sta continuamente a spiarci, per annotare tutto ciò che ci riguarda nel suo Librone. Ma Gesù non ha bisogno di libri per separare gli uni dagli altri, i buoni dai cattivi. Gesù lo vede immediatamente! E da cosa lo vede? Dai fatti concreti: se cioè siamo riusciti a vivere la Vita, oppure no. Se cioè ci siamo immessi, ci siamo realizzati nel suo progetto originale: che tutti gli uomini cioè avessero la sua stessa condizione divina, rispecchiassero la sua stessa immagine, somigliassero fedelmente a lui.
In particolare cos’hanno fatto questi “benedetti” per raggiungere questo traguardo e ottenere “il regno”? Nulla di eccezionale: sono stati costanti e fedeli nel compiere alcune semplici azioni: hanno dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; hanno accolto i forestieri, gli “altri”; hanno vestito gli “ignudi”: hanno preso, cioè, le difese dei peccatori, degli indifesi, dei vulnerabili, di quanti erano esposti alla pubblica discriminazione, alla vergogna, alla derisione; hanno curato i malati, non solo quelli corporali, ma soprattutto quelli spirituali; hanno infine visitato i carcerati, portando loro conforto.
In una parola “benedette” sono tutte quelle persone che in vita si sono prodigate verso i più deboli, sono state attente ai bisogni degli altri, dei propri fratelli, riconoscendo in loro Gesù stesso.
È Gesù stesso che lo conferma: “Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Attenzione: qui Gesù non dice: “Quando ami uno, lo fai per me” ma “quando ami uno, ami me”. Punto. Molte persone invece sono ancora convinte che devono amare gli altri, il prossimo, perché lo ha comandato Gesù”. Ma se amiamo gli altri per “dovere”, senza alcuna convinzione, senza sentimento, senza trasporto, ma solo per costrizione, perché Dio ce l’ordina, forse che questo è “amare”? L’amore non si comanda: si sente. Non si fanno le cose “per carità cristiana”; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno, perché così ci è stato comandato, è svilente: “Non ti amo, ma lo faccio perché me lo ordinano!”. Per Gesù è impensabile. Le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e soprattutto come Dio.
I Santi hanno fatto così: Un giorno chiesero a Madre Teresa: “Perché lo fa?”. Si aspettavano come risposta: “Per Dio”. E invece lei sorridendo disse: “Per amore”. “Cioè per Dio”, ripresero. “No, per amore. Perché la sua sofferenza tocca il mio cuore”. E concluse: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
Un giorno stava curando delicatamente le piaghe ripugnanti di un lebbroso. Lavorava e sorrideva, chiacchierando con il malato, come fosse la cosa più naturale del mondo. Ad un certo punto gli chiese: “Tu credi in Dio?”. Il pover’uomo la guardò intensamente negli occhi e poi le disse, sorridendo: “Sì, adesso credo in Dio!!!”. Un’altra volta ancora un giornalista che la vedeva tutta dedita a curare un lebbroso le disse: “Madre, io non lo farei neanche per un milione di dollari”. E lei: “Io neppure!”. E lui continuò: “Ma neanche se me lo comandasse Dio in persona!”. E lei: “Io neppure”. Certe cose si fanno per amore... e basta.
“Via, lontano da me maledetti”: è la condanna del Figlio dell’uomo per gli altri, per chi non ha dispensato amore. Prima aveva detto: “Venite, benedetti dal Padre mio”. Qui, invece, non ripete: “Maledetti dal padre mio”, ma solo: “Maledetti”. Infatti, non da Dio sono maledetti, ma da loro stessi! Se uno non fa crescere l’amore che c’è in lui, se non diventa più maturo e adulto, lui stesso si condanna a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è una sentenza del re che li condanna, sono essi stessi che si sono condannati da soli.
Un’ultima cosa ci sottolinea ancora questo vangelo: che dobbiamo avere un cuore attento per “vedere”. Dobbiamo cioè essere sempre attenti, sempre vigili: “Quando mai ti abbiamo visto nudo, affamato, malato...?”. Non ce ne rendiamo conto, perché siamo distratti e, non sia mai, a volte volutamente sbadati.
Molti dicono: “Io non faccio male a nessuno!”. Può essere, ma non basta! Dicono così soltanto perché non vedono, non si rendono conto che vicino a loro c’è chi ha bisogno di amore, di comprensione, di condivisione. Quando uno è troppo preso da se stesso, dai suoi bisogni, non è più in grado di vedere quelli degli altri: è troppo assorbito dalla tensione, dall’assillo dei suoi bisogni personali.
Ci vuole un cuore libero, aperto, generoso, per vedere i bisognosi, i sofferenti, gli abbandonati. Altrimenti rischiamo di fare come i condannati del vangelo: “Non ti abbiamo visto? Ma quando mai! Impossibile!”. Eppure è successo: nella nostra insensibilità, nella nostra cecità, non ci siamo neppure accorti che Gesù è passato vicino a noi, nella persona dei fratelli bisognosi.
Non concentriamoci troppo su noi stessi, altrimenti il nostro cuore non sarà più in grado di percepire il bisogno d’amore dei sofferenti. Amen.

giovedì 13 novembre 2014

16 Novembre 2014 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30).
La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa succede allora?
Ciascuno riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa quindi che dovrà riconsegnarglielo. C’è inoltre una diversità: non tutti hanno lo stesso patrimonio. Ciascuno, dice il vangelo, ha secondo la propria capacità. Hanno cioè talenti diversi perché sono diversi, ognuno ha il massimo di ciò che può avere.
Ciascuno nella vita ha il suo talento. Il talento è la possibilità che uno ha, il patrimonio che uno incarna con la sua vita, che uno ha dentro di se, che Dio ha riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità, talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere. La grande domanda è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio?”. La gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare a chi è, insegue cose che non sono proprie e che pertanto sono irraggiungibili.
Qual è il nostro talento? Qual è la nostra essenza? Qual è la nostra peculiarità?
Perché quello che ha un talento lo nasconde? Perché si confronta con gli altri. Se noi ci confrontiamo con gli altri, è chiaro che non siamo contenti di quello che siamo, di quello che abbiamo. Per cui troveremo che gli altri hanno sempre di più, che sono più fortunati, che magari se noi fossimo stati al loro posto. Ma è così solo perché invece di guardare a cos’abbiamo, continuiamo ad invidiare quello che hanno gli altri.
Cosa dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta corrente perché denotava una cifra enorme. Era solamente una unità di misura. Sarebbe come dire una tonnellata di euro: non si può girare con una tonnellata di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva a 60 mine, a 6000 dracme, a 6000 denari (la dracma era parificata infatti ad un denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora: ciascuno ha molto. Ma se noi guardiamo a quello che hanno gli altri, se ci confrontiamo, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Se invece guardiamo a noi stessi, troveremo che siamo ricchi, pieni e abbondanti.
La gente non è povera di doti, talenti o vitalità: è che vuole sempre quello che non ha. È che invece di sviluppare ciò che ha, invidia quello che gli altri hanno già sviluppato. La gente vorrebbe avere a basso prezzo, senza impegno, con grande facilità, quello che gli altri hanno invece conquistato con grandi sacrifici, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora: solo se guardiamo a noi stessi, a quello che abbiamo, potremo essere soddisfatti e felici. Dobbiamo ricordarci, inoltre, che nessuno di quei servi è proprietario di ciò che ha. Tutto gli è stato dato in consegna: quindi avere più talenti comporta solo maggiori responsabilità, maggior impegno, non un maggiore arricchimento personale, visto che poi tutto dovrà essere riconsegnato al padrone.
Bene: cosa succede a questo punto? I primi due investono il loro patrimonio e lo fanno crescere, moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e nasconde il suo denaro.
La differenza è tutta qui: i primi due vivono osando, giocandosi, mettendosi in gioco, rischiando, provandoci. Il secondo, invece, ha paura e la paura lo blocca. Tutto dipende dal comportamento dei personaggi.
In pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che avete ricevuto, ciò che siete (il patrimonio)”. I talenti rappresentano pertanto la nostra vita: perché non la mettiamo a frutto? Perché non la viviamo? Cosa aspettiamo a vivere? Cosa aspettiamo a scendere in campo? Alcune persone passano l’esistenza da “panchinari”: ci sono, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, una direzione alla loro vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità. La loro scelta? Di non scegliere mai: il partner? il primo che trovano; gli amici? quelli che incontrano; gli hobby? quello che fanno tutti; le idee? quelle che hanno tutti. Non si chiedono mai: “Ma a me cosa sta bene? Cosa voglio? Cosa fa per me?”. E così sciupano la vita, la guardano passare invano. Avevano la possibilità di viverla e invece si sono lasciati vivere: il treno passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi, progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché è il treno che va avanti, che viaggia: loro vanno semplicemente dove va lui”.
Alcune persone, come fa quell’uomo, nascondono la loro esistenza sottoterra, cercano di essere invisibili, di passare inosservati e muoiono senza vivere.
Solo la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono che Dio ci fa: se la viviamo è il nostro dono che restituiamo a Dio. Ma se non la viviamo, se ci nascondiamo, se sotterriamo ciò che possiamo essere, se permettiamo alla paura di vincerci, allora vanifichiamo il dono che Dio ci ha dato in consegna.
La vita ci restituisce sempre quello che noi le abbiamo dato. Il padrone ritorna, e regola i conti con i servi: il risultato dipende da come uno si è comportato con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono in conseguenza del loro impegno; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente guadagnato, ma perché hanno provato, perché hanno avuto fiducia, perché hanno osato, perché si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. È la paura infatti che lo ha immobilizzato, che gli ha impedito di mettersi in gioco.
Lui ha avuto paura: non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo, se avesse rischiato, vissuto, avrebbe potuto perdere il suo talento, avrebbe potuto sbagliarsi e perdere tutto, avrebbe potuto esser giudicato o criticato per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un esito felice. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
La vita è così: un patrimonio da far fruttificare, da realizzare, da far fiorire. La vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di cambiare. Tutti noi abbiamo avuto delle occasioni che ci hanno portato in una certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci hanno fatto respirare un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci, ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto delle situazioni (morte di un amico, di un caro parente; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci hanno suggerito insistentemente di cambiare rotta, di vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito di fronte a tali inviti? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno in cui non potremo più fare “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Questo è il tuo raccolto!”. Allora sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.

 

giovedì 6 novembre 2014

9 Novembre 2014 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).
La parabola di oggi è un po’ singolare, perché i suoi protagonisti, indistintamente, fanno tutti una brutta figura. La fa lo sposo perché, giunto alle nozze con un ritardo inammissibile, respinge quelle vergini che si presentano con la lampada spenta, poiché nel frattempo l’olio si era esaurito: “Non vi conosco!” dichiara loro; ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che le conosceva perfettamente visto che lui stesso le aveva invitate? Fanno ovviamente brutta figura le vergini che si sono trovate senza una scorta d’olio, dimostrando di essere delle sprovvedute, poco lungimiranti. Ma la fanno ugualmente anche le sagge che rifiutano sdegnosamente di dare alle amiche un po’ del loro olio: perché non condividere infatti qualche goccia d’olio con le altre, visto che lo sposo era finalmente arrivato? Lo fanno perché sono invidiose, cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è incedibile, strettamente personale, per cui anche volendo, non possono cederlo ad altri? Un olio “particolare”, unico, personalissimo che, o ce l’hai di tuo, altrimenti nessuno può dartene? “Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché sono così scostanti? Come possono quelle poverette trovare un venditore d’olio nel cuore della notte? Si burlano di loro, oppure fanno così perché non possono dare ciò che “non si può” dare?
Insomma, questa è una parabola con tanti interrogativi, in cui nessuno sembra comportarsi in maniera corretta.
Ovviamente, per capirla, dobbiamo prima di tutto capire il significato di queste immagini così lontane da noi, dalla nostra cultura, facendo esse riferimento agli usi matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando comunque la parabola, appare chiaro che lo sposo è Gesù; mentre le vergini, sia le prudenti che le stolte, siamo noi. E allora viene spontaneo chiederci: perché Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? E cos’è quest’olio così importante da condizionare il nostro ingresso alle sue nozze?
Matteo, parlando delle vergini stolte che si sono dimenticate di prendere l’olio, le chiama “morai”: un termine che letteralmente significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate, stupide, sciocche, senza testa, insipide”.
Per meglio comprendere la portata della loro stupidità, dobbiamo sapere che la “lampada” in questione altro non era che un recipiente fissato su un bastone nel quale ardevano stracci intrisi d’olio. È chiaro che per continuare a bruciare e a far luce, gli stracci dovevano essere continuamente imbevuti: non disponendo di una scorta d’olio le lampade si sarebbero ben presto spente cessando di fare luce.
Stupidità, dunque: significativo è infatti che sempre Matteo usi questo stesso termine di stolto, matto, pazzo, per indicare un’altra situazione altrettanto ovvia: quella dell’uomo che ha costruito la sua casa sulla sabbia (Mt 7,26): solo un pazzo infatti poteva fare una cosa tanto assurda: il primo temporale, la prima pioggia torrenziale avrebbe spazzato via la sabbia, e la casa sarebbe crollata.
In entrambi i casi gli stolti sono identificati con quelle persone che ascoltano sì la parola di Dio, ascoltano il messaggio di Gesù, lo accolgono, ma poi non lo mettono in pratica, lo lasciano lettera morta, se ne disinteressano totalmente. Sono quelle persone che vivono alla giornata senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema. Non si preoccupano minimamente di ciò che è importante nella vita: della qualità del rapporto di coppia, del sapersi ascoltare, del fare silenzio dentro, del mettersi in gioco, del cambiare in meglio, del nutrire l’anima, dell’avere del tempo per sé e per quelli che amano. Vanno avanti come se niente fosse. Poi si dicono: “Come è potuto capitarmi questo? Com’è possibile?”. Ma cosa pensavano, che un giorno o l’altro non avrebbero dovuto dare ragione del loro comportamento? Cosa pensavano che potesse succedere? Così si sono trovati sprovvisti di olio. Ma cos’è esattamente quest’olio che gli stolti non hanno? Sono le opere buone. L’ha detto chiaramente Gesù: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini (la lampada della vostra vita), perché vedano le vostre opere buone (l’olio che la alimenta) e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).
Ma in concreto i vangeli cosa intendono per “opere buone”? Vi ricordate la parabola del buon samaritano? Non i gesti sacri del levita che passa e tira via dritto di fronte all’uomo ferito, non le preghiere giornaliere del sacerdote, ma l’amore del buon samaritano che oltretutto era considerato un eretico (Lc 10,29-37). È questo, è l’amore che conta davanti al Signore. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
È questo in pratica che significa avere l’olio: un bene concreto, reale, quotidiano, fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. C’è qualcuno che soffre? Noi vediamo, sentiamo la sua sofferenza, e ci muoviamo subito per aiutarlo. L’amore è dunque l’unico metro di giudizio usato da Dio; preghiere, riti, meriti, studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono a servizio dell’amore. Anche questo Gesù lo dichiara apertamente: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21). Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, costruire grandi chiese, grandi cattedrali, tirare in ballo “Dio” continuamente, in ogni cosa, in ogni discorso, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini stolte, sprovviste di opere buone, di amore. Perché solo chi possiede amore può entrare alle nozze con Dio, nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”: ma non è il Signore che non ci riconosce. Non è una condanna la sua, ma una conseguenza del nostro modo di vivere. Siamo noi stessi che non ci riconosciamo, perché abbiamo sempre vissuto in superficie, con banalità: non sappiamo chi siamo; non sappiamo cosa vogliamo o cosa proviamo; non abbiamo alcun colloquio con noi stessi e, conseguentemente, ci autoescludiamo dalla vita, dalle sorgenti della vita.
Trovarci in situazioni simili è molto più facile di quanto si possa pensare. Anzi è un classico, succede sempre così. Arriviamo ad un certo punto in cui il nostro cuore è talmente indurito, corazzato, siamo diventati talmente gelidi, da non essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento: così, quando il pianto vorrebbe liberarci, ci dirà: “Non ti conosco”, perché dentro di noi, nel nostro cuore, non troverà più nulla, solo aridità; quando arriverà la gioia, dirà: “Non ti conosco”, perché non riusciamo più a gioire, ad abbracciare, a lasciarci andare con sincerità. Quando arriverà l’amore, dirà: “Non ti conosco”, perché saremo così aridi, così sterili, da non sapere più cosa significhi innamorarci, amare veramente qualcuno. Quando arriverà la tenerezza o la compassione diranno: “Non ti conosco”, perché il nostro cuore sarà talmente indurito, che niente potrà commuoverci, niente potrà emozionarci: dentro di noi non avvertiremo più alcun palpito. Ma vivere così è vivere senza vita. La distanza che si è venuta a creare con l’Amore, è ormai troppo grande, e in tutti noi un punto di non ritorno. C’è un punto in cui tutto è “troppo tardi”: il tempo a nostra disposizione è finito, e non avremo più alcuna possibilità di “rivivere” per porvi rimedio. Questa parabola, allora, deve essere per noi un pressante invito: “Non lasciare che la tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue opere buone, perché la “scorta” di cui in quel momento devi disporre, determinerà la tua salvezza o la tua condanna, la tua beatitudine o la tua disperazione. Fai molta attenzione, perché potresti cadere improvvisamente nel buio più totale. Amen.