martedì 30 dicembre 2014

1 Gennaio 2015 – Maria SS.ma Madre di Dio


«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,16-21).
Maria a Nazareth. La sua famiglia. Nell’intreccio dei vicoli, profumati di minestre quotidiane e disturbati dalle urla dei fruttivendoli. Tra le fanciulle che, rimbalzando le loro melodie di balcone in balcone, parlavano d’amore. Nel cortile dove gli anziani prolungavano nell’ultimo sbadiglio i racconti della sera prima che risonasse il tintinnio dei chiavistelli. Maria è stata scoperta lì. Non sotto i flash dei gossip ma in un villaggio di pecorai sconosciuto dall’Antico Testamento e disprezzato dalle borgate vicine. «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria». Mi piace scrutare quella donna fuori dalla Scrittura, senza tutti i riflettori puntati, senza quell’aureola di santità tutta meritata. Mi piace inseguire Maria dentro la casa di Nazareth dove, tra pentole e telai, tra lacrime e preghiere, tra gomitoli di lana e rotoli di Scrittura, “con arpa e cetra per svegliare l’aurora” ha sperimentato gioie senza malizie, amarezze senza disperazioni, partenze senza ritorni. Se potessi mi siederei accanto a lei non m’alzerei più. Vorrei sapere tutto da lei. Vorrei che mi dicesse in quali campagne si recava nei pomeriggi di primavera per udire il silenzio dell’Eterno. In quali fenditure della roccia si nascondeva adolescente… Su quali terrazze della Galilea abbeverava le sue veglie di salmodie mentre il gracidare delle rane la disturbava appena appena. Maria! Che discorsi facevi seduta sul ciglio della fontana? Cosa raccontavi a Giuseppe quando al crepuscolo, prendendoti per mano, ti conduceva sulla spiaggia di Tiberiade a farti accarezzare dal sole. Oltre allo Shemah Israel e alla monotonia delle piogge nelle grondaie, di quali altre voci, magari rauche, risonava la bottega del tuo falegname preferito?
Maria, il tuo viso fa impazzire, la tua dolcezza fa naufragare, la tua semplicità è disarmante perché sei  acqua e sapone, senza trucchi spirituali. Perché, pur benedetta tra tutte le donne, saresti passata inosservata in mezzo a loro se non fosse per quel vestito che Dio ha voluto confezionarti su misura. Le “boutiques” di Nazaret non erano alla tua portata, gli “ateliers” d’alta moda di Gerusalemme non facevano per te. Lei, semplicissima ragazza, cresceva come un’anfora sotto le mani del vasaio e tutti s’interrogavano sul mistero di quella trasparenza e di quella freschezza senza ombre. Persino l’angelo s’è sprecato regalandoti un saluto tutt’oggi senza ombra di concorrenza: «Ti saluto, piena di grazia, il Signore è con te (...) Concepirai un Figlio». E tu subito al contrattacco. Hai intascato il saluto, ma, puntandolo in faccia, hai messo le cose in chiaro: «Non conosco uomo». Lucente, perché al tuo Dio hai rinfacciato di non essere una tra tante, hai difeso la tua fatica d’essere ragazza vergine, profumata di bellezza e ricamata di un’eleganza trasparente. Hai ragione Maria: bisogna sudare per salvare la propria purezza. Ma dimmi la verità: quanta gioia era nascosta dietro quel «non conosco uomo»? Che incantesimo pensare di non esserti svenduta per un sogno da sabato sera, che emozione mettere nelle mani del tuo Dio il profumo della tua verginità strappata ad occhi ingordi e mani rapaci.
E quell’angelo lo sa: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». Per questo dovresti raccontarmi di quell’uomo cresciuto modellando e interpretando il legno, annusando le sue vernici e i suoi colori, barattando una panca appena piallata con una bisaccia di grano. Giuseppe, l’uomo dei tuoi sogni. Era contento di starle vicino. Ne spiava i bisogni, ne capiva le ansie, ne interpretava le improvvise stanchezze. Ne assecondava i preparativi per un Natale che ormai non doveva tardare a venire. Da te, nelle lunghe sere dipinte nel retrobottega, ha intuito che fermarsi sotto la tenda, per ripensare la rotta, vale molto di più che coprire logoranti percorsi senza traguardo. Io non so se ai tuoi tempi s’adoperassero gli stessi messaggi d’amore, teneri come preghiere e rapidi come graffiti, che le ragazze incidono sui libri di storia, sugli zaini di scuola, sui jeans strappati. Ma penso che anche te, magari con uno “scriba di stilo veloce”, magari su una corteccia di sicomoro, avrai inciso amore per quell’impareggiabile falegname: “Giuseppe, ti voglio bene!”.
Potessi ritoccare con la mia fantasia la sacralità dei vangeli, intitolerei il primo capitolo del libro di Luca “l’annuncio dell’angelo al Signore”, più che “l’annuncio dell’angelo a Maria”. Mi piace pensare che l’angelo ha fatto ritorno in cielo recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio d’andata. Ha portato nell’agenzia dell’Eterno un contratto principesco: «Eccomi, sono la serva del Signore». “Eccomi”: per essere insostituibili nella vita!

Gesù è rimasto in quella periferia per trent’anni. L’evangelista Luca riassume questo periodo così: Gesù «era loro sottomesso [cioè a Maria e Giuseppe]». E uno potrebbe dire: “Ma questo Dio che viene a salvarci, ha perso trent’anni lì, in quella periferia malfamata?” Ha perso trent’anni! Lui ha voluto questo. Il cammino di Gesù era in quella famiglia. «La madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (2,51-52). Non si parla di miracoli o guarigioni, di predicazioni - non ne ha fatta nessuna in quel tempo - di folle che accorrono; a Nazaret tutto sembra accadere “normalmente”, secondo le consuetudini di una pia e operosa famiglia israelita: si lavorava, la mamma cucinava, faceva tutte le cose della casa, stirava le camice: tutte le cose da mamma. Il papà, falegname, lavorava, insegnava al figlio a lavorare. Trent’anni. “Ma che spreco, Padre!”. Le vie di Dio sono misteriose. Ma ciò che era importante lì era la famiglia! E questo non era uno spreco! Erano grandi santi: Maria, la donna più santa, immacolata, e Giuseppe, l’uomo più giusto. La famiglia. (Francesco, Udienza generale, 17 dicembre 2014)
L’altro giorno, davanti alla lavatrice, sono andato in tilt guardando mia madre. Papa Francesco ha detto di te che stiravi le camicie di Giuseppe e Gesù. Come la mia mamma: le camicie mie, di mio papà e di mio fratello. Allora ne ho approfittato e t'ho immaginato così. Però, Maria, ti chiedo scusa se per un attimo ho osato toglierti l’aureola, ma è perché volevo vedere quanto sei bella a capo scoperto, perché mi sembra di misurare meglio la grandezza di Dio che dietro ad un volto di fanciulla ha nascosto la sorgente della bellezza. Lo so che tu navighi in alto mare, io veleggio sotto costa ma sentirti vicina alle mie spiagge mi fa sentire il sapore della mia normalità. Vedi, laggiù è spuntata una stella. Io me ne vado. Tu siediti qui alla fermata dell’autobus e conquistali tutti con la tua bellezza.

(Fonte: don Marco Pozza, Sulla strada di Emmaus, 19 dicembre 2014)

 

mercoledì 24 dicembre 2014

28 Dicembre 2014 – Santa Famiglia

«Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione, e anche a te una spada trafiggerà l’anima, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,22-40).
Oggi è la festa della Santa Famiglia, ma il Vangelo si concentra soprattutto su Maria e sul suo stato d’animo.
Quaranta giorni dopo la circoncisione, infatti, Maria e Giuseppe salgono al tempio per due distinte prescrizioni della legge: la purificazione della madre e il riscatto del figlio primogenito.
Maria e Giuseppe fanno tutto secondo la Legge religiosa. Luca sottolinea la cosa nominando per ben cinque volte la parola “Legge”. È difficile anche per noi staccarci dalle tradizioni impostateci. È difficile seguire la nostra strada seguendo il proprio cuore; è difficile dar voce a ciò che sentiamo dentro; è difficile prenderci le responsabilità delle nostre scelte. È difficile staccarci da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che si è sempre fatto, da ciò che tutti fanno.
Maria e Giuseppe dunque salgono al Tempio. E qui incontrano un personaggio strano: Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Non è detto che fosse vecchio. Si dice che era un uomo giusto e timorato di Dio. Potrebbe far pensare ad un sacerdote, anche se si dice che lo Spirito Santo era sopra di lui (nei vangeli i sacerdoti non hanno mai lo Spirito Santo!). Simeone non è un sacerdote ma un profeta, non un uomo del culto ma della vita.
Maria e Giuseppe dovrebbero trovare un uomo della Legge per riscattare il primogenito. Invece, trovano un uomo dello Spirito. Le sue parole non riportano nessuna regola o prescrizione: sono parole piene di vita. Essi rimangono attoniti di fronte alle parole di Simeone: già i pastori avevano parlato di un “salvatore”, già l’angelo aveva parlato di lui a Maria come il Figlio dell’Altissimo, ora quest’uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”... ma cos’è tutto questo? Cosa sta dicendo quest’uomo?
Erano andati al tempio pensando che il sacerdote purificasse la madre del bambino e invece hanno trovato quest’uomo che annuncia che quel bambino purificherà Israele. Gesù sarà la “pietra d’angolo” su cui molti dovranno costruire, su cui molti dovranno gettare le loro basi; ma per molti altri Gesù sarà la “pietra di scandalo”, la pietra d’inciampo che li farà cadere (1Pt 2,7; Rm 9,33).
Seguire Gesù infatti non è indolore. Gesù non è un bel sentiero, comodo, in pianura, all’ombra, con fontanelle d’acqua, molte panchine su cui sederci tranquillamente.
Gesù ci mette davanti scelte, crocevie, rotture; Gesù ci pone davanti verità dure e radicali; Gesù ci mette di fronte a noi stessi, senza poterci fuggire. Gesù è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento. Gesù non ci lascia sonnecchiare tranquilli. Per questo il vangelo se per alcuni è Vita, per altri è “morte”.
Simeone predice a Maria ciò che verrà: non le dice niente eppure le dice tutto. Maria ascolta anche se non capisce tutto ciò che le viene detto.
Maria non è sempre stata la Madonna! Diceva sant’Ambrogio “Maria è il tempio di Dio e non il Dio del tempio”. Maria nel corso dei secoli è stata talmente ricoperta di privilegi e di titoli da impedirci di vedere quel che Maria era, quando ancora non sapeva di essere Madonna.
Per tre volte in questo capitolo viene detto che Maria non comprende. Ella accolse il messaggio di Dio, senza capire cosa esattamente l’aspettasse. Maria non capì neppure suo figlio Gesù. Semplicemente lo seguì. E questo fu il suo grande merito: da madre divenne discepola di suo figlio.
La religione le aveva sempre insegnato che la salvezza sarebbe arrivata solo per tutti gli ebrei fedeli al Signore. Ma Simeone dice cose ben diverse: Lui è venuto per tutti: “luce per illuminare tutte le nazioni”, e nello stesso tempo “rovina e resurrezione di molti in Israele”. Il Messia cioè non è come tutti se l’aspettavano, e gli ebrei, popolo prediletto, non sono gli unici che saranno salvati. Inoltre le sue parole saranno “una spada che le trafiggerà l’anima”. Le parole del Figlio, cioè, saranno difficili da capire, le causeranno dispiacere, sconforto, incomprensione e derisione. Ben presto si renderà conto che le aspettative riposte in questo figlio si realizzeranno in maniera ben diversa da come lei pensava.
Ma il dramma di Maria sarà ancora più profondo: quelli del suo paese proprio non lo vogliono, lo rifiutano: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo ecc.?”; per dire: “Ma chi si crede di essere? Sappiamo bene chi è!”. Quelli di casa lo rifiutano: “Neanche i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Per gli scribi è un bestemmiatore, uno stregone “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,30) che “scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni” (Mc 3,22). Per i farisei conservatori e per i dissoluti erodiani, entrambi allarmati dal suo comportamento, è un pazzo perché “mangia insieme ai peccatori e ai pubblicani” (Mc 2,16).
E si accordano per farlo perire (Mc 3,6). Gesù insomma è considerato pazzo, matto, da ricovero in psichiatria, da internare: e questo dai suoi familiari!
E Maria? Cosa può provare una donna che vede suo figlio odiato da tutti, non capito. Tutti cercano di prenderlo; tutti cercano di “farlo fuori”, tutti dicono la stessa cosa: “E’ posseduto dal demonio; è pazzo”. Non è una spada che trafigge l’anima?
La spada per Maria non è la sofferenza naturale di una madre per il figlio: preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada per Maria è che, seguire il Figlio nella sua missione, viene prima anche del legame più forte, naturale e di sangue, che c’è tra madre e figlio. Maria ha dovuto rinunciare al “privilegio” di una posizione di favore in quanto madre. Se infatti Gesù la accoglie è perché Maria è sua discepola.
La spada è quando la sequela del Signore ci porta a rinnegare i rapporti di sempre, quelli familiari e quelli dei nostri cari: non perché vogliamo loro male, ma semplicemente perché non parlano più di libertà, di autonomia, di osare, di prendere il largo. Allora ci si divide (padre contro figlio, suocera contro nuora, madre contro figlia): i rappresentanti del vecchio (padre, madre, suocera) contro i rappresentanti del nuovo (figlio, figlia, nuora).
Ecco perché dobbiamo vivere con spirito nuovo la nostra famiglia.
In questi tempi dobbiamo avere il coraggio di parlare di più e meglio della famiglia, delle nostre famiglie. La famiglia è in crisi, ci dicono i sociologi. Ma senza scomodarli, ci rendiamo conto che qualcosa non funziona nella nostra società: sempre di più sono le coppie che si sfasciano, che non credono più nel matrimonio cristiano, nella possibilità di un rapporto duraturo.
Quanta sofferenza e disillusione possiamo vedere negli occhi di coloro che cercano una certezza affettiva! Dobbiamo forse arrenderci e concludere che è impossibile amarsi? No: La festa di oggi ci ricorda il sogno che Dio ha sulla coppia. Amarsi è possibile; restare fedeli è possibile; crescere in un progetto di famiglia è possibile. Ce lo hanno insegnato Giuseppe e Maria: nel loro amore pieno di tenerezza e di fatica, ci dicono che Dio ha scelto di nascere proprio in una famiglia, di soggiacere alle dinamiche famigliari, di vivere le fatiche del rapporto di coppia.
Riscopriamo allora questo nuovo modo di essere famiglia: nell'autenticità, nella fede, nel cammino di amore e di comprensione reciproca. Maria e Giuseppe ci aiutino veramente a riscoprirci famiglia sul loro esempio. E perché il Natale possa tornare ad essere la nostra festa, la festa di ogni famiglia, noi genitori dobbiamo affrettarci a presentare i nostri figli al “Tempio”: se poi questi sono cresciuti, e al Tempio non vogliono più venire, non scoraggiamoci: portiamoli ugualmente, mediante la nostra preghiera e la nostra fede; poniamoli ugualmente nelle mani del Padre, e attendiamo da lui, con fiducia, una particolare benedizione. E vedremo che essa non si farà attendere. Amen.
 

25 Dicembre 2014 – Natale del Signore

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

«Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita.
Il Figlio di Dio infatti, giunta la pienezza dei tempi che l'impenetrabile disegno divino aveva disposto, volendo riconciliare con il suo Creatore la natura umana, l'assunse lui stesso in modo che il diavolo, apportatore della morte, fosse vinto da quella stessa natura che prima lui aveva reso schiava. Così alla nascita del Signore gli angeli cantano esultanti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Essi vedono che la celeste Gerusalemme è formata da tutti i popoli del mondo. Di questa opera ineffabile dell'amore divino, di cui tanto gioiscono gli angeli nella loro altezza, quanto non deve rallegrarsi l'umanità nella sua miseria! O carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, perché nella infinita misericordia, con cui ci ha amati, ha avuto pietà di noi, e, mentre eravamo morti per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5) perché fossimo in lui creatura nuova, nuova opera delle sue mani.
Deponiamo dunque «l'uomo vecchio con la condotta di prima» (Ef 4,22) e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all'abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo».

(Dai “Discorsi” di san Leone Magno, papa: Disc. 1 per il Natale, 1-3; PL 54, 190-193)

 

giovedì 18 dicembre 2014

21 Dicembre 2014 – IV Domenica di Avvento – Anno B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». (Lc 1,26-38).
L'annuncio a Maria è sconvolgente, poiché nella mentalità dell’Antico Testamento la donna in genere era ritenuta impura, esclusa dall'azione di Dio. Solo nei vangeli le donne acquisteranno tutta la loro dignità; non solo sono equiparate agli uomini, ma addirittura sono poste ad un livello superiore; un esempio? Maria è la prima credente; Maria Maddalena la più vicina a Gesù; le donne sono le uniche che rimangono con Gesù durante la passione; le donne sono le prime testimoni della resurrezione. Gli incontri più spettacolari, incredibili, dove più “si sente”, si vive, si percepisce l'amore, Gesù li fa con le donne (la peccatrice Lc 7,36-50; l'unzione di Betania Mc 14,3-9; l'adultera Gv 8,1-11, ecc.).
E infatti da chi va l’angelo Gabriele? Va da Maria. Per noi oggi Maria è un nome dolcissimo ma non così nella vecchia mentalità ebraica: nella Bibbia esiste una sola persona con questo nome, la sorella di Mosè, donna ambiziosa, rivale del fratello: ed è per questo, che Dio l’ha maledetta con la lebbra. Il nome di Maria era pertanto sinonimo di lebbra, evocava la maledizione di Dio.
Ma quando l'angelo arriva da Maria, le dice: “Ti saluto o piena di grazia”. Si inchina cioè a Maria, la benedice in quanto “piena di grazia”; non va certo per maledirla!
Ma cosa significano le parole dell’angelo? Normalmente quando noi parliamo di Maria, ricordiamo e ammiriamo i suoi meriti, i suoi titoli, le sue prerogative. Ma essere “piena di grazia” non è un merito di Maria: è invece la dimostrazione di un intervento singolare, unico da parte di Dio.
Maria è un’umile fanciulla, di un paesino sconosciuto, non è nessuno, è un nulla; ma Dio la ama. E questo la fa “grande”, la fa “Piena di grazia” perché questo è ciò che Dio fa per lei.
Ma non è solo una prerogativa di Maria: Dio fa la stessa cosa anche con noi; perché lui fa per noi tante cose che non dipendono assolutamente da noi. Quando lui ci guarda in un certo modo, anche noi siamo automaticamente pieni di grazia. È vero che la religione ci insegna che l'amore di Dio va meritato: che lo possiamo avere solo se siamo santi, puri, onesti, in regola.
Ma per la fede, per il vangelo, l'amore di Dio va soprattutto accolto. Per averlo basta dire: “Sì”. Così poco? Certo, ma lasciarci amare da Dio, con una nostra adesione convinta, sincera, totale, non è così semplice e scontato, come può sembrare.
Maria infatti è turbata, e possiamo capirlo! Soprattutto perché prima Dio non si era mai rivolto ad una donna. E Maria ne è sconvolta: quello che le sta succedendo è davvero impensabile.
Ma Dio normalmente a chi si rivolge? Al papa, ai cardinali, ai vescovi, ai preti? Alle suore? Agli uomini importanti? No. Dio vuole noi, proprio noi. Sembra che non abbia nessun altro oltre noi. Dio è come impotente, senza di noi, senza l’uomo, che non può fare nulla. Con noi, invece, può fare tutto.
L'angelo dice a Maria: “Concepirai un figlio”. E Maria: “Ma non conosco uomo”. In passato si parlava del voto di verginità di Maria; ma era una cosa impensabile per una donna ebrea: avere figli, era segno di benedizione da parte di Dio, non averne, per qualunque motivo, era segno di maledizione.
Maria quindi non era vergine per voto di verginità; era vergine semplicemente perché, appena ragazza, era ancora “promessa sposa”, si trovava cioè tra la prima fase del matrimonio (herusin) e la seconda (qiddushin); il matrimonio ebraico infatti si svolgeva in due tempi: prima vi erano gli accordi matrimoniali, l’ufficializzazione del fidanzamento, lo scambio dell’anello, dopo di che ognuno tornava a casa sua; dopo circa un anno, la sposa veniva condotta solennemente in casa dello sposo, dove il matrimonio veniva consumato ed iniziava la vita matrimoniale.
E l’angelo continua: “Lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”. Altra novità riservata a Maria: le donne non potevano mettere il nome ai figli! Era il padre, e solo lui, che vi provvedeva. Si tratta di un’altra tradizione importantissima che viene rotta. D’altronde l'irruzione di Dio nella vita degli uomini porta sempre una drastica “rottura” con certe tradizioni, con certe usanze, con certi pregiudizi. Per questo è così difficile accoglierlo.
Allora l'angelo le dice: “Lo Spirito Santo scenderà su di te”. Lo Spirito di Dio ti “adombrerà”.
Luca presenta Maria come la donna dello Spirito: negli Atti degli Apostoli, infatti, libro sconosciuto da molti di noi anche se in realtà è la seconda parte del vangelo di Luca, c'è sempre Maria, anche nella seconda discesa dello Spirito Santo. Possiamo quindi dire che tutta la vita di Maria, dall'inizio alla fine, è sotto il segno dello Spirito.
Maria è inoltre la donna tutta “fiducia”. Non sa in chi e in che cosa si fida. Ma agisce d’impulso, si rende immediatamente disponibile, semplicemente pronunciando il suo : “Sì”.
Non ha la minima di idea di cosa voglia dire “verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre”. Lei dice solo: “Sì”.
Quello di cui si rende conto è soltanto che lei, Maria, con il suo “Sì” rischia di essere condannata a morte, addirittura per due motivi: prima di tutto perché anche solo pensare di partorire il Figlio di Dio, era una bestemmia gravissima, punita con la condanna con la morte; secondo poi perché, non essendo ancora pienamente sposata, avere un figlio significava essere un’adultera, colpa che la Legge condannava con la lapidazione. Maria però non tiene conto di nulla, sfida coraggiosamente due possibili pene di morte, già pendenti sulla sua testa. Non sa cosa le succederà, in che modo le toccherà vivere, ma dice solo: “Avvenga di me quello che hai detto”.
Le parole dell’angelo che rivelano la volontà di Dio, per lei sono già legge, più della legge degli uomini.
Cosa ci insegna dunque questo vangelo? Cosa ci dice in particolare? Che anche noi, quando siamo con Dio, siamo tutti automaticamente “grandi”.
Noi purtroppo soffriamo spesso del complesso di inferiorità, siamo convinti di essere “nessuno”. Ci diciamo: “Io? Io non ho niente. Non so fare niente. È difficile, è impossibile! Mi piacerebbe, ma è troppo grande!”.
Eppure abbiamo davanti a noi l’esempio di Maria: chi era Maria al suo tempo? Nessuno. Eppure...! Lei ha messo davanti a tutto la fede: se crediamo anche noi in Dio, allora tutto diventa possibile, concreto. Se crediamo in Dio, se sentiamo la sua presenza dentro di noi, allora acquistiamo immediatamente le nostre forze, non temiamo più nulla, crediamo tranquillamente in noi stessi. Allora possiamo pensare di essere veramente grandi, importanti, di essere anche noi in questa vita per uno scopo ben preciso, per lasciare un segno a questo mondo che lo renda migliore.
È così anche per tutte quelle persone che magari vivono defilate, che non fanno nulla di eccezionale nella loro vita, ma rispondono ogni giorno umilmente il loro “Sì” a Dio, perché lo sentono dentro di loro: e questo infonde loro una forza straordinaria.
È stato così per Maria, che non aveva in assoluto nulla più di noi: ha soltanto creduto in Dio e in se stessa. Credere in Dio è facile; è credere in se stessi che è difficile! Perché significa impegnarsi in percorsi prima impensabili. Maria ha detto “sì” senza sapere nulla, fidandosi.
Avere fede, infatti, non è conoscere prima cosa ci succederà, sapere a cosa andiamo incontro, cosa comporterà il nostro “sì”: questo è avere certezza, questo risponde al nostro bisogno mentale di sapere, di essere sicuri, di avere tutto sotto controllo, di non correre rischi. La fede è, invece, semplicemente un “Sì”. Non importa cosa, non importa come, non importa quando, ma sì: mi fido, fai Tu, o Dio, quello che ritieni più opportuno per me! Amen.
 

giovedì 11 dicembre 2014

14 Dicembre 2014 – III Domenica di Avvento – Anno B

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». (Gv 1,6-8.19-28)
Siamo alla terza domenica di avvento, la domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino.
Il vangelo ci ripropone anche oggi la figura del Battista. Ma questa volta è l’evangelista Giovanni che ce ne parla: non è, come negli altri vangeli, l’asceta o il profeta duro che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono. Qui è il testimone. Il Battista in Giovanni è semplicemente una indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dentro me”. Non dice chi verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via... verrà uno che non conoscete... io di fronte a lui sono niente”.
Ebbene: questa è l’essenza dell’avvento. Il Battista sente che qualcosa deve avvenire, attende, aspetta. Sente che sta arrivando qualcosa, ma non sa cosa.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Ma dobbiamo rimanere sorpresi, perché se conosciamo già tutto, se tutto è già scritto, che Natale è? Che avvento è? Prepararsi vuol dire: “Acconsentiamo che ci succeda qualcosa di cui non possiamo disporre, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo che la vita ci faccia delle sorprese”.
Noi invece siamo portati a controllare tutto. Noi pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia svegliandoci dal nostro torpore e rendendoci consapevoli di certe cose, non è Dio.
Nel vangelo c’è una grande domanda rivolta al Battista: “Chi sei tu?”. E Giovanni inizia col dire chi effettivamente non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
È importante rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci mettono; è importante dire agli altri: “No, non sono come voi pensate”.
Ma noi in realtà chi siamo? Siamo uomini, è vero; siamo buoni, ok. Ma è troppo poco. Ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme: sì, va bene, ma anche di papà e di mamme ce ne sono milioni. Siamo un marito, una moglie, bravi cristiani, lavoratori; siamo dipendenti, professionisti, artigiani, commercianti. Sì è tutto vero, ma è sempre troppo poco. Perché questo è il ruolo che abbiamo, è il vestito che indossiamo; ma dentro di noi chi siamo?
Il ruolo è un vestito. È buono per andare a lavorare, per andare a scuola, a teatro, al cinema, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a letto, quando vogliamo stare in libertà, quando ci va di fare qualcosa al di fuori del nostro ruolo, il vestito ce lo togliamo, perché rappresenta il nostro contenitore, il nostro esteriore, una parte della nostra vita, quella a contatto con gli altri.
Purtroppo molti di noi si sono vestiti di un ruolo e vivono sempre e solo quello. Certo, recitare sempre il solito ruolo ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile, ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere a metà.
Ci sono dei ruoli, inoltre, che non vanno sempre bene. Ad esempio c’è il simpaticone: essere simpatici va bene, ma nella vita non si può scherzare sempre. C’è l’altruista: essere generosi, dare sempre, va bene, ma a volte dobbiamo ricaricarci, dobbiamo ricevere anche noi. C’è il critico: essere critici va bene, ma non possiamo aver sempre da ridire su tutto, essere perennemente il “bastian contrario”. C’è il “capo” che continua a fare il capo dappertutto, a casa, con gli amici, con la moglie con i figli, è sempre autoritario con tutti. C’è il professore, che fa il professore, il saputello dappertutto, si sente superiore agli altri: ma così diventa pesante, insopportabile. E poi c’è chi fa il perfetto, quello che non sbaglia mai; c’è il timido; c’è quello che è convinto di avere tutto in pugno, ecc.
Se lo viviamo così, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone è venuta a mancare la “persona” ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, sotto il vestito non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Per cui la grande domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, i vestiti, chi siamo noi? Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimo della nostra anima?” Questa è la grande domanda. In altre parole: “Cos’è, che ci rende unici, irripetibili, diversi, da tutti gli altri? Cos’è che ci rende insostituibili?” Perché se non lo troviamo vuol dire che noi, o un altro, è la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che di gente come noi ce n’è in abbondanza; vuol dire che siamo uno dei tanti, un doppione, una fotocopia: come se la vita facesse fotocopie! Ma se siamo uguali, identici in tutto agli altri, che senso profondo può avere la nostra vita?
La prima cosa da fare, pertanto, è fare pulizia, liberarci da ciò che non siamo. La grande scelta, come per il Battista, è non accettare di essere gli altri: “No, non sono questo! Io sono io; io sono diverso; io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere ciò che non siamo, anche se la gente lo vorrebbe, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative che gli altri ci hanno incollato addosso, è sempre molto faticoso e doloroso. Ma solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, solo se ci scrolliamo il ruolo di dosso, piano piano emergerà chi siamo veramente. E ne varrà la pena!
Giovanni Battista ha trovato il motivo per cui vivere, per cui è stato creato, ciò che dà senso alla sua vita. Lui deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se avete gli occhi chiusi non lo vedrete”. Egli è voce di qualcun altro, è strumento, mezzo. Questo è il primo compito di ogni uomo: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, alla forza che lo abita, ma che non gli appartiene. “Dai voce a ciò che hai dentro!”.
Lui dà, presta la voce, ma le parole sono di un altro: testimonia la luce, illumina, ma non è la Luce; è come la luna che riflette, ma non è da lei che viene la luce; la luce viene dal sole.
L’uomo è chiamato a testimoniare il di più che si porta dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. Essere strumenti vuol dire proprio questo: permettere che Dio scelga, utilizzi noi per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che suona in noi: non siamo noi la musica, non ci appartiene. Siamo solo gli strumenti. Noi siamo l’onda, Lui è il mare. Noi siamo i raggi, Lui è il sole.
Questa è la grande chiamata di ciascuno di noi. Noi viviamo, ma la vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Noi viviamo e operiamo, ma non siamo il soggetto. Il soggetto è sempre e solo Dio. Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Le sente sue, ma non lo sono. Siamo gli amministratori delle cose, non i proprietari.
Nel vangelo c’è infine una frase forte: “In mezzo a voi c’è uno che non conoscete”. Meglio: “uno che voi non volete conoscere”. I Giudei, i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, Colui che viene. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui farà o dirà non potrà in nessun modo cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista urla, scuote, grida, strattona: ma non serve. Se noi abbiamo deciso dentro di noi che non ci interessa, niente ci può convertire. Se abbiamo deciso dentro di noi che Natale è il 25 dicembre, il pranzo e la messa (una volta all’anno ci può stare!), niente può cambiare. Se abbiamo deciso che Dio è un corollario della nostra vita, un apparato periferico, nessuna predica ci può scalfire. Se abbiamo deciso che non vogliamo metterci in gioco, la vita non avrà più niente da insegnarci.
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale. Non facciamoci illusioni: molte persone ci saranno anche, ma dentro di loro, nel segreto del loro cuore continueranno a dire: “Non ci interessi, non sappiamo che farcene di te”.
Ebbene, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo una buona volta quella strada che dal nostro cuore porta al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché dia senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.
 

giovedì 4 dicembre 2014

7 Dicembre 2014 – II Domenica di Avvento – Anno B

«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati» (Mc 1,1-8).
Dove troviamo il Battista? Nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio: il deserto è l'unico ambiente ideale per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”.
Nel deserto non esiste l’ “ovvio”: se non fai qualcosa per vivere, muori. Lì conta solo l'essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze, le convinzioni, nella solitudine uno si trova davanti a se stesso, a quello che ha dentro. E mostra quello che non vorremmo vedere.
Nel tempio noi abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: anche parlando di Dio e in nome di Dio, non ci convertiamo, non cambiamo dentro, rimaniamo sempre gli stessi, giustifichiamo religiosamente le nostre iniquità.
Il deserto, al contrario ci dice: “No, amico mio, devi convertirti e devi cambiare. Non illuderti. Non nasconderti. Dove vai? Perché fuggi? Eviti la verità? Qui si vede se ami Dio: se ami Dio devi cambiare il tuo cuore”.
Leggendo il Vangelo ci convinciamo sempre più che per credere in Gesù Cristo, dobbiamo necessariamente abbandonare quella che è la “nostra” religione.
È una verità forte, ma è così. La religione, per definizione, ci dà regole, ci dice cosa dobbiamo fare e cosa non dobbiamo fare, ci rassicura, ci dice che se faremo così andremo in paradiso e se faremo colà andremo all'inferno; ci dice chi sono i bravi, i puri e gli ammessi e chi invece sono i cattivi, gli esclusi.
Ma di tutto questo non c'è nulla in Gesù. Perché la fede ha un solo obiettivo: l’amore: sentirsi amati da Lui sempre, e amare ogni creatura (rispetto, compassione, tenerezza, cura).
La regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”. Ma la regola di Gesù è: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le fai crescere? Quanto le stimi? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti? Quanto vuoi il meglio per loro?”.
Il Battista, nonostante il suo annuncio sia duro e severo, all'inizio ha successo con la gente, al punto che le autorità religiose si allarmano. In realtà egli dice: “Guardate che non sono io quello che deve venire, non sono io il Messia”. Ma nonostante ciò, per esse, egli rimane un pericolo. Per questo sarà diffamato. Quando non si può eliminare l'avversario basta screditarlo e diffamarlo. Se non troviamo in lui del male, parliamone male, e lo creeremo. Ma perché con il Battista? Perché è uno che non guarda in faccia a nessuno, uno che non te le manda a dire, e questo non piace a nessuno.
Inoltre non è facile da accettare proprio perché annuncia un battesimo di fuoco.
Noi ci diciamo: “Siamo cristiani” e lo diciamo perché effettivamente siamo battezzati e registrati in parrocchia nel libro dei battesimi. Ma per il vangelo non è così.
Tutti siamo battezzati con l'acqua, ma il vero battesimo (quello di fuoco) è la vita. Nel giorno del battesimo ci viene detto: “Tu sei figlio di Dio” (battesimo d'acqua). Ma poi dobbiamo diventarlo e questo è il nostro compito e il nostro cammino (battesimo di fuoco).
Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”; dove? nella luce e nella non-luce che sono dentro di noi. Anche “Giordano” vuol dire “immergersi”. E dove va a finire il Giordano? Va a finire nel Mar Morto. Ed è esattamente quello che ciascuno di noi è chiamato a fare: immergersi “nella mortalità” di questa vita, immergersi in ciò che sembra morto, finito, senza senso, disperato, per potere dalla morte far emergere la Vita.
Gesù, con la sua discesa nella storia mortale (kenosi), ha rivelato che, nel profondo della morte di questa vita, c'è una luce divina che non muore mai.
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”. Eppure Gesù l'aveva già ricevuto il battesimo al Giordano, ma non è quello il battesimo cui alludeva, è il battesimo di fuoco.
Cos'è il battesimo di fuoco? È quel cammino dentro e verso di noi che inizialmente elimina tutto ciò che si è sedimentato in noi, tutto ciò che non siamo noi: è un cammino di purificazione, di liberazione, che ci porterà a scoprire chi siamo veramente, il nostro centro e la nostra parte divina, quella indistruttibile. Per cui chi ci guarda, vedrà in noi qualcosa che ci supera, che è più grande di noi, vedrà qualcuno in trasparenza, di cui noi siamo somiglianza, immagine.
Ma non basta “pensarlo”: dobbiamo farlo! Non possiamo diventare ciò che siamo (figli di Dio) stando a letto tranquilli e pacifici, magari davanti alla tv e mangiando patatine. Vogliamo raggiungerci dentro di noi? Camminiamo! Dobbiamo discendere nella nostra umanità.
L'ha fatto Gesù Cristo che è disceso nel fiume del peccato, il Giordano, dove tutti andavano a lavarsi dai peccati; dobbiamo farlo anche noi: perché soltanto immergendoci, rifioriremo; e solo bruciando, torneremo ad essere amore vivo.


Oggi il Battista, domani Maria Immacolata: sono le due figure che ci conducono al Natale. Entrambi ci annunciano un figlio ma secondo prospettive diverse.
Maria è la madre accogliente: “C'è qualcosa che vuole svilupparsi in te, accoglilo. Se questo qualcosa, questo “figlio”, non è secondo i tuoi programmi, non importa, accoglilo lo stesso. Se questo figlio ha un nome diverso da quello che tu pensavi, non importa, accoglilo lo stesso. Se questo figlio non è come tutti se l'aspettavano e ti spiazza, non importa, accoglilo lo stesso”.
Cosa fa una donna quando partorisce un figlio? Cos'ha fatto Maria? Una donna ama “suo figlio” non perché è il più bello, il più buono o perché è come lei se l'aspettava. Lo ama perché è suo, perché viene da lei, è parte di se stessa, perché ha bisogno del suo amore, della sua cura e della sua tenerezza.
Anche il Battista aspetta il Messia. Anche il Battista non vede l'ora del suo arrivo. Nelle sue parole si percepisce tutta la sua ansia, il suo desiderio per l'avvento del Messia: “Preparate la strada e raddrizzate i sentieri”. La sua stessa vita è vissuta in funzione di Colui che deve venire.
Sì, Gesù è l'Aspettato ma non come se l'aspettavano. Non è potente come un nuovo Davide, con l'esercito, le armi, le spade e i cavalli. Non è forte come un nuovo Elia, che distrugge le falsità, combatte l'ingiustizia e uccide i malfattori. Non è condottiero come un nuovo Mosè che libera gli ebrei dalla schiavitù dei nuovi Egiziani, i Romani.
Il Battista dovrà cambiare opinione e convertirsi: “Lui è diverso dalle mie idee”. Non fu per niente semplice per lui accettare questo “figlio”!
Ma il “figlio” è tutto ciò che vuole nascere, che vuole emergere, in noi. Natale è accettare questo “nostro figlio”: una verità difficile... ma è così. Se la rifiutiamo uccidiamo ciò che vuole nascere.
Natale è un “bambino” da accogliere, è vero. Ma il punto è che noi abbiamo già stabilito che tipo di “bambino”. Se non arriva come noi ce l'aspettiamo, lo rifiutiamo, non lo accogliamo neppure, perché non è secondo le nostre idee.
Ma il "bambino" è lui. Non è come noi, è diverso da noi: per questo lo dobbiamo accogliere com'è, anche se sarà diverso da come noi ce l'abbiamo in testa, o addirittura all'opposto. E per questo ci sorprenderà; per questo ci chiederà di cambiare le nostre idee, i nostri pensieri; per questo ci chiederà di aprire la mente anche su ciò che per noi è inconcepibile.
Lui vuole vivere in noi. Dio vuole nascere in noi. Accogliamolo, accettiamolo, perché è lui, Gesù, che vuole nascere ancora in noi. Amen.

 

giovedì 27 novembre 2014

30 Novembre 2014 – I Domenica di Avvento – Anno B

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento…» (Mc 13, 33-37).
L’avvento è il tempo liturgico che ci prepara al natale. È l’attesa di Gesù che deve venire.
A noi, quando parlano di attesa, di arrivo, capita che la prima cosa cui pensiamo sia l’autobus, o il treno, o l’aereo: siamo lì, aspettiamo il mezzo di trasporto che ci viene a prelevare: quello arriva, noi saliamo su, ci sediamo tranquilli, ci leggiamo il giornale o sonnecchiamo fino all’arrivo. Nessun problema per quest’attesa; nessun problema per questo arrivo. È un’occasione per lasciarci cullare tranquillamente, senza problemi, dalla vita.
Ma l’Avvento non è questo. Nei vangeli non è mai così: la venuta di Dio è sempre sconvolgente, destabilizzante: è sempre un’avventura! Quando Dio viene, Lui chiama a qualcosa di impossibile. Impossibile perché puntualmente, quando arriva il momento dell’arrivo, dobbiamo ancora farlo, dobbiamo ancora partire.
Dio viene e passa, ma non viene mai come noi ce l’aspettiamo o come noi vorremmo. A fatica lo riconosciamo, non ha un volto qualunque, ma ha un “portamento” che non conosciamo, che non sappiamo, che non ci aspettiamo.
Saremo particolarmente all’erta per riconoscerlo? Avremo il coraggio di tenere costantemente la porta aperta per accoglierlo?
Non conosciamo l’ora, il momento; praticamente non conosciamo quando è “tempo”: però qui Marco usa la parola kairos (Mc 13,33): non conosciamo cioè quando sarà il tempo propizio, il tempo favorevole, ben diverso dal chronos, che è il tempo dell’orologio: quello passa e basta: passa comunque, sia che siamo pronti o no. Natale verrà e questo è certo: sarà il 25 di dicembre. Ma per noi sarà per davvero un Natale “propizio, favorevole, preparato(kairos), oppure sarà soltanto una festa del calendario (chronos)? Cristo viene per davvero: ma noi ci saremo? Saremo in grado di accoglierlo? Sapremo accettare la sua visita? Sapremo riconoscerlo? Sapremo dirgli: “Ti accoglierò in qualunque modo tu verrai!”?
Il vangelo inizia infatti dicendo: “State attenti, vegliate, vigilate”. Tre verbi che in sostanza sottolineano la stessa cosa: che non dobbiamo dormire, non dobbiamo addormentarci, dobbiamo essere svegli e desti.
Il messaggio è semplice e non ammette dubbi: “non addormentarti, rimani desto, rimani sveglio”. Perché se dormi, quando ti sveglierai, scoprirai che la realtà non è quella che tu pensavi, o quella che ti eri faticosamente costruito o nascosto.
La gente in genere non vuole verità, non vuole essere svegliata; la gente vuole dormire.
Quando facciamo “gli addormentati” diciamo: “È così, non possiamo farci nulla; siamo dentro al sistema”. Sveglia! Non è vero! Il fatto è che se ci svegliamo, dobbiamo prendere in mano la nostra vita e riconoscere che il come vivere dipende solo da noi. Oppure quando diciamo: “Tu sei la mia felicità!” pensando magari che soltanto quando troveremo l’uomo o la donna giusti saremo veramente felici, svegliamoci, non è vero. Se non siamo felici “dentro” di noi, non lo saremo mai!
Oppure: “Io non valgo nulla”. Sveglia, non è vero. Perché il giorno in cui lo scopriremo sul serio, non potremo più colpevolizzare gli altri e fingere dicendo: “guardate quanto sono sfortunato!”.
Oppure: “Io sono buono”. Sveglia, non è vero. Siamo buoni perché non ci conosciamo e non ci guardiamo dentro. Siamo buoni perché vogliamo ritenerci superiori, migliori degli altri e poi magari giudicarli. “Nessuno è buono, se non Dio solo”, ha detto Gesù (Mc 10,18).
Oppure: “Non possiamo farci niente”. Sveglia! Non è vero: è che è difficile mettersi in gioco in prima persona ed esporsi; è che è più comodo dire così, piuttosto che sporcarsi le mani.
Oppure: “Quando avrò ottenuto quella cosa, allora finalmente sarò felice”. Sveglia, non è così. Se pensiamo che siano le cose o le persone a farci felici, non saremo mai felici. La felicità non è un fine ma la conseguenza di una vita soddisfacente, significativa, realizzata, piena d’amore.
Il Natale è questo: prenderci cura della nostra dimensione interiore, di ciò che siamo, di ciò che abbiamo dentro.
Perché, immersi nella vita di tutti i giorni, rischiamo di perderci. Ci alziamo, facciamo colazione, portiamo i figli a scuola, andiamo a lavorare, lavoriamo sodo tutto il giorno; riprendiamo i figli e torniamo a casa. A casa poi si apre un’altra giornata: laviamo, stiriamo, sistemiamo, facciamo la spesa, prepariamo da mangiare, telefoniamo ai nostri “vecchi”, controlliamo i compiti dei figli, ecc. E poi: paghiamo le tasse, controlliamo il conto corrente, ci interessiamo dei problemi condominiali, stiamo attenti che non ci “imbroglino” con le bollette, con i conti della spesa ecc. La vita sembra una corsa, una guerra, un fare fare, ecc. E questo ogni giorno. E se non stiamo attenti, ci addormentiamo, dall’essere passiamo al fare: e quando vendiamo l’essere per il fare, per il materiale... allora il sonno è profondo. Quando per interesse non guardiamo in faccia nessuno... allora è sonno profondo. Quando le persone possono essere spostate, trattate, usate, come pacchi-oggetto (chiamiamole pure ristrutturazioni di società!), senza tener conto che sono esseri umani... allora è sonno profondo. Quando non ci interessa nulla della natura e inquiniamo, sporchiamo, distruggiamo, credendo che tutto il mondo sia nostro o che “non è niente” e neppure ci accorgiamo che anche quella è vita al pari della mia... allora è sonno profondo. Quando per divertirci, per trovare complicità, “sparliamo” della gente, magari senza sapere... è sonno profondo. Quando il lavoro viene prima dei figli e della moglie o quando i lavori di casa vengono prima delle carezze, dei baci, del ridere, dello scherzare e della complicità... è sonno profondo. Quando una regola viene applicata perché è una regola e non si tiene conto della sofferenza, dei bisogni, della diversità, del dolore che si arreca all’altro... allora è sonno profondo. Quando ci stordiamo davanti alla tv, al computer, allo smartphone, con mille chat e mille parole, pur di non entrare in contatto con noi stessi, con ciò che abbiamo dentro, con le nostre paure... allora è sonno profondo. Quando per sicurezza, per non andare in crisi, per non crearci problemi, evitiamo di farci certe domande, o evitiamo certe verità per non metterci in confusione... allora è sonno profondo.
Dal sonno profondo o ci si sveglia o si muore. Terribile è vivere una vita dormendo.
Svegliarsi significa accettare di vedere quella realtà che prima non vedevamo (o non volevamo vedere). Svegliarsi è accettare che la verità che credevamo di vedere, non è la verità: svegliarsi non è mai piacevole, ma è vivere la Vita. Amen.

giovedì 20 novembre 2014

23 Novembre 2014 – Cristo Re

«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra» (Mt 25,31-46).
La parabola di oggi, conosciuta come “Il giudizio finale” viene vista sempre negativamente, in un modo tragico: Dio giudice esigente e fiscale che controlla tutto, che annota tutte le nostre azioni in un grande libro dei conti e che, alla fine della nostra vita, tira le somme: se le azioni cattive superano quelle buone, castigo eterno. Se, invece, risulta il contrario, premio eterno.
Un tempo la Chiesa metteva in risalto questa idea di Dio, giudice intransigente: “iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit”: quando il Giudice prenderà posto nel giorno dell’ira (“dies irae”), tutto ciò che abbiamo tenuto nascosto verrà reso pubblico…”. Non abbiamo scampo: un’idea molto diffusa, che portava a dipingere nelle Chiese un grande occhio di Dio all’interno di un triangolo, che era la Trinità: “l’occhio di Dio ti controlla, vede e sa tutto, stai attento!”.
Ma un Dio così non è esattamente il Dio evangelico, il Dio che Gesù ci ha insegnato ad amare e a pregare. Non dobbiamo fermarci a certe interpretazioni, talvolta sono fuorvianti.
La parabola inizia dicendo: “Quando il Figlio dell’Uomo verrà”: Gesù, quando parla di sé, usa sempre questo termine: “Il Figlio dell’Uomo”. Un titolo che pochissimi autori sacri attribuiscono a Gesù: ed è strano, singolare, visto che Lui si identifica sempre in questo modo!
Cosa vuol dire Figlio dell’Uomo? Il Figlio dell’Uomo è l’uomo che ha realizzato in sé il progetto di Dio, è la persona che accoglie lo Spirito di Dio e lo vive nella propria vita: esattamente come ha fatto Gesù. Chiunque può essere Figlio dell’Uomo: anzi, tutti dobbiamo esserlo. Tutti dobbiamo accogliere il piano, il progetto di Dio su di noi, che è esattamente il motivo per cui siamo nati ed esistiamo.
Che Dio abbia un progetto su ciascuno di noi sta a significare che la nostra esistenza di creature insignificanti, è invece importantissima, ha un senso profondo: vuol dire che non siamo qui per caso, ma siamo qui per uno scopo, un motivo ben preciso. Ed è questo motivo che noi dobbiamo recuperare, il senso della nostra vocazione. C’è un destino, una chiamata, una missione che ci chiama. È questo motivo che ci nobilita e ci rende irresistibili. Le persone che sono tristi, depresse, senza vitalità o voglia di vivere, lo sono perché non hanno motivi validi, forti, ragionevoli per vivere. Non ci rendiamo conto che la nostra vita è una piccola tessera di un mosaico meraviglioso, grandioso, imponente: l’essere a somiglianza di Dio.
Dunque: il Figlio dell’uomo “verrà nella sua gloria” con tutti gli angeli, e siederà sul suo trono, davanti a tutti i popoli radunati.
Quando noi pensiamo agli angeli, pensiamo subito ad una creatura con le ali. Ma l’angelo (“ànghelos”, annunciatore) non ha niente a che vedere con questo. Angelo è solamente tutto ciò (persone, incontri, fatti, eventi, situazioni, sogni, incidenti, sorprese, ecc.) che Dio ci manda per consentirci di andare avanti e seguire la Sua chiamata.
Abbiamo mai incontrato un angelo? No, se pensiamo all’essere angelico con le ali.
Abbiamo mai incontrato un angelo? Sì, tantissime volte, se sappiamo riconoscerlo: perché “angelo” sono tutti quelli che vogliono aiutarci a diventare migliori. Noi viviamo nella paura, nel terrore di scegliere, di osare, di metterci in gioco, di guardarci dentro, non sfruttiamo le nostre potenzialità, la nostra riserva di amore, di bontà, di doti, di generosità, di simpatia, di vitalità che abbiamo dentro. Viviamo sempre sulla difensiva, non sfruttiamo il patrimonio che Dio ci ha dato. Allora arriva un angelo che ci mostra che possiamo essere migliori: possiamo osare, scegliere, smettere di vivere così e volare in alto.
Chi ci ama non vede ciò che siamo ma ci mostra ciò che possiamo essere. L’angelo è questo. Quindi gli angeli con i quali il Figlio dell’uomo verrà, sono semplicemente tutti quelli che vivono realizzando con la vita il progetto che Dio ha su di loro.
“Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: venite benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fino dalla creazione del mondo”.
Noi, dicevo, ci siamo fatti l’idea strampalata di un Dio “guardone” che sta continuamente a spiarci, per annotare tutto ciò che ci riguarda nel suo Librone. Ma Gesù non ha bisogno di libri per separare gli uni dagli altri, i buoni dai cattivi. Gesù lo vede immediatamente! E da cosa lo vede? Dai fatti concreti: se cioè siamo riusciti a vivere la Vita, oppure no. Se cioè ci siamo immessi, ci siamo realizzati nel suo progetto originale: che tutti gli uomini cioè avessero la sua stessa condizione divina, rispecchiassero la sua stessa immagine, somigliassero fedelmente a lui.
In particolare cos’hanno fatto questi “benedetti” per raggiungere questo traguardo e ottenere “il regno”? Nulla di eccezionale: sono stati costanti e fedeli nel compiere alcune semplici azioni: hanno dato da mangiare agli affamati e da bere agli assetati; hanno accolto i forestieri, gli “altri”; hanno vestito gli “ignudi”: hanno preso, cioè, le difese dei peccatori, degli indifesi, dei vulnerabili, di quanti erano esposti alla pubblica discriminazione, alla vergogna, alla derisione; hanno curato i malati, non solo quelli corporali, ma soprattutto quelli spirituali; hanno infine visitato i carcerati, portando loro conforto.
In una parola “benedette” sono tutte quelle persone che in vita si sono prodigate verso i più deboli, sono state attente ai bisogni degli altri, dei propri fratelli, riconoscendo in loro Gesù stesso.
È Gesù stesso che lo conferma: “Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Attenzione: qui Gesù non dice: “Quando ami uno, lo fai per me” ma “quando ami uno, ami me”. Punto. Molte persone invece sono ancora convinte che devono amare gli altri, il prossimo, perché lo ha comandato Gesù”. Ma se amiamo gli altri per “dovere”, senza alcuna convinzione, senza sentimento, senza trasporto, ma solo per costrizione, perché Dio ce l’ordina, forse che questo è “amare”? L’amore non si comanda: si sente. Non si fanno le cose “per carità cristiana”; si fanno perché nascono dal cuore. Amare uno, perché così ci è stato comandato, è svilente: “Non ti amo, ma lo faccio perché me lo ordinano!”. Per Gesù è impensabile. Le cose non si fanno per Dio, ma con Dio e soprattutto come Dio.
I Santi hanno fatto così: Un giorno chiesero a Madre Teresa: “Perché lo fa?”. Si aspettavano come risposta: “Per Dio”. E invece lei sorridendo disse: “Per amore”. “Cioè per Dio”, ripresero. “No, per amore. Perché la sua sofferenza tocca il mio cuore”. E concluse: “Non so mai se chi dice di amare Dio, lo ami davvero. Ma so che chi ama l’uomo, lo sappia o no, ama Dio”.
Un giorno stava curando delicatamente le piaghe ripugnanti di un lebbroso. Lavorava e sorrideva, chiacchierando con il malato, come fosse la cosa più naturale del mondo. Ad un certo punto gli chiese: “Tu credi in Dio?”. Il pover’uomo la guardò intensamente negli occhi e poi le disse, sorridendo: “Sì, adesso credo in Dio!!!”. Un’altra volta ancora un giornalista che la vedeva tutta dedita a curare un lebbroso le disse: “Madre, io non lo farei neanche per un milione di dollari”. E lei: “Io neppure!”. E lui continuò: “Ma neanche se me lo comandasse Dio in persona!”. E lei: “Io neppure”. Certe cose si fanno per amore... e basta.
“Via, lontano da me maledetti”: è la condanna del Figlio dell’uomo per gli altri, per chi non ha dispensato amore. Prima aveva detto: “Venite, benedetti dal Padre mio”. Qui, invece, non ripete: “Maledetti dal padre mio”, ma solo: “Maledetti”. Infatti, non da Dio sono maledetti, ma da loro stessi! Se uno non fa crescere l’amore che c’è in lui, se non diventa più maturo e adulto, lui stesso si condanna a morire. E chi è morto non può dare vita. Non è una sentenza del re che li condanna, sono essi stessi che si sono condannati da soli.
Un’ultima cosa ci sottolinea ancora questo vangelo: che dobbiamo avere un cuore attento per “vedere”. Dobbiamo cioè essere sempre attenti, sempre vigili: “Quando mai ti abbiamo visto nudo, affamato, malato...?”. Non ce ne rendiamo conto, perché siamo distratti e, non sia mai, a volte volutamente sbadati.
Molti dicono: “Io non faccio male a nessuno!”. Può essere, ma non basta! Dicono così soltanto perché non vedono, non si rendono conto che vicino a loro c’è chi ha bisogno di amore, di comprensione, di condivisione. Quando uno è troppo preso da se stesso, dai suoi bisogni, non è più in grado di vedere quelli degli altri: è troppo assorbito dalla tensione, dall’assillo dei suoi bisogni personali.
Ci vuole un cuore libero, aperto, generoso, per vedere i bisognosi, i sofferenti, gli abbandonati. Altrimenti rischiamo di fare come i condannati del vangelo: “Non ti abbiamo visto? Ma quando mai! Impossibile!”. Eppure è successo: nella nostra insensibilità, nella nostra cecità, non ci siamo neppure accorti che Gesù è passato vicino a noi, nella persona dei fratelli bisognosi.
Non concentriamoci troppo su noi stessi, altrimenti il nostro cuore non sarà più in grado di percepire il bisogno d’amore dei sofferenti. Amen.

giovedì 13 novembre 2014

16 Novembre 2014 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30).
La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa succede allora?
Ciascuno riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa quindi che dovrà riconsegnarglielo. C’è inoltre una diversità: non tutti hanno lo stesso patrimonio. Ciascuno, dice il vangelo, ha secondo la propria capacità. Hanno cioè talenti diversi perché sono diversi, ognuno ha il massimo di ciò che può avere.
Ciascuno nella vita ha il suo talento. Il talento è la possibilità che uno ha, il patrimonio che uno incarna con la sua vita, che uno ha dentro di se, che Dio ha riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità, talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere. La grande domanda è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio?”. La gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare a chi è, insegue cose che non sono proprie e che pertanto sono irraggiungibili.
Qual è il nostro talento? Qual è la nostra essenza? Qual è la nostra peculiarità?
Perché quello che ha un talento lo nasconde? Perché si confronta con gli altri. Se noi ci confrontiamo con gli altri, è chiaro che non siamo contenti di quello che siamo, di quello che abbiamo. Per cui troveremo che gli altri hanno sempre di più, che sono più fortunati, che magari se noi fossimo stati al loro posto. Ma è così solo perché invece di guardare a cos’abbiamo, continuiamo ad invidiare quello che hanno gli altri.
Cosa dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta corrente perché denotava una cifra enorme. Era solamente una unità di misura. Sarebbe come dire una tonnellata di euro: non si può girare con una tonnellata di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva a 60 mine, a 6000 dracme, a 6000 denari (la dracma era parificata infatti ad un denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora: ciascuno ha molto. Ma se noi guardiamo a quello che hanno gli altri, se ci confrontiamo, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Se invece guardiamo a noi stessi, troveremo che siamo ricchi, pieni e abbondanti.
La gente non è povera di doti, talenti o vitalità: è che vuole sempre quello che non ha. È che invece di sviluppare ciò che ha, invidia quello che gli altri hanno già sviluppato. La gente vorrebbe avere a basso prezzo, senza impegno, con grande facilità, quello che gli altri hanno invece conquistato con grandi sacrifici, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora: solo se guardiamo a noi stessi, a quello che abbiamo, potremo essere soddisfatti e felici. Dobbiamo ricordarci, inoltre, che nessuno di quei servi è proprietario di ciò che ha. Tutto gli è stato dato in consegna: quindi avere più talenti comporta solo maggiori responsabilità, maggior impegno, non un maggiore arricchimento personale, visto che poi tutto dovrà essere riconsegnato al padrone.
Bene: cosa succede a questo punto? I primi due investono il loro patrimonio e lo fanno crescere, moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e nasconde il suo denaro.
La differenza è tutta qui: i primi due vivono osando, giocandosi, mettendosi in gioco, rischiando, provandoci. Il secondo, invece, ha paura e la paura lo blocca. Tutto dipende dal comportamento dei personaggi.
In pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che avete ricevuto, ciò che siete (il patrimonio)”. I talenti rappresentano pertanto la nostra vita: perché non la mettiamo a frutto? Perché non la viviamo? Cosa aspettiamo a vivere? Cosa aspettiamo a scendere in campo? Alcune persone passano l’esistenza da “panchinari”: ci sono, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, una direzione alla loro vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità. La loro scelta? Di non scegliere mai: il partner? il primo che trovano; gli amici? quelli che incontrano; gli hobby? quello che fanno tutti; le idee? quelle che hanno tutti. Non si chiedono mai: “Ma a me cosa sta bene? Cosa voglio? Cosa fa per me?”. E così sciupano la vita, la guardano passare invano. Avevano la possibilità di viverla e invece si sono lasciati vivere: il treno passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi, progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché è il treno che va avanti, che viaggia: loro vanno semplicemente dove va lui”.
Alcune persone, come fa quell’uomo, nascondono la loro esistenza sottoterra, cercano di essere invisibili, di passare inosservati e muoiono senza vivere.
Solo la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono che Dio ci fa: se la viviamo è il nostro dono che restituiamo a Dio. Ma se non la viviamo, se ci nascondiamo, se sotterriamo ciò che possiamo essere, se permettiamo alla paura di vincerci, allora vanifichiamo il dono che Dio ci ha dato in consegna.
La vita ci restituisce sempre quello che noi le abbiamo dato. Il padrone ritorna, e regola i conti con i servi: il risultato dipende da come uno si è comportato con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono in conseguenza del loro impegno; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente guadagnato, ma perché hanno provato, perché hanno avuto fiducia, perché hanno osato, perché si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. È la paura infatti che lo ha immobilizzato, che gli ha impedito di mettersi in gioco.
Lui ha avuto paura: non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo, se avesse rischiato, vissuto, avrebbe potuto perdere il suo talento, avrebbe potuto sbagliarsi e perdere tutto, avrebbe potuto esser giudicato o criticato per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un esito felice. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non gli imprevisti della vita.
La vita è così: un patrimonio da far fruttificare, da realizzare, da far fiorire. La vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di cambiare. Tutti noi abbiamo avuto delle occasioni che ci hanno portato in una certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci hanno fatto respirare un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di qua; provaci, ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto delle situazioni (morte di un amico, di un caro parente; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci hanno suggerito insistentemente di cambiare rotta, di vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito di fronte a tali inviti? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno in cui non potremo più fare “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Questo è il tuo raccolto!”. Allora sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.

 

giovedì 6 novembre 2014

9 Novembre 2014 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).
La parabola di oggi è un po’ singolare, perché i suoi protagonisti, indistintamente, fanno tutti una brutta figura. La fa lo sposo perché, giunto alle nozze con un ritardo inammissibile, respinge quelle vergini che si presentano con la lampada spenta, poiché nel frattempo l’olio si era esaurito: “Non vi conosco!” dichiara loro; ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che le conosceva perfettamente visto che lui stesso le aveva invitate? Fanno ovviamente brutta figura le vergini che si sono trovate senza una scorta d’olio, dimostrando di essere delle sprovvedute, poco lungimiranti. Ma la fanno ugualmente anche le sagge che rifiutano sdegnosamente di dare alle amiche un po’ del loro olio: perché non condividere infatti qualche goccia d’olio con le altre, visto che lo sposo era finalmente arrivato? Lo fanno perché sono invidiose, cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è incedibile, strettamente personale, per cui anche volendo, non possono cederlo ad altri? Un olio “particolare”, unico, personalissimo che, o ce l’hai di tuo, altrimenti nessuno può dartene? “Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché sono così scostanti? Come possono quelle poverette trovare un venditore d’olio nel cuore della notte? Si burlano di loro, oppure fanno così perché non possono dare ciò che “non si può” dare?
Insomma, questa è una parabola con tanti interrogativi, in cui nessuno sembra comportarsi in maniera corretta.
Ovviamente, per capirla, dobbiamo prima di tutto capire il significato di queste immagini così lontane da noi, dalla nostra cultura, facendo esse riferimento agli usi matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando comunque la parabola, appare chiaro che lo sposo è Gesù; mentre le vergini, sia le prudenti che le stolte, siamo noi. E allora viene spontaneo chiederci: perché Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? E cos’è quest’olio così importante da condizionare il nostro ingresso alle sue nozze?
Matteo, parlando delle vergini stolte che si sono dimenticate di prendere l’olio, le chiama “morai”: un termine che letteralmente significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate, stupide, sciocche, senza testa, insipide”.
Per meglio comprendere la portata della loro stupidità, dobbiamo sapere che la “lampada” in questione altro non era che un recipiente fissato su un bastone nel quale ardevano stracci intrisi d’olio. È chiaro che per continuare a bruciare e a far luce, gli stracci dovevano essere continuamente imbevuti: non disponendo di una scorta d’olio le lampade si sarebbero ben presto spente cessando di fare luce.
Stupidità, dunque: significativo è infatti che sempre Matteo usi questo stesso termine di stolto, matto, pazzo, per indicare un’altra situazione altrettanto ovvia: quella dell’uomo che ha costruito la sua casa sulla sabbia (Mt 7,26): solo un pazzo infatti poteva fare una cosa tanto assurda: il primo temporale, la prima pioggia torrenziale avrebbe spazzato via la sabbia, e la casa sarebbe crollata.
In entrambi i casi gli stolti sono identificati con quelle persone che ascoltano sì la parola di Dio, ascoltano il messaggio di Gesù, lo accolgono, ma poi non lo mettono in pratica, lo lasciano lettera morta, se ne disinteressano totalmente. Sono quelle persone che vivono alla giornata senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema. Non si preoccupano minimamente di ciò che è importante nella vita: della qualità del rapporto di coppia, del sapersi ascoltare, del fare silenzio dentro, del mettersi in gioco, del cambiare in meglio, del nutrire l’anima, dell’avere del tempo per sé e per quelli che amano. Vanno avanti come se niente fosse. Poi si dicono: “Come è potuto capitarmi questo? Com’è possibile?”. Ma cosa pensavano, che un giorno o l’altro non avrebbero dovuto dare ragione del loro comportamento? Cosa pensavano che potesse succedere? Così si sono trovati sprovvisti di olio. Ma cos’è esattamente quest’olio che gli stolti non hanno? Sono le opere buone. L’ha detto chiaramente Gesù: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini (la lampada della vostra vita), perché vedano le vostre opere buone (l’olio che la alimenta) e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).
Ma in concreto i vangeli cosa intendono per “opere buone”? Vi ricordate la parabola del buon samaritano? Non i gesti sacri del levita che passa e tira via dritto di fronte all’uomo ferito, non le preghiere giornaliere del sacerdote, ma l’amore del buon samaritano che oltretutto era considerato un eretico (Lc 10,29-37). È questo, è l’amore che conta davanti al Signore. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
È questo in pratica che significa avere l’olio: un bene concreto, reale, quotidiano, fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. C’è qualcuno che soffre? Noi vediamo, sentiamo la sua sofferenza, e ci muoviamo subito per aiutarlo. L’amore è dunque l’unico metro di giudizio usato da Dio; preghiere, riti, meriti, studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono a servizio dell’amore. Anche questo Gesù lo dichiara apertamente: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21). Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, costruire grandi chiese, grandi cattedrali, tirare in ballo “Dio” continuamente, in ogni cosa, in ogni discorso, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini stolte, sprovviste di opere buone, di amore. Perché solo chi possiede amore può entrare alle nozze con Dio, nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”: ma non è il Signore che non ci riconosce. Non è una condanna la sua, ma una conseguenza del nostro modo di vivere. Siamo noi stessi che non ci riconosciamo, perché abbiamo sempre vissuto in superficie, con banalità: non sappiamo chi siamo; non sappiamo cosa vogliamo o cosa proviamo; non abbiamo alcun colloquio con noi stessi e, conseguentemente, ci autoescludiamo dalla vita, dalle sorgenti della vita.
Trovarci in situazioni simili è molto più facile di quanto si possa pensare. Anzi è un classico, succede sempre così. Arriviamo ad un certo punto in cui il nostro cuore è talmente indurito, corazzato, siamo diventati talmente gelidi, da non essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento: così, quando il pianto vorrebbe liberarci, ci dirà: “Non ti conosco”, perché dentro di noi, nel nostro cuore, non troverà più nulla, solo aridità; quando arriverà la gioia, dirà: “Non ti conosco”, perché non riusciamo più a gioire, ad abbracciare, a lasciarci andare con sincerità. Quando arriverà l’amore, dirà: “Non ti conosco”, perché saremo così aridi, così sterili, da non sapere più cosa significhi innamorarci, amare veramente qualcuno. Quando arriverà la tenerezza o la compassione diranno: “Non ti conosco”, perché il nostro cuore sarà talmente indurito, che niente potrà commuoverci, niente potrà emozionarci: dentro di noi non avvertiremo più alcun palpito. Ma vivere così è vivere senza vita. La distanza che si è venuta a creare con l’Amore, è ormai troppo grande, e in tutti noi un punto di non ritorno. C’è un punto in cui tutto è “troppo tardi”: il tempo a nostra disposizione è finito, e non avremo più alcuna possibilità di “rivivere” per porvi rimedio. Questa parabola, allora, deve essere per noi un pressante invito: “Non lasciare che la tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue opere buone, perché la “scorta” di cui in quel momento devi disporre, determinerà la tua salvezza o la tua condanna, la tua beatitudine o la tua disperazione. Fai molta attenzione, perché potresti cadere improvvisamente nel buio più totale. Amen.