giovedì 28 novembre 2013

1 Dicembre 2013 – I Domenica di Avvento – Ciclo A

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).
Con questa domenica iniziamo il tempo liturgico dell’Avvento. Gesù nel vangelo ci mette in guardia. “Aprite gli occhi, non vivete nella superficialità, come al tempo di Noè, in cui mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli, ma non si accorgevano di nulla”. Vivevano nella falsità, si ingannavano l’un l’altro, ma il loro unico interesse era di disinteressarsi di tutto, non volevano aprire gli occhi, perché aprirli significava cambiare.
Se infatti noi “vediamo” una cosa, allora non siamo più gli stessi: sappiamo che c'è, e ci “scoccia” saperlo; ci “brucia” così tanto che, diciamo, era meglio non saperlo. È vero: aprire gli occhi è doloroso. Molti preferiscono vivere nell’illusione piuttosto che scoprire la realtà. Preferiscono ingannarsi. E questo ci dimostra a sufficienza quanta falsità regni nella vita di certe persone. In questo modo quando Dio verrà, molti non se ne accorgeranno. Molti, inghiottiti dalla vita, diranno: “Ma che sfortunato sono stato! Che destino terribile!”. E invece no! Dovevamo accorgercene prima. Avevamo tutto il tempo, lo sapevamo. Ma abbiamo preferito dormire, abbiamo vegetato, ci siamo lasciati vivere.
La gente mangia tutto, beve tutto, senza porsi mai nessuna domanda; la gente crede a tutto e digerisce tutto. “State attenti, aprite gli occhi, non vivete nella superficialità; non fatevi ingannare”, insiste dunque Gesù. E ce lo dice proprio in Avvento, all’inizio del nuovo anno liturgico, nel tempo che da oggi ci accompagnerà fino al 25 dicembre.
Sì, perché il 25 dicembre celebreremo il Natale, la venuta di Dio sulla terra (ad-ventus).
Ma Dio non viene il 25 di dicembre, Dio viene e ci incontra ogni giorno se noi lo lasciamo entrare, se permettiamo alla sua luce, al suo Sole, di illuminare la nostra vita, di riscaldarla, di svelarcela.
Quindi non prendiamoci in giro e non raccontiamoci frottole: Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato”, diceva il mistico tedesco Silesius.
In queste quattro settimane, noi accenderemo una candela a settimana (tradizione molto antica): quattro domeniche, quattro candele d’Avvento. Per dire: è un cammino di luce dove noi ogni giorno cerchiamo di accendere una luce nella nostra vita, dove noi ogni giorno cerchiamo di far entrare la luce del Sole, di Dio, perché ci possa rischiarare e illuminare.
Queste quattro candele hanno un senso, però, solo se rappresentano il segno reale di ciò che accade nella nostra vita. Altrimenti sono solo quattro ceri che bruciano e basta. Hanno senso se esprimono la luce che lentamente entra nella nostra vita e che rischiara il buio che ci opprime; se sono la luce che illumina le nostre paure e le vince; se sono la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate paura, nessun buio vi può vincere. Non lasciatevi prendere dall’insoddisfazione, dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento”.
Il richiamo costante e continuo dell’avvento è pertanto quello di vigilare, di essere svegli, di non addormentarci. “Esci dal sonno; vieni alla luce; svegliati; renditi conto che in certi giorni e in certe zone della tua anima vivi nel buio”.
Per uscire però dal sonno, dobbiamo prima accorgerci di dormire; per accendere una luce, dobbiamo prima accorgerci che c’è il buio. Ed è proprio per questo che l’avvento è difficile: perché aprirsi al Dio-che-viene, vuol dire mettere in crisi certe nostre posizioni conquistate faticosamente e alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Molti di noi in questo periodo non fanno in realtà niente; aspettano il 25 di dicembre come qualsiasi altro giorno, e basta. Dicono: “Ho tante altre cose, troppe cose, da fare!”. Ma non è vero: è vero invece il contrario: facciamo tante cose pur di evitare spazi di luce; così, in realtà, tutto rimane invariato, non cambia nulla: ma con il nostro comportamento, con l’indifferenza, con il dubbio, con il cinismo, con la banalizzazione, con il pessimismo, noi rifiutiamo la Luce-che-viene-per-noi: tutti i modi sono buoni per evitare il nostro coinvolgimento, per non consentire alla luce di entrarci dentro.
La parola “Eden”, il mitico giardino di Adamo ed Eva, significa “godimento, delizie”: per chi vive la propria verità (sono figlio di Dio), per chi dà spazio alla propria anima, per chi libera la luce che porta in sé, anche la vita attuale diventa un vero giardino di delizie e di godimento. Al contrario per quelli che perdono contatto con la propria identità profonda, non può che esserci insoddisfazione, noia, rabbia, depressione, risentimento, angoscia.
Quante persone, infatti, dopo aver perso ogni contatto con il Dio che è dentro di loro, vivono di espedienti, di complessi di inferiorità, di ansie continue: pretendono di essere chissà chi, vogliono sentirsi grandi, superiori agli altri, vogliono potere, prestigio; sentendosi svuotati, si riempiono di zavorra; e finiscono col sostituire il loro esistere per l’eterno, con il possedere il presente, il transitorio, il deperibile, il caduco. Se capissero che sono figli di Dio, che ai suoi occhi sono già grandissimi così come sono, che per Lui sono più preziosi di qualunque cosa al mondo, che Lui li conosce singolarmente e li ama proprio perché sono così, sicuramente non avrebbero nient’altro da desiderare, non avrebbero più nulla da dimostrare a nessuno!
Purtroppo, invece, chi ha perso il contatto con la Luce, con il calore dell’amore di Dio, è costretto a combattere contro se stesso, contro i suoi complessi d’inferiorità: si sente nessuno, vuoto, inutile; si distrugge confrontandosi con quelli che sono migliori di lui, si affanna per emularli, per darsi un contegno, per sentirsi importante, visto che per lui l’essere se stesso è semplicemente terribile: non si accetta, non si vuole, è disposto a svendere ogni briciolo di dignità pur di raggiungere dei traguardi, che comunque poi scoprirà fallimentari. Se sapesse invece che è figlio di Dio, che l’Altissimo ha posto dimora in lui fin dalla sua nascita, che nel suo cuore egli ospita il Re dei re, allora di certo si renderebbe conto chi egli sia veramente. Si accorgerebbe che - aldilà della sua vita, dei suoi errori, dei suoi fallimenti, di quello che non riesce a fare o ad essere – lui è sempre e comunque “qualcuno”: una creatura importante, preziosa, unica, irripetibile; perché lui – come ognuno di noi - è stato creato “grotta” di Dio, per custodire l’amore; “Maria” di Dio, per generare l’amore; “Giuseppe” di Dio, per difendere l’amore, “angelo” di Dio, per cantare l’amore.
Allora Avvento significa vegliare per non perdere la nostra vera identità di figli della Luce. Significa riconquistarla, se l’abbiamo persa. Avvento è rivestirci della nostra dignità di figli di Dio. Avvento è prendere coscienza di Chi ci inabita da sempre; è imparare a conoscere la nostra anima che anima la nostra vita. Avvento è cambiamento, luminosità, trasformazione, metamorfosi; perché come il bruco onnivoro, possiamo anche noi diventare leggiadre farfalle che si librano in alto nella luce del Sole eterno. Amen.

venerdì 22 novembre 2013

24 Novembre 2013 – Cristo Re dell’universo

«In quel tempo, dopo che ebbero crocifisso Gesù, il popolo stava a vedere…» (Lc 23,35-43).
Il vangelo di oggi - festa di Cristo Re, Signore incontrastato dell’universo - ci propone, contrariamente a quanto il titolo lascia supporre, non un’atmosfera di grandioso trionfalismo, di fasti regali, ma la scena straziante del Calvario, che di glorioso non ha proprio nulla: Gesù, sulla croce, sta vivendo gli ultimi tragici istanti della sua vita umana. Fermiamoci su questa scena.
Attorno, c'è molta gente: guarda, ma non dice nulla; il popolo non reagisce, non si ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove. Eppure sta assistendo ad una evidente ingiustizia; ha davanti a sé il figlio di Dio, una delle situazioni più crudeli della storia, e non si scompone. Come se non stesse succedendo nulla di anormale. Regna l'indifferenza più totale.
A molta gente basta avere un po' da mangiare, qualche divertimento, “tirare avanti”, senza essere disturbata. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si espone e non prende posizione. Ma in questo modo già ha preso una posizione.
Quando di fronte a qualcosa di grave, di cui siamo testimoni, diciamo: “Io mi faccio gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, noi prendiamo una posizione che non è giustificabile di fronte alla nostra coscienza, che non ci può assolutamente deresponsabilizzare. Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile ma anche chi potendo fare qualcosa, anche solo alzando la voce, anche solo ribellandosi, anche solo opponendosi in qualche modo, non lo ha fatto.
Quando non ci indigniamo di fronte a ciò che succede, vuol dire che lo accettiamo. Quando non prendiamo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, vuol dire che lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, non ci fa piangere e cambiare, vuol dire che favoriamo il male. Quando ci sarà chiesto conto di milioni di persone che muoiono di fame, per la voracità di chi già sta bene, come risponderemo noi: “Io non ho rubato a nessuno?”. Non serve: vuol dire che ci andava bene così! Quando di fronte alla moda, alla linea “unica” di pensiero, di fronte alla nostra cultura imperante, carica di banalità, di ignoranza, di stupidità, noi non solo non ci opponiamo, ma anzi ci adattiamo supinamente, cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una testa nostra? Siamo comunque colpevoli! Non opporsi, non fare nulla, adagiarsi sull’andazzo comune, non ci esime dalle nostre responsabilità!
Ci sono anche i capi del popolo e i soldati. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona comunicazione, riescono ad ottenere sempre ciò che vogliono.
I soldati hanno le armi e la forza. Rappresentano quelle persone che sono convinte di essere libere, di essere forti, di essere “qualcuno” (hanno le armi) e, invece, non si accorgono di essere schiave del sistema; si ritengono libere e fortunate perché possono permettersi “certe cose” e non si accorgono di essere invece delle marionette senza midollo, in mano a poche lobbies che gestiscono in tutto la loro vita.
Poi ci sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con tutti, come se tutti fossero colpevoli della sua sorte. Ciò che gli accade invece è l’esatta conseguenza della sua vita. Se ne rende conto in cuor suo, e per questo scarica addosso a Gesù tutto l'odio e la rabbia per la sua vita. “Salva te stesso e noi”. Parole ironiche, sarcastiche. Ci rappresenta. Quante volte ci troviamo in quella stessa situazione! Quello che lui dice a Gesù è quello che noi dovremmo dire a noi stessi. Siamo noi che dobbiamo salvarci; siamo noi che dobbiamo cambiare; siamo noi che non si rendiamo conto di essere i condannati, gli imprigionati, i condizionati, gli schiavi. E non ce ne accorgiamo.
Dovremmo dire: “Non sei tu che devi salvarti, ma noi!”. Crediamo di vedere uno crocifisso e invece vediamo un uomo libero. Crediamo di essere liberi e invece siamo crocefissi dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti. Crediamo di vedere e, invece, siamo ciechi. Crediamo di vivere e non ci accorgiamo di essere morti dentro.
C'è però anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Anche in quella situazione di totale impotenza è possibile fare qualcosa: dire di sì a Dio e accoglierlo.
Il malfattore riconosce il suo errore e chiede perdono. Tutti guardano con sfida a Gesù; solo lui guarda umilmente a sé, alle sue colpe. Salvezza è guardare a sé; condanna è guardare agli altri; salvezza è riconoscere il proprio errore, la propria non-luce, la propria cecità; salvezza è aprire gli occhi. Questo è quello che ciascuno di noi può dire a Gesù: “Ho vissuto sempre così, ma da oggi voglio cambiare. Oggi sono io che ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia. Oggi ti dico di sì. Oggi cambio direzione. Oggi inizio”.
Se finora abbiamo vissuto nel disinteresse, oggi cambiamo. Se finora abbiamo vissuto delegando, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo incolpato gli altri della nostra infelicità, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo imprecato e bestemmiato contro Dio per ciò che ci succede, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi cambiamo. Perché questo è il paradiso: e da oggi possiamo cambiare. Se finora è andata così, oggi possiamo cambiare. Non è mai troppo tardi per iniziare. Mai!
Quelle parole: “Salva te stesso e noi”, sono terribili. È come dire a Dio: “Mi servi per il tuo potere!”. Ma per cosa serve Dio? Per niente di quello che vorremmo noi! Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di relazione, a coprire le nostre insicurezze, a tappare i nostri buchi, Dio per tutto questo non serve proprio a nulla. Rimarremo in ogni caso delusi da Lui. Se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutto ciò che non funziona nella nostra vita o nel mondo, per tutte le disgrazie che succedono, rimarremo sempre molto delusi. Perché non è per questo che Dio ci serve. Dobbiamo stare molto attenti a non “usare” Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma siamo noi che dobbiamo camminare! Dio è l'amore del nostro cuore: ma sta a noi protenderci, per incontrare e abbracciare. Dio è la voce che dalla coscienza sale alle nostre labbra: ma sta a noi parlare, confessare, dire la verità. Dio è lo sguardo dei nostri occhi: ma sta a noi aprirli, guardare e renderci conto sul da farsi. Non chiediamo mai a Lui di fare ciò che spetta a noi. Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti. Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma non ci sbatte davanti la verità. Dio è potenza ma non violenta nessuno. Dio è amore ma non “costringe” nessuno ad amare.
Il quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due uomini giustiziati giustamente (almeno secondo le leggi di quel tempo). Quello che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Ma uno dei due lo ammette e può ricevere il perdono, l'altro no.
Non si può ricevere nessun perdono se non si accetta di aver sbagliato. Nessuno ci può perdonare se non accettiamo la nostra ferita o il nostro errore. Giuda era morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l'aveva accettato. E si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore e non si sa perdonare si uccide, non si concede nessun'altra possibilità di vita.
Di fronte ai nostri errori abbiamo due possibilità: o ci ostiniamo a non vedere, o accettiamo la realtà che ci fa male. Possiamo raccontarci qualunque favola sulla nostra vita: che ce l’abbiamo messa tutta, che di più non potevamo fare. Ma la nostra coscienza, nel profondo, sa perfettamente se ci siamo accontentati o no, se ci siamo adattati o no, se abbiamo avuto paura di vivere, di osare e di rischiare o no. E siccome a lei non possiamo mentire, lei sente la colpa.
Noi possiamo imbrogliare chiunque, possiamo darla a bere a tutti, ma non alla nostra coscienza che conosce ogni cosa e sa cos'abbiamo realmente fatto. Accettare il perdono è accettare l’idea di esserle stati infedeli, è vederci deboli, vulnerabili, fallibili. E non vorremmo mai vederci così. Non vorremmo mai ammettere che noi, proprio noi, abbiamo agito così. Ma finché non lo ammetteremo, continueremo a rimanere legati al nostro senso di colpa nascosto e non potremo ricevere mai nessun perdono.
Il nostro profondo, la nostra coscienza, il Dio in noi, conosce ogni cosa di noi. A Lui non possiamo mentire. Anche se noi ce le nascondiamo, lui le sa. Anche se noi ce le dimentichiamo lui le sa tutte. Il nostro profondo sa e conosce tutte le nostre colpe, sa e conosce tutto di noi. Ammettere, quindi, riconoscere, “sentire” il male che abbiamo fatto, è l'unica strada per il perdono, per ritornare a vivere, è l’unica via per la salvezza. Amen.
 

giovedì 14 novembre 2013

17 Novembre 2013 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Tre considerazioni mi son subito sorte alla lettura del vangelo di oggi: probabilmente non c’entrano nulla con il corretto messaggio del testo, ma voglio comunque condividerle, sperando che diventino motivo di meditazione anche per altri.
La prima: «alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi…» (Lc 21,5). Sono parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del Tempio”, a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse io per primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in pubblico le nostre “gemme” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone” opere: la nostra messa, i nostri rosari, le nostre “lodi”, le nostre elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che in realtà non abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a semplici orpelli esteriori, a corone, a immagini e medaglie sacre in bella mostra, a preziosi crocifissi e madonne d’oro al collo, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio! Per molti, l’essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza nessun valore.
La seconda: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!». Dobbiamo veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi moderni, medium, guaritori, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto affermazione.
Terza considerazione: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto». Capiterà che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli. Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se noi lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto, qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci nulla di “male”.
Allora, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia, lo sappiamo, è un male mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante nel baratro del male, senza che nessuno possa aiutarci. È un terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e totale di ciò che ci circonda.
È un sentimento oggi molto diffuso: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di nuove guerre mondiali, di esplosioni atomiche, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo, quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo, da tutto ciò che abbiamo.
Cosa dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare.
Gesù nel vangelo dice: «Non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10,26ss).
Molte persone sono angosciate dal doversi guardare dentro, dalla paura di scoprire nel loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna; temono di essere sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da umiliazioni, da ferite. Ma non è così.
Più abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo nell'angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno vivremo angosciati.
Una volta poi superato questo ostacolo, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà. Se iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare le cose, al fatto che c'è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
La maggior parte delle persone non sono angosciate da ciò che succede ma da ciò che potrebbe succedere. Ciò che potrebbe succedere però non è ancora successo, quindi non esiste. Dobbiamo pertanto vivere con i piedi per terra, stare a contatto della realtà, convinti che il più forte antidoto all'angoscia è la fiducia. Sì, perché la fiducia è il percepire, il sentire che Lui è con noi, che ci accompagna, che non ci abbandona mai. La fede vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto opposto dell'angoscia: Lui c'è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio. E questo ci deve bastare.
Ma per giungere a ciò, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio.
Del resto, cos'ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era terribile: ebbene, Lui ha pregato con tutto se stesso, e si è liberato, affidandola al Padre, di tutta la sua angoscia, della sua paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che Lui c'era anche in quel momento terribile. E quando l'ha sentito vicino, ha trovato la forza per andare avanti a testa alta. Facciamo anche noi così. Amen.
 

giovedì 7 novembre 2013

10 Novembre 2013 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”...» (Lc 20,27-38).
Questa volta a fare i provocatori di turno sono i Sadducei, uomini dediti più alla politica che alle problematiche religiose. Nonostante fossero i rappresentanti dell’aristocrazia sacerdotale del Sinedrio, tra le altre cose negavano la dottrina della risurrezione dei corpi, elemento basilare della cultura giudaica.
La loro chiara intenzione è quella di deridere Gesù, di metterlo alla prova, di prenderlo in giro; ma poi, come al solito, sarà Gesù che metterà in difficoltà questi “saputoni”, grazie proprio alla stupidità, banalità e inconsistenza della loro richiesta  .
Il caso che pongono è infatti assurdo, inverosimile, perfino grottesco: “visto che la legge mosaica dice: Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal cognato per avere una discendenza(Dt 25, 5), di chi sarà moglie, con quale marito si congiungerà, dopo la risurrezione dei morti, una donna che in vita è stata moglie senza figli di sette fratelli?” È evidente che qui essi esasperano il caso, proprio per mettere in ridicolo Gesù.
Ma Gesù che fa? Li ignora, ovviamente; non dà una risposta diretta, ma approfitta dell'occasione per darci due insegnamenti forti.
Il primo insegnamento: per parlare e discutere di ciò che succederà nell’al di là, dopo la morte, non possiamo utilizzare le stesse categorie mentali con cui ci esprimiamo in questo mondo. Tutte le nostre previsioni non sono altro che ipotesi, allusioni, parabole, immagini. I Sadducei non fanno altro che questo: trasferire immagini note, tratte da questa vita terrena, adattandole al mondo che verrà. Del resto ogni religione fa esattamente così quando intende descrivere la vita dopo la morte: immagini di fuoco, latte e miele che scorrono, pascoli erbosi, luce sfavillante, verdi prati, non sono altro che idee tratte dal patrimonio comune della nostra esistenza attuale. Voler descrivere quello che succederà nella vita futura è impossibile, perché ancora non abbiamo alcuna esperienza in proposito: è come se un bimbo ancora nel grembo materno, volesse descrivere il volto della mamma, la fredda lucentezza di un’aurora, la calda evanescenza di un tramonto marino.
Noi non sappiamo come sarà l'aldilà. Abbiamo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, delle tracce: immagini come il “tunnel del grande passaggio”; il fuoco dell'inferno; gli angeli con le ali; i diavoli con le corna; Adamo, Eva, il giardino dell'Eden; i tormenti del fuoco; il paradiso, il purgatorio e l’inferno e quant'altro, non sono che dei tentativi, delle previsioni che veicoliamo dalla nostra fede, dai testi sacri, dalla letteratura cristiana; immagini che ci producono delle emozioni, che ci rappresentano situazioni “celestiali”, è vero, ma che non ci dicono assolutamente nulla di come sarà realmente l’aldilà.
Forse un’idea più realistica la possiamo trarre dall’amore: quando siamo veramente innamorati, ci sembra infatti di vivere l'eterno, l'infinito; quando qualcuno ci ama ci sentiamo immortali, eterni, senza fine, immersi in una situazione di totale appagamento, da cui nessuno potrà mai staccarci. Ecco, l’incontro con l’amore di Dio, nella risurrezione dopo la morte, sarà sicuramente così; anzi, sarà così, ma sarà anche tutt’altra cosa; sarà una cosa ancora più avvincente, ancora più estasiante; vivremo una situazione indescrivibile, inimmaginabile, perché priva in assoluto di alcun termine di paragone.
La curiosità di sapere ad ogni costo come sarà la fine dei tempi, come sarà la vita oltre la morte, quale sarà il destino delle anime, è spesso di origine morbosa: ci rifugiamo nel futuro perché non sappiamo vivere bene il presente. Siamo insicuri, scontenti, in ansia costante. Basterebbe invece non dimenticare mai una cosa sola: che noi siamo figli di Dio, che siamo figli della Resurrezione, i prediletti, gli amati, i riscattati da Cristo.
Se veramente siamo certi di questo, di che altro dobbiamo preoccuparci? Dove sono ancora le nostre angosce? Mettiamoci nelle mani di Dio e, non temendo il futuro, vivremo bene anche il presente.
“Dio non è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e in lui”. È il secondo insegnamento di oggi: quindi neppure la morte può spezzare questa realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di speranza; Dio stesso non si sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui è il Fedele. Avere fede nella resurrezione, significa appoggiarsi a questa fedeltà, alla Sua fedeltà; perché Dio è colui che non abbandona. Ogni giorno possiamo sperimentare che Lui è il Fedele: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo quanto Lui ci propone, anche se spesso gli siamo infedeli e lo tradiamo, Lui rimane fedele. Lui è una roccia, Lui è il granito; Lui è la mano che non si stacca mai da noi, che non se ne va, che ci tiene forte, che non ci lascia.
Non sapremo ancora con esattezza cosa voglia dire resurrezione, ma sappiamo che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore; è Colui che non abbandona mai chi lo ama.
Sappiamo questo, e questo ci deve bastare.
Affidiamoci a Lui, sicuri che non ci lascerà cadere nel buio. Se la nostra vita rimane appoggiata, ancorata su di Lui, allora anche noi dureremo per sempre, perché Dio è per sempre. Fidiamoci e non temiamo. Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, lontano dalla nostra vita, allora sì che avremo tanta paura: “una paura da morire!”.
Quando invece uno si fida ciecamente, tutto diventa facile e meraviglioso: non c'è più niente da temere perché un angelo è con noi e ci conduce, ci protegge, ci sostiene, ci dice dove andare e dove non andare. Potersi fidare di qualcuno e abbandonarsi è straordinario. Ci si sente al sicuro, protetti, non c'è più niente di cui aver paura. In certi giorni magari non “vediamo” Dio che ci conduce, ma sentiamo comunque che Lui ci porta. E l’importante non è tanto dove andiamo, ma che lui c’è.
Prima di andare nell’aldilà avremo tanta paura, ma poi sarà una grande festa. Ciò che incontreremo sarà molto diverso rispetto a quello che ci aspettiamo, a quello che possiamo anche solo lontanamente pensare. È inutile pensarci; è inutile volersi fare delle idee; è inutile voler sapere a tutti i costi. Tutto sarà compiuto, tutto sarà in pienezza.
La morte è la fine di questa vita, ma è anche inizio di un'altra vita. Si tratta di cambiare casa. Molte persone credono che l'inferno o il paradiso sia un po' come un terno al lotto: non possiamo farci nulla e speriamo che ci vada bene! Ma l'inferno e il paradiso ce lo costruiamo noi. L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi; è nelle nostre mani. E quando andremo di là, Dio non farà nient'altro che confermare le nostre scelte di quaggiù, quello cioè che noi abbiamo voluto.
Scegliamo la vita! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l'amore! Dio non vuole che distruggiamo la nostra vita. Dio non vuole che nessun uomo si annienti o si annulli, che nessun uomo perda se stesso. Mai. Dio non è il Dio della morte. Dio è il Dio della vita e vuole che tutti viviamo e che viviamo in pienezza, che viviamo sviluppandoci, crescendo, e che raggiungiamo la massima vitalità possibile. Amen.