giovedì 17 ottobre 2013

20 Ottobre 2013 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario

«Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).
La parabola di oggi ci presenta un giudice disonesto: “bella novità”, diremo noi: “sarà stato come uno dei tanti di cui anche noi oggi sentiamo tanto parlare”. Solo però che a quell’epoca il compito specifico dei giudici era quello di tutelare e difendere le persone più deboli, quelle che non potevano “farsi giustizia” da sole: le vedove, i bambini e i poveri. In realtà però nella stessa Bibbia troviamo esplicite condanne contro le ingiustizie commesse proprio con la complicità e l’appoggio dei giudici. Quindi... niente di nuovo sotto il sole. Ma andiamo avanti.
È un giudice, questo del vangelo, che non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la gente può dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli procuri sensi di colpa per quello che fa. Compie il male e, per lui, non c'è nessun problema.
C'è poi una vedova, una persona onesta, povera, senza lavoro né protezione; una che non aveva i soldi per “comprarsi” la sentenza. Ma era una “tosta”, decisa, testarda: una che non intendeva assolutamente rinunciare al riconoscimento dei propri diritti. Per cui tutti i giorni, puntualmente, si presentava dal giudice per sollecitare la sua pratica.
Siamo dunque di fronte ad una situazione apparentemente impossibile: il giudice è un opportunista, uno che si fa i fatti suoi, che si muove solo “a pagamento”. La donna soldi da dargli non ne ha. A questo punto cos’altro le rimane da fare se non arrendersi?
La maggior parte della gente infatti, di fronte ad una situazione del genere, lascia perdere. Ed è vero, perché nella vita ci sono cose che sono veramente insuperabili. Ma non è detto però che non si possano comunque affrontare.
Noi diciamo troppo spesso: “Non ce la faccio!”. “Ma ci abbiamo almeno provato?”. Perché spesso abbandoniamo l’impresa ancora prima di provarci, dopo il primo tentativo andato male. È più facile per noi dire che una cosa è “impossibile” quando è solo difficile oppure come non la vogliamo noi.
Ci rassegniamo, o facciamo le vittime. Ma questo vangelo ci dice: “Provaci, non far finta; provaci per davvero; non guardare alla difficoltà, fidati di te, delle tue forze e soprattutto del fatto che Io sono con te; non so se ce la farai ma lotta con tutto te stesso, come ha fatto quella donna”. Non fingiamo: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze, usando tutte le strategie possibili.
La strategia della donna non è molto ortodossa ma funziona: rompere le scatole!
Il verbo greco Ãpwpizein letteralmente vuol dire “fare un occhio nero”, colpire, mettere alle corde una persona; in senso figurato significa invece seccare, importunare, far fuori uno, farlo diventare “nero”. Per il giudice la vedova è proprio una “rogna”, una scocciatrice.
Beh, non è che dobbiamo proprio fare così alla lettera (ce ne sono già tante di persone così in giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se una cosa per noi è importante, allora dobbiamo usare tutte le strategie possibili.
Cosa facciamo invece quando una nostra ingiusta situazione non viene neppure presa in considerazione? Cosa facciamo quando qualcuno ci dice un no? Facciamo un tentativo, due, tre, e poi smettiamo; ci sentiamo vittime che non possono fare niente. Invece questa parabola ci indica un comportamento diverso: “Insisti, rompi le scatole, sii insistente, assillante”. In-sistere vuol dire “stare in quella cosa”: non arrenderci. Ci teniamo e non ci muoviamo da qui.
Insistere, aver tenacia, non arrendersi, è la dimostrazione di quanto noi crediamo in una cosa, di quanto ne siamo coinvolti, di quanto quella cosa sia importante per noi. Lottare significa impiegare tutte le nostre energie per ciò che è importante. Lottare è credere che Dio ci dà una mano. Lottare è avere fiducia che con Lui troveremo una soluzione; vuol dire, in breve, “credere”, aver fede!
Fede non è dire: “Dio, fa' come voglio io”. Questo è delirio di onnipotenza, è imporre a Dio la nostra volontà! Fede è invece essere certi che con il suo aiuto c'è sempre una possibilità, un modo alternativo per affrontare e risolvere la situazione.
Lottare, infine, vuol dire anche: “Mi amo!”. Se mi amo, lotto per me. Lotto perché io sono importante e mi sento tale. Ogni volta che rinunciamo ad un nostro diritto, che rinunciamo ad esprimerci, a farci sentire, stiamo lentamente uccidendo noi stessi. Perché gli altri dovrebbero rispettarci se poi neppure noi lo facciamo? Se ci amiamo, se teniamo a noi, dobbiamo lottare per noi stessi.
La situazione della vedova sembrava già persa in partenza. Eppure lei ha una cosa che fa la differenza: la fede. Lei è la parte ferita, la parte lesa, la parte vulnerabile, quella che sente le emozioni. Ma questa donna, pur non sapendo come, né quando, “sente” dentro di sé la fiducia che qualcosa deve cambiare e agisce in conseguenza.
La vedova ci rappresenta, è una parte di noi. Ma dentro di noi c'è anche il giudice. È quella voce che ci dice: “Zitto; mettiti in un angolo!; non pensare sempre a te!; c'è chi sta peggio di te!; devi adattarti, devi subire, devi portare pazienza”. Ma con questo sistema ci dichiariamo disponibili a subire qualunque imposizione, qualunque soperchieria. Le atrocità della vita accadono per due motivi: uno perché c'è chi le compie; due perché c'è chi, pur sapendolo, non dice nulla, non si oppone.
Nel vangelo la vedova interviene invece con forza: “Non me ne sto zitta proprio per niente! Rivendico i miei diritti; rivendico il mio diritto di parola; rivendico la mia dignità; rivendico il rispetto per la mia persona. Per niente al mondo tu, o giudice, mi chiuderai la bocca; io voglio che la mia situazione, le mie emozioni, i miei diritti, siano considerati e rispettati”.
La cosa peggiore che noi possiamo fare a noi stessi è di metterci il bavaglio, condannarci al silenzio forzato, essere rinunciatari. Non è umiltà, è abulia. Non uccidiamoci, ma amiamoci. Dio ci ha creati perché fossimo sue creature, perché esistessimo, perché realizzassimo in noi l’opera del suo amore: diamoci e diamogli spazio, diamoci e diamogli voce. Dimostriamo a tutti che ci sentiamo realmente creature di Dio, consapevoli della nostra dignità, del nostro essere persone all’altezza di quel progetto divino al quale Lui ci ha chiamati. Amen.

Nessun commento: