mercoledì 29 febbraio 2012

4 Marzo 2012 – II Domenica di Quaresima

«E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…» (Mc 9,2-10).
Oggi il Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli. Oggi siamo invece in una situazione diametralmente opposta: lo scenario è dominato dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza; è come “toccare il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai sacrifici e alla preghiera continua? Cosa vuol dire? La spiegazione sta nell’insegnamento che oggi Gesù vuol darci: ci offre in pratica, già su questa terra, un piccolo assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il sorriso e la fiducia. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita può diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice in pratica che, attraverso l’amore, possiamo pregustare un piccolo anticipo del nostro Tabor eterno. Sì, fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, l’immensità dell’amore che Dio nutre per lui.
La “trasfigurazione”, la nostra “trasfigurazione”, è proprio questo: vedere e sperimentare con gli occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano vide mai e mai potrà percepire.
Trasfigurarsi: ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati autentici, quelli che veramente sono persi d’amore, possono apprezzare le cose più belle: il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bimbo, cogliere l'universo intero nella faccia rugosa di un vecchio, estasiarsi dei cieli stellati, dei soli, delle galassie intere, riflessi negli occhi premurosi di chi ci vuol bene. Penso che a tutti noi sarà capitato di commuoversi davanti ad un volto segnato dal dolore di una perdita, davanti a scene di altruismo e di amore eroico, oppure semplicemente davanti ad un tramonto e ad un’alba silenziosi: di sentirsi così pieni di gioia, di sensazioni così profonde, di commozioni così intense, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche tutto questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di virilità. Ma oggi so che vuol dire essere vivi, vuol dire percepire ciò che siamo dentro, condividere con gli altri ciò che essi vivono dentro; vuol dire lasciarsi toccare il cuore, vuol dire lasciarsi colpire e farsi coinvolgere da ciò che succede intorno a noi; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo inanimato. In una parola vuol dire lasciarsi “trasfigurare”.
Sì, fratelli, sono proprio questi i momenti della nostra “trasfigurazione”; sono i momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere anche per un solo istante; sono i momenti in cui ci sentiamo “speciali” per essere nel mondo, per esistere, per poter amare, credere, donare. Sono i momenti che ci danno l'energia, la forza e il coraggio di andare sempre avanti e di affrontare serenamente le “discese” dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza queste ricariche di gioia, di felicità, di vita, di infinito, di “Dio”, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci immerga, che viva in noi, che sussulti, che si muova, che nasca continuamente. Se ciò non ci accade, dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente se il nostro cuore pulsi ancora o sia già immobile, morto.
Ripeto: questa è la Trasfigurazione, fratelli. Questa deve essere la nostra trasfigurazione. Possiamo averne continue esperienze: basta saperle “vedere”. Per esempio quando nel buio, nello smarrimento di una situazione difficile, veniamo investiti improvvisamente da un raggio di luce e, già persi, ritroviamo Dio, facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini che lo abitano, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione; quando percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, anche se al di fuori non trapela nulla, questa è trasfigurazione. Trasfigurazione poi è vedere le persone nella loro essenza; è cioè vedere il loro volto, il loro “essere”, il loro vivere, esattamente come è stato pensato da Dio, ancora “immacolato”, prima di venire inesorabilmente deformato dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle angosce del quotidiano. Così se piangiamo di gioia, se tocchiamo il cielo dalla felicità, se ci sentiamo ricchi, pieni, immensi, caldi come il sole, scintillanti come la neve, potenti come le onde del mare, beh, fratelli, tutto questo è trasfigurazione. Il mondo, nella sua infelicità, dirà che siamo matti: e forse un po’ matti lo siamo anche, ma di certo siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico” e anche “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci invita a tagliare tutti i cordoni ombelicali, tutte le dipendenze ormai inutili, per poter rinascere, crescere, rivivere ogni giorno: se non tagliamo questi cordoni ombelicali, se non recidiamo energicamente certi legami, certe condizioni di vita, convinti di poterle cambiare, modificare, trasformare, non arriveremo mai ad avere vita piena, anzi la nostra esistenza è destinata a cadere inesorabilmente nel nulla, nella morte. Insistere nel voler conservare in noi situazioni negative, esperienze che ci hanno traumatizzato, che ci hanno procurato dolore e disperazione, sperando in una loro catarsi, in una loro rigenerazione, trasformazione, sublimazione, significa solo rimandare una fine già annunciata, una ricaduta ancor più implacabile e devastante.
Per poter crescere, per poter procedere spediti nel nostro cammino verso la Luce, senza esitazioni, senza tentennamenti, senza rallentamenti o impedimenti, dobbiamo pertanto essere decisi, dobbiamo recidere senza esitazioni questi “cordoni paralizzanti”.
Uno solo è il cordone ombelicale che non deve essere mai tagliato. È quello che ci tiene legati a Dio. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei legato, attaccato a Dio (“religione” da “re-ligo”, significa essere legati a doppio filo); se respiri con Dio e ti nutri di Lui, allora sei al sicuro, sei nella Luce calda e sfolgorante. Questo legame deve durare in eterno, perché vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo vuol dire lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può colmare il tuo cuore di amore. Per quanto in basso tu cada o vada, questo cordone ti terrà sempre unito a Lui, e non correrai mai il pericolo di perderti nel vuoto”.
Allora potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le inevitabili “prove”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro di noi abbiamo energia, forza, entusiasmo: abbiamo Dio nel cuore.
Giunti sulla vetta del nostro Tabor, abituati alle ricorrenti esperienze di “trasfigurazione”, chiediamoci umilmente: “È sempre bello per noi stare qui con il Signore?” “È ancora bello stare con Lui nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una risposta sincera in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena di entusiasmo e di felicità: «Signore, è proprio bello stare qui con te». È vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, tutti noi che abbiamo sperimentato il suo amore, tutti indistintamente, siamo chiamati a urlare al mondo intero quanto sia bello stare con Dio.
Per farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dobbiamo dedicarGli tempo, metterci in sintonia con Lui. E per farlo, come suggerisce il Padre, dobbiamo “ascoltare”. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi stessi, ascoltare ciò che di bello, di Dio, hanno da dire ogni uomo, ogni nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per questo dobbiamo ascoltare: perché solo ascoltando riusciremo a recuperare nella nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio. Si, fratelli: perché è da questo che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, vita, amore.
Quella bellezza di Dio che rende bella la nostra anima: la nostra vera bellezza, fratelli, non è quella esteriore, quella che rispetta tutti i canoni estetici! Tutti i più bravi chirurghi estetici di questo mondo, non riusciranno mai a trasformarci in “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, la bellezza della nostra immagine di Dio, noi assomigliamo soltanto a fredde, dure e infelici bambole; non certo a “belle” persone!
Riappropriamoci allora, a tutti i costi, di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in alto, lassù, sul monte Tabor, per poter ammirare con sguardo estatico il Cristo trasfigurato. Rigenerati dalla Sua luce, trasformiamo le nostre chiese in altrettanti Tabor, in altrettanti luoghi di “bellezza”: il silenzio, il canto, la fede, i momenti di preghiera e di carità, devono riportare nelle nostre quotidianità un briciolo della bellezza di Dio: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza, di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza.
Allora la nostra vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente imparato a viverla e a donarla. Amen.


mercoledì 22 febbraio 2012

26 Febbraio 2012 – I Domenica di Quaresima

«Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana».
È la prima domenica di quaresima. Siamo all’inizio del vangelo di Marco, e Gesù, subito dopo la teofania del battesimo in cui ha sperimentato la vicinanza col Padre, sentendosi amato, accolto e voluto incondizionatamente, deve affrontare un’altra esperienza: quaranta giorni di deserto, di preghiera, di penitenza e solitudine. Quaranta giorni: quaranta, da cui deriva la parola “quaresima” (40 giorni, appunto), è un numero simbolico: 40 sono i giorni che Mosè sta sul monte Sinai; 40 sono i giorni di cammino di Elia; 40 sono gli anni del popolo ebreo nel deserto; a 40 anni Maometto incominciò la sua missione; a 40 anni Buddha divenne un illuminato; a 40 anni Mosè sente la chiamata di Jahweh e fugge nel deserto, scappando dalla reggia del faraone. Questo numero, come anche il tre o il sette, non rappresenta, dunque, un tempo cronologico reale, scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una lunga attesa, una lunga prova, un tempo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro il quale occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi. È il tempo delle decisioni mature. Verso i 40 anni, infatti, avviene normalmente il grande cambiamento della nostra vita: la prima parte se ne è andata, è già alle spalle. Ci si sente realizzati, compiuti. Ma incominciamo anche a notare le prime avvisaglie dell’inevitabile declino: i tratti del volto si induriscono, le prime rughe fanno da corona agli occhi, la bellezza perde di luminosità, diventa più faticoso realizzare i propri sogni, molti ideali che sembravano il massimo dell’esistenza, si rivelano fatue illusioni e profonde delusioni. La vita ci chiama a puntare e a costruire su altre cose. Dall’esterno (lavoro, studio, casa, carriera, famiglia) si passa all’interno: che senso ha vivere? Perché vivo? Come vivere? La vita cioè ci chiama ad approfondire la nostra esistenza.
Ebbene: la Quaresima è il tempo propizio per questo passaggio; è il tempo nuovo in cui siamo chiamati a crescere, a fare un passo decisivo, a prendere decisioni risolutive, a fermarci e a porci domande profonde: “In cosa debbo crescere? In cosa debbo maturare? Cosa debbo lasciare e cosa di nuovo prendere?”. La quaresima è il tempo in cui si lascia una terra (l’Egitto), terra di schiavitù, per andare verso una terra di libertà (terra promessa). Un passaggio che si attua nel deserto. Sì, perché deserto vuol dire spogliarsi di fronte a se stessi, vedersi per quello che si è realmente. Significa affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne per diventare dei camminatori della vita: superare gli sbarramenti che non ci fanno evolvere, per poter progredire sulla strada che conduce verso noi e verso Dio. Questo è il percorso che ciascuno deve affrontare. Lo ha fatto Gesù, lo dobbiamo fare anche noi. È un’esperienza ineludibile.
È il nostro “esodo” dalla quotidianità, dalla spensieratezza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida quotidianità.
Viviamo soddisfatti, stiamo bene, tutto funziona; ma poi improvvisamente le cose cambiano, poi il meccanismo si inceppa, poi il rapporto si incrina. Capiamo che quel che facciamo non basta, cominciamo a pretendere di più; iniziamo a sentirci soffocati, insoddisfatti; ciò che prima ci andava bene adesso non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide ci si fanno avanti.
Il nostro cammino è giunto ai margini del deserto: dobbiamo affrontarlo; dobbiamo cambiare stile di vita, anche se non sappiamo cosa ci aspetterà; ci sono cose che dobbiamo assolutamente abbandonare, altre da correggere, altre da coltivare e promuovere: e per farlo possiamo contare soltanto su di noi e su Dio. Ogni uomo è chiamato ad uscire verso la sua terra promessa, verso se stesso, la sua anima, verso Dio: ma la strada del suo esodo passa attraverso il deserto, le barriere, gli ostacoli, gli stop della vita: ed è la crisi.
Una parola, “crisi”, che oggi è molto di moda: si va in crisi perché la vita ci chiama ad evolverci e a cambiare, ma noi non ne siamo capaci, non ci adeguiamo, recalcitriamo, stiamo bene come stiamo. E così entriamo in crisi: un momento di dolore, di grande passione, negativo quanto si vuole, ma anche positivo e tonificante. Anche noi, come gli Ebrei, ci ribelliamo: “Basta, io mi fermo! Ma chi me l’ha fatto fare! Stavo così bene prima!”. Ma dopo l’iniziale sgomento, ci scopriamo più profondi, più veri, più trasparenti, più inseriti nel mistero della vita, più capaci di amare, più uomini, più liberi. Ogni crisi ci costringe a tirare fuori nuova energia, più grinta, più voglia di attingere a nuove e impensate risorse.
Dio dice al popolo ebreo: “Ti ho portato nel deserto per vedere quello che avevi nel cuore”; è il deserto infatti che ci mostra immediatamente cosa abbiamo dentro, ci toglie tutte le illusioni che ci siamo costruite negli anni, tutti gli abbagli, ci toglie tutte le maschere, ci spoglia, ci riporta all’essenziale, all’originale innocente nudità.
Tentazione vuol dire: “Stai attento, perché tu questo, hai nel cuore!”. Significa essere messi alla prova, non per vedere se siamo buoni o cattivi, ma perché possiamo renderci conto, in maniera trasparente e chiara, cosa abbiamo dentro.
Il deserto è così, fratelli: è spietato perché ci mostra esattamente quello che siamo, senza fronzoli e ipocrisie. È come essere di fronte ad uno specchio: “Questo sei tu! Guardati! Non scappare! Non nasconderti!”. Per questo lo eviteremmo molto volentieri. Per questo lo consideriamo “pericoloso”. Per questo cerchiamo in tutti i modi di evitarlo.
Il nostro deserto sarà sempre il luogo dei demoni e di tutte le voci demoniache che ci scuotono dentro: “Vedi come sei realmente? Sei un mascalzone; te lo meriti, potevi ascoltarmi; non vali niente; sei un fallito; guarda cos’hai fatto; non sei capace neppure di amare; sei un’incapace; oh, se gli altri sapessero!”. Chi vorrebbe ascoltare queste voci? Chi vorrebbe misurarsi con loro? È molto meglio stordirle con il baccano, con fiumi di chiacchiere e di parole, con i rumori, con vuoti divertimenti, annegarle in mille cose inutili da fare.
Anche Gesù ha dovuto confrontarsi con l’animalesco, il terribile, il demoniaco: in una parola con il male. Non si può compiere nessun serio viaggio cristiano, evangelico, umano, senza questo terribile confronto. È nella nostra natura, ci segue passo passo. Qualche esempio?
Nessuno di noi ha problemi sessuali. Ovvio! È chiaro! Nessuno ha bisogno di confrontarsi con questa sfera, di conoscerla, di comprenderla, di integrarla. Ma allora non si capisce come mai la pornografia sia così diffusa; non si capisce perché certi “spettacoli” tv continuino ad essere proposti di notte; non si capisce perché nel web la mercificazione del nudo femminile e dell’erotismo abbiano così tanti consensi; non si capisce perché una grossa percentuale delle riviste cartacee in commercio, siano a carattere pornografico!
Nessuno di noi ha sentimenti di odio. Ovvio! È chiaro! Ma non si capisce perché talvolta ci si debba scagliare con tanta rabbia e brutalità contro chi sbaglia; perché succedano tante manifestazioni animalesche negli stadi e nei luoghi di divertimento giovanili (eppure sono i nostri giovani, i nostri figli: li abbiamo educati noi, sono venuti nelle nostre scuole, hanno frequentato le nostre chiese!). Violenze, omicidi, soprusi, insolenze, sono cronaca quotidiana: basta guardare come ci comportiamo al lavoro, per strada, in macchina. A volte ci relazioniamo non come persone, ma come “bestie”!
Nessuno di noi è ipocrita. Ovvio! È chiaro! Ma non si capisce perché a volte capita di sorridere del male altrui; siamo contenti che si dica male del nostro collega, che venga infangato; che gli altri siano considerati meno di noi; che sbaglino: “ben gli sta; sono proprio contento; così impara!”. Non mordiamo nessuno, ma siamo contenti se qualcun altro lo fa al posto nostro.
Noi mercoledì scorso ci siamo messi la cenere in testa: non è stato un gioco ma un bagno di umiltà: dobbiamo cioè avere l’umiltà di riconoscere che talvolta anche noi ci comportiamo così. Dobbiamo riconoscere che il male abita in noi forse più che negli altri.
Dopo questo incontro-scontro con i fantasmi e i demoni interiori, intenso e terribile, Gesù ha trovato tutta la forza per andare avanti. Da qui in poi, nessuno potrà più fermarlo.
Soltanto confrontandoci decisamente con il potenziale distruttivo che abbiamo dentro, anche noi potremo convertirlo in forza, vigore, energia, passione, potenza.
Il nostro valore non è dato dall’esterno, né da ciò che gli altri pensano di noi, né da ciò che conquistiamo; ma dalla nostra capacità di confrontarci con ciò che abbiamo dentro, gestendolo senza falsi timori, trasformando i nostri demoni in altrettanti angeli positivi. Niente di ciò che è dentro di noi è pericoloso se lo affrontiamo, lo conosciamo, lo addomestichiamo. Anche ciò che sembra distruttivo, pericoloso o malvagio può trasformarsi e diventare positivo, un angelo, una forza, una luce, una sensibilità, uno spazio d’amore. Diceva giustamente il poeta Rainer Maria Rilke: “Ho paura che se i miei demoni mi lasciano, se ne andranno anche i miei angeli”.
È dunque dopo l’esperienza tremenda del deserto che diventiamo consapevoli della nostra forza. Perché? Perché è il confronto, lo stare con la sofferenza, che ci matura, che ci fortifica, che ci rende potenti.
Le esperienze belle, piacevoli, ci rendono la vita meravigliosa; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci fanno cambiare radicalmente, che ci trasformano. È incontrando e addomesticando i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli; non giustifichiamo la nostra accidia, pensando di avere dentro solo demoni, solo schifezze, solo casini, difficoltà, problemi, confusioni. Non attacchiamoci a questo pretesto, non “tiriamo avanti”, carponi.
Soprattutto perché noi, fratelli, noi dentro abbiamo Dio, non dimentichiamolo. Lui è in noi. Scopriamo dunque il nostro valore! Riprendiamocelo tutto il nostro valore!
Siamo dei privilegiati, in tutto. Anche nella nostra vita normale. Abbiamo delle mani e con le mani possiamo accarezzare, abbracciare, costruire, lavorare, creare, dipingere, suonare, dare la mano, giocare, cullare, scalare, scrivere, unire la nostra mano alla mano di chi amiamo. Ci rendiamo conto di cosa possiamo fare? Ci rendiamo conto del valore delle nostre mani?.
Abbiamo degli occhi e possiamo vedere il sole, la luna e le stelle, il mare, il cielo, il volo degli uccelli, la neve che cade a fiocchi, il sorriso delle persone che amiamo, la luce nei loro occhi. Abbiamo delle orecchie e possiamo sentire la voce di chi ci ama, il pianto di chi soffre, il respiro tremante di chi ha paura, il canto degli uccelli, il rumore della risacca marina, il mormorio del vento, le voci gioiose dei bambini, la passione di chi parla.
Abbiamo poi un cuore e con il cuore possiamo dire: “Ti voglio bene. Lo sai che sei importante per me. Lo sai che ti amo! Nei tuoi momenti bui e difficili, io sarò al tuo fianco. Non ti preoccupare, non me ne andrò. Qui dentro sei a casa tua”. Possiamo accarezzare, abbracciare, baciare ed esprimere l’amore che abbiamo dentro. Possiamo farlo.
Abbiamo infine un’anima che può decidere di vivere, di spendersi per qualcosa di grande, di appassionarsi per la vita e per tutto ciò che vive, che può non accontentarsi del naturale, ma anela di entrare nel mistero dell’esistenza; abbiamo un’anima che può entrare in contatto con Dio, che può cogliere il senso di tutto, che può cogliere il vero senso della vita, che può lottare per grandi valori e ideali, che può cambiare certi destini, che può essere felice e vivere divinamente da liberata e illuminata.
Ci rendiamo conto di cosa abbiamo davanti, di come potremmo vivere? È difficile tutto questo?
Sì e no. Potremo vivere tutto questo solo dopo aver passato il deserto e aver vinto i nostri demoni.
E allora, che ne pensate fratelli? Non vale forse la pena di vivere coraggiosamente il nostro deserto per arrivare a questa beatitudine? Perché accettare di vivere come galline quando siamo fatti per volteggiare in cielo come aquile? Perché avere paura dei “quaranta giorni” di deserto, quando poi abbiamo una vita intera, un’eternità, da vivere nell’amore di Dio? Non dimentichiamo, fratelli, che siamo Figli di Dio; che Dio stesso è in noi e con noi.
Che vogliamo di più? Siamo ricchi, fratelli; possiamo vivere cose intense, grandi, enormi. L’importante è non dimenticare mai a chi apparteniamo; non dimenticare mai da dove proveniamo e dove siamo diretti; non dimenticare mai di quale dignità siamo rivestiti, e a quale dignità siamo chiamati. Soltanto dopo il nostro “deserto”. Buona quaresima, fratelli! Amen.


mercoledì 15 febbraio 2012

19 Febbraio 2012 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone...».
Gesù ritorna a Cafarnao, dove continua a predicare e a guarire gli infermi. Questa volta il vangelo ci presenta un paralitico. È immobile. Non fa nulla. Non parla, non dice una parola, non si muove, non interviene, non cammina. Non ha neppure un nome: è un uomo paralizzato nel corpo, nella mente, nel cuore; è sclerotizzato, fossilizzato, totalmente passivo. Il fatto che, disteso su di un lettuccio, sia portato da quattro persone, ci dice appunto che la sua paralisi è totale. Noi ci saremmo aspettati che Gesù, vedendolo, lo toccasse e lo guarisse. Ma non è così: la paralisi del corpo non è il suo vero problema: la sua malattia è molto più grave, è al suo interno, dentro il suo cuore; e Gesù lo sa. È la sua anima che è paralizzata, è bloccata dal peccato, una paralisi invisibile ma reale. Il paralitico vuol guarire da questa sua infermità dell’anima, perché da buon ebreo sa bene che è il peccato la causa dell’infermità corporale. Egli crede in Gesù, ha una fede profonda: è deciso a modificare il suo atteggiamento interiore, e vuole guarire sul serio, da tutto. Non come tanti di noi che vogliono sì guarire, ma senza cambiare nulla del loro comportamento: lamentano mancanza di dialogo e di carità nel loro ambiente; vorrebbero più riconoscimenti, più gioia, più amici, più amore, più rispetto: ma per arrivare a questo, non sono disponibili a cedere in nulla; quelli che devono cambiare sono sempre e solo gli altri. È questo Il vero nostro guaio, fratelli: non accettiamo di essere messi in discussione. Perché non abbiamo fede; andiamo avanti imperterriti per la nostra strada, facciamo tutto ciò che gratifica il nostro ego, non importa se lecito o illecito, morale o immorale; non crediamo in Dio, non rispettiamo il prossimo. È questo il male che ci paralizza, fratelli, è questa la nostra paralisi che ci confina nella immobilità sul nostro lettino.
Il paralitico del vangelo invece ha tanta fede; egli crede, è fermamente convinto di poter guarire. È questo che lo rende diverso dagli altri. È questo che lo salva e lo guarisce. Gesù gli dice: «Figlio, ti sono perdonati i peccati». Nient’altro. La guarigione dalla paralisi del corpo è conseguente al perdono dei peccati. E per dimostrarlo ai suoi soliti denigratori aggiunge: «Alzati e cammina».
Qualunque sia la nostra situazione, qualunque sia il nostro errore, qualunque sia il baratro in cui siamo caduti, qualunque sia la nostra malattia o la nostra disperazione, con la fede, l’amore e la contrizione, tutto si annulla, tutto viene perdonato, tutto viene ricomposto: “Alzati e cammina”. È il comando invitante che Gesù ci dà dopo ogni caduta, nel lungo cammino della nostra vita. “Tirati su, riparti, vai! Prova di nuovo e vedrai che ci riuscirai. Non piegarti alle tue sconfitte, non rassegnarti e non abbandonarti ad esse: ma “alzati e cammina”.
Ascoltiamo riconoscenti e con gioia questa voce di Gesù, fratelli: invece quanti non ascoltano, quanti si stancano, si arrendono, si abbandonano sfiduciati lungo la strada, nonostante i compagni di viaggio cerchino di sorreggerli; quanti addirittura, senza voler far nulla, pretendendo che siano gli altri a farsi carico dei loro problemi! Non pensiamo di essere sempre e solo noi le vittime; smettiamola di fare sceneggiate ad ogni contrarietà; soprattutto smettiamola di comportarci come dei bambini viziati. Troppe volte ci offendiamo e ci isoliamo per delle sciocchezze, facciamo tragedie per delle stupidaggini, e rispondiamo a piccoli screzi insignificanti con autentico odio: dovremmo vergognarci; finiamola di auto commiserarci; prendiamo in mano il nostro giaciglio, alziamoci in piedi, e camminiamo.
Il lettuccio del paralitico rappresenta la malattia con le umane debolezze. Gesù non dice: “Butta via il lettuccio. Liberatene, Lascia perdere tutto”. Ma: “Prendilo e cammina”. Ci dice: “Prendi il tuo lettino, il tuo giaciglio: prendi in mano la tua vita, le tue paralisi, i tuoi problemi, le tue paure, le tue sconfitte, i tuoi complessi! Non vergognarti davanti agli altri dei tuoi limiti, accetta apertamente le tue debolezze e fattene carico tu, personalmente”. Certo, noi tutti vorremmo essere felici, liberi senza costrizioni,forti e decisi. Purtroppo non siamo così; è la vita a non essere così. Noi prima vorremmo essere sicuri, forti, perfettamente in forma, e poi affrontare il mondo e gli altri. Ma non funziona così. Dobbiamo invece alzarci, prendere umilmente il nostro lettuccio sotto braccio, e andare, affrontare la vita così come siamo, con le nostre meschinità, con le nostre debolezze, con le nostre insicurezze: ma con tanta fede in Lui.
Il vangelo ci dice poi che accanto e intorno al paralitico, nella casa di Cafarnao, c’è tutta una serie di personaggi, che bene o male influiscono su si lui.
C’è la folla. La folla è l’indifferenza; quando arriva il paralitico, nessuno se ne accorge. La casa è piena, stipata di gente: sono tutti presi dalle parole di Gesù; sono talmente impegnati che non si accorgono di nulla. Non si rendono conto che sono proprio loro, la “folla”, ad impedire ai barellieri e a quest’uomo di affrontare la guarigione, la libertà, la Verità, la Vita. Noi, spesso siamo così. Non siamo cattivi, ma la nostra indifferenza, la nostra pigrizia, la nostra svogliatezza, senza soluzioni di sorta, il nostro cuore ottuso, senza luce, senza amore, ci impediscono l’incontro con la Via, con la Verità, con la Vita, con l’autentica Carità.
Accanto a noi ci sono persone poi che non credono, che non hanno fede, che non immaginano neppure la possibilità di una nostra guarigione, di diventare migliori, diversi, uscendo dalle nostre malattie immobilizzanti per vivere in maniera più ampia, più estesa, più solare. Non ci pensano e neppure vogliono questo per noi: sono come gli scribi, non ci amano. Ci dicono: “Che vuoi di più? Di che ti lamenti? Hai tutto!”; e per "tutto” intendono vestiti, casa, soldi, piaceri, auto, cibo a volontà, benessere. Non immaginano neppure che esistano altre cose, altri valori nella vita; come: felicità, senso, verità, autenticità, libertà, amore vero.
Poi ci sono i barellieri. I barellieri del paralitico hanno anch’essi una grande fiducia in Gesù. Loro lo portano fin lì, ma non sono loro che lo mettono in piedi, guarito: è il paralitico che si rialza da solo, è lui che lo vuole e sarà lui che, obbedendo all’ordine di Gesù, otterrà la guarigione completa. Non sono ovviamente loro i guaritori, ma se non avessero avuto fede, se non l’avessero portato davanti a Gesù, forse quel poveretto avrebbe perso la sua grande occasione e sarebbe rimasto paralizzato per tutta la vita. Sono stati i suoi angeli. Gli stessi numerosissimi angeli che anche noi abbiamo nella nostra vita: sono tutte quelle persone che ci amano e credono in noi. Talvolta ci crediamo dei falliti, degli incapaci, ma c’è sempre qualcuno che ci sorregge, ci fa rialzare, ci fa credere nuovamente in noi. Quando pensiamo di non farcela più, di non riuscire a superare certe crisi, improvvisamente arriva qualcuno che ci affianca, ci accompagna da qualche Gesù per farci parlare, aprirci, esprimere il nostro tormento, ritrovare luce, ritrovare noi stessi.
Tutte queste persone sono i nostri angeli, sono delle benedizioni, delle visioni che ci aiutano a incontrare e a rivedere il Volto luminoso di Dio. Ringraziamo Dio, fratelli, per queste persone, per questi angeli autentici della nostra vita.
E poi c’è Gesù. Gesù che gli dice: “Figliolo ti sono rimessi i tuoi peccati”. Parole che lasciano un po’ tutti nello sconcerto; ma come, in quattro fanno una faticaccia, innalzano il paralitico fin sul tetto della casa, praticano un’apertura e lo calano giù glielo mettono davanti, completamente paralizzato, immobilizzato, e Gesù, il grande guaritore, che fa? gli annuncia candidamente che i suoi peccati sono rimessi. Tutti ovviamente si aspettavano che Gesù stendesse la mano e guarisse al suo tocco, come succedeva normalmente. Ma questa volta nulla di ciò: Gesù intuisce qual è la vera infermità di quel poveretto. Non è il corpo che soffre; è il suo animo, è nel suo profondo che egli è paralizzato, è dal peccato che egli è immobilizzato. È il peccato la sua vera malattia. Rimosso dall’anima il peccato, la guarigione del corpo è assicurata. Poi gli basta una parola: «alzati e cammina».
Ebbene fratelli, anche noi a volte sentiamo il peso delle nostre infermità, delle nostre paure, dei nostri egoismi, dei nostri peccati: un peso, un macigno che paralizza la nostra vita spirituale. Non ignoriamo questo segnale di Dio, scuotiamo la nostra fede intorpidita, rivolgiamo fiduciosi il nostro sguardo a Gesù: egli ci aspetta, ci guarda amorevolmente e ci capisce. Egli vede la paralisi del nostro cuore, egli vede la nostra sincera volontà di risorgere, di liberarcene, di confessare i nostri errori, di farla finita con i nostri compromessi. E sorridendo ci dice: “Prendi il tuo giaciglio, alzati e cammina”. Allora, fratelli, non tentenniamo oltre, non fermiamoci a pensare. Alziamoci di slancio, riprendiamo in mano la nostra vita, buttiamo alle spalle il nostro passato, e incamminiamoci fiduciosi, rinnovati nella fede e nell’amore, dritto davanti a noi: e accettiamo di stringere, nella nostra, la mano che Egli, con tanta tenerezza e sollecitudine, quotidianamente ci tende. Amen.


mercoledì 8 febbraio 2012

12 Febbraio 2012 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”».
Oggi Marco ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso e la sua guarigione. Tranquilli, la malattia della lebbra è stata ormai quasi completamente debellata; non dovremmo quindi temere più di “toccare”, di “comunicare” con gli altri (la lebbra a quei tempi impediva qualunque tentativo di avvicinamento, di socializzazione). Purtroppo però oggi dobbiamo fare i conti con un’altra malattia epidemica, altrettanto invalidante: l’incomunicabilità, l’indifferenza, l’ermetismo, la chiusura totale verso gli altri. In questo senso tutti noi continuiamo ad essere dei lebbrosi; e ciascuno di noi può immedesimarsi in quel poveretto. Sì, perché la nostra vita è infestata di questa nuova lebbra, con tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: c’è la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta il proprio fisico, il proprio carattere, la propria vita; e non si sopporta perché, quando si guarda dentro, non trova niente per cui valga la pena di impegnarsi. C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra della vergogna: di quando si viene additati; di quando ci viene continuamente rinfacciato il nostro errore; la lebbra di chi non si perdona, di chi confessa sempre la stessa colpa da anni, di chi si sente sempre colpevole; la lebbra della vergogna di sentirsi inferiore agli altri, per non aver studiato, per non essere brillante, per non essere fisicamente bello e attraente; c’è la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ebbene, fratelli, chi di noi non si è sentito discriminato, etichettato, evitato, come il lebbroso del vangelo? Ma ci sono anche altre lebbre che fanno terra bruciata intorno a noi, essendo gli altri a farne le spese, a pagarne le dirette conseguenze: alludo alla lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria… ; sono tutte lebbre deformanti, che di fronte ai nostri fratelli ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi esente da queste forme di lebbra? Penso proprio ben pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Facciamo anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Riviviamo per un attimo la scena: il poveretto si butta in ginocchio e supplica Gesù: “Se vuoi puoi guarirmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si crede malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Per questo il lebbroso si abbandona, e chiede a Gesù di fare tutto lui: “Se vuoi puoi guarirmi”.
E Gesù interviene. Egli prova nei confronti di tanta arrendevolezza qualcosa di forte ed intenso: è “mosso a compassione”. Il termine greco, oltre che compassione, indica addirittura un “amore materno”, un amore che tocca dentro, un amore viscerale. Un amore che compendia i sentimenti umani più vulnerabili: la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, ha una vitale necessità di questo amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di poter sentire che c’è qualcuno che lo accoglie, che lo apprezza, che non lo evita. Perché questo è un amore che salva.
Gesù guarda questo relitto umano con occhi diversi da quelli degli altri: “Io ti conosco, credo in te; so che sotto questo tuo aspetto disgustoso, sopravvive ancora un germoglio stupendo, un qualcosa di grande e prezioso. Sei così, perché sei stato deformato dal dolore della vita; ma io vedo la tua bellezza, le tue potenzialità. E voglio che torni a risplendere”.
E l’amore “materno” di Gesù, da sentimento, diventa azione: “Stese la mano”. Il verbo “ekteino” vuol dire proprio “distendere”, un allungare le mani, protenderle: Gesù lo ama e il suo amore si fa azione, si protende verso di lui e lo tocca. Immaginiamolo quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga, tutti dicono: “Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai speranze”; mentre Gesù, il maestro - sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro – si “distende”, gli va incontro, allunga la mano e lo “tocca”; il verbo greco “apto” oltre che “toccare” indica “afferrare”: un significato che rende l’azione di Gesù ancora più amorevole: si dirige decisamente con le braccia protese verso di lui, ma l’uomo, consapevole della sua deformità, istintivamente si ritrae, tenta di scappare; ma Gesù lo “afferra”, lo trattiene con forza (“lo voglio”), e aggiunge “guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti liberi del rancore, dell’amarezza, della vergogna, dei rifiuti che ti hanno deturpato, riacquisterai la tua luce primordiale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire “guarire”: ritornare ad essere se stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea che Dio, la Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni umane hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire “sii ciò che eri; ritorna ad essere esattamente quello stesso che Dio aveva in testa quando ti ha pensato”.
Perché c’è tanto scontento sulla terra, tanta infelicità? Perché le persone non vivono quello che sono: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere continuamente “altro”. Non si riconoscono in chi sono, e cercano affannosamente di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare esattamente ciò per cui siamo stati creati. Se vogliamo altre cose, primo, non riusciremo mai a farle e, secondo, la nostra vita sarà sempre incompleta, vana, non realizzata, inutile. Se uno non vive la propria “forma” si sforma, si deforma.
 Ci chiediamo continuamente: “Che devo fare?”. Domanda più che lecita. Ma non ci accorgiamo che intorno a noi troppe persone fasulle sono pronte a darci le “loro” risposte; e ci costringono a vivere vite non nostre, vite di altri. In realtà, la domanda che tutti dobbiamo porci, è un’altra: “Chi sono io?”. E solo Lui, sommessamente, può suggerirci la risposta. “Sii te stesso e saprai chi sei; con il mio “contatto” guarirai dalla tua lebbra e vivrai ammirandomi nella tua immagine”. Questo vivere è la sorgente della vita, della felicità, del nostro esserci.
La risposta di Gesù al lebbroso: “Lo voglio, guarisci”, stupenda, rassicurante, entusiasmante nella sua essenzialità, merita bene qualche altra considerazione.
Prima di tutto Gesù non teme di sporcarsi le mani, di contagiarsi, e tocca quel poveretto devastato dalla lebbra. Egli crede in lui. Lo conosce da sempre, lo ama; si sporca le mani, si lascia coinvolgere da lui, proprio perché lo ama: e subito l’altro inizia a guarire. Potenza dell’amore.
Un giorno una suora disse a Madre Teresa: “Madre perché i miei ammalati non trovano la pace come qui da te?”. “Perché io non lavoro per portar loro la pace; io la trovo qui con loro”. Sporcarsi le mani vuol dire condividere: “Mi metto in gioco con te e ti accompagno nella tua strada”. Questo è l’amore vero, fratelli, l’amore autentico; un amore fiducioso e lungimirante che dice: “In te c’è una sorgente pura; io la valorizzerò”.
Può succedere che anche noi, poveri lebbrosi, perdiamo il senso della nostra origine e del nostro essere; però se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di calarci completamente nella nostra anima, scopriremo sicuramente una piccola radice, una minuscola parte di noi che non è deformata, che non è corrotta, distrutta. È la nostra sorgente di luce interiore, che può anche essere spenta, offuscata, coperta, ma non cancellata. È come entrare in una stanza completamente buia: non si vede nulla, ma la luce c’è, basta girare l’interruttore, aprire le tapparelle. Con il soffio della vita, tutti abbiamo ricevuto questo dono di luce: ripeto, può capitare che in qualcuno non sia accesa, non risplenda, ma c’è (e continuerà ad esserci).
Ecco perché, fratelli, ogni uomo merita rispetto, onore, accoglienza. Non per quello che fa, ma per quello che è, per la sua essenza. Possiamo certamente condannare quello che fa, possiamo rifiutarlo o non accettarlo; ma dobbiamo sempre ricordare che nel suo profondo vive e sgorga la stessa nostra Sorgente Pura. È per questo che, davanti a Lui, siamo tutti uguali; è per questo che ogni uomo è mio fratello: e in questo tempo di decadimento dei valori morali, di chiusura alla religione e a Dio, di mancanza di validi riferimenti, dobbiamo riscoprire questa realtà e dare nuovo vigore alla nostra spiritualità: “Tu sei mio fratello. Non temere, camminiamo insieme, corriamo al Suo passaggio sulle strade della nostra vita, e chiediamogli a gran voce: Se vuoi, puoi purificarmi!”.
“Io lo voglio!” risponde Gesù al lebbroso; “Io lo voglio!” è sempre pronto a rispondere anche a noi. Ma noi, lo vogliamo veramente? vogliamo che Gesù ci guarisca? È importante chiederselo, perché Dio non può niente se noi non lo vogliamo. Dio può tutto, ma solo se noi lo vogliamo.
Verrebbe da dire: “Esiste forse un ammalato che non vuole guarire? Tutti lo vogliono!”. Eppure non è così, fratelli. Perché “guarire” vuol dire “rendere puro, luminoso”, portare luce nel nostro buio, ridare forza al nostro fisico stremato, fare pulizia, eliminare le impurità della nostra lebbra. Tutte cose che ci coinvolgono in prima persona, che costano fatica. Tutti vogliamo guarire, ma non tutti siamo disposti a faticare, a collaborare, a metterci del nostro, ad accettare le conseguenze della guarigione. Non possiamo guarire senza trasformarci radicalmente. Non siamo più noi, non siamo più l’originale; e dobbiamo essere noi a voler “guarire”, ad abbandonare questa nostra falsa e deformante identità per ritornare alla purezza originale. Tutti vorremmo guarire senza far nulla; senza cambiare idee; senza cambiare le nostre certezze, i nostri pensieri, il nostro modo di vivere. Ma guarire così è impensabile! Se il nostro modo di vivere e di pensare non ci guarisce, vuol dire che dobbiamo cambiare mentalità e modo di vivere: insistere sulle nostre posizioni significa ammalarsi sempre più gravemente. “Io lo voglio” continua a ripeterci Gesù. E noi che aspettiamo ancora? Affrettiamoci, “tocchiamolo”. Amen.


mercoledì 1 febbraio 2012

5 Febbraio 2012 – V Domenica del Tempo Ordinario

«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva».
Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù ha fissato la sua provvisoria dimora; e qui passava i suoi giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa, in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre a casa di Simone e guarire la sua parente. Un normale fatto di vita quotidiana che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per un particolare che mi ha incuriosito e che mi ha spinto ad andare oltre: la “malattia” della suocera.
Marco parla di “febbre”: una febbre così alta da costringerla a letto. Ora, leggendo il testo, penso che sarà successo anche a voi di domandarvi quale fosse in realtà la vera causa di questa “febbre”. La risposta è facilmente intuibile: se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva piantato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, arrivando addirittura a togliere materialmente, a lei e a sua figlia, il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti. “Ma che sta facendo questo scriteriato di Simone? È diventato matto? Come facciamo noi ora? Non siamo mica ricche noi! Non può certo permettersi una cosa del genere! Come camperemo? Sarà per caso questo Gesù che ci darà da vivere? Non si rende conto che si sta esponendo alle critiche della gente e della sinagoga? Questo Gesù per il quale lui stravede, si è già messo contro la sinagoga, e molti dicono che fa cose “pericolose”; dicono addirittura che guarisca i malati in nome del “demonio”. Possibile che quel credulone di mio genero si lasci abbindolare da un tizio come questo? Io mi vergogno perfino ad uscire di casa! Qui le cose si mettono veramente male!”. E questa poveraccia, angustiata continuamente da tali preoccupazioni, peraltro giustificabilissime, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera una testa calda, un credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante di tale situazione.
La sua “febbre” non è altro che un segnale della sua lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è un cartello che dice chiaramente “qui c’è guerra; state attenti!”; è il segno esteriore di quella sofferenza interiore che gli sconquassa l’anima e che ancora non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Seti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” Mt 5,23s). E questo è esattamente il comportamento coerente di Gesù: egli corre e va subito da lei.
Primo insegnamento: nutriamo rabbia, risentimento, odio, nei confronti di qualcuno? Non perdiamo tempo; andiamo noi da questo qualcuno, chiariamoci, confrontiamoci con lui. Perché, fratelli miei, l’odio genera altro odio e il fuoco della rabbia dissecca il cuore e acceca l’anima.
Gesù, ci dice il vangelo, «si accostò, la sollevò e la prese per mano».
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era distanza, ma Gesù si fa vicino, riduce la distanza, prende lui l’iniziativa e la incontra. “La sollevò” (egheiro, “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”): la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le sta vicino, finché la donna gli dà ascolto e “si solleva” dalla sua paura che la domina e dalla preoccupazione per ciò che sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è lui, che possa “farne esperienza” di persona, che lo possa “conoscere”, “impadronirsi” di lui. Da questo verbo deriva anche la parola “cratere”: la donna è un cratere pieno di fuoco e nella sua debolezza potrebbe esplodere; Gesù, invece, è un cratere di energia, la sua “lava” è vitale, non rimane dentro covando odio, ma si espande benefica, trasformandosi in amore, in tenerezza, in attenzione per l’altro; riducendo, annullando, la distanza che esiste con lui. A questo punto cosa accade tra Gesù e la suocera di Simone? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo capiamo che Gesù, sentito il risentimento della donna, ha preso l’iniziativa è andato da lei, piano piano le si è avvicinato, le ha parlato; finché la donna ha capito che quell’uomo non è né un pazzo, né un fuori di testa. E lo ha accolto. Anzi, come sottolinea il vangelo, si è subito alzata ed ha iniziato a “servirli”.
Tutta la sua rabbia, il suo astio, improvvisamente sono scomparsi. Appena incontra Gesù, in lei avviene una trasformazione radicale: il suo è un passaggio simultaneo dall’ignorare Gesù, al mettersi a suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto per quest’uomo; dal volergli stare il più lontano possibile, al volergli stare sempre vicino; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo come un amico, uno affidabile,uno su cui può contare, che è sempre con te e per te.
Secondo insegnamento: finché la donna combatte Gesù, non può guarire. Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, la sua febbre e il suo odio, scompaiono.
A volte noi proviamo rancore verso i nostri fratelli, perché siamo concentrati unicamente su noi stessi: non ci mettiamo nei panni degli altri, non vogliamo ascoltarli, non vogliamo sentire le loro ragioni. Vediamo solo noi stessi e sentiamo solo il nostro dolore. Ma se riusciamo a comunicare il nostro dolore, le nostre ragioni, la nostra parte (e se loro si lasciano toccare da ciò), allora stabiliamo con loro un contatto e sarà possibile incontrarsi; e tutte le ragioni del nostro odio finalmente cadranno.
Anche quando qualcuno ce l’ha con noi, cosa possiamo fare? Come dobbiamo comportarci quando qualcuno è arrabbiato con noi? Beh, la prima reazione, quella naturale, è di stargli più alla larga possibile. Ma questo crea altra diffidenza, ingigantisce la distanza.
Impariamo invece da Gesù. Egli fa due cose.
La prima: prende lui l’iniziativa e va di persona. Spesso noi rimaniamo nella nostra rabbia, facciamo gli offesi e diciamo: “Deve venire lui da me! Con quello che mi hai fatto è il minimo che possa fare!”. Quando si è feriti è normale chiudersi: ma se rimaniamo chiusi nel risentimento non c’è possibilità di incontro; se ci chiudiamo nel silenzio e ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo nulla.
La seconda: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: sa che è arrabbiata perché non lo conosce; perché lui ha un suo modo di vivere che non è “come quello di tutti”; perché Simone ha fatto una scelta radicale e difficile, contraria al buon senso, che lei non arriva ancora a capire.
Ebbene fratelli: nel mondo c’è tanta rabbia e tanto dolore: è una prerogativa della umana esistenza. Quando una persona è arrabbiata, vuol dire che nel suo intimo è ferita; e con una persona ferita, dobbiamo avere tanta comprensione, tanta delicatezza, tanta cura: altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo nel piano della rabbia, ci facciamo solo la guerra; se invece ci incontreremo nell’amore, allora ci capiremo, allora non saremo più indifferenti gli uni con gli altri.
Così faceva Gesù per le strade della Palestina. Tutti i giorni, per tutto il giorno.
Ma da dove prendeva tanta forza, il Signore, per riuscire ad accogliere tutti, ad ascoltarli, a guarirli? Da dove prendeva tanta energia per fare della sua vita un “annuncio” costante?
Dalla preghiera, fratelli. Da una preghiera lunga e attenta, che gli permetteva di capire la volontà del padre. Una preghiera che stupisce e affascina tutti, i discepoli e noi. Una preghiera che non è la lista della spesa da presentare a Dio, quando le cose non funzionano, ma il dialogo intimo e intenso di chi si lascia plasmare. E poiché la giornata è frenetica anche per Lui, Gesù prega di notte.
Così faceva Gesù; così dobbiamo fare anche noi, se vogliamo seguirlo come Simone e i discepoli. Rubiamogli questo suo grande “segreto”: poniamoci anche noi umilmente in un costante, intimo colloquio col Padre, che ci permetta di fare sempre della nostra vita un dono agli altri. Amen.