venerdì 26 novembre 2010

28 Novembre 2010 - I Domenica di Avvento

«Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà».
É che Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, o siamo convinti di averlo trovato e quindi dormiamo sugli allori e, intanto, la vita ci scorre addosso.
È che Dio è evidente e misterioso, accessibile e nascosto, già e non ancora.
È che la nostra vita passa, con i suoi desideri e le sue delusioni, le sue scoperte e le sue pause, le sue paure e le sue ironie, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti. Passa e fatichiamo a tenerla ferma in un punto, un punto qualsiasi, attorno a cui far girare tutto il resto.
Per tutte queste ragioni abbiamo assoluto bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, di guardare dove stiamo andando, di trovare un filo a cui appendere, come dei panni, tutte le nostre vicende.
E oggi inizia l'avvento: un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al primo grande appuntamento: il Natale.
Non amo particolarmente il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso. Anzi, detesto questo Natale. Detesto lo sgorbio che ne abbiamo fatto, la fiera insopportabile dei buoni sentimenti, l'ipocrisia del politicamente corretto che fa del Natale una festa di compleanno senza interessarci per nulla del festeggiato.
Io invece voglio prepararmi al Natale, ho necessità assoluta di costruirmi un'arca, e al diavolo quelli che sghignazzano vedendomi inchiodare le tavole e piallare remi in centro città. Ho bisogno di capire come posso trovare il Dio diventato accessibile, fatto volto, divenuto incontrabile. Voglio poterlo vedere questo Dio consegnato, arreso, palese, nascosto in mezzo agli sguardi e ai volti di tanti neonati.
Sono poche quattro settimane, lo so. Ma voglio provarci anche quest’anno.
Si, fratelli, perché possiamo celebrare cento natali, senza che mai una volta Dio nasca nei nostri cuori.
Come dice splendidamente Bonhöffer: «Nessuno possiede Dio in modo tale da non doverlo più attendere. Eppure non può attendere Dio chi non sa che Dio ha già atteso lungamente lui.»
Da oggi iniziamo a leggere Matteo: il pubblicano divenuto discepolo, colui che si è fatto bene i conti in tasca, ci accompagna e ci incoraggia sull'impervia strada della conversione. Il brano del Vangelo è faticoso e ostico e rischia di essere letto in chiave ridicola.
Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera.
A noi è chiesto di spalancare il cuore, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so, fratelli e sorelle. Cerchiamo di farlo ritagliandoci uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. I più impegnati possono prendersi un’ora alla domenica per fare un’ora di silenzio e di preghiera, oppure fare una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena. Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza. Ci tocca pure combattere contro il finto natale della nostra società consumistica. Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta da un falso e solo apparente buonismo natalizio.
È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio che si fa presente e di una umanità completamente assente. Sotto questo profilo non c'è proprio nulla da festeggiare, da stare allegri: l’uomo non ha fatto certo una gran bella figura, la prima volta, in quel di Betlemme.
Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi. Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione.
In questi anni assistiamo puntualmente ad un Natale fatto di immagini stereotipate di una “famiglia” felice intorno ad un albero illuminato, armonie e canti di angeli che i media ci propinano senza sosta; mentre per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, il Natale così superficialmente ostentato, diventa occasione di amarezza, di solitudine, di sofferenza. Troppo spesso infatti il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, emarginati del tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, viene da noi sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo. Se i vecchi soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace. Esagero? Voglia Dio che sia così. Amen.

venerdì 19 novembre 2010

21 Novembre 2010 - XXXIV Domenica del Tempo Ordinario: Festa di Cristo Re dell'Universo

«In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
La festa di oggi, Gesù Cristo re dell'Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re, significa che Lui avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo nel mondo contemporaneo; credere invece che il mondo – nonostante tutto – non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui la comunità ecclesiale guarda avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Cristo, un re fuori dagli schemi, dunque. Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio, perché questo Dio Re è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Questo è il nostro Dio, fratelli: un Dio sconfitto; non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che è però un evidente gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che – inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio – lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica. "No, grazie". Forse gli preferiamo un Dio severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono?
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede solo superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il pensare agli altri. Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, che può permettersi di pensare solo a sé, che ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri. In quest’ottica Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, fratelli e sorelle: il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono la sintesi del nostro diventare discepoli.
Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa' che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, come ad esempio una redenzione in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo, se va va. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come – purtroppo spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua; innocente e pura quella di Dio. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, salvezza.
Ecco, questa è l'icona del discepolo, fratelli e sorelle: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione, la tenerezza, l’amore e il perdono. Nella nostra sofferenza umana, abbiamo due possibilità: possiamo cadere nella disperazione o cadere ai piedi della croce e riconoscere: “davvero quest'uomo è il Figlio di Dio”.
Si fratelli miei: Dio è veramente un re anormale; un re difficile da capire con la nostra logica umana.
Un re che indica un altro modo di vivere, un altro modo di pensare; un pensare che contraddice totalmente il nostro “prima di tutto salviamo noi stessi e poi, semmai, salveremo anche gli altri”.
E allora siamo onesti, fratelli: lo capiamo veramente un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? Un Dio che è amore e misericordia per tutti? È questo, davvero, il Re che vogliamo?
Non diamo una risposta affrettata, per favore; perché se affermativa – sincera e ragionata come è logico che sia – non possiamo in alcun modo accampare ulteriormente delle scuse per dedicarci a tempo pieno alla nostra conversione personale. Sincera e definitiva. Amen.

martedì 9 novembre 2010

14 Novembre 2010 - XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine»
L’anno liturgico che ormai volge al termine suscita in noi, attraverso la Parola del Signore, il desiderio di incontrare il suo Volto. Un volto che apparirà in tutto il suo splendore domenica prossima, quando lo celebreremo Re dell'universo, Signore del tempo e della storia.
Oggi le letture ci invitano a vivere il tempo come luogo di salvezza: anche se, ad una lettura superficiale, la Parola di questa domenica potrebbe incutere timore e alimentare in noi la paura di Dio, del suo giudizio, della sua condanna, in considerazione del fatto che vengono affrontate le problematiche della fine della vita dell'uomo e del mondo.
La Parola di Dio invece è sempre incoraggiamento, consolazione, forza, anche nelle situazioni più difficili, nelle sofferenze, nelle persecuzioni. Egli vuole renderci coscienti e responsabili per rinnovargli la fiducia, per lasciarci salvare da Lui.
Di fronte agli eventi drammatici del nostro tempo, siamo invitati a non temere, a crescere nella consapevolezza che solo Dio è il Signore della storia e solo lui ha in mano le redini del mondo. Siamo chiamati alla perseveranza, a non desistere dal credere, sempre e comunque, nella fedeltà del Signore, certi che "chi persevererà sarà salvato" e che ci verrà finalmente donato la pienezza della vita.
È vero che la nostra ineliminabile aspirazione alla felicità viene continuamente frustrata dalla consapevolezza che l'umanità è diretta verso un'esistenza sempre più faticosa e problematica. Forse per questo ci lasciamo andare a falsi profeti che propongono mete artificiali per dimenticare la realtà del tempo che passa, per scacciare la paura della fine che avanza; mete che assicurano la felicità nella ricchezza effimera, nel benessere, mete che promettono una vita priva di intoppi e di difficoltà, in un corpo perennemente giovanile, affascinante e perfetto grazie agli ultimi ritrovati della scienza estetica. Ma questa distorsione della realtà, rifiutata nella sua drammaticità e nella sua caducità, diventerà inesorabilmente ulteriore motivo di paura e di ansia. Assistiamo sempre più ad un pessimismo che striscia nelle nostre strade e s'incunea in molti cuori, corrosi da una disperazione che si maschera di indifferenza, o si nasconde nella ricerca di soddisfazioni che appaghino questo desiderio di vivere e di vivere felici.
Al contrario l'atteggiamento giusto è quello di quanti aspettano con gioiosa serenità il giorno della venuta gloriosa di Cristo: di coloro che si disinteressano del mondo, considerandosi estranei a un'umanità che, pur redenta, rifiuta la mano tesa di Gesù.
Il forte richiamo di Paolo ai Tessalonicesi – che nell'attesa della fine del mondo "vivevano disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione" – insegna che dobbiamo vivere il frammento di tempo che ci è concesso, con impegno, nell'amore per i fratelli, svolgendo bene quei compiti che Dio ci ha affidato. Perché, fratelli, noi ci salviamo soltanto insieme agli altri, attraverso gli altri. La salvezza passa per l'amore di Dio che trabocca sui nostri fratelli, dei quali bisogna guadagnare il maggior numero a Cristo.
Perché se è Gesù Cristo che ha redento il mondo, oggi lui opera nel mondo attraverso noi cristiani, membra del suo corpo, la Chiesa. Se amiamo in questo modo il mondo, già solo per questo in qualche modo lo stiamo cambiando; c'è infatti un primo frammento di mondo che cambia, ed è il nostro cuore.
Dobbiamo allora avere fiducia in Lui, in Gesù. Egli non vuole spaventarci inutilmente. Vuole che ritorniamo alla fede in modo puro e vero, perché Fede è fidarsi ciecamente del Dio artefice della storia umana che è anche il Dio della mia storia personale.
A salvare il mondo non saranno né gli scudi stellari e nemmeno tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza. A salvare la mia vita non saranno i soldi o i successi che saprò accumulare.
La mia salvezza viene da Dio che mi conosce fino in fondo. Il mio atteggiamento deve esser quello dell'impegno coraggioso nel dargli testimonianza. Ciò significa avere il coraggio di affrontare la vita, di seguire la sua chiamata, anche se non sono perfetto, se non sono "angelico". Significa impegnarmi perché coloro che ho attorno non cadano nella paura e nella rassegnazione, ma riprendano forza dal mio esempio. E in questo impegno d'amore, testimonio Dio che so che non lascerà perire nemmeno un capello del mio capo... anche quando sembra che siano già caduti tutti!
Dobbiamo dirlo, dobbiamo testimoniarlo, perché in giro, fratelli, c’è tanta paura, tanta incertezza per il futuro. Le notizie e le ipotesi sul domani del genere umano e sulla vita futura di questa nostra terra, si concentrano tutte in una direzione negativa, rendendo attualissime e temibili le parole di Gesù, quando afferma che guerre, rivoluzioni, terremoti, fatti terrificanti, carestie e pestilenze precederanno la fine del mondo. L'azione dell'uomo sembra addirittura impedire che la natura mantenga un equilibrio e salvi se stessa, al punto che la terra – la casa che Dio ha affidato all'umanità perché la abitasse e la custodisse – sta diventando lo scenario desolante di odi ed egoismi che si combattono e si distruggono a vicenda.
“No – dice Gesù; – state sereni. Non sono questi i segni della fine. Non sono questi i segnali di un mondo che precipita nel caos. Già io ho dovuto confrontarmi con questa follia, in un mondo – il mio – ben più aggressivo del vostro”.
E, sorridendo, continua: “cambia il tuo sguardo. Guarda alle cose positive, al tanto amore che l'umanità, nonostante tutto, riesce a produrre, allo stupore che suscita il Creato e che tutto ridimensiona; al Regno che avanza nei cuori, timido, discreto, pacifico, disarmato”.
“Guarda a te stesso, fratello mio – aggiungo io – a quanto il Signore è riuscito a compiere in tutti gli anni della tua vita, nonostante tutto. A tutto l'amore che hai donato e ricevuto, nonostante tutto. Guarda a te e all'opera splendida di Dio, alla sua manifestazione solare, al bene e al bello che ha creato in te. Guarda e non ti scoraggiare.
Di più: la fatica può essere occasione per tutti noi di crescere, di credere. La fede si affina nella prova, diventa più trasparente, il nostro sguardo diventa più luminoso: diventiamo testimoni di Dio, e quando il mondo ci giudica, allora diventiamo santi davvero! Così, senza che ce ne accorgiamo, fratelli e sorelle, ci scopriremo veri credenti! Se il mondo ci critica, se ci attacca e ci disprezza, non mettiamoci sulle difensive, non cadiamo nella trappola, non ragioniamo con la sua logica: ma affidiamoci in tutto allo Spirito.
Si, fratelli: perché quando il mondo parla o sparla troppo della Chiesa (uno sport molto seguito in questi tempi), è allora che la Chiesa deve parlare ancor più di Cristo! Amen.

mercoledì 3 novembre 2010

7 Novembre 2010 - XXXII Domenica del Tempo Ordinario

"Dio non è dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui".
Quest'affermazione perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare un ultimo tema sul discepolato.
L'occasione è una discussione (benedette discussioni!) di Gesù con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l'ala aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della resurrezione dei morti, cresciuta lentamente nella riflessione del popolo e definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un'inutile aggiunta alla dottrina di Mosè. Così, incrociando la non condivisa teoria della resurrezione con la consuetudine del Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un figlio alla cognata vedova!) pongono a Gesù un caso paradossale (la famosa storia della vedova "ammazzamariti"!).
Gesù come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori ad alzare lo sguardo da una visione che proietta di fatto oltre la morte le ansie e le attese di questa vita terrena. È una nuova dimensione quella che Gesù propone, una pienezza iniziata e mai conclusa, che non annienta gli affetti (attenzione: nel regno ci riconosceremo ma saremo tutti nel Tutto!), ma che contraddice la visione attuale della reincarnazione (siamo unici davanti a Dio, non riciclabili, e la vita non è una punizione da cui fuggire, ma un'opportunità in cui riconoscerci!), una visione che ci spinge ad avere fiducia in un Dio dinamico e vivo, non imbalsamato!
E qui val la pena riprendere la lapidaria affermazione iniziale di Gesù: “Dio è Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”.
Giunti ormai alla fine di questo anno di riflessione sul discepolato, guidati dal Vangelo di Luca, non possiamo evitare di porci una duplice domanda: noi, crediamo veramente nel Dio dei vivi? E noi, siamo veramente vivi?
Capirlo è abbastanza semplice, fratelli: crediamo nel Dio dei vivi se per noi la fede è ricerca, non stanca abitudine; doloroso e irrequieto desiderio, non noioso dovere; slancio e preghiera, non rito e superstizione. Dio è vivo in noi, se ci lasciamo incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo, per cui, dopo il suo incontro, nulla è più come prima. Crediamo in un Dio vivo se accogliamo la Parola (viva!) che ci sconquassa, ci interroga, ci dona risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci parlano (bene) di lui, quanti - per lui - amano.
Nel mare infinito di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di crudeli vendette, di ogni genere di violenze, in cui quotidianamente i media ci sommergono, è veramente emozionante vedere riproposte ogni tanto delle storie fatte di luce: la Chiesa che aiuta gli alluvionati e sinistrati di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri con i barboni, suore che si consumano per i derelitti, missionari che promuovono dignità per le donne, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla schiavitù maschile. Ecco: un sacco di gente crede al Dio dei vivi e lavora e soffre perché tutti abbiano vita, ovunque siano, chiunque siano. Schiere di testimoni stanno dietro e avanti a noi. Come la madre della prima lettura che incoraggia i figli al martirio piuttosto che abiurare la propria fede, come i tanti (troppi) martiri cristiani di oggi vittime di false ideologie religiose, come chi opera per la pace nel quotidiano e nella fatica.
Siamo vivi (io lo sono?) se abbiamo imparato ad andare fermi dietro a Lui; se non ci lasciamo ingannare dalle sirene che ci promettono ogni felicità se possediamo, se appaiamo, se recitiamo, produciamo, guadagniamo, seduciamo etc.; se sappiamo perdonare, se sappiamo cercare, se abbiamo capito che questa vita ha un valore da scoprire, un "di più" nascosto nelle pieghe della storia, della nostra storia.
Questa deve essere la nostra convinzione, fratelli, questa deve essere la nostra Fede: una fede che diventa possibilità di produrre bontà, che diventa vita nuova per gli altri. Diversamente non è vita, e noi non vivremmo! Per essere Suoi dinamici discepoli, dobbiamo andare a fondo, nonostante la fatica, nonostante le paure, nonostante l'incertezza nel trovare il nostro ruolo, nonostante la scoperta di tante nostre debolezze; ma con la certezza che Lui abbraccerà, con noi, anche tutte le nostre miserie e incongruenze. Quindi, fratelli e sorelle, proviamoci! Diventiamo anche noi discepoli vivi di un Dio vivo, perché solo così potremo già da oggi, vivere realmente da vivi. Amen.