mercoledì 29 settembre 2010

3 Ottobre 2010 - XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Fede, fiducia, fidarsi, affidarsi: sono termini che costituiscono il filo conduttore della Parola di oggi.
Ci viene presentato un Abacuc in preda allo sconforto: come non capirlo? Il popolo di Israele – piccolo e ostinato – per sopravvivere, deve continuamente lottare contro giganti: egiziani e assiri prima, babilonesi poi...; tutta la sua storia è un susseguirsi di invasioni, colpi di stato, tragedie e ingiustizie. Ora, ai confini di Israele premono i Caldei. Il profeta, esasperato, rivolge la propria preghiera a Dio: ha un bel difenderlo davanti al popolo, ma come si fa a suscitare la fede in un popolo esasperato? Dio però risponde invitando entrambi, Abacuc e Israele, alla fede, a conservare la fiducia, a fidarsi di Lui. Egli promette di stringere tra le proprie braccia e con immenso affetto – come è successo domenica scorsa con Lazzaro – il giusto che vive a causa della fede.
Del resto vi sono sempre, ieri e oggi, profeti che si scontrano continuamente contro la stessa preoccupazione: dov'è Dio quando l'uomo si scatena con la sua violenza? Quando nel mondo prevale la tenebra? Quando il giusto è irriso e disprezzato?
La Parola di oggi ci risponde emblematicamente: solo con una fede incrollabile l'uomo può sempre osare. Abacuc è invitato a fidarsi, Timoteo riceve una commovente lettera da Paolo prigioniero ed è invitato a fare memoria della propria vocazione episcopale; gli apostoli, dopo un primo galvanizzante momento di euforia per i successi conseguiti dal Nazareno, cominciano a scontrarsi con i loro limiti e con le ostilità di alcuni farisei, e sentono la fiammella (timida) del loro credere vacillare lentamente.
Fidatevi, dice la Parola: fidati, affidati, diffida delle tue presunte certezze. La fede è il ragionevole abbandonarsi nelle braccia dell'amato, nel gesto incosciente e ovvio del bambino che si getta fra le braccia del padre.
Non siamo chiamati a fidarci di un mistero impenetrabile e astruso, a credere ciecamente agli ordini di una divinità, ad abbassare la testa alla volontà ostica e incomprensibile di una "moloch" a cui dobbiamo credere, costi quel che costi.
È il Dio di Israele che chiede fiducia: il Dio che ha camminato nel deserto e sofferto; il Dio che ha accompagnato e illuminato una tribù di beduini facendola diventare popolo della speranza; il Dio che ha illuminato i re di Israele, il Dio che ha strappato degli uomini dal pascolo e dalla terra, consacrandoli profeti; il Dio che – esausto – è diventato uomo (fragilità, stanchezza, sudore, decisione, rischio) per raccontarsi; è questo Dio che chiede fiducia, non uno qualsiasi.
Il Dio che ha dimostrato milioni di volte quanto dolorosamente ama.
È in Lui che dobbiamo avere fiducia. Fiducia nel Nazareno rivelatore del padre, figlio del Dio benedetto che ha sconvolto la vita dei suoi discepoli svelando il volto del Padre morendo sulla croce.
“Fidatevi almeno quanto un granellino di senapa”, dice il Maestro.
Abacuc non lo sa, ma l'ennesimo scontro con una cultura straniera obbligherà Israele a riscoprire le proprie radici e diventare (tornare ad essere?) segno nel mondo.
Paolo non lo sa, ma le sue parole doloranti e aspre saranno prese dallo Spirito Santo e riempite di Dio, per consentire a noi, oggi, di poter leggere la Parola di Dio proprio attraverso le labbra screpolate di Paolo, lo scoraggiato e irrequieto apostolo.
Pietro e Giovanni e gli altri non lo sanno, ma la loro fede, più piccola di un granellino di senapa, crescerà e diventerà un immenso albero alla cui ombra ci riposiamo noi, impauriti discepoli del terzo millennio...
Purtroppo viviamo tempi difficili (ma sono forse mai esistiti tempi "facili"?); a volte noi credenti abbiamo l'impressione di essere messi all'angolo, di essere attaccati nell'essenza stessa della nostra fede.
Nell’indifferenza generale, si insinua l'idea che tutte le fedi siano destinate a diventare radicalismi, che ogni istituzione (Chiesa compresa) esista soltanto per consentire a poche persone di conservare i propri privilegi. Non passa giorno che sui quotidiani finiscano vicende di chiesa – a volte anche gravi e da trattarsi con la dovuta severità, come ci ha insegnato il Santo Padre – che sono trattate pretestuosamente e spesso distorte per inoculare veleno nei fedeli.
E quando si toglie Dio, non è vero che non si crede più in nulla: si finisce col credere in tutto.
Per questo la Chiesa è chiamata ad affrontare questi tempi senza ergere steccati, senza parlare la stessa lingua o battere la stessa moneta di questo mondo imbarbarito.
Quando il mondo parla a sproposito della Chiesa, la Chiesa è chiamata a parlare di Cristo. E a fidarsi di Lui, il Maestro, che non l'ha mai abbandonata anche quando i cristiani, di questa Chiesa, ne smontavano la credibilità pezzo per pezzo...
Fidarsi del Maestro, ricordarci sempre di essere semplici servi, assolutamente inutili.
Abbandoniamoci dunque nelle braccia di Dio; ma sul serio, non per finta. Ci sono infatti persone che – con l'acqua alla gola – mettono alla prova Dio: si fidano a parole ma non si staccano dalla riva per prendere il largo. A volte la nostra vita è irrequieta e piena di dubbi ma non ce ne stacchiamo; invochiamo Dio, senza poi lasciargli la possibilità di agire e di salvarci; invochiamo Dio, sì, spiegandogli, però, cosa deve o non deve fare.
Allora due provocazioni, fratelli: vogliamo essere veramente dei discepoli? Mettiamo la nostra vita e la nostra volontà nelle mani del Maestro: non a parole ma sul serio.
Ma facciamo bene attenzione però: perché normalmente Dio ascolta le preghiere, e lo fa in maniera così clamorosa da lasciarci senza parole; per cui l'unico serio rischio di tutto questo è che poi dobbiamo agire di conseguenza, abbandonandoci interamente a Dio, e diventare santi! E non a parole questa volta, ma sul serio!
Altra provocazione: ricordiamoci sempre che siamo servi inutili, cari fratelli e sorelle.
Cioè il mondo è già stato redento, non siamo noi che lo dobbiamo salvare! A noi è chiesto semplicemente di vivere da salvati, di guardare oltre il nostro io, al di là dei nostri deliri di onnipotenza, aprendo il nostro cuore ai fratelli. A noi Gesù chiede di vivere come uomini di fede; a procedere nel nostro cammino di credenti con un cuore aperto e gravido di pace, generoso e accogliente; nella condivisione fraterna di tutto; con umiltà, leggerezza e semplicità.
Per tutto il resto lasciamo che sia Dio a fare il suo mestiere! Amen.

giovedì 23 settembre 2010

26 Settembre 2010 - XXVI Domenica del Tempo Ordinario

La parabola di Lazzaro e il ricco epulone (che è un soprannome del tipo: "festaiolo e mangione") conclude e arricchisce la riflessione di domenica scorsa. Dio conosce per nome il povero Lazzaro: ora, chiamare uno per nome, in Israele, era prova di una profonda conoscenza del suo intimo. Dio conosce la sofferenza di questo mendicante: ha con lui un legame molto stretto; altrettanto non succede col ricco epulone, uno senza nome, anche se – tutto sommato – non si tratta di una persona particolarmente malvagia, ma di uno troppo occupato delle sue cose per potersi accorgere di quel povero che muore davanti a causa sua...
Non c'è posto per Dio nel ricco epulone, Dio non lo conosce: egli basta a se stesso, non ha bisogno di alcuno lui! Non si pone, almeno all'apparenza, alcun problema religioso, è saldamente indifferente e si tiene debitamente lontano dalla sua interiorità.
E Dio rispetta questa distanza.
Il cuore della parabola non è dunque la vendetta di Dio che ribalta la situazione tra il ricco e il povero – come a noi farebbe comodo pensare – in una sorta di pena del contrappasso. Il senso della parabola, la parola chiave per capire di cosa parliamo, è una sola: abisso.
C'è un abisso fra il ricco e il povero, tra Lazzaro e l’epulone; tra loro c'è una voragine incolmabile.
La vita del ricco, non condannato perché ricco ma perché indifferente, è tutta sintetizzata in questa terribile immagine: la sua vita è un abisso.
Probabilmente anche buon praticante, ma certamente insensibile per quanto gli gira attorno – uno di quelli che Amos nella prima lettura chiama causticamente “spensierati” – al punto da non accorgersi del povero che muore davanti alla sua porta.
L'abisso invalicabile è nel suo cuore, nelle sue false certezze, nella sua supponenza, nelle sue piccole e inutili preoccupazioni.
In altri tempi, quest'atteggiamento veniva chiamato "omissione": atteggiamento che descrive un cuore che si accontenta di stagnare, senza valicare l'abisso e andare incontro al fratello. Abisso di chi pensa di essere sufficientemente buono, e devoto e normale rispetto al mondo esterno, malvagio e corrotto: l'obiezione "Che ci posso fare?" di fronte alle immense ingiustizie dei nostri giorni, qualche offerta caritativa, qualche buona devozione, tacitano e asfaltano le coscienze, intorpidiscono il cuore.
E l'abisso diventa invalicabile. Neppure Dio riesce a raggiungerci.
“No, non so cosa fare di fronte alle tragedie di questo mondo!”. E nell’incertezza non faccio nulla. Neppure rifugiarmi nel caloroso rapporto intimo con Dio, anche se sono convinto che fino a quando la mia fede non andrà oltre la mia personale devozione per diventare servizio, impegno operativo, resta sterile.
Come dicevamo domenica scorsa, il Signore loda la scaltrezza, l'arguzia di chi si siede e riflette, cerca soluzioni, e soprattutto agisce.
Perché là dove viviamo siamo chiamati ad amare nella concretezza. È l’impegno che ci viene richiesto, non le belle parole e le grandi intenzioni! È nella vita concreta che dobbiamo avere un comportamento consapevole, che si faccia carico del nostro vicino, come il Samaritano. Siamo chiamati a riconoscere Lazzaro, insomma, a riconoscere la sua presenza in mezzo a noi.
Ma, ancor prima dell'impegno, esiste un atteggiamento che tutti possiamo avere, anche se non siamo in grado o non possiamo fare nulla di diverso da quello che stiamo già facendo: tutti, tutti noi, sempre, siamo chiamati a vedere, a capire, a prendere a cuore: Dio si è chinato sulla sofferenza degli uomini; pertanto, prima di ogni ragionamento sociale, prima dell'arrendersi o del rimboccarsi le maniche, prima di tutto, siamo chiamati ad avere compassione. A sentire dentro, a sentire il dolore come Dio lo sente (quanto dolore facciamo sentire a Dio! E quanto amore, in lui!). Questo sì, tutti possiamo viverlo.
Un mondo pieno di compassione adulta (non pietistica, non mielosa, non rassegnata) cambierebbe il nostro fragile e incarognito mondo, stiamone certi.
Il Vangelo di oggi, concludendo la riflessione di domenica scorsa, ci dice che l'anticonsumismo è la solidarietà, la condivisione. Una condivisione, però, intelligente. È finito il tempo delle elemosine "una tantum", dell'Euro sganciato per far tacere il fastidio dell'insistenza di chi chiede e la propria coscienza.
Dio chiama per nome Lazzaro, non gli sgancia un Euro. Si lascia coinvolgere, ascolta le sue ragioni, non accetta gli inganni, aiuta a crescere. Così la nostra comunità, sempre più, deve lasciare che lo Spirito susciti in mezzo a noi nuove forme di solidarietà che rispondano alle nuove forme di povertà.
La sete del ricco epulone, sete di chi ha finalmente capito, è una sete che fin d'ora percepiamo se abbiamo il coraggio di ascoltarci dentro.
L'ammonimento di Amos che condanna gli "spensierati di Sion", cioè i superficiali di tutti i tempi, ci aiuta a spalancare gli occhi e vedere i nuovi Lazzaro che stanno alla porta. Infine ci giunge un richiamo forte alla conversione: epulone rimpiange il fatto di avere vissuto con superficialità i tanti richiami che gli venivano fatti, ed invoca un miracolo per ammonire i suoi fratelli. Ma non gli sarà dato alcun miracolo, alcun segno ulteriore: ha avuto sufficienti occasioni per capire. E anche per cambiare.
I profeti e la Parola del vangelo sono abbondantemente in mezzo a noi: a noi di accoglierli! Amen.

martedì 14 settembre 2010

19 Settembre 2010 - XXV Domenica del Tempo Ordinario

Andando avanti con gli anni mi accorgo sempre più di quanto Dio mi abbia rivoluzionato la vita. Si, fratelli miei, perché frequentandolo – per carità, con tutte le dovute proporzioni rispetto ai santi! – uno riesce a capire un pochino chi è lui "dentro", quale immenso progetto di amore Egli abbia su tutti noi. E allora tutte le cose, o quasi, cambiano, acquistano una coloritura diversa. Incontrare Dio, il Dio di Gesù, significa cambiare ordine alle cose, dare delle priorità alla propria vita, infondere nuova energia alle proprie scelte. È in questo senso che i veri seguaci di Cristo devono essere protagonisti nella storia. Essi devono (o dovrebbero) essere determinanti protagonisti nella storia reale di questo nostro mondo inquieto e alla deriva; un mondo che abbandona superficialmente la profondità del messaggio evangelico per lasciarsi sedurre dai gossip di turno, che scorda le verità essenziali trasmesse dai padri per cedere ad una logica piccina e opportunista, superficiale ed inquietante.
Quando tutti, seriamente avvinti dal Maestro e affascinati dal suo Vangelo, dovremmo invece portare una domanda conficcata nel cuore: come cambiare il destino del mondo? Come arginare la sua deriva che spazza la dignità degli uomini, come evitare questa spietata e indolore dittatura dell’anticristo?
In altri tempi ci sono state altre risposte, da parte dei discepoli del Risorto: comunità solidali, la carità come dimensione necessaria alla vita interiore, opere di carità, ospedali. Erano altri tempi, tempi ambigui forse, ma evidenti, leggibili, rintracciabili: un padrone cristiano era tenuto a comportarsi prima da cristiano e poi da padrone.
Ma oggi tutto è complesso, contorto: la new economy, la globalizzazione, il mercato che impera e divora, un sistema basato sul guadagno, costi quel che costi, e di lì organizza la politica, le guerre, pianifica il futuro. Cosa dobbiamo fare, noi cristiani, cittadini del mondo?
Il Vangelo di oggi una traccia ce la lascia, debole, ma è pur sempre una traccia.
Prima considerazione da fare: la ricchezza, il potere, non sono questioni di portafoglio ma di cuore, non di quantità, ma di atteggiamento. Nessuno di noi è uno dei "grandi" del mondo, e questo potrebbe in qualche modo falsamente rassicurarci. Però, anche se possediamo poco, su quel poco possiamo avere un atteggiamento di attaccamento tale che ci distoglie dall'obiettivo della nostra vita che è la pienezza del Regno. Amos, nella prima lettura, guarda alla situazione del suo tempo con amarezza: un potere corrotto e un'ipocrisia diffusa, anche se in presenza di una osservanza scrupolosa nelle pratiche religiose, determinano comunque l'oppressione del povero.
Quanto tristemente attuale è questa pagina: ma davanti alla perfida logica in atto nella nostra società in cui vince il più forte, la coscienza cristiana di ciascuno deve reagire; non certo ricorrendo a pie elemosine, ma affrontando onestamente la realtà per contribuire, entro i nostri limiti, alla realizzazione di un sistema di vita in cui prevalga l'uomo e la persona sul capitale: in altre parole una economia più "personalista", condivisa. Facendo cosa? Beh, prima di tutto informandoci di come va il mondo e non chiudendoci nel nostro guscio: perché la conoscenza è il primo passo verso la condivisione! Del resto occasioni di condivisione, per essere di aiuto e conforto a quanti soffrono nel mondo se ne presentano continuamente.
Paolo ammonisce a non pensare che la fede si occupi solo del "sacro". Fino a che la fede non diventa contagiosa, illuminante, strumento per costruire un mondo nuovo, non abbiamo realizzato il Regno.
L'amministratore delegato della parabola di oggi è lodato da Gesù per la sua sagacia (non per la sua disonestà!) e Gesù sospira tristemente: "Se mettessimo la stessa energia nel cercare le cose di Dio!"; se mettessimo anche in questo la stessa intelligenza, lo stesso tempo, lo stesso entusiasmo che mettiamo nei nostri interessi! La scaltrezza dell'amministratore è l'atteggiamento che manca alle nostre stanche comunità cristiane: pensiero debole che si adagia su quattro devozioni e un po' di moralismo, senza l'audacia della conversione, del dialogo, della riflessione.
Io, discepolo, posso vivere nella pace, ma anche nella giustizia: libero dall'ansia del denaro, libero da mammona, per essere vero discepolo.
Ecco, la sostanza è questa: se sono discepolo di Cristo so quanto valgo, so quanto valgono gli altri e vado all'essenziale nei miei rapporti, dall'onestà nello svolgere il mio lavoro, alla solidarietà, ad uno stile di vita retta e consona al Vangelo. Chi è il padrone dell'umanità? Dio o mammona? Oggi forse è quella mammona dai mille seducenti nuovi volti: mercato, profitto, auto-realizzazione. Eppure Gesù non è moralista: il denaro non è sporco, è solo rischioso per cui il discepolo, il figlio della luce, ne deve usare senza diventarne schiavo.
Concludo unendomi a Paolo, nostro fratello nella fede. Rileggiamo l'invito fatto a Timoteo, preghiamo con fede, alziamo al cielo mani libere da odiose contese, dall'ira, dall'odio, e invochiamo il dono della pace per la nostra terra; impegniamoci a trascorrere una vita calma e tranquilla, con grande pietà e dignità, con un occhio di riguardo ai nostri fratelli più deboli e bisognosi. Amen.



martedì 7 settembre 2010

12 Settembre 2010 - XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Al discepolo che è in ascolto dell'immensa sete di infinito che gli pulsa nel cuore, e della nostalgia pungente e profonda del Tutto, Gesù propone un cammino verso una scoperta inattesa: il vero volto di Dio.
Tutti abbiamo un'idea di Dio, per credergli o per rifiutarlo. Tutti abbiamo una spontanea, inconscia, sorgiva idea di Dio, una specie di religiosità connaturale: un'idea di Dio in cui credere. O non credere.
Mediamente, però, questa idea di Dio che abbiamo è approssimativa, e neppure troppo simpatica.
Dio esiste, certo, per carità, è anche potente, ma incomprensibile nelle sue discutibili scelte. Ma coraggio, fratelli, siamo onesti: non abbiamo mai pensato di fronte all'idiozia degli uomini, che noi avremmo sicuramente fatto meglio di Lui nel governare il mondo? Che Dio dovrebbe almeno fermare le guerre? Che dovrebbe proteggere sul serio i deboli? Che quella madre di famiglia, sola e con figli piccolissimi, divorata dal cancro, è una clamorosa stupidaggine divina? Che, insomma, se Dio c'è perlomeno talvolta è pigro o incomprensibile? Chi non l’ha pensato almeno una volta, per un momento?
Fratelli miei, quanta strada l'uomo ha dovuto fare per convertire il proprio cuore!
La storia di Israele è la scoperta del vero volto di Dio, della misericordia, il cuore stesso di Dio.
Nella splendida pagina dell'Esodo che abbiamo letto, Dio si accorge di essere stato troppo fiducioso nei confronti di questo popolo di schiavi, e decide di rinunciare e di ricominciare. Mosè lo sfida e rifiuta di seguirlo: tra Dio e il popolo, Mosè sceglie il popolo. E Dio si stupisce, e cambia idea: “si pentì”.
Il Vecchio Testamento intuisce ed elabora questa idea inaudita: un Dio che si confronta con gli uomini ed arriva perfino a cambiare idea nei loro confronti. Ma l'uomo – dalla “dura cervice” – nonostante le continue dimostrazioni dell’amore di Yahweh, continua caparbiamente a non capire.
E allora Dio decide di venire a spiegarsi. Definitivamente. Mettendosi sullo stesso suo piano.
Luca, dei quattro evangelisti, è quello che maggiormente ha dovuto modificare la propria visione di Dio con quella di Gesù. Lui, greco di Antiochia, è abituato ad una religiosità legata a dèi capricciosi e simili in tutto a noi uomini. Quale tuffo nel cuore deve avere provato, quando ha sentito quel tale di Tarso parlare di Dio in maniera assolutamente innovativa! Dio, diceva Paolo, è un Padre pieno di ogni tenerezza, lontano anni luce dalle nostre fobie e dai nostri timori.
Luca ha creduto al Dio di Paolo, ha ricevuto il Battesimo e si è messo alla sequela del Maestro Gesù, l'ebreo. Poi, dopo molti viaggi, dopo molta gioia, dopo una vita passata a informarsi, ci restituisce, in tre parabole che sono come tre perle preziose, la sintesi del volto di Dio.
“Dio è misericordia” dice Luca; “Dio è misericordia” anticipa il suo maestro Paolo nella seconda lettura.
È la misericordia che esprime l'onnipotenza di Dio: un amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente, che è il volto di Dio.
Ma allora perché continuiamo a pensare a Dio come a un vigile, un giudice, un severo preside? Perché ci ostiniamo a tenerlo ben lontano dalle nostre vite relegandolo nelle chiese e in quei pochi ritagli di tempo che dedichiamo alla religione?
La nostra triste fede pensa alla vita in Cristo come ad un pegno da pagare all'onnipotenza di Dio, non come ad un incontro di pienezza e di festa! Occorre convertirci alla tenerezza di Dio, occorre osare e pensare ciò che Lui è venuto a testimoniarci.
Le parabole ascoltate gettano una spallata definitiva alla nostra mediocre visione di Dio per spalancare la nostra fede alla dimensione del cuore di Dio. Convertirsi significa passare dalla nostra prospettiva a quella inaudita di Dio e questo significa fare come Lui.
Noi diciamo: "Ti amo perché sei amabile; te lo meriti, perché sei buono".
Dio dice: "Ti amo con ostinazione e senza scoraggiarmi perché so che il mio amore ti renderà buono".
C'è una bella differenza! In fondo in fondo noi costruiamo la nostra vita di fede orientata intorno ai nostri meriti. Ma nessuno si merita l'amore di Dio. Il suo amore è assolutamente gratuito, libero, pieno.
Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci senza misura ci rende buoni, aprendoci alla speranza.
La cura meticolosa con cui il pastore insegue la pecora lontana è il segno di questo amore di Dio per chi sperimenta di essersi "perso".
L'esperienza del peccato, che è questo "perdersi", diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci perseguita con il suo amore.
Ben lontano dall'avere una visione poetica o approssimativa del peccato, Luca sa che l'esperienza di sofferenza interiore che è il peccato, questo smarrimento, questa lontananza da Dio e da noi stessi, può diventare un incontro che salva, che ci aiuta a ripartire con maggiore autenticità e coraggio.
La nostra fede non si fonda sulle nostre capacità, sulle nostre devozioni, sui nostri sforzi, ma sull'ostinazione di Dio che ci cerca.
Prendere coscienza di questo significa aprirsi alla festa, partecipare, come la donna che ritrova la moneta perduta, alla festa che Dio fa per chi si lascia incontrare.
I giusti, quelli che si sentono a posto, con la lista dei loro meriti al completo, non potranno mai, purtroppo, sperimentare la gioia di essere caricati sulle spalle del Pastore. Come il figlio maggiore della parabola del Figliol Prodigo, "non entrano" in questa prospettiva, in questa mentalità.
Chiusi nelle loro poche certezze, non possono allargare il cuore nella gioia del Padre.
Quando, fratelli e sorelle, capiremo veramente il Vangelo della misericordia e, con semplicità, lo faremo finalmente diventare l’unico metro di giudizio del nostro agire, allora la Chiesa tornerà ad essere il faro luminoso e sicuro che guida l’incerto cammino degli uomini.
Che il Dio della misericordia ci aiuti in questo! Amen.