giovedì 4 gennaio 2024

07 Gennaio 2024 – BATTESIMO DEL SIGNORE



Mc 1,7-11 
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento". (Mc 1,7-11).

Marco inizia il suo vangelo presentandoci Giovanni Battista che, nel territorio posto in prossimità del Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottoporsi al battesimo. Un battesimo piuttosto impegnativo il suo, un battesimo fondato sulla metànoia, sulla “conversione”, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di valori. Un battesimo insomma che costituisce il segno, il simbolo, dell’avvenuta conversione. In pratica il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita, cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che senso ha venire da me per una semplice abluzione esteriore? non serve assolutamente a nulla”. 
Il Battista conosce perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva nuova: egli sta con le spalle rivolte al passato, ma con il dito puntato in avanti, per indicare l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore, della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e definitivo perdono.
È a questo punto che succede qualcosa di impensabile, di imbarazzante. Confuso tra la folla accorsa da lui al Giordano, gli compare improvvisamente lo stesso Gesù; e anche lui, come tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i peccati. Un fatto che poi metterà in difficoltà i primi discepoli della giovane Chiesa: “che bisogno aveva Gesù di “lavare le colpe”, di farsi togliere i peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazareth”. In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell’antica alleanza: non a caso Gesù ha la stessa radice di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù, come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla terra promessa dell’amore e della libertà.
Marco dunque dice che Gesù si fa battezzare: all’inizio del suo ministero, cioè, si presenta in fila come gli altri peccatori, in tutto solidale con gli altri uomini. Ma egli non confessa i suoi peccati, come fanno loro: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di vita.
Giovanni fa immergere le persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c’è stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Ma Gesù non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione. Marco infatti fa notare questa differenza ricorrendo ad un verbo particolare: per dire che Gesù “esce” dalle acque del Giordano, usa anabàinon, che vuol dire uscire, ma “salire”, lo stesso verbo usato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù esce, lascia questa terra per “salire” in cielo. Stesso verbo, stesso significato.
Lo scopo del Battesimo di Gesù, quindi, non è tanto quello di affrancarsi dal peccato originale, di purificarsi dai peccati (che lui non aveva), quanto piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere sulla sua persona, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati, spaccati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni ingresso. Dio non si concedeva più, non si comunicava più al suo popolo. Non c’era più comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia implorava: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi!” (Is 63,19). Era la speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l’uomo, a rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l’interposizione di altre chiusure.
Ebbene: questa speranza si concretizza con il battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale” dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù, polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l’uomo, torna a donarsi all’uomo, e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si aprono”: perché come si sono aperti, potrebbero anche chiudersi nuovamente; egli usa un termine che richiama il senso di irreparabilità: la differenza tra apertura e squarcio sta tutta qui: lo squarcio è un’apertura definitiva, violenta, irrimediabile; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare” anche quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso”: il velo enorme che nascondeva alla vista del popolo la presenza e la gloria di Dio, improvvisamente, si squarcia in maniera irreparabile, definitiva. L’evangelista cioè intende sottolineare nuovamente, come il Dio velato, il Dio nascosto, si sia rivelato definitivamente in Gesù crocifisso. Lui stesso è l’immagine visibile di Dio: è il Crocifisso, infatti, il segno tangibile dell’amore di Dio per gli uomini, reso ormai visibile a tutti e per sempre; un segno che non potrà più nascondersi alla nostra vista, anche se lo rifiutiamo, anche se non lo vogliamo più, anche se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo. Dio, dopo Gesù, non potrà mai più smettere di amare l’umanità. 
La spiegazione? È la discesa dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito qualunque, ma “Lo Spirito”. L’articolo determinativo indica la totalità della forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito è su Gesù. Non una parte, tutto. Gesù è il possessore dell’intero “Spirito”. In Gesù si manifesta, non una parte di divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza della divinità.
Ecco perché analizzando il Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare la stretta correlazione con il racconto della sua morte: quando Gesù “muore” (Mc 15,37) si dice infatti che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non “muore” mai, nel senso che questo verbo non viene mai usato; non si dice mai che Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto, ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha "reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire che lo Spirito che Gesù riceve qui durante il Battesimo, è quello stesso Spirito (pneuma) che egli emette alla sua “morte”, è quello Spirito che uscito da Lui, continuerà a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui; quello stesso Spirito d’Amore che Egli dispenserà in dono a tutti nella Pentecoste, lasciandolo in eredità alla sua Chiesa.
Poi Marco aggiunge: “E ci fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito” sulla croce, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mc 15,34). È la “voce” dell’amore di Dio. Tutta la vita di Gesù è immersa nell’amore del Padre che lo sostiene, lo protegge e lo spinge a realizzare, a compiere, il suo progetto di salvezza.
Ed è quest’amore, questa voce di Dio che, attraverso Gesù, ci fa sentire al sicuro, protetti, amati, sorretti. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un amore che ci sia sempre e in ogni caso; un amore che non venga mai meno per nessun motivo; un amore che sia impossibile perdere. Solo così, forti di questo amore, potremo affrontare qualunque difficoltà.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che coprono la sua voce. E poi, soprattutto, “dobbiamo volerlo” sentire. Cosa che non è automatica. Perché troppo spesso abbiamo paura di conoscere quello che potrebbe dirci; preferiamo quindi non sentirlo, preferiamo fare i sordi, preferiamo coprire la sua voce con i mille rumori di questo mondo.
Ma è proprio qui che sbagliamo: perché se vogliamo sentire la sua voce, dobbiamo creare intorno a noi il cosiddetto “silenzio dell’ascolto!”. Dobbiamo cioè mettere a tacere tutte le voci inutili, gli urli sguaiati, assordanti. Dio non ama il frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma interiore. Vi ricordate l’incontro di Elia con Dio? “Dio non era nel vento impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza leggera” (1Re 19,11-12): questo deve succedere anche per noi: perché Dio non è lontano, non ha bisogno di gridare, è “dentro” di noi: e parla, “sussurrando”, alla nostra coscienza.
E concludo con due verità, entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci sentiamo nell’amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L’amore umano, anche il più grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, perché dobbiamo contraccambiare. Dio ci ama semplicemente perché siamo “noi”, siamo quella “sua” particolare creatura. Non dobbiamo temere di aprirci con Lui, di non dirgli certe “nostre cose” per farlo contento ed evitare qualche “penitenza”. Con Dio non è così. A Lui possiamo raccontare veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero, sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”. Ma noi cosa dobbiamo dargli in cambio? Assolutamente nulla! Dobbiamo dirgli soltanto: “grazie, Padre mio!”. Amen.

 

mercoledì 27 dicembre 2023

31 Dicembre 2023 – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE


Lc 2,22-40 
[Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino (Gesù) a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.] Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. [Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui].
 

Oggi è la festa della Santa Famiglia, ma il Vangelo si concentra soprattutto su Maria e sul suo stato d’animo. Quaranta giorni dopo la circoncisione, infatti, Maria e Giuseppe salgono al tempio per assolvere due distinti obblighi della Legge: la purificazione della madre e il riscatto del figlio primogenito. 
È interessante notare come Luca ripeta per ben cinque volte la parola “Legge”, quasi a sottolinearne l’importanza. Si tratta infatti di una antica usanza, interpretata nel corso dei secoli, e mantenuta viva dalla “tradizione”, che per il popolo era vincolante come e forse più delle leggi scritte.
Maria e Giuseppe salgono dunque al Tempio. E qui incontrano un personaggio singolare, un certo Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Il Vangelo non ci dice se sia vecchio. Ci dice però che era un uomo giusto e timorato di Dio. Si potrebbe pensare ad un sacerdote, anche se si dice che lo Spirito Santo era sopra di lui (nei vangeli i sacerdoti del Tempio non vengono mai descritti come assistiti dallo Spirito Santo!). Ma Simeone più che un sacerdote del tempio, si rivela un profeta, più che un uomo del culto, un conoscitore della vita.
Maria e Giuseppe cercano un rappresentante della Legge per adempiere ai loro doveri, e trovano invece un uomo dello Spirito, le cui parole non si riferiscono ad alcuna regola, ad alcuna prescrizione da compiere, ma sono parole esaltanti, gravi, profetiche, riferite al futuro del loro figlioletto. Essi rimangono colpiti di fronte a tali dichiarazioni: ricordavano che i pastori avevano parlato di un “salvatore”, che l’angelo, parlando con Maria, lo aveva definito “Figlio dell’Altissimo”, ora quest’uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”: ma cosa significa tutto questo? Chi è in realtà questo loro figlio?
Sono andati al tempio perché Maria, la madre, venisse purificata, e invece trovano quest’uomo che preannuncia la purificazione di Israele per opera del loro figlio: secondo lui, egli sarebbe diventato la “pietra d’angolo”, che per molti sarebbe stata la base su cui sviluppare la loro costruzione, mentre per altri sarebbe stata la “pietra di scandalo”, ossia quella pietra d’inciampo, che li avrebbe fatti cadere (1Pt 2,7; Rm 9,33).
Seguire Gesù infatti non è mai semplice, indolore; non è come percorrere un bel sentiero, comodo, in pianura, all’ombra, con frequenti fontanelle d’acqua e molte panchine su cui riposare. Gesù ci mette davanti a scelte onerose, a crocevie misteriose, a inevitabili cadute: le sue verità sono dure e radicali; ci mette di fronte a noi stessi, senza alcuna possibilità da parte nostra di poterci opporre. Il suo è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento: con Lui è impossibile sonnecchiare tranquilli. Le risposte che vuole sono sì sì, no no: ed è proprio per questo che il suo vangelo, per alcuni è “vita”, per altri “morte”. 
Simeone dunque predice a Maria ciò che avverrà: non le dice nulla, ma insieme le dice tutto. Ella ascolta attentamente, anche se non comprende tutto di quanto le viene detto.
Maria non è sempre stata la Madonna! Diceva in proposito sant’Ambrogio: “Maria è il tempio di Dio, non il Dio del tempio!”: Ella cioè, nel corso dei secoli, è stata ricoperta di così tanti privilegi e titoli soprannaturali, da impedirci di vederla così com’era, madre giovanissima, quando ancora nessuno poteva pensare che diventasse la “Madonna”!
Il vangelo sottolinea più volte che Maria, proprio nello svolgere la sua missione di madre, rimaneva sorpresa, meravigliata, “non capiva”: accolse infatti il messaggio dell’angelo senza capirne l’esatto significato, non avendo chiara tutta la sua importanza, ma disse “si”. Non capì neppure il vero significato dei messaggi di suo figlio Gesù, ma semplicemente lo seguì sempre con apprensione e amore. Questo fu il suo grande merito: da madre che era, divenne sua umile discepola.
Lei conosceva la tradizione profetica ebraica secondo cui il popolo eletto sarebbe stato salvato dal Messia. Ma qui Simeone prevede un’altra cosa: suo Figlio sarebbe stato: “luce per illuminare tutte le nazioni”, ma anche “rovina e resurrezione di molti in Israele”. Sarebbe stato cioè un “Messia” completamente diverso da come tutti se l’aspettavano: e, altra cosa importante, Egli sarebbe stato il Salvatore non soltanto del popolo eletto, ma di tutta l’umanità.
Ma ciò che colpisce particolarmente Maria è una frase del vecchio veggente: “a te una spada trafiggerà l’anima”. A quale “spada” si riferiva Simeone?
Forse alludeva ad alcune espressioni del Figlio, oscure, difficili da capire, che le avrebbero causato dispiacere, sconforto, incomprensione? Una cosa è certa: ben presto si sarebbe resa conto che le sue aspettative materne, riposte nel figlio, si sarebbero realizzate in maniera ben diversa da come lei pensasse.
Forse alludeva al profondo dolore che avrebbe provato il suo cuore di madre, constatando che i suoi vicini, i suoi compaesani si sarebbero espressi contro suo figlio, mal sopportandolo; lo avrebbero deriso, rigettato le sue affermazioni straordinarie, le sue opere miracolose: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone?” (Mc 6,3); per dire: “Ma chi si crede di essere? Conosciamo molto bene lui e la sua famiglia!”. I parenti stessi lo rifiutano: “Neanche i suoi fratelli credevano in lui” (Gv 7,5). Per gli scribi è addirittura un bestemmiatore, uno stregone “posseduto da uno spirito immondo” (Mc 3,30) che “scaccia i demoni nel nome del principe dei demoni” (Mc 3,22). Per i farisei conservatori e per i dissoluti erodiani, entrambi allarmati dal suo comportamento, è un dissennato perché “mangia insieme ai peccatori e ai pubblicani” (Mc 2,16): e tra di loro decidono di farlo morire (Mc 3,6).
Gesù insomma sarebbe stato considerato da tutti un pazzo, uno stravagante, un fuor di senno: in pratica, uno meritevole di morte. Sarà questa la spada preannunciata da Simeone?
Oppure Simeone si riferiva a quell’altra difficile prova che avrebbe dovuto affrontare, di dover cioè anteporre ad ogni cosa, al suo stesso intimo legame di madre, la missione soprannaturale di questo suo figlio, una missione che l’avrebbe portato sul Golgota per essere crocifisso?
Tutto questo Maria l’ha intuito più che capito, l’ha gradualmente interiorizzato, e soprattutto l’ha fedelmente praticato negli anni in cui Gesù, nella sua famiglia, “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”.
Ebbene: è esattamente questo lo spirito che dovrebbe appartenere ad ogni genitore, questo il comportamento che dovrebbe regnare sovrano anche nelle nostre moderne famiglie: accogliere la volontà di Dio, agire sempre nel rispetto condiviso dei propri doveri.
Purtroppo, in questi tempi, la “famiglia” sta vivendo una crisi profonda: la sua naturale composizione di padre, madre, figli, non si presenta più come l’unico autentico modello di unione sociale; oggi c’è la pretesa di considerare “famiglia” qualunque tipo di convivenza, sia etero che omosessuale. Non esistono più doveri fondamentali come fedeltà, rispetto reciproco, ma solo un latente egoismo esibito come amore; solo “diritti” individuali, inizialmente dormienti, ma sempre pronti a riemergere per sopraffare l’altro: è purtroppo questa l’immagine ricorrente delle attuali “libere convivenze”, quasi sempre posticce, volubili, instabili, pronte a sfasciarsi alla prima difficoltà. Nessuno più crede al matrimonio cristiano, unica istituzione in cui è possibile coltivare, salvaguardare, accrescere i valori umani e spirituali, unica vera, autentica, naturale famiglia.
Ma per questo dobbiamo forse arrenderci e concludere che oggi è impossibile amarsi? No! Dico soltanto che, come ci insegna la festa di oggi, i sentimenti profondi come l’amore gratuito e disinteressato, l’accoglienza, il rispetto, la dedizione, rappresentano il patrimonio esclusivo della “famiglia”, quella autentica, quella che Dio ha sognato e voluto, creando la prima coppia uomo/donna, come esclusivi prosecutori, con i figli, della sua opera creatrice. 
In essa, anche oggi come allora, amarsi profondamente è possibile; restare fedeli è possibile; avere dei figli, educarli, farli diventare degli adulti responsabili, non solo è possibile, ma esaltante!
Maria e Giuseppe ce lo documentano: è infatti nella loro famiglia che Dio ha scelto di nascere, di sottomettersi alle naturali e normali dinamiche famigliari, di vivere cioè tra le fatiche di una vita condivisa, di un rapporto di coppia, superando sempre tutto con amore e tenerezza.
Riscopriamo allora anche noi questo “antico” e infallibile modo di essere famiglia: riscopriamolo nell'autenticità, nella sincerità, nella fede, nel difficile cammino di amore e di comprensione reciproca.
E perché queste festività natalizie possano trasformarsi veramente nella festa dell’intera famiglia, noi genitori preoccupiamoci di “presentare”, come Maria e Giuseppe, i nostri figli al “Tempio”: e se, una volta cresciuti, e al Tempio non vogliono più andare, non scoraggiamoci: portiamoli comunque spiritualmente con la preghiera, e con fede poniamoli ugualmente nelle mani del Padre, per ottenere da lui una particolare benedizione, consapevoli che questa, sicuramente, si trasformerà per loro in speciali grazie e in future benedizioni divine. Amen.

 

giovedì 21 dicembre 2023

24 Dicembre 2023 – IV DOMENICA DI AVVENTO


Lc 1,26-38 
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
 

Il vangelo di oggi ci racconta ciò che è realmente accaduto! Con tutti i particolari. Dalle poche ma magistrali pennellate di contorno, delicatamente incisive com’è nello stile di Luca, emerge prepotentemente la grandezza del pensiero di Dio.
In un paesino incollato ad un pendio roccioso, lontano dalle grandi strade commerciali, in una misera ma dignitosa casupola, ricavata nella roccia, avviene l’assurdo di Dio, l’inizio di una storia diversa, una storia di salvezza. Dio, stanco di essere incompreso, decide di venire a raccontarsi. La lunghissima storia di amicizia e di amore col popolo di Israele non è stata sufficiente per farsi capire e Dio, alla fine, sceglie di farsi uomo, di diventare uno di noi: ma per farlo gli serve un corpo, ha bisogno di una madre.
E Dio non sceglie la moglie dell’imperatore, non una scienziata o un premio Nobel, non una dinamica imprenditrice dei nostri giorni; ma una piccola adolescente, Mariam (la bella). È a lei che Dio chiede di diventare la sua porta d’ingresso nel mondo. Contro ogni buon senso, Maria accetta, ci sta; ci crede immediatamente, e noi, i saggi, non sappiamo se ridere o scuotere la testa davanti a tanta meravigliosa incoscienza; restiamo senza parole davanti alla sconcertante semplicità di questo dialogo, davanti al coraggio di questa ragazza ancora acerba, che parla alla pari con l’Assoluto, che gli chiede spiegazioni e chiarimenti.
Ma Dio non guarda con i nostri occhi, non ragiona con la nostra mente. Per calarsi nella storia, Egli sceglie Nazareth, un umile paesino sconosciuto, e come madre, sceglie una altrettanto umile e sconosciuta bambina, Maria. E nel silenzio, senza pubblicità, si consuma il grande mistero della divina umanità.
Nessun satellite, nessuna diretta televisiva, nessun network è riuscito a riportarci l’accaduto.
Solo un assordante silenzio ci parla ancora oggi; e ci indica le illogiche scelte di Dio. A noi che cerchiamo sempre il consenso e la notorietà, l’efficienza e la produttività, Dio propone una logica nuova, diversa, la logica del “dentro”, basata sull’essenziale, sul mistero, sulla profezia, sulla verità di sé, sui risultati imprevisti e sconcertanti.
Siamo alla fine dell’Avvento: oggi è d’obbligo fermarci a meditare sulla figura di colei che offre il suo grembo per il divino concepimento del Messia uomo.
E che messaggio ci lancia Maria? “Accogliete il Signore!”. Non soltanto in occasione dell’imminente natale, ma durante tutta la nostra vita. Sì, accogliamo il Signore! Perché sarebbe perfettamente inutile avergli preparato la strada, per poi alla fine non accoglierlo.
Ma cosa significa “accogliere il Signore”? Significa fare come ha fatto Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare da Lui, fidarsi di Lui. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione. Sempre. Significa accettare di diventare la sua casa, significa accogliere questo ospite unico, infinito, nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
“Non temere, Maria”. Certo, non è stato facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha certamente risparmiato le enormi difficoltà di questa scelta, perché la sua doveva essere una scelta libera, da innamorata. Una risposta generosa, franca, consapevole, dettata dall’amore, capite? Non come le nostre risposte: stanche sul nascere, legate alle circostanze, plagiate dal rispetto umano, condizionate dai nostri calcoli e dal nostro tornaconto. Avete ancora presente il momento in cui abbiamo detto il nostro “si” a Dio? Quanti tentennamenti, quante indecisioni, quanti ripensamenti! Altro che risposta libera e gioiosa: la nostra adesione è tutto un programma. Eppure dovremmo avere sempre in mente che “hilarem datorem diligit Deus: Dio ama colui che gli dà con gioia” (2Cor 9,7). Una risposta ragionata, calcolata, per Dio non è una risposta. L’adesione a Dio deve essere un contratto irrevocabile, un concordato irrinunciabile, un investimento perpetuo senza alcuna pretesa di interessi.
Certo, è sicuramente lecito avere dei dubbi. Li ha avuti anche Maria: “Come è possibile questo?”. Ma i dubbi sono a monte, precedono la risposta; devono semmai essere l’occasione per dare una risposta ancor più vincolante e cosciente, più consapevole e autonoma.
Del resto i dubbi accrescono la fede. E avere fede significa porre la propria certezza in Dio, sempre, in qualunque situazione della nostra vita, bella o triste che sia.
La fede quindi fortifica la nostra risposta, la rende ferma e immutabile, le toglie qualunque velleità di ripensamenti; fede è totale fiducia in Dio, perché “niente è impossibile a Lui”.
Anzi, come amava ripetere un vecchio maestro, “tutto è possibile a chi crede”.
"Eccomi, sono la serva del Signore"; con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui, ha messo la sua vita a completa disposizione di Dio. Questa è la fede; questo significa credere veramente. Questo è l’esempio che dobbiamo seguire, il modo con cui anche noi dobbiamo rispondere alla nostra chiamata. La fede di Maria non è stata tanto nel credere a un certo numero di verità, quanto nell’essersi fidata ciecamente di Dio, nell’essersi completamente abbandonata a Lui.
Maria ha accolto Dio nella sua vita. Ha creduto che “nulla è impossibile a Dio”. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi, in maniera totale e gioiosa. Ha concepito Cristo, come dice S. Agostino, prima nel cuore che nel corpo.
È questo l’esempio luminoso che ci viene proposto oggi da Maria. Imitiamola dunque, imitiamola con fede, “concepiamo” anche noi Gesù nel nostro cuore. Diventiamo partecipi di questa sua sublime vocazione. Del resto, come hanno scritto Origene e S. Bernardo, “che beneficio avrei, se Gesù fosse nato soltanto una volta a Betlemme, e non continuasse a nascere per fede nel mio cuore?”
E allora, coraggio, animo! Proprio quando pensiamo di avere sbagliato tutto nella vita, quando non siamo soddisfatti dei risultati ottenuti o ci sentiamo attratti dall’assordante richiamo del mondo, guardiamo a Nazareth, guardiamo al silenzio di Maria, alla sua umile dedizione, al suo composto modo di fare, e lasciamoci sbalordire, lasciamoci incantare da tanta semplicità e fedeltà. Anche noi, sul suo esempio, non abbandoniamo, non rinunciamo, non molliamo mai; per nessuna ragione.
Domani è Natale. Presentiamoci anche noi a Betlemme, umilmente, senza pretese, così come siamo: ascoltiamo anche noi la voce del Signore che silenziosamente dice al nostro cuore: “lasciati amare; non preoccuparti di come hai preparato il tuo avvento, sono io che ti vengo incontro!”. Capite? Che vogliamo di più da Dio? Egli è così: noi dobbiamo solo aspettare; dobbiamo chiudere gli occhi, e lasciarci incontrare! Amen.

 

AUGURI! 
BUON NATALE A TUTTI VOI, E AI VOSTRI CARI!

 

 

giovedì 14 dicembre 2023

17 Dicembre 2023 – III DOMENICA DI AVVENTO


Gv 1,6-8.19-28 
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia». Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Siamo alla terza domenica di Avvento, la cosiddetta domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino. 
Il Vangelo ci propone ancora una volta la figura del Battista. Ma oggi, a differenza delle altre volte, non è l’asceta o il profeta intransigente, che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono; qui è il testimone, il precursore, una voce che annuncia Gesù già presente tra il popolo.
Il Battista, nel racconto di Giovanni, è semplicemente un’indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dietro di me”. Non dice chi è colui che verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via, verrà uno che non conoscete, io di fronte a lui sono nulla”.
Ebbene: questa è la particolarità dell’avvento. Il Battista sa che qualcosa deve succedere, che qualcuno deve arrivare, ma non sa chi; egli aspetta, è in attesa; sa soltanto che sarà un personaggio importante, al quale lui non si sente degno di slacciargli i sandali.
Rimanere in attesa, implica sempre, nel nostro immaginario, l’arrivo di qualcosa di nuovo, un qualcosa di imprevedibile, di diverso, di insolito. È una sorpresa. Del resto, se conoscessimo già tutto ciò che ci deve accadere, se tutto fosse già documentato e scritto, che “novità” sarebbe per noi il prossimo Natale? Che “Avvento” sarebbe il nostro?
Allora, aspettare il Natale, significa: “Prepariamoci, perché ci succederà qualcosa che supera ogni nostra previsione, un qualcosa che non possiamo pianificare, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo allora a Dio-Vita che ci faccia delle sorprese”.
Noi invece, per curiosità, per autodifesa, vogliamo controllare sempre tutto, pianifichiamo tutto, vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia, svegliandoci dal nostro letargo, rendendoci consapevoli di dover rinunciare alle nostre umane certezze, non è Dio.
Nel vangelo i sacerdoti, senza tanti preamboli, in modo diretto, pongono una domanda al Battista: “Chi sei tu?”. Giovanni però tergiversa, non risponde a tono: si preoccupa più di affermare chi non è: “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
Un’indicazione molto importante per noi: dobbiamo cioè rifiutare tutti quei ruoli, quelle etichette che gli altri ci attribuiscono, ci incollano addosso, senza magari conoscerci, solo per farci piacere, per lusingarci; è importante dire loro: “No, non sono come voi pensate, come voi vorreste!”. Nella vita dobbiamo essere sempre noi stessi! Presentarci con i nostri pregi, le nostre virtù, ma anche con tutti i nostri difetti, le nostre debolezze. E questo non è sempre facile da dimostrare. Per esempio, ci siamo mai esaminati a fondo, per capire chi siamo veramente, come effettivamente ci comportiamo?
Siamo uomini, è vero; siamo “buoni”, ok. Ma è troppo poco; nel mondo ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme, dei bravi cristiani, degli onesti lavoratori: sì, va bene, ma anche di papà, di mamme e di tutto il resto ce ne sono milioni, è tutto vero quel che pensiamo di essere, ma è sempre troppo poco: questi infatti sono semplicemente i “ruoli” che interpretiamo. Il ruolo è come un vestito: è buono per andare al lavoro, per andare a scuola, a teatro, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a dormire, quando vogliamo stare in libertà, il vestito ce lo togliamo, perché è un impaccio, è solo una “copertura” a beneficio degli altri.
Certo, il ruolo è anche comodo: molti di noi infatti si sono immedesimati in un certo ruolo, e vivono sempre e solo quello; recitare sempre il solito ruolo effettivamente ci rassicura, perché lo conosciamo, ci viene bene, è facile: ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere solo una piccola parte di tutte le nostre possibilità. Se lo viviamo così, infatti, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi, e invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona; in pratica nasconde ciò che siamo, il nostro essere “persona”, e di noi rimane solo il ruolo, l’involucro esteriore: se infatti ci togliessimo di dosso, se ci levassimo questo vestito-prigione, di noi, del nostro “essere”, non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Allora, la domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, di tutte le nostre coperture, le nostre falsità, chi siamo noi in realtà? Chi siamo noi “dentro”, in profondità, nell’intimo della nostra coscienza, della nostra anima?” Questo è il grande interrogativo.
In altre parole: “C’è in noi qualcosa che ci rende unici agli occhi di Dio, irripetibili, diversi da tutte le altre creature? C’è qualcosa che ci rende insostituibili?”. Perché se non troviamo nulla che ci contraddistingue, vuol dire che noi, o un altro, è la stessa cosa; vuol dire che di gente come noi ce n’è quanta ne vogliamo; vuol dire che non siamo importanti, che siamo persone senza spessore, persone che “tirano avanti” senza sussulti, che sopravvivono insieme ai loro doppioni, alle loro squallide fotocopie: come se per vivere bastassero fotocopie!
A questo punto, per i pochi giorni che ci separano dal Natale, la cosa importante da fare è di liberarci da tutto ciò che non siamo. Dobbiamo cioè rifiutare, come il Battista, qualunque altra identità: “no, non sono questo! Non sono io; io sono diverso, io sono io!”. Perché solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, se ci scrolliamo di dosso le incrostazioni che ci ricoprono, solo così la nostra vera immagine potrà rivelarsi in tutta la sua originalità. E ne varrà sempre la pena!
Giovanni Battista nel deserto ha trovato il motivo per cui vivere, ciò per cui è stato creato, ciò che gli ha dato la forza di vivere; lui deve infatti richiamare tutti all’essenziale: “Abbandonate il superfluo, preparate la via al Signore, state attenti, non dormite, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se dormite, se avete gli occhi chiusi non lo potrete vedere”. Egli non è il Signore, è solo una voce che grida “attenzione”, è strumento, è mezzo.
Ecco, questo deve essere anche il nostro compito: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, a quella forza che ci inabita, ma che non ci appartiene. “Dai voce a Colui che sta dentro di te!”: noi, che sappiamo appena balbettare, dobbiamo diventare la voce potente di Dio che proclama la sua Parola: non siamo luce, ma dobbiamo riflettere sugli altri la sua Luce; non siamo il sole, ma dobbiamo riversare sugli altri il calore del suo Amore.
Siamo insomma chiamati tutti a testimoniare il “di più” che ci portiamo dentro. Questa è la nostra prima “risposta” che dobbiamo a Dio. “Essere strumenti di Dio” vuol dire infatti proprio questo: permettere che sia Lui a sceglierci, ad utilizzarci per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che “suona” noi: non siamo noi il Compositore divino, noi ci limitiamo soltanto ad amplificare la Sua musica: creare è un ruolo che non ci può appartenere, perché siamo solo degli strumenti, degli esecutori. Siamo semplicemente un’onda, il mare è solo Lui. Noi siamo i raggi, Lui solo è il sole!
In questo sta la grande generosità di un Dio che ci ama: noi siamo nulla, ma Lui ci rende sue creature preziose; viviamo, ma la vita è un dono che viene da Lui; siamo veri, ma siamo solo un riflesso della sua Verità assoluta; siamo liberi, ma è un suo dono, per consentirci di amarlo; facciamo esperienze, impariamo, programmiamo il nostro tempo, viviamo, facciamo conquiste, ma non siamo noi i padroni della vita e del tempo. Il vero padrone è sempre e solo Dio. La nostra più grande stoltezza è metterci al Suo livello, sentirci esclusivi proprietari delle cose e delle persone. Le pensiamo nostre, ma non lo sono. Noi siamo solo i provvisori amministratori del mondo e di quanto contiene, non saremo mai i proprietari!
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale: ciò che ci deve invece stupire, che ci deve veramente addolorare, è sapere che ci sono ancora molte più persone che in cuor loro continuano a dire: “Non ci interessi, Dio; non sappiamo che farcene di te”. Ecco: non cadiamo anche noi in tale deserto dell’anima, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo quella strada che dal nostro cuore porta direttamente al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché sia sempre Lui a dare senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.

 

giovedì 7 dicembre 2023

10 Dicembre 2023 – II DOMENICA DI AVVENTO


Mc 1,1-8 
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaia: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Dove troviamo Giovanni il Battista? Lo troviamo nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, questo posto gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio. Giovanni, ci dice Marco, è soprattutto “Voce” di uno che grida, è annunciatore, messaggero: quindi non il chiuso di un tempio, ma gli spazi aperti e selvaggi del deserto si addicono per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”. 
Lontano dalle comodità, dagli agi dell’ambiente cittadino, nel deserto non esiste l’”ovvio”: se non si fa qualcosa per sopravvivere, si muore. Lì conta solo l’essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze, le convinzioni, i riferimenti: nella solitudine uno si trova solo davanti a sé stesso, a quello che ha dentro. E arriva a vedere quella parte di sé che non vorrebbe mai conoscere.
Nel tempio tutto è bello, leggiadro: abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: stiamo bene e rilassati. Anche se ci parlano di Dio, anche se ci chiedono di convertirci in nome di Dio, tutto è ovattato, tutto è soffuso, di maniera, come la nostra conversione.
Nel tempio non serve convertirsi sul serio; è sufficiente cambiare l’aspetto esteriore, ammantarci di un velo di contrizione, molto apprezzabile a vedersi: una conversione che non tocca il nostro cuore, che non convince l’anima: dentro rimaniamo tranquillamente sempre gli stessi; l’importante è riuscire a camuffare, a dare alle nostre iniquità, magari con “religiosi” distinguo, un aspetto moralmente positivo.
Questo nel deserto non è possibile: nel deserto non si può barare. Il deserto è categorico: “No, amico mio, così non va; devi convertirti, devi cambiare. Qui non puoi illuderti, non puoi nasconderti. Dove vai? Qui non puoi fuggire, non puoi evitare la verità: qui si vede subito se ami Dio, se il tuo cuore è veramente sincero”.
È quanto ci fa capire oggi il vangelo: per credere in Gesù Cristo, dobbiamo necessariamente abbandonare quella nostra patina di copertura che contrabbandiamo per religione. Non sono ammesse soluzioni di comodo.
È una verità dura, ma è così. La “religione”, quella che conosciamo noi, per definizione, ci dà regole, ci dice cosa dobbiamo fare e non fare, ci rassicura, ci dice che se faremo in un certo modo andremo in paradiso e se invece faremo il contrario andremo all’inferno; ci dice chi sono i buoni, quelli che per diritto saranno ammessi al premio finale, e chi i cattivi, gli esclusi. Ma di tutte queste belle “regole”, non c’è nulla negli insegnamenti di Gesù. Perché la religione di Gesù, quella vera, quella profonda, ha un solo obiettivo: l’amore. L’amore è la cartina di tornasole che ci dice quanto siamo sinceri nelle nostre dichiarazioni di fede. Perché per essere degni dell’amore del Padre, per poterlo pienamente godere nell’eternità, dobbiamo a nostra volta amare ogni creatura, aver cura dei nostri fratelli, dobbiamo usare loro rispetto, compassione, tenerezza, carità.
Se la regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”, la regola di Gesù è: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le fai crescere? Quanto le stimi? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti?”. Ecco: adottare questo comportamento basato sull’amore, guidato dall’amore, vuol dire “convertirsi”; vuol dire “credere al vangelo”. Questo è quanto predica il Battista.
Un annuncio, il suo, estremamente severo ma concreto e onesto. Talmente autentico nella sua essenzialità, che la gente accorre in massa per farsi battezzare da lui. La sua fama, la sua popolarità, il suo successo crescono di giorno in giorno, tanto da allarmare seriamente le autorità religiose. Anche se nella sua predicazione non ha mai rivendicato per sé il titolo di Messia, anche se ha sempre dichiarato di non essere tale, che non è quello il suo ruolo, tuttavia per le autorità del tempio rimane sempre un autentico pericolo, una mina vagante.
Per questo corrono ai ripari: faranno cioè di tutto per isolarlo, screditarlo, diffamarlo, ostacolarlo, carcerarlo, ucciderlo: e alla fine ci riusciranno.
È il solito normalissimo percorso: quando non è possibile eliminare un avversario è sufficiente distruggere la sua reputazione, denigrarlo pubblicamente. Non importa se ha una condotta ineccepibile, se è una persona retta e onesta: l’importante è parlarne male, diffondere maldicenze e calunnie sulla sua moralità, sulla sua rettitudine professionale, per arrivare velocemente a distruggerlo del tutto.
Ma perché adottare questo metodo odioso con il Battista? Perché è un personaggio carismatico, monolitico, esigentissimo con sé stesso e con gli altri, uno che non guarda in faccia a nessuno, che non le manda a dire, insomma un duro e un puro, e questo non piace per niente alle autorità religiose che, al contrario, hanno molto, ma molto, da nascondere.
La conversione che egli predica, infatti, non è facile da accettare: il suo battesimo non implica una semplice trasformazione di facciata: impone piuttosto a tutti di tornare alla primitiva integrità, quella originale, quella di tornare ad essere immagine di Dio, “nuove creature”.
Oggi moltissima gente non esita a definirsi cristiana; certo, il battesimo ci ha reso tutti “cristiani”, figli di Dio: purtroppo però gran parte di questi cristiani si è fermata alla registrazione del loro nome su qualche libro dei battesimi; e vivono beatamente, in tutta tranquillità, nel dolce far niente, nascondendosi dietro una facciata di comodo, una patina di perbenismo. Questo non è essere cristiani: il battesimo ricevuto alla nascita si ferma all’acqua; ma, si sa, l’acqua scivola via: un altro battesimo si impone: quello vero, reale, autentico, quello di “fuoco”, quello dello Spirito; quello che Cristo stesso ha affrontato: un battesimo che “marchia” la vita, che brucia dentro, che scava nel profondo, l’unico che ci autentica alla radice come cristiani, come “uomini nuovi”. È il battesimo che ci trasforma in “altri”, che ci supporta nella realizzazione di quel progetto iniziale per il quale Dio all’origine ci ha segnati con il soffio dello Spirito. Questo in pratica è il nostro vero traguardo, quello che possiamo e dobbiamo raggiungere attraverso il battesimo di fuoco: ridiventare meritatamente quelli che eravamo già, i figli di Dio, creati a immagine e somiglianza del Padre. È la nostra trasformazione. È un “partorirci” nuovamente tra fatiche, pianti, lotte e dolore; ma solo così potremo arrivare ad essere “cristiani” autentici, i “benedetti” e prediletti del Padre.
Quindi, tradotto in pillole: tocca a noi, soltanto a noi, dimostrare con la vita questa discendenza da Dio; tocca a noi, nella essenzialità del “deserto”, spogliarci dagli orpelli dell’apparenza, e rivestire i panni dell’autenticità cristiana, passando attraverso il fuoco della fedeltà, della convinzione, della coerenza, il fuoco della rinuncia, del sacrificio, della battaglia contro il male: perché è questa l’unica via che può riportarci all’essenziale, alla Verità di Dio, all’Amore Infinito.
Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”: ecco allora che non una volta, ma ogni giorno, è necessario che ci immergiamo dentro di noi, ogni giorno dobbiamo scendere nel buio della nostra fragilità interiore, “nella mortalità” di questa vita, in ciò che ci rende spiritualmente sfiniti, senza senso, disperati, per far emergere, dalla finzione invalidante dell’apparire, la Luce ardente dello Spirito, la forza e la decisione dell’”essere”, che dà colore e calore alla nostra vita.
Insomma, è solo dopo aver percorso il nostro cammino di purificazione, di liberazione, di amore, dopo aver vissuto il nostro Golgota, dopo aver superato la nostra autenticazione del fuoco, che torneremo finalmente a far risplendere la nostra originale figura di figli, creati dal Padre a sua immagine e somiglianza. Un percorso sicuramente impegnativo, ma non impossibile: un percorso, soprattutto, che non va semplicemente “pensato”: ma fatto e basta! Non abbiamo altre alternative! Amen.

  

giovedì 30 novembre 2023

03 Dicembre 2023 – I DOMENICA DI AVVENTO - anno B


Mc
13, 33-37 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”. 
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita terrena a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”. 
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nelle bellezze della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.
È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, immaginare quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato. Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione. 
Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. Noi invece ci stanchiamo subito: vogliamo risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretendiamo raccolti veloci, abbondanti, senza applicarci alla semina. L’attesa è invece sempre impegnativa, spesso snervante: dobbiamo soprattutto essere convinti che il seme di Dio è quello migliore, che per germogliare e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno soprattutto della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, tutto è mutevole. “Se Gesù con il suo Vangelo è ancora fermo a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti Lui ai nostri tempi moderni, aggiorni Lui la sua Parola, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo!”.
Illusi! Come pensiamo di cambiare noi le leggi eterne della natura, del tempo, di Dio? Siamo noi che dobbiamo accettare, seguire, abbracciare queste leggi, questa è la verità. Perché solo se continueremo a lavorare in silenzio, a dissodare, a vangare il terreno, a concimare, a rimuovere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti del nostro lavoro.
Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando: mai cedere al sonno della pigrizia. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.
“Vegliare” non vuol dire smettere di lavorare, far finta di nulla, tirare avanti aspettando che “succeda qualcosa”: se non facciamo nulla, non approderemo mai a nulla; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la “Voce”, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Perché quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo necessariamente rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se non capiamo il perché, anche se la morte ci terrorizza, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.
Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode insulse del momento: purtroppo viviamo situazioni in continua evoluzione, in costante travisamento; i media ci spingono sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può definire vita.
Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo cambierò”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, quando sarò “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono propositi idioti, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da ogni impegno per amare Dio; serve piuttosto conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, riconoscerlo nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è un alibi perverso con cui giustifichiamo la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare più tardi? 
Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere come gli altri, anzi, tutto sommato, migliori degli altri; di essere insomma dei cristiani “a posto”, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche piccolo ritocco ogni tanto! Non dimentichiamo mai che furono i “perfetti” che procurarono a Gesù una fine tragica sulla croce. Fu ucciso proprio da quelle persone che si spacciavano per osservanti, le più in regola, le più brave, le più religiose.
Non creiamoci false e ipocrite aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché la nostra altro non è che subdola presunzione, una superbia ben truccata e difesa.
Quando ero ragazzo mi capitava di incrociare spesso un monaco molto anziano che invariabilmente, ricambiando il mio saluto, mi sussurrava sospirando: “Sta’ in campana, Mario!”. Nient’altro. Solo queste parole. Una “perla” di saggezza, con la quale evidentemente voleva mettermi in guardia dalle facili illusioni della vita: “Sta’ pronto, sta’ in campana!”. Una raccomandazione, grave e minacciosa per la mia età, che continua a risuonarmi nella mente.
Aspettiamo allora l’incontro finale con Dio, pregando ogni nuovo giorno, al mattino, al nostro risveglio, con grande umiltà: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi sopportare le contrarietà, come se fossero l’ultimo dono che posso offrirti. Fammi pregare, come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità, che ho qui su questa terra, di parlare con te. Ti aspetto!” Amen.

 

giovedì 23 novembre 2023

26 Novembre 2023 – XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – CRISTO RE DELL'UNIVERSO


Mt
25, 31-46 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 Con questa domenica si conclude l’anno liturgico, e come meditazione finale, la Chiesa ci propone la visione apocalittica di Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di annullare dalla nostra mente, perché a tutti, inutile negarlo, incute una certa preoccupazione.
Di fronte a tale scenografia restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio tutto miele, dal volto amoroso e compassionevole?
Entrambe sono immagini che appartengono a Gesù, e solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Vediamole nei particolari.
Prima di tutto l’immagine di “Re” attribuita a Cristo: un paragone altisonante, maestoso, che però non ha nulla a che vedere con il Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: perché, in realtà, Egli è sì un Re, ma non un “Re” tradizionale, un battagliero conquistatore, un dominatore, un governatore di popoli. Egli è un Re particolare, che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un Re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi” gli uni gli altri; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che per essere identificato ha bisogno di un cartello, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore.
Dall’altro lato c’è poi la strana immagine di un giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: ma, guarda caso, lo fa anche qui in maniera singolare, perché di fronte lui si presentano proprio quelle sue creature che per salvarle, per riscattarle dal male, Lui stesso le ha talmente amato, da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Cristo Re dell’universo, potrebbe dunque sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi suoi eletti, noi suoi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente il tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero d’amore nascosto nei secoli.
Dire quindi che Cristo è “Re e sovrano” della nostra vita, significa riconoscere che il nostro percorso di vita e di fede ha un senso, solo se fatto in lui, con lui, per lui.
Ecco perché, alla fine dell’anno liturgico, è molto gratificante per noi, ribadire con forza, tutti insieme, come Chiesa, questa nostra certezza, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto Re, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi che lo abbiamo scelto come guida della nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giudice, giusto e inflessibile”; un re che verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto noi stessi gli abbiamo promesso, su quanto noi stessi ci siamo impegnati: in una parola, se siamo stati o meno all’altezza del suo amore, donando anche noi amore agli altri.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato” nessuno; e non lo farà neppure allora. Perché Dio non giudica, Dio si limita a “rivelare”. Dio cioè renderà semplicemente visibile, quello che noi abbiamo tenuto nascosto, i nostri pensieri, i nostri desideri, quello che volutamente abbiamo lasciato nell’ombra, nell’incompiuto. Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà quindi semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la nostra reale situazione, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nessun segreto potrà rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto “apparirà” nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno capirà da solo, senza bisogno di sentenze, se mettersi con gioia alla destra del Re, o con vergogna alla sua sinistra.
Ma in base a quale “codice” verrà valutata la nostra fedeltà? Il vangelo di Matteo elenca in proposito, con una insistenza quasi puntigliosa, una serie di “situazioni”, come nutrire gli affamati, dissetare chi ha sete, accogliere i forestieri, vestire chi è nudo, assistere i malati, visitare i carcerati; situazioni tutte che prevedono “movimento”, che esigono cioè da parte nostra un intervento reale, che non si ferma alle belle parole, ma che è azione, interessamento, preoccupazione. In una parola, significa mettere concretamente a disposizione del prossimo il nostro amore.
È infatti questo il “tesario” su cui alla fine saremo esaminati: non ci verranno richieste grandi azioni, eroiche imprese, perlopiù impossibili, ma piccole cose, una buona parola, una fraterna condivisione, uno slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un vago desiderio, perché “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Questo infatti è l’unico elemento su cui poggia il verdetto finale, lo stare alla destra o alla sinistra del Re: l’aver fatto per i fratelli ogni cosa per Lui, a Lui, con Lui.
Una domanda accorata però sgorga a questo punto da entrambe le schiere di quanti sono in attesa della loro destinazione: “Quando Signore? Quando mai ti abbiamo incontrato?
Già, “quando?”. Nessuno di loro infatti si era mai reso conto della sua presenza nell’altro; nessuno aveva mai capito di aver avuto davanti a sé non delle persone bisognose, ma Dio stesso in persona! Nessuno se n’era mai accorto. Sì, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è misterioso, si presenta sempre in incognito, per cui tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato, ignorando chi fosse realmente presente davanti a loro: gli uni, amando le persone, hanno amato Dio in loro, pur non vedendolo; gli altri, rifiutando di amare le persone, hanno rifiutato di amare anche Dio.
Amare Dio, attraverso il prossimo, significa amarlo istintivamente, inconsapevolmente. I santi sono diventati tali proprio perché amando il prossimo amavano Dio, lo amavano senza sapere di amarlo, senza sapere di ottenere per questo dei meriti soprannaturali. Se amiamo qualcuno, sapendo di ereditare le sue ricchezze, in realtà non lo amiamo, lo stiamo solo adoperando per un nostro tornaconto. La stessa cosa succede quando amiamo il prossimo allo scopo di avvicinarci a Dio, per ottenere da Lui dei meriti, delle grazie! Lo amiamo, ponendo però delle condizioni. Ebbene, anche in questo caso noi non amiamo veramente, ma semplicemente “sfruttiamo” l’Amato. L’amore non va strumentalizzato, finalizzato, condizionato: questo mai, in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio: non “dobbiamo” infatti amare il prossimo per compiacere Dio, assolvendo un nostro impegno di cristiani; i fratelli, il nostro prossimo, vanno amati per loro stessi, li dobbiamo sentire nell’anima, ci devono penetrare dentro, devono toccarci il cuore: in una parola dobbiamo amarli come Gesù stesso ci ha insegnato: perché amando loro amiamo Lui.
È una faccenda seria: perché quando, alla fine della nostra breve vita, giungeremo davanti a Cristo, Re dell’universo, dovremo giustificare le nostre scelte, le nostre decisioni, l’esiguità del raccolto che abbiamo prodotto nella nostra vita: con un’unica prospettiva che ci attende: “I maledetti al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna!”. Non abbiamo alternative!
Mettiamo allora da parte la nostra bella “agendina” su cui annotiamo puntigliosamente, in vista del nostro esame finale, le ore di preghiera, le messe, le confessioni, le opere buone, i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; evitiamo di preparare giustificazioni per le nostre deficienze, appuntando scuse e attenuanti semplicemente ridicole e pretestuose.
Dimentichiamo tutti i nostri bei discorsetti politici di autodifesa, perché il Signore ci chiederà solo una cosa: se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì, abbiamo capito bene: l’esame finale sarà incentrato tutto sulla carità: solo che dovremo spalancare per bene, fino in fondo, il nostro “bagaglio” interiore: perché solo così apparirà chiaro se abbiamo lavorato bene, se abbiamo dispensato vero amore, e soprattutto con che “cuore”, con quale dedizione l’abbiamo fatto.
Corriamo pertanto ai ripari finché abbiamo ancora tempo; evitiamo in particolare che la nostra Messa domenicale si esaurisca in Chiesa: non può, non deve avvenire! La nostra celebrazione eucaristica deve continuare fuori, nella quotidianità, nella vita di ogni giorno. Perché solo così il fondersi in noi del reale Corpo di Cristo, e le proposte della sua Parola, potranno trasformarsi in autentici, concreti strumenti di comunione e di amore con Lui e con i fratelli; solo così potremo fare della nostra vita un reale veicolo di carità e amore. Non è certo per quell’ora di Messa settimanale che ci salveremo: ma è nel lavoro, nello studio, a scuola, all’università, nei lavori di casa, in ufficio, per strada, a piedi o in macchina. È qui che dobbiamo portare Dio che, con l’Eucaristia, è diventato noi: perché con Lui ci salveremo; ma solo ad una condizione essenziale: se sapremo trasferire il nostro amore dall’interno all’esterno, dal vicino al lontano, se sapremo cioè trasmettere e amare il volto di Cristo nel volto dell’amico o dello sconosciuto che incontriamo ogni giorno.
Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro per l’incontro finale con Lui: perché se l’avremo amato al meglio delle nostre capacità, diventando trasparenza della sua misericordia, testimoni e portatori credibili del suo amore, verremo sicuramente accolti tra le braccia misericordiose di Cristo, nostro Re, nostro Padre e Signore! Amen.