giovedì 23 novembre 2023

26 Novembre 2023 – XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – CRISTO RE DELL'UNIVERSO


Mt
25, 31-46 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 Con questa domenica si conclude l’anno liturgico, e come meditazione finale, la Chiesa ci propone la visione apocalittica di Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di annullare dalla nostra mente, perché a tutti, inutile negarlo, incute una certa preoccupazione.
Di fronte a tale scenografia restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio tutto miele, dal volto amoroso e compassionevole?
Entrambe sono immagini che appartengono a Gesù, e solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Vediamole nei particolari.
Prima di tutto l’immagine di “Re” attribuita a Cristo: un paragone altisonante, maestoso, che però non ha nulla a che vedere con il Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: perché, in realtà, Egli è sì un Re, ma non un “Re” tradizionale, un battagliero conquistatore, un dominatore, un governatore di popoli. Egli è un Re particolare, che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un Re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi” gli uni gli altri; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che per essere identificato ha bisogno di un cartello, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore.
Dall’altro lato c’è poi la strana immagine di un giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: ma, guarda caso, lo fa anche qui in maniera singolare, perché di fronte lui si presentano proprio quelle sue creature che per salvarle, per riscattarle dal male, Lui stesso le ha talmente amato, da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Cristo Re dell’universo, potrebbe dunque sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi suoi eletti, noi suoi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente il tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero d’amore nascosto nei secoli.
Dire quindi che Cristo è “Re e sovrano” della nostra vita, significa riconoscere che il nostro percorso di vita e di fede ha un senso, solo se fatto in lui, con lui, per lui.
Ecco perché, alla fine dell’anno liturgico, è molto gratificante per noi, ribadire con forza, tutti insieme, come Chiesa, questa nostra certezza, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto Re, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi che lo abbiamo scelto come guida della nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giudice, giusto e inflessibile”; un re che verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto noi stessi gli abbiamo promesso, su quanto noi stessi ci siamo impegnati: in una parola, se siamo stati o meno all’altezza del suo amore, donando anche noi amore agli altri.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato” nessuno; e non lo farà neppure allora. Perché Dio non giudica, Dio si limita a “rivelare”. Dio cioè renderà semplicemente visibile, quello che noi abbiamo tenuto nascosto, i nostri pensieri, i nostri desideri, quello che volutamente abbiamo lasciato nell’ombra, nell’incompiuto. Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà quindi semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la nostra reale situazione, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nessun segreto potrà rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto “apparirà” nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno capirà da solo, senza bisogno di sentenze, se mettersi con gioia alla destra del Re, o con vergogna alla sua sinistra.
Ma in base a quale “codice” verrà valutata la nostra fedeltà? Il vangelo di Matteo elenca in proposito, con una insistenza quasi puntigliosa, una serie di “situazioni”, come nutrire gli affamati, dissetare chi ha sete, accogliere i forestieri, vestire chi è nudo, assistere i malati, visitare i carcerati; situazioni tutte che prevedono “movimento”, che esigono cioè da parte nostra un intervento reale, che non si ferma alle belle parole, ma che è azione, interessamento, preoccupazione. In una parola, significa mettere concretamente a disposizione del prossimo il nostro amore.
È infatti questo il “tesario” su cui alla fine saremo esaminati: non ci verranno richieste grandi azioni, eroiche imprese, perlopiù impossibili, ma piccole cose, una buona parola, una fraterna condivisione, uno slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un vago desiderio, perché “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Questo infatti è l’unico elemento su cui poggia il verdetto finale, lo stare alla destra o alla sinistra del Re: l’aver fatto per i fratelli ogni cosa per Lui, a Lui, con Lui.
Una domanda accorata però sgorga a questo punto da entrambe le schiere di quanti sono in attesa della loro destinazione: “Quando Signore? Quando mai ti abbiamo incontrato?
Già, “quando?”. Nessuno di loro infatti si era mai reso conto della sua presenza nell’altro; nessuno aveva mai capito di aver avuto davanti a sé non delle persone bisognose, ma Dio stesso in persona! Nessuno se n’era mai accorto. Sì, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è misterioso, si presenta sempre in incognito, per cui tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato, ignorando chi fosse realmente presente davanti a loro: gli uni, amando le persone, hanno amato Dio in loro, pur non vedendolo; gli altri, rifiutando di amare le persone, hanno rifiutato di amare anche Dio.
Amare Dio, attraverso il prossimo, significa amarlo istintivamente, inconsapevolmente. I santi sono diventati tali proprio perché amando il prossimo amavano Dio, lo amavano senza sapere di amarlo, senza sapere di ottenere per questo dei meriti soprannaturali. Se amiamo qualcuno, sapendo di ereditare le sue ricchezze, in realtà non lo amiamo, lo stiamo solo adoperando per un nostro tornaconto. La stessa cosa succede quando amiamo il prossimo allo scopo di avvicinarci a Dio, per ottenere da Lui dei meriti, delle grazie! Lo amiamo, ponendo però delle condizioni. Ebbene, anche in questo caso noi non amiamo veramente, ma semplicemente “sfruttiamo” l’Amato. L’amore non va strumentalizzato, finalizzato, condizionato: questo mai, in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio: non “dobbiamo” infatti amare il prossimo per compiacere Dio, assolvendo un nostro impegno di cristiani; i fratelli, il nostro prossimo, vanno amati per loro stessi, li dobbiamo sentire nell’anima, ci devono penetrare dentro, devono toccarci il cuore: in una parola dobbiamo amarli come Gesù stesso ci ha insegnato: perché amando loro amiamo Lui.
È una faccenda seria: perché quando, alla fine della nostra breve vita, giungeremo davanti a Cristo, Re dell’universo, dovremo giustificare le nostre scelte, le nostre decisioni, l’esiguità del raccolto che abbiamo prodotto nella nostra vita: con un’unica prospettiva che ci attende: “I maledetti al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna!”. Non abbiamo alternative!
Mettiamo allora da parte la nostra bella “agendina” su cui annotiamo puntigliosamente, in vista del nostro esame finale, le ore di preghiera, le messe, le confessioni, le opere buone, i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; evitiamo di preparare giustificazioni per le nostre deficienze, appuntando scuse e attenuanti semplicemente ridicole e pretestuose.
Dimentichiamo tutti i nostri bei discorsetti politici di autodifesa, perché il Signore ci chiederà solo una cosa: se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì, abbiamo capito bene: l’esame finale sarà incentrato tutto sulla carità: solo che dovremo spalancare per bene, fino in fondo, il nostro “bagaglio” interiore: perché solo così apparirà chiaro se abbiamo lavorato bene, se abbiamo dispensato vero amore, e soprattutto con che “cuore”, con quale dedizione l’abbiamo fatto.
Corriamo pertanto ai ripari finché abbiamo ancora tempo; evitiamo in particolare che la nostra Messa domenicale si esaurisca in Chiesa: non può, non deve avvenire! La nostra celebrazione eucaristica deve continuare fuori, nella quotidianità, nella vita di ogni giorno. Perché solo così il fondersi in noi del reale Corpo di Cristo, e le proposte della sua Parola, potranno trasformarsi in autentici, concreti strumenti di comunione e di amore con Lui e con i fratelli; solo così potremo fare della nostra vita un reale veicolo di carità e amore. Non è certo per quell’ora di Messa settimanale che ci salveremo: ma è nel lavoro, nello studio, a scuola, all’università, nei lavori di casa, in ufficio, per strada, a piedi o in macchina. È qui che dobbiamo portare Dio che, con l’Eucaristia, è diventato noi: perché con Lui ci salveremo; ma solo ad una condizione essenziale: se sapremo trasferire il nostro amore dall’interno all’esterno, dal vicino al lontano, se sapremo cioè trasmettere e amare il volto di Cristo nel volto dell’amico o dello sconosciuto che incontriamo ogni giorno.
Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro per l’incontro finale con Lui: perché se l’avremo amato al meglio delle nostre capacità, diventando trasparenza della sua misericordia, testimoni e portatori credibili del suo amore, verremo sicuramente accolti tra le braccia misericordiose di Cristo, nostro Re, nostro Padre e Signore! Amen.

 

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