giovedì 31 agosto 2023

03 Settembre 2023 – XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
16,21-27 
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

Ad un certo punto della sua vita Gesù affronta decisamente il suo destino. La sua condotta di vita, troppo aperta, troppo chiara e manifesta, per qualcuno era già diventata pericolosa. Quello che diceva e faceva era troppo provocante, troppo critico nei confronti della gente altolocata, dei ricchi del suo tempo, dei potenti, che di sicuro prima o poi gliel’avrebbero fatta pagare. 
Gesù era “troppo” per tutti, in tutti i sensi: non era l’uomo del compromesso, delle mezze misure, degli accomodamenti, delle vie di mezzo. Il suo parlare era chiaro: “sì sì, no no!”.
Era inevitabile quindi che decidesse di completare la sua missione, affrontando quella che sarebbe stata la tappa conclusiva della sua vita terrena, la sua grande sfida col mondo: andare a Gerusalemme per sacrificarsi sulla croce.
Finché Egli viveva e predicava in Galilea tutto sommato non interferiva più di tanto con i grossi poteri. Ma andando a Gerusalemme si sarebbe scontrato inevitabilmente con gli interessi dei potenti, con le più alte autorità religiose. Prima di tutto con gli anziani: per loro Gesù era troppo infantile, troppo immaturo, troppo sognatore, un romantico idealista. Per il loro cuore di ghiaccio, razionale, rigido, un uomo così era pericoloso; un uomo che si estasiava di fronte al volo degli uccelli in cielo o alla fioritura dei gigli dei campi, un uomo che abbracciava i bambini portandoli come esempio, o che accoglieva e ascoltava donne di qualunque livello, dando loro conforto e comprensione, cosa avrebbe potuto fare di buono? “Che sono queste smancerie? Che sono queste effusioni amorose? Inutile romanticismo, cose da poeti, da visionari, da sognatori”. E fu così che lo condanneranno a morte.
In particolare, si sarebbe scontrato con i sommi sacerdoti: per i loro cuori pieni zeppi di leggi, di tabù, di regole, di prescrizioni, di cose da osservare, Gesù era troppo libero, era un uomo che si credeva in contatto con Dio, uno che gli parlava apertamente. Il Dio che annunciava era poi un Dio troppo presente, un Dio che non incuteva terrore, che si chinava amorevolmente sull’uomo; un Dio troppo progressista, interessato alla liberazione dell’uomo; un Dio amico, vicino, che si preoccupava dei lebbrosi, dei pagani, degli esclusi; un Dio che metteva tutti sullo stesso piano: “ma che Dio è questo? Come si permette quest’uomo di insegnarci chi è Dio? Di Dio bisogna avere paura, bisogna temerlo, obbedirgli, non certo come fa quest’uomo che lo chiama addirittura papà!”. Gesù era per loro una rivoluzione. E fu così che essi pure lo condanneranno a morte.
Infine avrebbe avuto grossi problemi anche con gli scribi: con loro, per i loro cuori arroganti, per il loro orgoglio (loro erano gli unici interpreti della Scrittura, loro sapevano tutto, cos’altro poteva essere annunciato di nuovo?). Gesù era una deflagrazione che sconvolgeva il loro mondo, la loro vita, tutto il loro sistema, il loro credo, le loro interpretazioni bibliche. Gesù era troppo pericoloso: “quest’uomo che parla della Bibbia in un modo totalmente distorto, chi si crede di essere? Non ascolta i padri, non segue la tradizione: come può pretendere di saperne più di noi, noi, gli unici custodi e interpreti della Parola e della tradizione?”. E fu così, infatti, che anch’essi lo condanneranno a morte.
Gesù percepisce l’ostilità che sta montando intorno alla sua persona. Il suo modo di vivere tocca e mette in discussione troppe persone, troppi interessi e troppi cuori. Tutto quello che fa, viene osservato, sezionato; ogni pretesto è buono per metterlo in cattiva luce, per avere da ridire su di lui, per trovare malignità contro di lui, per accusarlo.
È la sorte dei grandi uomini: siccome non li si può attaccare nella verità, li si attacca con le menzogne. Gesù lo sente, conosce tutto questo, lo intuisce; percepisce che si sta organizzando il pretesto per imbavagliarlo, per contenerlo, per metterlo a tacere, per tendergli inganni: Egli sa di essere un uomo scomodo e poiché non sarebbero mai riusciti a imbavagliarlo, a farlo stare zitto, prima o poi avrebbero trovato l’occasione per zittirlo definitivamente, uccidendolo. Come puntualmente avvenne.
Di ciò Gesù avverte anticipatamente i discepoli: “Guardate, mi potrebbero uccidere. Potrebbe capitare: preparatevi. Andare a Gerusalemme sarà molto pericoloso. Ho paura, ma devo andarvi lo stesso; non posso tirarmi indietro, non posso abbandonare la mia missione. Non posso tradire il mio cuore, il mio mandato, il mio Dio, tutto quello che sento e provo. Io devo andare”.
Questo è il messaggio che Gesù si preoccupa di trasmettere ai suoi; ma gli apostoli sono scettici, fanno fatica a credere, ad accettare la cosa. Non può essere. Come si può perseguitare un uomo come Gesù? Come si fa ad odiare un uomo così? Come si può anche solo pensare di togliere la vita ad uno che è in grado di ridare la vita ai morti?
E Pietro, impulsivo come al solito, sbotta improvvisamente: “Signore, questo non ti accadrà mai!”.
Pietro qui fa da maestro a Gesù; i ruoli si capovolgono, gli si “mette davanti”.
Il vangelo dice che “trasse in disparte” un Gesù, deciso più che mai di seguire la sua strada, di compiere fino in fondo la sua missione. Pietro vorrebbe distoglierlo da questi propositi, cerca di “trarlo” fuori, lontano dalla sua determinazione.
Ma Gesù, che poco prima gli aveva detto “Tu sei la pietra su cui fonderò la mia chiesa”, lo redarguisce, gli risponde severamente: “Lungi da me, satana”; letteralmente: “Dietro di me, satana”. Che, in altre parole, significa: “Io vado dove devo andare: non distrarmi; non cercare di intralciarmi il passo, togliti da mezzo, mettiti dietro a me!”.
E qui c’è un primo importante messaggio proprio per noi, per la nostra vita: dobbiamo cioè rimanere sempre fedeli alla “chiamata” di Dio: mai fermarci, mai lasciarci fuorviare! Non permettiamo mai che il satana di turno ci ostacoli nel compiere il bene: egli, infatti, cercherà sempre di pararsi davanti a noi, ma noi dobbiamo tenerlo dietro, non ci deve infastidire, non deve pretendere di guidarci, di portarci dove vuole lui: siamo noi che decidiamo dove andare, come andare, quando andare.
Ma chi è questo Satana, sempre pronto a mettersi di traverso sul nostro cammino? Qui, come abbiamo visto, è Pietro, l’amico di Gesù. Sicuramente Pietro non voleva fargli del male, pretendeva solo di fargli cambiare idea, che si ricredesse su quanto aveva loro prospettato, e lo faceva proprio perché lo amava.
Nel nostro caso Satana è lo “spirito del male”: anch’egli si materializza sempre molto amichevolmente, non indossa mai le vesti del nemico che ci odia, del demonio terrificante con le corna e il tridente, per difenderci dal quale dobbiamo correre dall’esorcista. Si presenta invece proprio come uno che ci vuol bene, come una persona amica che ci sta vicino, che vuole aiutarci: si insinua infatti nei nostri momenti di difficoltà, pretendendo di consigliarci le soluzioni più facili, le scorciatoie più sicure, le strade più “giuste” da seguire: tutte soluzioni che, guarda caso, sono sempre contrarie a quanto ci suggerisce la nostra coscienza; “Satana” rappresenta tutte quelle persone che con la loro posizione, con la loro autorità, con la loro influenza, tentano di gestirci, di manovrarci, di manipolarci; “Satana” è questa nostra società moderna, votata al consumismo, all’edonismo, culturalmente succube di ignoranti nullità che pretendono di decidere per noi cosa dobbiamo pensare, cosa scegliere per vivere, cosa guardare in tv, cosa leggere, condizionando la nostra libera discrezionalità, la nostra autonomia raziocinante.
Ebbene: “Davanti a te nessuno”, ci raccomanda perentoriamente Gesù. Perché accettare che qualcuno si metta “davanti” a noi, si sostituisca a noi, significa accettare di stargli dietro, di approvare cioè ogni sua iniziativa, rinunciando alla nostra libertà di stabilire se percorrere la strada “giusta”, quella che Gesù ha pensato per noi, oppure quella del mondo, destinata alla rovina.
Gesù nella sua vita terrena non fu mai dominato da qualcuno, né tanto meno condizionato da qualche cieca fatalità, ma pur di compiere la sua missione di amore e di risurrezione, affrontò sempre con sguardo fermo, con grande volontà e dignità, il dolore, le sofferenze, e una morte decisamente straziante. Egli conosceva perfettamente ciò a cui andava incontro: sapeva che non era venuto per caso tra gli uomini, ma per indicare loro la via “retta” da seguire per raggiungere la salvezza; non ha dispensato morte, ma solo Vita, gioia, amore, amicizia, libertà.
Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Gesù è sempre chiaro: le sue parole ci portano sempre a pensare “secondo Dio” e non secondo gli uomini.
Rinnegare”, in greco, significa “dire di no, opporsi”: non nel senso che dobbiamo sistematicamente rifiutare tutto, ma nel senso che dobbiamo imporre a noi stessi dei “no” categorici a certe situazioni illusorie di vita, traducendoli in altrettanti “sì” alla Vita.
A che serve all’uomo vivere nei piaceri, conquistare il mondo, se poi perde la sua anima, la sua Vita, sé stesso? A che gli serve indossare una maschera imbellettata e seducente per “recitare” una sceneggiata, oltretutto scadente e inutile, in una esistenza provvisoria, che non gli appartiene? A che gli serve raggiungere tutto il desiderabile, se poi non può goderlo? Se poi non è felice? Se poi improvvisamente perde tutto? Se poi soprattutto perde Dio, l’Amore eterno, la Vita vera? Non è forse da imbecilli, da idioti, da insensati? Sappiamo tutti perfettamente che così non può funzionare: nessuna maschera, nessuna vita materiale, per quanto seducente, nessuna ricchezza, nessun benessere, saranno mai in grado di assicurarci la vera Felicità eterna! Perché se perdiamo la nostra dignità divina, la nostra anima, abbiamo perso tutto! Amen.

 

 

mercoledì 16 agosto 2023

27 Agosto 2023 – XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
16,13-20 
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Il vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore delle persone era infatti stimato in base alle opinioni della gente: più cioè sull’apparire che sull’essere. L'onore del clan, della famiglia, della tribù era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle persone. 
Un metro di giudizio, del resto, che non è molto lontano da quello imposto dalla mentalità di questa nostra società contemporanea super evoluta. Anche oggi, la paura di non essere “valutati”, di non venir considerati dalla gente, è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. È l’indicatore della nostra insicurezza: per questo siamo sempre in affanno, alla continua ricerca di stima, di amore, di amicizie, di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al nostro cuore, il nostro progetto di vita, la nostra vocazione: conta soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente alla loro “forma mentis”; vuole essere in tutto come uno di loro. È quindi naturale che il Maestro si preoccupi di conoscere cosa pensino di lui, della sua missione, della sua predicazione, le folle che lo seguono, in continua crescita, giorno dopo giorno: Egli vuole mettersi in gioco anche su questo. Ovviamente senza per questo rimanere turbato o succube delle loro risposte.
I discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di buono, uno che stava volentieri con le donne, uno che assumeva atteggiamenti scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un "eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci altrettanto diffuse, che loro ovviamente ben conoscevano.
Gesù, del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona insignificante, anonima, senza carismi, uno che lasciava indifferenti; tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere: o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non c’erano alternative.
Gesù, prima di esprimere quella richiesta, aveva già guarito centinaia di persone, aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato il pane per migliaia di persone, aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non gli era servito ad ottenere dalla gente un riconoscimento corale, sincero, onesto.
Che altro avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non nasce da ciò che guardiamo ma da “come” guardiamo. Guardare superficialmente, senza interesse, senza coinvolgimento mentale, non porta automaticamente alla fede: bisogna guardare con passione, con serietà, con onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, non con quelli corporali, ma con quelli dello spirito; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Ecco perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: perché sono il risultato di una visione parziale, superficiale: ciò che dicono di lui è vero, ma non rispecchia la realtà: sono supposizioni, opinioni, ragionamenti, ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi.
Ma Gesù, con le sue domande non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non gli interessa; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui. E quindi corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E qui Pietro, prontamente, si lancia in una risposta che gli sgorga come al solito dal cuore: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!”.
Pietro non è un teologo, non è un filosofo erudito che sentenzia. Pietro è istinto, intuizione, passione. L’idea di Gesù, figlio di Dio, non gli proviene dall’istruzione, non l’ha sviluppata gradualmente con anni di studio: per lui la realtà divina del suo Maestro è l’illuminazione di un istante, un fulmine che gli ha infiammato il cuore. Non è arrivato a comprenderlo tramite sillogismi, calcoli mentali, ragionamenti: ma sotto l’impulso dello Spirito che ha fatto sussultare il suo cuore generoso e innamorato. E Gesù lo conferma chiaramente: “Beato te Simone, perché né la carne, né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”.
Oltre ai discepoli però quella domanda Gesù la rivolge anche a tutti noi, direttamente, singolarmente. E dunque: “Chi è Gesù per noi? Cosa pensiamo di Dio? Che rapporto abbiamo con Lui?
Se la nostra risposta è che sì, Dio lo conosciamo, questo significa anche che lo sentiamo veramente come “nostro Padre”? che ascoltiamo la sua voce che ci parla? Che abbiamo avuto modo di “sentirlo vicino” anche nelle prove tragiche della vita? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai avuto occasione di incontrare? Perché “incontrarlo” significa “cambiare” necessariamente qualcosa nella nostra vita, nel nostro carattere, nella nostra persona! Se siamo sempre gli stessi, allora vuol dire che non l’abbiamo mai incontrato, né mai conosciuto. Anzi, peggio, forse non abbiamo mai “voluto” incontrarlo, conoscerlo, prenderlo in considerazione; per noi insomma, Lui non conta nulla, è un “qualcosa” di irrilevante. Incontrarlo, conoscerlo, significa al contrario lasciarlo entrare nel nostro cuore: è come aprire le porte ad un uragano, lasciarsi investire da un vento impetuoso, irresistibile; è come innamorarsi irrazionalmente, perdutamente, di qualcuno, fare un’esperienza unica che ci sconvolge la vita.
Dio, dal canto suo, ha il cuore spalancato per tutti, aspetta tutti, è disponibile per tutti: è un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare; non è un privilegio per i sapienti, per i santi, per i suoi ministri.
Incontrarlo non è difficile, e appena succede, ce ne accorgiamo subito: sentiamo improvvisamente, istintivamente, la presenza dentro di noi di qualcuno che ci consola, ci suggerisce nuove soluzioni e, prendendoci per mano, ci guida per sentieri che prima ci erano sconosciuti, in una vita completamente nuova, diversa; ci fa capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo perso tempo, abbiamo vegetato, dormito, camminato a vuoto; e ci assicura che, se ci fidiamo di Lui, tutto, anche qualunque dolore o tragedia, acquisterà un valore straordinariamente meritorio.
Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. È questa la Chiesa di Cristo! La Chiesa è Cristo; è il luogo dell'incontro con Lui, dell'esperienza di Dio. Altrimenti perde la sua ragion d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una liturgia, ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o facciamo, i fiumi di parole distratte che pronunciamo, ma solo se “tocchiamo” Dio, se lo “incontriamo” realmente, se Lui ci “tocca” il cuore. Perché andare in chiesa, e non essere “toccati”, non avere la percezione della Sua presenza, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio, non c’è vita!
La Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, deve essere dunque anche per noi il luogo dove ci sentiamo figli di Dio, dove possiamo piangere, sentirci a casa, sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a quello che abbiamo dentro.
Amiamo allora la nostra Chiesa: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di proteggere quel sacro fuoco, quello Spirito che Dio ha posto dentro ciascuno di noi; è la casa dell'anima, di quanto vive nell'anima. È Lei che ci lega a Cristo, che ci rende liberi da tutti i comportamenti devianti, aggressivi, da tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessioni, ecc) che troppo spesso, malauguratamente ci dilaniano l’anima. Se noi rimaniamo legati a Cristo, siamo veramente liberi, sciolti da tutto il resto; se preferiamo rimanere legati al “resto”, perdiamo purtroppo la nostra libertà, la nostra forza, la gioia di sentirci figli amati. Amen. 

 

 

20 Agosto 2023 – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
15,21-28 
In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco una donna Cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita.

Il vangelo racconta di una madre che è in ansia per la sorte della figlia. Gesù ha appena concluso una discussione con i farisei su cosa sia puro o impuro. I farisei ne facevano una questione formale, di regole, di leggi, e Gesù aveva tagliato corto: “Non sono le cose o i comportamenti che sono puri o impuri, è il cuore, è l'intenzione con cui fai le cose che le rende pure o impure”. In altre parole, tradotto per noi cristiani di oggi: “non è frequentando la chiesa che dimostriamo di essere o non essere buoni cristiani”: tutto dipende invece dal perché ci andiamo, dalle nostre intenzioni, dalla nostra fede, dal nostro cuore, da ciò che abbiamo dentro, da ciò che viviamo. 
Un principio che Gesù mette in evidenza anche nei confronti della donna cananea del vangelo di oggi: siamo in territorio pagano, nella zona di Tiro e di Sidone. Lungo la strada Gesù incontra una donna che gli chiede aiuto, ma Egli sembra non accorgersene, non si degna neppure di ascoltarla e continua per la sua strada. Un comportamento strano, decisamente inconsueto per Gesù. Con gli stessi discepoli che gli chiedono di esaudire le richieste della donna, quantomeno per farla smettere di seguirli e di gridare, Gesù usa delle espressioni in deciso contrasto con le sue abitudini. 
Noi ci saremmo senz’altro aspettati che Lui la ascoltasse secondo il suo solito, che accogliesse le sue richieste, che fosse misericordioso anche con lei. Ma Gesù vede le cose con altri occhi rispetto ai nostri: e ce lo fa capire subito, riferendosi al motivo della discussione con i farisei di poco prima: non basta cioè desiderare di cambiare, di uscire da certe situazioni; non sono sufficienti le buone intenzioni. Bisogna essere convinti, consapevoli di ciò che si vuole o non si vuole, essere pronti ad accettare tutte le conseguenze e quindi agire risolutamente di conseguenza. Il desiderio, anche se forte, non basta, non è sufficiente.
Se Gesù avesse esaudito subito questa donna, nessuno avrebbe mai capito se era sincera o meno, se volesse a tutti i costi la guarigione della figlia; se fosse mossa da una fede autentica, in grado di affrontare qualunque contrarietà, qualunque umiliazione, pur di ottenere quello che chiedeva, oppure se si comportasse così, tanto per mettere Gesù alla prova. 
Per questo Egli esaspera la situazione che gli si era presentata: adotta cioè lo stesso modo di ragionare del suo tempo, quella mentalità secondo cui i pagani (e questa donna era pagana) rispetto al popolo ebreo, agli “eletti”, erano considerati una razza inferiore, delle “pecore perdute” estranee quindi ad ogni progetto di salvezza messianica futura.
Partendo da qui, Gesù intende evidenziare la fondamentale novità del suo insegnamento: dopo essersi attenuto, come ebreo, alla mentalità corrente, con i fatti Egli ne dimostra l’assoluta incongruenza. Come se volesse dire: “Sono stato fin qui in linea con le Scritture e le vostre tradizioni: ora però voglio dimostrarvi la novità della mia missione: per me, pagano o ebreo che uno sia, non fa alcuna differenza; tutti meritano la mia stessa attenzione, ma ad una condizione: che le loro azioni e le loro parole siano coerenti con quello che pensano; tutti sono uguali ai miei occhi; ma l’importante, l’essenziale, è che lo spirito con cui essi si rivolgono a me sia sincero, senza secondi fini; perché è il loro retto comportamento, le loro oneste intenzioni, la sincerità dei loro cuori che li rendono graditi ai miei occhi e degni della mia attenzione!”.
Gesù è un uomo libero, assolutamente libero; libero di mettere in discussione la propria tradizione, sia religiosa che sociale: e ne dà immediatamente la prova.
Appena la donna ha superato l’esame sulla sincerità e la “purezza” della sua fede, mediante la precisazione sui “cagnolini” che si accontentano di ricevere anche solo le briciole che cadono dalla tavola degli “eletti”, Gesù cambia improvvisamente atteggiamento: sembra quasi sorpreso, colpito, meravigliato. Come se dicesse: “O donna, mi hai conquistato, non l’avrei mai pensato, non l'avrei mai detto. Mi sono sbagliato sul tuo conto; eccoti accontentata, sia fatto ciò che tu chiedi”. La donna viene capita, esaudita: la figlia è guarita; ancora una volta la misericordia divina ha trionfato.
Possiamo cogliere qui, per inciso, un altro insegnamento: Se c'è da cambiare idea (e qui Gesù dimostra di averla cambiata!), rendendoci conto di aver sbagliato, ebbene, dobbiamo farlo! Non dobbiamo rimanere caparbiamente sulle nostre posizioni, non accettando mai, per principio, la possibilità che le cose, i tempi, le persone, le opinioni possano cambiare. Chi non cambia mai, non va in profondità nelle cose, vive sempre in superficie. Le sue corte radici non lo alimentano, non riesce a cambiare, a crescere, la sua mente muore.
“Morte” infatti vuol dire rigidità, staticità, sepoltura, significa imbalsamare tutto, cose e persone. La vita al contrario è divenire, scorrere, mutazione. Tutto è proiettato nel futuro, “panta rei”, diceva Eraclito, niente rimane sempre uguale. Oggi non è ieri. Crescere è lasciarsi mettere in discussione. Chi cambia si rinnova, è sempre giovane, non si annoierà mai. Chi rimane immobile, sempre lo stesso, è già vecchio in partenza, la sua esistenza sarà atona, scontata, insignificante.
Ma torniamo al personaggio centrale del vangelo, alla donna Cananea, il cui comportamento merita altre considerazioni.
Lei dunque, straziata dalla sofferenza, decide di andare da Gesù perché sua figlia è in preda al demonio. Si sente in ansia, è giustamente preoccupata. Questa donna, non c'è dubbio, ama sua figlia ma l'amore non basta. Deve fare qualcosa di più, deve dimostrare con le parole e con i fatti tutto il suo amore.  
Ma perché, una volta raggiunto, lo implora a gran voce, chiedendo prima di tutto misericordia per sé stessa? “Pietà di me!”, grida. Se è la figlia ad essere invalida, preda del demonio, meritevole di compassione, per quale motivo chiede pietà per sé e non direttamente per la figlia? Forse si sente in colpa perché, esasperata, non riesce più a sopportare le frequenti esplosioni di violenza della figlia? Oppure vuol essere perdonata perché si sente colpevole della situazione, a causa di sue precedenti colpe personali? Non sappiamo: probabilmente la sua richiesta di perdono si spiega proprio con la mentalità di allora, secondo cui le disgrazie, le calamità che colpivano i figli, erano la conseguenza delle colpe, dei “peccati”, commessi dai genitori. Forse la donna, in cuor suo, pensava: “Se e quando Dio perdonerà le mie colpe, mia figlia guarirà, perché essendo io la causa della sua infermità, è giusto che sia il mio pentimento a procurarle la guarigione”.
La donna cananea è determinata, risoluta: e quando Gesù, ignorando la sua richiesta, continua a camminare senza nemmeno voltarsi, invece di desistere, continua a seguirlo, insistendo nell’invocare il suo aiuto.
I discepoli, disturbati dalle sue urla, la guardano infastiditi, con un certo nervosismo. Ma lei non si arrende: e quando finalmente riesce ad avvicinarsi a Gesù, si butta ai suoi piedi e lo implora: “Signore, aiutami!”; ma Lui, di rimando, si rifiuta addirittura di ascoltarla: “Che vuoi tu da me? Tu non appartieni al popolo eletto!"
A questo punto delusione, rabbia, disperazione, avrebbero devastato il cuore di chiunque: chi non si sarebbe sentito umiliato, offeso, da tanta indifferenza?
Ma la cananea irremovibile insiste nella sua azione: lei non teme giudizi, non teme impopolarità, non teme derisioni: anzi risponde con logica prontezza alla spiegazione di Gesù. È una donna gigantesca, battagliera, che non si arrende, perché la sua fede è profonda, convinta, inattaccabile; ed è grazie a questa sua tenacia, a questa sua energia interiore, che alla fine otterrà ciò che chiede: la guarigione della figlia.
Nel Padre Nostro, Gesù ci raccomanda di pregare “Padre, sia fatta la tua volontà!”. Ma di fronte alla grande fede della donna, alla sua singolare perseveranza, Gesù fa un’eccezione: “Donna, sia fatta la tua volontà. Avvenga per te come desideri”.
Un significativo esempio per noi di come, per ottenere, sia necessaria una fede convinta, vitale, dinamica: “chiedere” con fede ardente, è “volere con tutte le forze”, è agire con la certezza di ottenere; significa insomma continuare a credere saldamente fino in fondo, fino all’impossibile, costi quel che costi. Il vangelo di oggi ci offre infatti a questo proposito una fondamentale verità: per Gesù il fatto più importante, la cosa essenziale, determinante, non è tanto “se” crediamo, ma “come” e “quanto” crediamo! Amen.

 

 

giovedì 10 agosto 2023

13 Agosto 2023 – XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 14,22-33
[
Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Il testo del vangelo di oggi segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani. Saziata la folla Gesù, con fare deciso, invita i discepoli a salire su una barca, per allontanarsi proprio da quella folla che, dopo il portentoso miracolo di cui aveva beneficiato, lo considerava sempre di più un “uomo-mito”. 
Gesù sapeva perfettamente quanto fosse pericoloso il consenso generale e il successo, conseguiti oltretutto in un contesto di così grande emozione. Certo, essere importante, essere famosi, ci fa piacere, ci fa sentire qualcuno, ci fa sentire amati, voluti, desiderati.
Ma ─ insegna Gesù ─ bisogna fare attenzione, perché il successo può dare veramente alla testa: si rischia di stravolgere la propria vita, di non vivere più come siamo, o come dovremmo essere, per finire di vivere unicamente condizionati dall’idea fissa di mantenere e accrescere il successo ottenuto, la fama, la gloria.
Per questo, senza frapporre indugi, Gesù ordina ai discepoli di abbandonare la scena: e lui stesso si ritira in un luogo appartato, per pregare in solitudine.
Un particolare che ci suggerisce immediatamente il primo insegnamento: “ritagliatevi del tempo per voi e vivetelo in solitudine; non abbiate paura di restare da soli, di fronte a voi stessi”.
Nella vita assistiamo a due forme di solitudine: una, che è frutto di isolamento, di incapacità di relazionarsi, di dirsi e di aprirsi; una solitudine che è frutto di un carattere difficile, egocentrico, narcisista, di quanti vedono unicamente se stessi al centro dell'universo: una solitudine che si chiama “chiusura”.
Ma c'è anche una solitudine buona, anzi necessaria. È quando l'uomo si mette di fronte a sé stesso, davanti a quello che lui è realmente, a quello che è il mondo, al vero senso della vita, alle sue paure, al suo desiderio di infinito; e questa solitudine è “preghiera”.
L'uomo si perfeziona soltanto in questa solitudine: guardandosi in faccia, negli occhi, scrutandosi nel cuore, sinceramente, senza nascondersi nulla: può essere un’occasione fastidiosa, dolorosa, ma è il momento della verità, del silenzio, del deserto, dello smarrimento; è quando finalmente uno smette di raccontarsi falsità illudendo sé stesso.
Noi in genere amiamo purtroppo la confusione: quella illusoria della televisione o il frastuono assordante di una discoteca, delle piazze o degli stadi; amiamo il caos, le strade affollate, il rumore, la moltitudine di gente.
Di contro, Gesù sceglie la solitudine della montagna, i luoghi solitari, separati, isolati. Una solitudine che Egli ci propone, poiché ci offre solidità, ci permette di non girare a vuoto spiritualmente, ci fa sentire bene con noi stessi. Noi infatti abbiamo paura di fermarci e di guardarci in faccia. Spiritualmente siamo dei bambini, siamo infantili e immaturi; non riusciamo a vivere senza avere qualcuno al nostro fianco, abbiamo un bisogno costante di presenze, di appoggi, di conferme, di lodi e di riconoscimenti. Stiamo insieme ad altri non per amore, ma perché egoisticamente non riusciamo a stare da soli.
La vita è la nostra fragile barca, tutti dobbiamo salirci, tutti dobbiamo prenderne il timone e governarla tra le acque agitate dei nostri problemi, delle nostre paure, di tutti quegli eventi che non siamo in grado di dominare e di controllare.
Anche noi, come i discepoli, di fronte a situazioni ingovernabili, ci sentiamo smarriti come e più di loro: ci sentiamo nella bufera, e per quanto ci impegniamo di remare, di “governare” la nostra barca, ci rendiamo conto che non basta. Sentiamo ad un certo punto di non farcela; sentiamo di non essere più in grado di gestirla, di controllare gli eventi.
Noi vorremmo tenere sempre ogni cosa sotto controllo, avere la vita esclusivamente nelle nostre mani; vorremmo essere sempre noi i vincitori, i dominatori, ma non è così. A volte ci troviamo ad annaspare nel vuoto, le onde ci sovrastano, tutto ci sfugge, ci sembra di affogare, di annegare, di colare a picco.
E cominciamo a piagnucolare: “Dio, non ce la posso fare, è difficile; è impossibile!”, e ricorriamo a Lui pregandolo di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare continuamente a nostra disposizione con i miracoli in mano. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui invece ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo greco “eimì” indica sì un presente, ma anche un passato e insieme un futuro (Cfr. Es 3,14). In altre parole, Lui, nostro Padre, è sempre presente: lo è sempre stato, lo è ora, e lo sarà in futuro.
È una realtà che non appartiene ancora a Pietro: egli non crede che “quel fantasma” che “cammina sul mare” sia il Signore; lo mette alla prova: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. E Pietro va, e senza accorgersi cammina sulle onde in tempesta, riesce a dominarle. È il miracolo del credere, della fede convinta.
Lo stesso succede talvolta anche a noi: se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza necessaria per affrontarle. Noi dobbiamo credere fermamente in questo; la nostra fede deve rimanere sempre ferma, autentica, incrollabile, altrimenti ripetiamo l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui distoglie lo sguardo da Gesù, impaurito dai pericoli che lo circondano, dalla forza del vento e del mare, inesorabilmente affonda, cola a picco. È il dramma della nostra vita: se noi ci concentriamo sul pericolo, sulle difficoltà, sulla sofferenza delle prove, affondiamo; ma se il nostro sguardo è fisso in Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Insieme possiamo affrontare qualunque cosa, fidati di me”.
Ogni mattina, quando ci alziamo, facciamoci il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa mi capiterà oggi, ma io Signore ho fiducia in te!”. E allora con questa convinzione nel cuore, affrontiamo serenamente la nostra giornata. Un piccolo gesto, questo segno della croce, che non deve trasformarsi in un atto scaramantico, superstizioso, ma deve esprimere la nostra assoluta fiducia in Dio, la sola in grado di renderci la vita serena: infatti, fintantoché Lo sentiremo al nostro fianco, i nostri passi non potranno mai vacillare: “Si nobiscum Deus, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rm 8,31). Ecco, è questa la nostra unica certezza! Amen.

 

  

giovedì 3 agosto 2023

06 Agosto 2023 – TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE


Mt 17,1-9
Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Per una più completa comprensione del vangelo di oggi, dobbiamo contestualizzare l’accaduto nel prima e nel dopo temporale e nei suoi riferimenti scritturali. Cos’è che precede questo episodio? Cosa significano le allusioni veterotestamentarie in esso contenute? Cerchiamo di mettere un po' d’ordine.
Gesù, durante il suo peregrinare per le strade della Galilea, con il suo comportamento e i suoi discorsi, fa di tutto per spiegare ai suoi chi egli sia veramente, ma è fatica sprecata. Giunto a Cesarea di Filippo, in terra pagana, per rendersi conto di come la pensano, fa loro una domanda diretta, bruciante; all’inizio si mantiene sul generico: “La gente chi dice che io sia?”. Le risposte evidenziano una confusione totale: chi dice Elia, chi il Battista, chi un profeta. Allora Gesù li prende di petto: “Ma voi chi dite che io sia?” E Simon Pietro prontamente: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,15-16). “Finalmente uno che ha capito chi sono” pensa Gesù; e proseguendo il discorso, li mette al corrente del suo programma: “Sto andando a Gerusalemme per essere condannato a morte”. È la prima volta che Gesù annuncia la sua passione. Tutti rimangono sbalorditi, senza parole: Simon Pietro, ancora infervorato per la sua precedente dichiarazione, non condividendo assolutamente tale prospettiva, trascina Gesù in disparte, e con rabbia gli dice: “Questo non ti accadrà mai! Tu sei il Messia, l’eletto di Dio, noi tutti ti difenderemo e Dio manderà i suoi eserciti in tuo soccorso”. Al che Gesù, altrettanto risoluto: “Stai lontano da me, satana, perché tu mi sei di inciampo; tu non vedi le cose come le vede Dio, ma come le vedono gli uomini” (Mt 16, 21-27).
A questo punto, il racconto si collega con il vangelo di oggi: trascorsi sei giorni dalla discussione, Gesù, resosi conto che i suoi non hanno ancora capito nulla di lui e della sua missione, prende con sé Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni e li porta su un alto monte: prende Pietro, sempre convinto che Gesù sia il Messia politico tanto atteso, e il duo Giacomo e Giovanni, i cosiddetti “boanerghes” (=figli del tuono), che con la loro personalità forte e autoritaria, erano un po’ i leaders dell’intero gruppo. Gesù capisce insomma che è arrivato il momento di correggere la loro mentalità distorta con qualcosa di veramente straordinario che dimostri e imprima indelebilmente nella loro mente la sua autentica condizione divina.
E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,2).
Giunti sulla sommità del monte (individuato come il Tabor), improvvisamente Gesù cambia di aspetto, si trasfigura: il suo è un cambiamento totale, soprannaturale, che Matteo descrive con poche parole, ma dense di significato: “il suo volto brillò”; “brillare” è una prerogativa che la Scrittura riserva solo a Dio: per es. Nm 6,25: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te”; Is 60,1: “La gloria del Signore brilla sopra di te (Gerusalemme), ecc.
Le sue vesti divennero candide”: è anche questa un simbolo della divinità: Ap 3,4-5: “Il vincitore sarà vestito di bianche vesti: lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti agli angeli”; Ap 6,11: “Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida”: sono i vegliardi della porta del cielo, i 144.000 segnati con il sigillo, gli immolati a causa della parola di Dio.
Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia che conversavano con lui”: Mosè ed Elia rappresentavano l’Antico Testamento: Mosè è colui che ha liberato dalla schiavitù il suo popolo, e gli ha dato una Legge “divina”; Elia è il profeta che con “zelo”, ha imposto al popolo l’osservanza di questa legge. Due personaggi che secondo la tradizione non sono morti, ma semplicemente rapiti in cielo.
L’inaspettata e quanto mai gradita apparizione di Mosè, liberatore del popolo ebraico, ridà vigore a Pietro, che “vedeva” in Gesù proprio il redivivo Mosè. Preso quindi dall’entusiasmo, gli grida: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne”. Ma perché proprio tre “capanne” (in greco “skenas”, in latino “tabernacula”)? Per capirlo dobbiamo fare una premessa. Pietro infatti conosceva bene la grande “festa delle capanne”, durante la quale veniva ricordata la liberazione degli ebrei dall’Egitto (Lv 23,42-43): un evento quindi, vivere in capanne, che per Pietro era garanzia per la futura liberazione messianica. Sempre in quest’ottica infatti Pietro nella sua offerta precisa “una per te, una per Mosè, una per Elia”: cioè nella posizione centrale, quella riservata al personaggio più importante, egli non pone Gesù, ma Mosè, essendo ancora convinto che Gesù, suo “alter ego”, avrebbe sicuramente organizzato una nuova liberazione del popolo, sia dalla schiavitù dei Romani che dalle leggi religiose, inique e ingiuste, dei farisei.
A rompere tale illusione patriottica, si verifica un fatto singolare, dal significato emblematico: Mosè ed Elia non rivolgono alcuna parola a Pietro e ai discepoli, li ignorano; essi dialogano esclusivamente con Gesù, come a dimostrazione che essi, cioè la Legge e i Profeti, non hanno più nulla da dire al popolo, se non attraverso le parole di Gesù, unico loro attuale intermediario. Con Gesù si verifica pertanto una netta divisione con tutto il passato: gli interventi di Dio, operati in virtù dell’antica alleanza, vengono aboliti; da quel momento tutto ciò che Egli deve dire, lo dice solo ed esclusivamente attraverso Gesù, suo “figlio prediletto, nel quale si è compiaciuto”.
Un segnale forte, che Pietro e i discepoli recepiscono immediatamente, tant’è che di fronte ad una realtà così improvvisa e rivoluzionaria, “caddero a terra” e furono presi da grande timore: “cadere a terra” è segno infatti di una resa totale, di una completa disfatta (1Sam 17,49): i discepoli infatti si sentono vinti, destabilizzati, perché i loro sogni, le loro speranze di restaurazione politica, le loro certezze messianiche, all’improvviso vengono deluse, infrante, cancellate. Si rendono conto in cuor loro di aver sbagliato: “Abbiamo creduto che tu fossi quel qualcuno che invece non sei!”. Improvvisamente la voce possente di Dio, interrompendo i loro pensieri, con autorità ordina loro: “Ascoltatelo!”; capiscono di essere alla presenza di Dio, e ricordando le parole della Scrittura: “Chi vede Dio faccia a faccia, muore!” (Es 33,20), vengono assaliti dal terrore di perdere, su quel monte, la loro vita.
Gesù però si avvicina a loro, li tocca e li invita ad alzarsi: in pratica cioè ripete lo stesso gesto (toccare e rialzare) e dice le stesse parole (“non abbiate paura”) che usa nelle guarigioni. I tre sono infatti guariti del tutto dalla falsa immagine che si erano fatta di Lui. Si guardano intorno: Mosè ed Elia sono scomparsi, davanti a loro c’è solo Gesù, è rimasto Lui soltanto; ora lo vedono per quello che è veramente; le loro speranze e le loro proiezioni politiche su di Lui, sono finalmente e definitivamente sparite.
Sul Tabor Egli si è manifestato in tutto lo splendore della sua vita divina. Una trasfigurazione soprannaturale che fa da preludio a quella ancor più luminosa, straordinaria e coinvolgente, che avverrà nella sua risurrezione, con la quale ci renderà tutti figli di Dio.
Ma per noi cristiani di oggi, figli di un’era tecnologica esasperata, cosa significa “trasfigurarsi”? Nella nostra vita pratica è mai possibile avere una “trasfigurazione”? Potremo vivere anche noi momenti di così esclusiva spiritualità?
Certamente! Ogni giorno, anche se non ce ne rendiamo conto, noi possiamo sperimentare tali momenti, perché vivere una “trasfigurazione”, significa in sostanza “vedere materializzate” nelle persone, nelle cose, nei fenomeni che ci circondano, quelle nostre emozioni più intime e particolari; quelle che noi normalmente vediamo soltanto attraverso gli occhi del cuore.
In pratica significa quindi sperimentare concretamente momenti celestiali di presenza “divina”, momenti indescrivibili, durante i quali nell’intimità del nostro cuore ci sentiamo rapiti, posseduti, da una felicità incontenibile, da “settimo cielo”. Sono occasioni in cui comprendiamo distintamente, nel profondo dell’anima, cosa significhi amare ed essere amati, godere di una serenità, di una felicità celestiale, che esulano dalle nostre naturali esperienze.
Nella nostra vita, noi facciamo continue esperienze di tali trasfigurazioni: quando ci innamoriamo, quando nel buio di una situazione tragica rivediamo la luce, quando da perduti che eravamo ritroviamo noi stessi, quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante, ha invece un senso e uno scopo ben preciso, per il mondo e per oltre sei miliardi di fratelli.
“Trasfigurazione” è anche, per esempio, la tenerezza che proviamo nell’osservare il volto sereno di un bimbo che dorme tra le braccia della madre, oppure nell’ammirare gli occhi di una donna quando stringe al cuore il figlio appena partorito; o ancora: il senso di beatitudine che ci invade nel contemplare un tramonto estivo sul mare; oppure l’immensità del cielo riflesso negli occhi della persona che amiamo; l’ascolto di un coro di monaci che innalzano le loro lodi a Dio, nel silenzio notturno di un’abbazia. Sono momenti unici, che irrompono nel profondo della nostra anima, momenti che ci fanno capire cosa voglia dire innamorarsi, stupirsi, sentire la presenza di Dio, commuoversi; istanti carichi di intime, intense sensazioni d’amore: in una parola, sono tutti momenti di “trasfigurazione”.
Ovviamente la massima esperienza di trasfigurazione, la più esclusiva e tangibile, noi la viviamo quando ci accostiamo alla Comunione: nell’Eucaristia noi partecipiamo infatti alla più solenne e importante delle trasfigurazioni: una Teofania concreta che Dio ci riserva in maniera privata ed esclusiva. Non è accompagnata dai soliti terremoti, né da nubi, né da lampi, né da tuoni: ma Dio in persona scende comunque in noi, nel nostro cuore, e ci trasforma, ci trasfigura. È il Dio Amore che si lascia sentire, toccare, gustare, mangiare.
“Dio è amore”, dice l’evangelista Giovanni e solo chi sa aprirsi e vivere l’amore, può capire Dio, può vivere con Lui, può trasfigurarsi con Lui, può vivere momenti specialissimi che infondono energia, fiducia, forza, coraggio di andare avanti e di affrontare le difficoltà, le cadute, le crocifissioni della vita.
Sono quei momenti di trasfigurazione speciale in cui, a contatto con l’amore e la grazia di Dio, ci è impossibile non commuoverci, trattenere le lacrime.
Una volta pensavo che commuoversi, piangere, fosse una prerogativa dei deboli. Oggi ho capito che vuol dire essere vivi, presenti, vigili; vuol dire sentire, provare, vedere, capire cosa significa vivere l’amicizia di Dio; vuol dire lasciarsi toccare nell’intimo dal suo amore, lasciarsi colpire da quanto di più bello Egli, creandoci, ci ha messo a disposizione.
E di fronte a tali esperienze di vita, così intime ed esaltanti, sfido chiunque, dotato di fede e di un’anima sensibile, a non provare una sincera commozione. Amen.

  

giovedì 27 luglio 2023

30 Luglio 2023 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 13,44-52
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Il vangelo di oggi parla del Regno dei cieli e per spiegarlo ci presenta tre similitudini: il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo, ad un mercante alla ricerca di perle preziose e infine ad una rete gettata in mare per la pesca. La prima e la seconda sono molto simili, il tema è identico: trovare il Regno dei cieli significa scoprire qualcosa di molto prezioso.
Vediamole più da vicino: l’uomo della prima similitudine, un contadino, mentre sta dissodando un campo, trova sepolto nel terreno un tesoro molto prezioso, un’autentica fortuna: lo nasconde nuovamente, e per impossessarsene vende tutto quello che possiede e compra quel campo.
La seconda allegoria racconta invece di un commerciante alla ricerca di perle preziose. Trovatane una particolarmente splendida, vende tutto pur di comprarla.
Ora, mentre il primo trova il tesoro per pura casualità, il secondo lo trova dopo una lunga e meticolosa ricerca. In ogni caso, entrambi trovano un oggetto di così grande valore, da rendere insignificante quanto già possiedono. Nessun prezzo infatti è adeguato al valore di quel tesoro e di quella perla.
Le due similitudini ci dicono in sostanza che Dio, il “Regno dei cieli”, è un qualcosa di meraviglioso, di incredibile, un qualcosa che non ammette confronti: il suo valore è talmente elevato che per ottenerlo è necessario rinunciare a tutto quanto si possiede.
Ebbene, Dio è questo “tesoro nascosto”: è lo Spirito di Dio che ci inabita fin dal primo istante della nostra esistenza, dal momento in cui il Padre celeste ha “alitato” in noi la Vita.
Se lo scopriamo veramente, se lo sperimentiamo, diventerà poi impossibile abbandonarlo: perché è Lui che ci spinge a diventare noi stessi, ad osare, a realizzarci come persone, a cercare sempre nuove soluzioni per servirlo; Lui ci stima, ci ama e ci fa sentire amati; con Lui ritroviamo la nostra autonomia di vita e di pensiero, diventiamo liberi, vinciamo le paure; è grazie a Lui che sentiamo sprigionarsi dentro di noi il fuoco della vita e dell’amore.
È impossibile fare a meno di Lui, siamo stati creati a sua “immagine”, portiamo impresso dentro di noi il suo indelebile marchio di fabbrica. Quando alla domenica le omelie della messa spiegano cosa deve fare il cristiano per custodire questo “tesoro unico”, sentiamo insistere soprattutto sulla necessità di pregare, di andare in chiesa, di frequentare piamente riti e liturgie; ma Dio non è una preghiera, non è una cerimonia (ancorché sublime), non è una professione di fede; non è un “Credo” o un “Padre nostro” recitati insieme ai presenti, magari pure distrattamente: Dio non è un qualcosa di statico, di immobile, di lontano da noi, in attesa di venire raggiunto dalle nostre svogliate e frettolose “incensazioni” spirituali.
Dio per chi crede è coinvolgimento, è dinamismo, è azione: non è una “scoperta” puramente casuale, come il tesoro nel campo, oppure una gemma rara, cercata e voluta caparbiamente, come la perla preziosa. A Dio non basta un’ora di preghiera al giorno; Dio non vuole che gli dedichiamo “una parte”, ancorché importante, della nostra vita: lui la vuole tutta. Lui vuol fare “alleanza” con noi, vuole “sposarsi” con noi, vuole rapirci, prenderci, assorbirci completamente. Perché ciò che Lui ci offre è amore allo stato puro, è passione che travolge, è necessità di un’altra vita per amarlo come merita. Basta solo un suo sguardo penetrante, amoroso, indulgente, per rapirci, per santificarci.
È infatti esattamente questo che Gesù faceva quando incontrava le persone: non guardava l’esteriore, non la bella presenza, ma l’anima, lo Spirito che le inabitava. È stato così con Maria Maddalena: mentre tutti vedevano in lei una donnaccia, una corrotta, una di malaffare, Lui vedeva il suo valore, la sua potenzialità, la sua dote spirituale, la sua sincerità interiore. E con questo la salvò. Lo stesso fece con Pietro, Matteo e tutti gli altri, gente comune, persone che si sentivano insicure e inadeguate. Ma Gesù le valorizzò, le amò, credette in loro, le trasformò, divenne in loro quel “tesoro nascosto”, quello Spirito che animò e trasformò radicalmente la loro vita.
Lo stesso è successo e succede anche per tutti noi: Dio è sceso in noi con il suo Spirito di vita, è la gemma che ci impreziosisce, è la nostra guida inseparabile, insostituibile; purtroppo, però, quanti si preoccupano oggi veramente di Lui? C’è ancora qualcuno, nella nostra società evoluta, che si renda conto della Sua intima e preziosa presenza? Certo, se siamo continuamente occupati a cercare soldi, sicurezza economica, piaceri, benessere, tranquillità, non potremo mai accorgerci di Lui: basterebbe anche poco per scoprirlo, ma preferiamo lasciarlo solo, nell’indifferenza, nell’abbandono più totale.
Allora, scendendo nel concreto, dovremmo chiederci: “Chi o cosa cerco io nella mia vita?”.
In particolare: “Dove cerco?”. Se pensiamo infatti che la felicità assoluta risieda in qualcuno o in qualcosa “fuori” da noi, il nostro cercare sarà inutile, continueremo cioè a cercare per tutta la vita e non troveremo mai nulla, perché il “tesoro” che dobbiamo cercare non è fuori di noi, ma dentro di noi. Trovarlo, significa appunto riscoprire quell’immagine, quella somiglianza divina che Dio ha impresso in noi fin dalla nostra nascita, significa “ricopiarla”, significa “dimostrarla” all’esterno con la nostra vita: sì, perché il “nostro” tesoro, la perla più preziosa, l’essenza del nostro vivere, è la nostra anima che si specchia costantemente in Dio.
Per questo dobbiamo cambiare metodo di ricerca, per questo la nostra vita deve necessariamente cambiare. Anche se gli altri ci deridono, anche se ci prendono per dei fuori di testa, noi in cuor nostro sappiamo perfettamente chi e cosa cercare.
Anche i due uomini della parabola si comportano da folli, da pazzi, perché, pur di entrare in possesso del “tesoro”, si disfano di ogni loro avere: lasciano il certo per l’incerto, vendono tutto quello che hanno, si spogliano di tutto, pur di ottenere un tesoro di cui ancora non conoscono il valore reale. Cose veramente da pazzi. Ma Dio è per i pazzi, per i folli, perché non ci chiede qualcosa, ma pretende tutto, ci chiede noi stessi. Dio non si accontenta di un nostro coinvolgimento parziale, lo vuole tutto, lo vuole completo.
Ed è vero. Sono molte infatti le situazioni belle, soddisfacenti, che assorbono in maniera molto particolare la nostra vita; fatti che ci cambiano intimamente, in profondità, che ci maturano: come amare e prodigarsi per la propria famiglia, godere della costante presenza di amici sinceri, assistere alla nascita dei propri figli, seguendoli poi nella crescita, nella loro formazione e maturazione: ma “Panta rei”, dicevano i pensatori greci, tutto scorre, tutto passa: anche queste realtà così intime e vitali sono destinate, prima o poi, a “trasformarsi”, ad attenuarsi, a normalizzarsi: la famiglia, gli amici, pur coinvolgendoci profondamente, non rappresentano il “per sempre” divino della nostra esistenza: un semplice fatto tragico, un evento doloroso, possono modificare radicalmente, improvvisamente, la nostra vita, le nostre certezze; i figli stessi si allontaneranno, si staccheranno da noi per seguire la loro vita, i loro ideali.
Ebbene, Dio è molto più di tutte queste cose “transitorie”: più appassionante di un figlio, più disponibile di un amico vero, più impegnativo di qualunque progetto meraviglioso, più indispensabile di quanto riteniamo essenziale per la nostra vita. Il vangelo di oggi ci fa capire appunto che Lui è la “cosa” più bella in assoluto, che viene al primo posto nella scala dei valori, che è il più importante in assoluto perché va oltre i nostri limiti temporali: per Lui non esiste un “termine”, dopo il quale scomparirà lasciandoci soli. Una volta che l’avremo trovato, Egli rimarrà per sempre, per l’eternità, il nostro “tesoro prezioso”, la nostra “perla di inestimabile valore”.
Il Regno dei cieli infine è come quella “rete” gettata in mare per la pesca. Tutti noi, un giorno, saremo chiamati a tirarla fuori per dimostrare ciò che abbiamo “raccolto” nel corso dell’intera nostra vita: a quel punto non servirà più appellarsi a scuse di mare “troppo calmo” o “troppo tempestoso”: quello che abbiamo fatto, è fatto. Quello che conta allora è soltanto l’effettiva qualità del nostro “pescato”: le iniziative positive, le buone azioni, gli atti d’amore che hanno valorizzato la nostra vita. Se nella nostra rete non abbiamo di queste risorse, se cioè in vita non ci siamo preoccupati di mettere dei paletti, non abbiamo saputo controllare il nostro egoismo, il nostro orgoglio, non abbiamo saputo accettare e superare le prove dolorose, esprimere i nostri sentimenti di carità, se non abbiamo creato punti di forza, di ancoraggio, a salvaguardia della nostra fede, non avremo bisogno di condanne, perché capiremo immediatamente da soli il nostro fallimento, e saremo noi stessi che ci consegneremo agli angeli, incaricati di allontanarci dall’Amore eterno. Inutile qualunque recriminazione: dovevamo pensarci prima! Dovevamo “costruire” prima la nostra salvezza, perché il tempo dell’azione è la vita, è l’oggi, è ora: Il nostro benessere futuro, la nostra salvezza, il nostro entrare a far parte del Regno di Dio, dipende solo dall’impegno, dalla costanza, dal sacrificio, dall’amore, che mettiamo nella nostra “pesca” attuale; il suo risultato “miracoloso” dipende quindi da noi, dalle nostre scelte di vita: “a chi ha, sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. Non c’è alternativa: se ci presenteremo con “pesce avariato”, se nulla di buono uscirà dalla nostra “rete”, finiremo gettati “nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.
Non servono corsi di teologia per capire il significato profondo di queste parole. Non le dico io, è Gesù che le dice: e per evitare che qualcuno le equivochi o le traduca in maniera più “buonista”, come tanto volentieri si fa oggi, Gesù chiede di proposito ai suoi discepoli: “Avete compreso tutte queste cose?». Ed essi, umili e convinti, gli rispondono: “Sì”; hanno capito e per loro tutto è chiaro: ma noi, cristiani di oggi, abbiamo veramente capito bene? Amen.

  

giovedì 20 luglio 2023

23 Luglio 2023 – XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
13,24-43 
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”». Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo. Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!»

È la celebre parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è; non sono cioè d’accordo con quanto Egli intende qui insegnare. Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà difficilmente accettabile, una situazione in contrasto con la loro idea di “discepolato”. 
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Durante la notte però il nemico, sempre pronto a colpire, vi semina sopra la “zizzania”, una graminacea altamente tossica, molto simile al frumento, e quindi non riconoscibile fino alla maturazione di entrambi i semi.
Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che gli apostoli non prendano molto bene la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata dagli interventi velenosi del maligno, la loro missione evangelica: perché accettare passivamente tale possibilità? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe meglio metterlo subito in condizione di non nuocere? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) sul nascere, si corre il rischio di estirpare anche il bene (il grano) poiché le radici di entrambi risultano strettamente intrecciate fin dal loro nascere.
Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole, non sta a noi giudicare in partenza chi è buono e chi è cattivo.
Nel libro della Genesi, nel raccontare la creazione del mondo, la Bibbia non dice che “prima” non c’era nulla, ma che c’era il “caos”, l’informe, l’indefinito. Cioè: c’era “un qualcosa”, ma non spiega chiaramente cosa fosse. L’opera di Dio creatore è stata pertanto, prima di tutto, quella di “distinguere” (termine più appropriato del nostro “separare”) le cose: di conferire cioè ad ogni elemento, con il nome, anche le rispettive caratteristiche: così la luce e il buio; le acque e la terra; le acque del mare e le acque del cielo e via dicendo.
Ebbene: questo è esattamente ciò che siamo chiamati a compiere anche noi nella nostra vita: distinguere, discernere, individuare ciò che è bene e ciò che non lo è, per seguire l’uno e combattere l’altro, per tornare ad essere alla fine quelle creature che Dio ha espressamente voluto a sua immagine.
Gesù ci ricorda a questo proposito che nel mondo non ci siamo solo noi, non siamo noi gli unici “lavoratori” impegnati su questa terra; per questo dobbiamo essere molto guardinghi, perché siamo circondati da una quantità infinita di operatori del male. Nella nostra vita, nel nostro piccolo “terreno” privato, per esempio, non siamo gli unici ad occuparci di “semina”, a renderci cioè autonomi nelle nostre scelte esistenziali: prima di noi infatti hanno seminato i nostri genitori, le persone che abbiamo incontrato, gli anni della nostra infanzia con le sue ideologie, le esperienze vissute, le paure, le ansie. La nostra attuale esistenza quindi non è “un nostro prodotto esclusivo”, ma il risultato di numerose concause, dell’intervento di molteplici “seminatori”. Saremmo degli illusi infatti se oggi pretendessimo di presentarci unicamente come “quel grano pregiato”, frutto della semina iniziale del Padrone; perché in realtà siamo il prodotto di un amalgama informe, costituito da condizionamenti, interferenze, intrusioni nefaste (le mode, la televisione, i media, il sociale), con cui necessariamente dobbiamo convivere.
Cosa ci fa capire allora questa parabola? Che chi vive in questo mondo è libero di spargere, su qualunque terreno, ogni seme a suo piacimento: salvo poi ovviamente dover rendere ragione a Dio delle proprie iniziative, se velenose, letali, mortifere.
Noi però, di fronte a tali cattiverie, a queste forme sempre nuove di “zizzania”, dobbiamo comportarci sempre come Gesù ci ha insegnato: con pazienza, con rassegnazione, con grande “carità”; dobbiamo cioè accettare comunque queste “disgrazie”, considerandole addirittura come “dono” di Dio; e non solo: perché sappiamo che di fronte all’odio, alle malignità, alle prepotenze altrui, nostro dovere è di reagire col bene, intensificando le nostre “semine” della Parola di Dio, rendendole ancor più abbondanti e incisive nella loro positività, nella fratellanza, nell’amore.
Ma anche in ciò, non dobbiamo pretendere di essere talmente bravi, da ottenere dal nostro impegno soltanto grano di prima scelta: dobbiamo invece fare sempre i conti con quel mix di sementi negative che, radicate in noi, sono diventate ormai “nostra zizzania”, talvolta anche della peggiore specie. È purtroppo con questa dicotomia di bene e male, fenomeno naturale e inscindibile dell’animo umano, che la nostra semina nei fratelli, le nostre scelte di vita, e infine la nostra personale mietitura finale, devono continuamente fare i conti.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma Gesù: “Fai attenzione, perché se nella pretesa di produrre nel tuo campo soltanto grano superiore, decidi di separarlo dalla zizzania, non ti rimarrà in mano niente di niente. Accettati invece umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse, ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue debolezze”.
Ascoltiamolo allora questo suggerimento di Gesù! Non ostiniamoci a voler strafare; non pretendiamo ad ogni costo una perfezione “assoluta”, al di sopra delle nostre possibilità. Cerchiamo invece di capire bene che il grado di perfezione, al quale Gesù ci ha chiamati, consiste nel concretizzare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che il Padre stesso ha tracciato per noi fin dalla nascita. Un programma adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, dei nostri limiti. Il Signore, infatti, ha ottenuto i migliori risultati proprio con persone nient’affatto perfette: con peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli infatti non teme i nostri errori; Egli “teme” piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo quel ruolo di suoi umili servitori, che rappresenta lo scopo reale della nostra vita.
E concludo: l’uomo “perfettissimo” non esiste; tutti, chi più chi meno, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo anche vittoriosi, ma in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza, la nostra meschinità. Consapevoli di ciò, affrontiamo comunque con decisione e umiltà l’impegnativa scalata alla nostra perfezione, cercando di trasformare le nostre vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio, a beneficio dei nostri fratelli. Amen.