giovedì 16 marzo 2023

19 Marzo 2023 – IV Domenica di Quaresima

Gv 9,1-41 
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. […].

Il motivo di fondo che domina la scena del vangelo del cieco nato, è il “contrasto”: l’opposizione cioè tra luce e tenebre, tra chi vede e chi è cieco. I personaggi coinvolti, come i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, i suoi conoscenti, descritti tutti da Giovanni con abile realismo, sembrano avere tutti altre cose da pensare, altri interessi da seguire, altri problemi da risolvere: il mendicante cieco è solo una delle tante loro preoccupazioni: lui e la sua cecità non meritano una particolare attenzione! Nessuno, infatti, tranne Gesù, “vede” l’uomo; solo Lui comprende gli enormi disagi causati dalla sua infermità, solo Lui si rende conto dei suoi problemi, delle sue esigenze. Tutti, indistintamente, sono assorbiti dalle loro preoccupazioni.
Prendiamo per esempio i discepoli. La loro immediata preoccupazione è: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. La mentalità ebraica di allora era infatti: “Se uno è malato, vuol dire che lui o qualche suo antenato ha peccato”. Quindi per loro il vero problema è: “Chi è il colpevole? Chi ha sbagliato? Chi è il responsabile?”. In pratica sono quelli che in ogni vicenda vogliono individuare il colpevole, la causa, il responsabile; è un modo per sentirsi liberi, per non farsi coinvolgere, per non essere costretti ad intervenire personalmente: “È colpa sua o della sua famiglia; noi non c’entriamo, non ci interessa, non possiamo fargli nulla”.
Così gli amici, i conoscenti, del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui, è quello di prima”; altri “no”; altri “gli assomiglia”. Per la loro mentalità uno non può cambiare: è così e rimarrà per sempre così. Sono quelli, cioè, che etichettano le persone una volta per tutte, che pretendono di sapere tutto di esse, quelli che pretendono di sapere già cosa uno pensa, ciò che dirà, come si comporta.
Ci sono poi i genitori. Povera gente, non abituata a trattare con le autorità: a quel tempo i capi della sinagoga incutevano un vero terrore: una loro scomunica equivaleva alla morte sociale. Essi hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “Ha l’età, parlerà lui di sé stesso”. In altre parole: “Si arrangi; non vogliamo problemi; abbiamo paura di quello che diranno le autorità!”. Sono quelli che si tirano indietro, che non si espongono.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può essere un “Profeta” e operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. Si barricano cioè dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che le cose possono essere molto diverse da come essi le vedono e le predicano. Ciò che li terrorizza, infatti, è soprattutto la prospettiva di doversi ricredere, di dover cambiare il loro atteggiamento sia mentale che emotivo. Quanta gente c’è anche oggi, che per principio nega ogni evidenza: è sufficiente che la verità si discosti minimamente dalle loro convinzioni, per non ammetterla, per non volerla accettare, per combatterla, per travisarla. Pur di risultare credibili, calpestano le più elementari regole della logica, vivono fossilizzati nei loro pregiudizi, nelle loro rabbie, nelle loro paure. Qualunque pacato scambio di opinioni, con loro è impossibile.
Infine, per fortuna, c'è Gesù. Egli è un uomo libero, non è tenuto a giustificare le sue azioni di fronte a nessuno. Libero a tal punto, che arriverà ad accettare di essere addirittura deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, essenza della sua stessa natura divina.
Ecco perché Gesù vuole che la nostra libertà sia come la sua: perché solo imitandolo potremo assomigliargli; solo così potremo anche noi interessarci veramente dei nostri fratelli, riservare loro tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra completa disponibilità, in modo che si sentano a loro volta fratelli stimati, amati, spinti a diventare anch’essi buoni discepoli.
Egli conclude poi il suo discorso con una espressione molto severa, risolutiva, una specie di sentenza finale, che deve farci riflettere seriamente: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato rimane”.
La frase qui ovviamente è riferita al comportamento dei farisei, protagonisti negativi del processo al cieco nato; ma vale anche per l’intera umanità, cristiani compresi. Cosa vuol dire Gesù in particolare? Che la prima condizione per “uscire” dal peccato è di riconoscere umilmente, in coscienza, di essere nel peccato: solo riconoscendoci peccatori, spiritualmente “ciechi”, saremo illuminati da Dio e il nostro peccato verrà perdonato e cancellato. Se al contrario, siamo convinti di “veder bene”, di essere nel giusto, il nostro orgoglio ci pietrifica, ci rende cioè refrattari alla luce divina: per cui il nostro peccato, reso ancor più grave dall’ostinato rifiuto della luce, rimane in noi, non viene perdonato. In altre parole, solo chi si riconosce peccatore può accedere alla misericordia di Dio; chi invece si ritiene superiore, impeccabile, chi si propone come esempio di virtù, chi millanta un’amicizia con Dio che non ha; chi insomma, nella sua stoltezza, è convinto di non avere alcun bisogno di perdono, di mettersi umilmente in discussione davanti a Dio, questi continuerà a vivere nel peccato, lontano dalla misericordia e dall’amore di Dio. E questa è una gran brutta cosa!
Pertanto, parole come “avere gli occhi aperti”, “guardare attentamente”, “vedere la luce”, si riferiscono ad un unico presupposto: “la nostra conversione”; vogliono dire cioè che dobbiamo diventare “figli della luce”, persone che “vedono” bene se la strada che percorrono, conduce effettivamente a Dio; figli che, consapevoli della loro fragilità, non si fermano sulle loro cadute, sui loro fallimenti, ma umilmente si rialzano, e perdonati, riprendono il cammino.
Le parole di Gesù, indirettamente, ci pongono quindi un’altra domanda, altrettanto impegnativa: “Tu che mi chiedi di “vedere”, sei disposto ad accettare e a seguire ciò che vedrai”? In altre parole: “Tu che vuoi conoscermi, sei veramente disponibile a vivere nella mia imitazione? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue false convinzioni, alla tua fede personalizzata, al tuo egoismo, al tuo orgoglio, alla tua sete di onnipotenza? Perché ricordalo: seguire i miei passi non significa “traguardo, riposo, sicurezza”, ma “cammino, fatica, pericolo”.
La parola “Dio”, in sanscrito, vuol dire “luce”: quindi, solo chi vive “collegato” a Lui, in costante contatto con Lui. potrà sperimentare il flusso luminoso della sua Luce divina, la gioia infinita del suo inesauribile amore; solo così potrà superare indenne l’oscurità del percorso, e ammirare finalmente con gli occhi di perdonato, perché amato, il volto del Padre, “così come Egli è”. E questa sarà, per lui, vita eternamente felice. Amen.

 

 

giovedì 9 marzo 2023

12 Marzo 2023 – III Domenica di Quaresima


Gv 4,5-42 
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere! tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. Vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». Molti Samaritani di quella città credettero in lui. E quando giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

La terza domenica di quaresima, con il vangelo sull’incontro di Gesù e la samaritana, la quarta, con la guarigione del cieco nato, e la quinta, con la risurrezione di Lazzaro, erano tre domeniche dedicate alla preparazione dei catecumeni che dovevano ricevere il Battesimo nella notte di Pasqua. È questo il motivo per cui queste tre pericopi sono state scelte da Giovanni, piuttosto che da Matteo, titolare del ciclo liturgico di quest’anno.
Ma perché proprio Giovanni? Perché parlando di Gesù e delle sue catechesi, Giovanni non si accontenta di descriverle in maniera distaccata, impersonale, cronachistica, ma ogni singolo particolare viene trattato in prospettiva teologica, con estrema ricchezza di particolari, di sfumature, di annotazioni psicologiche: sono scene descritte così minuziosamente, da toccare in profondità le corde più sensibili del cuore, favorendo l’interesse e la meditazione del lettore.
Un esempio pratico ci viene proposto oggi stesso, con la prima delle tre pericopi, che descrive, in maniera veramente splendida, il colloquio fra Gesù e la donna samaritana, presso il pozzo di Giacobbe nella località di Sichem (in aramaico Sicar).
I particolari sono noti: siamo nel periodo dell’anno che precede la mietitura, quindi già in estate avanzata. Gesù, stanco per aver camminato a lungo, si ferma a riposare accanto a quell’antico pozzo che la tradizione fa risalire al patriarca Giacobbe. È solo; i suoi discepoli sono andati in città a cercare qualcosa per il pranzo; il caldo è insopportabile, ha una gran sete, ma l’eccessiva profondità del pozzo gli impedisce, senza un adeguato recipiente, di attingere acqua e di bere.
Improvvisamente, caso veramente fortunato data l’ora, si presenta una donna che ha con sé una brocca: una donna, che per aver scelto di andare al pozzo sul mezzogiorno, sotto il solleone, doveva avere qualche motivo particolare: probabilmente per evitare incontri imbarazzanti, o per sottrarsi alle maldicenze sussurrate al suo passaggio dalle altre donne; in città, la sua vita sentimentale particolarmente attiva, era infatti oggetto di critiche pesanti, come pure, molto pesante e insensibile, era diventato il suo cuore, per essersi dissetata fino ad allora soltanto a fonti “inquinate”.
Ed è lì, al pozzo, in quell’ora deserta, che incrocia casualmente quel viandante ebreo, visibilmente stanco e assetato, che attacca bottone, e le chiede da bere.
Lei è guardinga, sospettosa, conosce molto bene le astuzie maschili, e in cuor suo pensa immediatamente che quel tale, con la scusa dell’acqua, voglia semplicemente attaccare bottone per sedurla. Ormai è veramente irritata e stanca di essere considerata da tutti una donna facile: ma ancora non si rende conto che quell’incontro è unico, irripetibile, determinante: si, perché, questa volta, le capita di incontrare non il solito cascamorto di turno, ma lo stesso Amore divino fatto persona: quella persona vera, totale, unica, che in Israele tutti aspettavano da secoli.
Un incontro, dunque, che potremmo definire anche miracoloso, ma che in realtà va contro ogni regola dell’epoca, sia sociale, che religiosa: Gesù, infatti, senza alcuna esitazione, supera le più importanti barriere: quella del sesso (un rabbino, un maestro, non doveva mai rivolgere la parola ad una donna fuori di casa, fosse pure la moglie!); quella della convenienza sociale (parlare al pozzo ad una donna equivaleva corteggiarla, farle delle avances: era addirittura uno scandalo, tant’è che gli stessi discepoli, di ritorno dalla città, vedendolo con una donna “si meravigliavano”); quella infine della razza, della religione (i samaritani erano considerati dei bastardi, nemici tradizionali di Israele in quanto, vivendo in promiscuità con gli assiri, erano considerati “stranieri”, scismatici, impuri).
È chiaro che a Gesù tutto questo non interessa: ha deciso di parlare con quella donna, e lo fa: Egli è così: un uomo al di sopra dei pregiudizi, superiore alla cattiveria umana e ad ogni insensata costrizione morale: ed è proprio per questa sua innegabile superiorità, che risulta particolarmente antipatico proprio alle mentalità bacchettone, ristrette, ottuse.
Il dialogo con la Samaritana è quindi un capolavoro di finezza psicologica, di delicatezza divina: allo straniero che gli chiede umilmente un po' d’acqua da bere, la Samaritana risponde in maniera secca, indisponente: “Come mai un Giudeo si abbassa a chiedere da bere a me che sono samaritana?”; parole comunque sufficienti a Gesù per portare il discorso proprio là dove lui vuole arrivare: far nascere in lei la sete per la sua acqua, l’acqua divina, quella soprannaturale.
Gesù non è nuovo in questo, si comporta così anche con l’umanità intera: quella donna infatti ci assomiglia, si comporta esattamente come noi, ci rappresenta tutti, con le nostre necessità, i nostri problemi, le nostre difficoltà: apparentemente molto disinvolta e sicura di sé, in realtà, nel suo intimo, è anche lei angosciata, insoddisfatta, assetata di novità: sente, come noi, che le manca qualcosa di veramente fondamentale; soffre, come noi, della stessa terribile arsura, di quella sete inconfondibile, di quel bisogno assoluto e profondo di amore, di luce, di pace, di serenità futura.
“Se vuoi essere dissetata – le fa capire Gesù - devi essere onesta con te stessa e con Dio: Egli non ti giudica, non ti condanna, come fanno tutti gli altri; Dio non sarà mai come gli uomini, con Lui non hai alcun esame da superare: devi solo affidarti a lui, consapevole dei tuoi limiti, della tua debolezza, del tuo bisogno di aiuto; per questo, pregalo: sempre, ovunque, continuamente”. La donna però svicola, finge di non capire: “Ma noi abbiamo sempre pregato, sia qui, che nel Tempio sul Garizim…”. La sua risposta è pretestuosa, fatta per prendere tempo: 
sa perfettamente, infatti, che una pubblica peccatrice, non può entrare in alcun Tempio, né in quello di Gerusalemme, né tantomeno in quello dei Samaritani sul Garizim, distrutto ormai già da anni. Il culto religioso ha le sue regole, e lei, come peccatrice, ne è decisamente fuori. Al che Gesù: “Non è necessario, non serve alcun tempio: il tuo cuore è già un tempio; la tua sete di verità, il tuo spirito, ti permettono di entrare già nella gioia. Tu stessa, se vuoi, puoi essere un tempio sacro in cui poter incontrare Dio”. 
La donna tace. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere “sacra”. Mai nessuno l’aveva amata: il suo mondo era diviso in chi la cercava per usarla e umiliarla, e in chi, per questo, la condannava. Nessuno, mai, le aveva detto che Dio l’amava veramente, così com’era, senza condizioni, e che per questo doveva considerarsi fortunata.
Messa di fronte a tale realtà, finalmente capisce; e “beve”: beve avidamente quell’acqua divina che sgorga dalle parole di quello sconosciuto, parole che sanno di bontà, di misericordia, di amore autentico: sapori che per lei fino ad allora erano completamente sconosciuti. Beve, e sente crescere dentro di sé una forza nuova, sconosciuta, impetuosa; sente il suo cuore, oppresso e inaridito dal peccato, spalancarsi sotto l’impeto di un fiume in piena, lo sente frantumarsi, travolto da questo Amore nuovo, sconosciuto, senza limiti. E ne è conquistata. E corre. Abbandona la brocca (che le importa, ora?), e corre; corre dai suoi vicini, dai suoi concittadini, dai suoi parenti e grida: “è arrivato il Messia!”. Improvvisamente, quella che era peccatrice, si trasforma in discepola, la donnaccia diventa missionaria. I suoi limiti umani diventano gloria al Dio senza limiti; la sua vita oscura, opaca, nascosta, diventa splendida epifania del volto di Dio.
Scriveva il filosofo Søren Kierkegaard: “il cuore dell’uomo è una voragine immensa assetata di Infinito”. Ed è vero, perché la sete unica, innata, della creatura è la sete del suo Creatore, dell’Amore infinito di Dio, quella sete congenita che ogni uomo porta inscritta nel proprio cuore, quella sete che egli vuole saziare ad ogni costo.
Purtroppo, però, gli uomini sono creature inaffidabili, preferiscono vagabondare da un pozzo all’altro, illudendosi di eliminare questa sete con cento, mille sorsi di acqua stagnante, putrida, imbevibile: così però non riescono a placare la loro sete; al contrario essa aumenta, diventa una ricerca frenetica di felicità, di bellezza, di consensi umani; una corsa ossessiva, disperante e disperata: ma ciò che ottengono è una crescente insoddisfazione, una nausea dominante, un precipitare inarrestabile nel baratro della noia, della depressione, della disperazione.
Questo, purtroppo, è il deserto rovente e inospitale che il mondo privo di Dio, ha scelto di attraversare: un deserto arido in cui i cristiani, già conoscitori della vera acqua, divorati dalla sete, di fronte a tale arsura reclamano a gran voce dai loro nuovi Mosè: “Dateci da bere! Stiamo morendo di sete!”. Che fine ha fatto quell’acqua limpida e salutare di Dio, quell’acqua che Ezechiele ha visto “sgorgare dal lato destro del Tempio?” (Ez 47,1), quell’acqua con cui l’umanità intera, anche se peccatrice, un tempo poteva dissetarsi a volontà? Dove sono i pozzi della Parola, le cisterne della carità, i torrenti del buon esempio e della coerenza cristiana?”. Tremendo grido di accusa! Tremenda responsabilità! Solo che non si rendono conto che i responsabili di gran parte della tremenda siccità che grava sulla Chiesa, sono anche loro, quelli che si professano cristiani: perché da terreno fertile e accogliente di una volta, si sono trasformati in pietraie aride, steppose, intolleranti a qualunque tentativo di irrigazione e di bonifica. 
Nessuno per questo potrà mai accusare la Sorgente. Anzi, è addirittura inquietante pensare che Dio insista, si affanni, nonostante tutto, a coltivare e ad irrigare quei terreni duri, riarsi, inospitali, che siamo noi, per trasformarci finalmente in fertili frutteti!
È inquietante, ma ciò deve farci meditare seriamente, deve infonderci coraggio, darci quella spinta, quella forza, quella determinazione, con cui riuscire a raggiungere l’unica Sorgente divina, lavare il nostro sudiciume, saziare la nostra sete, e diventare noi stessi dei torrenti, dei canali, dei fiumi impetuosi di Acqua Viva: noi, che siamo stati scelti proprio per essere umili e onesti dispensatori della Grazia e dell’Amore di Cristo nel mondo. Questa è infatti la nostra missione: e dobbiamo affrettarci, perché il tempo a nostra disposizione è breve: il sole della vita ha già superato lo zenit, e il tramonto della sera, annunciatore della notte, è ormai incombente! Amen.

 

giovedì 2 marzo 2023

05 Marzo 2023 – II Domenica di Quaresima


Mt 17,1-9
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

 Oggi il Vangelo ci mette di fronte ad una radicale trasformazione ambientale: mentre domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella tentazione, nella possibilità di fare scelte sbagliate, oggi siamo invece agli antipodi; la scena è dominata dalla gioia, dalla felicità, dal volto luminoso di Gesù. Domenica scorsa la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio. Allora l’angoscia, oggi la festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce splendente. Ad un Gesù troppo umano, che “vive” le tentazioni, si contrappone un Gesù totalmente divino che si trasfigura.
Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, votata ai sacrifici, alla preghiera continua? Dov’è la giusta prospettiva? Ovviamente nell’insegnamento che Gesù vuol darci. Oggi, in particolare, Egli cerca di dare una risposta su ciò che può rendere felice l’uomo su questa terra; ci dà cioè un piccolo assaggio di cielo, di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, di amore e di contemplazione divina. Ci vuol far capire che la quaresima non deve essere tristezza, ma entusiasmo, un cammino di “conversione” fatto con il sorriso e la fiducia. Gesù ci dice insomma, che la vita, attraverso l’amore, può diventare radiosa; ci dice che possiamo gustare il nostro Tabor quotidiano, vivendo un anticipo paradisiaco dell’immenso amore che Dio nutre per ciascuno di noi.
In questo sta la nostra “trasfigurazione”: perché è l’amore che ci consente di vedere Dio, solo l’amore può farcelo conoscere, capire.
Tutti quelli che tengono chiuso il loro cuore, potranno si e no farsi un concetto di Dio, ma non potranno mai “sentirlo, percepirlo”; tutti quelli che sono freddi e incapaci di commuoversi, non potranno mai sentire quanto Lui sia grande; tutti quelli che non sanno abbandonarsi, che non sanno permettersi sentimenti d’amore, continueranno a cercarlo invano.
Infatti, solo gli innamorati veri, quelli che sono persi d’amore, possono apprezzare il sole specchiarsi sul volto della persona amata, ammirare la luce ridente negli occhi di un bambino, l’universo intero che si riflette sul volto rugoso di un vecchio, le stelle, l’universo e tutti i soli che brillano negli occhi di chi ci vuole veramente bene.
Penso che, nella nostra vita, tutti avremo avuto l’occasione di piangere al dolore di una perdita, di commuoverci davanti ad un volto disperato, a scene di altruismo, come pure davanti ad un semplice tramonto, ad un’alba silenziosa: di vivere sensazioni profonde, così intense, da non poter trattenere le lacrime. Una volta pensavo che commuoversi fosse un segno di debolezza, di mancanza di carattere, di virilità. Oggi so che vuol dire invece essere vivi; vuol dire lasciarsi toccare il cuore, vuol dire lasciarsi coinvolgere da ciò che di bello succede intorno a noi; vuol dire non essere impenetrabili, gelidi, indifferenti, impassibili: in una parola, vuol dire “trasfigurarsi” dentro, nel cuore.
Possono essere tanti i momenti della nostra trasfigurazione: momenti in cui ci sentiamo gratificati per essere al mondo, per aver avuto la possibilità di esistere, di amare, di credere; momenti che ci danno energia, coraggio di andare avanti, di affrontare le “discese dal monte”, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza questi sprazzi di felicità, di vita, di infinito, di “Dio”, tutto diventerebbe drammatico, angoscioso, “nero”, inutile da vivere.
Ecco perché dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro, alla vita di invaderci, di viverci, di emozionarci, di rinnovarci. E se questo non succede, dobbiamo preoccuparci seriamente, perché vuol dire che il nostro cuore, insensibile ad ogni emozione, è già morto. “Tabor”, il monte della trasfigurazione, in ebraico significa “ombelico”. La trasfigurazione, allora, per essere veramente tale, richiede un taglio netto di tutti i nostri “cordoni ombelicali”, dei nostri legami col male, delle nostre concessioni al peccato.
Uno solo è il cordone ombelicale che non dobbiamo mai recidere: è quello che ci lega a Dio; un cordone che deve sempre rimanere collegato, perché è il canale attraverso cui Dio trasmette alla nostra anima la sua linfa vitale, al nostro cuore il suo infinito amore.
Soltanto con questo incessante nutrimento, con questo “Tabor” del Dio in noi, potremo affrontare serenamente qualunque “Golgota”, qualunque nostra “passione e crocifissione”. 
Viviamola ogni giorno questa nostra “trasfigurazione”, e gridiamo anche noi a Gesù, con l’umile sincerità di un Pietro completamente estasiato: “Signore, è bello per noi stare qui!”.
Scrolliamoci di dosso le inevitabili brutture di una realtà con cui dobbiamo ogni giorno confrontarci: le orribili e sguaiate trasmissioni televisive, le martellanti proposte di una idiota pubblicità, gli ottusi e vanesi messaggi di una classe politica dimentica di Dio, di una faziosa informazione, supinamente asservita all’egoismo e alla insaziabile fame di profitto delle grandi potenze finanziarie.
Ritagliamoci in questa quaresima più spazi di silenzio, per entrare in sintonia con Dio. Apriamo completamente cuore e orecchi della nostra anima, e nel silenzio profondo “trasfiguriamoci”, ascoltiamo il Figlio che ci parla, ascoltiamo la sua Parola, ascoltiamo noi stessi, il nostro cuore, ascoltiamo ciò che di bello ha da dire il mondo, il creato, l’umanità intera, ogni uomo, ogni nostro fratello. Viviamo, in concreto, l’esperienza sublime del nostro Tabor.
Il mondo ci dirà che siamo matti, degli esaltati: non ci capirà mai! Ma mentre i suoi schiavi continueranno ad agitarsi nell’infelicità, nell’ansia, nell’invidia, nell’odio, noi ci sentiremo felici, gratificati, estasiati, pieni di grazia, di serenità, di amore divino. Amen.  

 

  

giovedì 23 febbraio 2023

26 Febbraio 2023 – I Domenica di Quaresima


Mt 4,1-11
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 Non c’è interruzione nel cammino che ci porta a seguire Cristo. Siamo entrati nel Tempo di Quaresima: tempo di bilanci, di verifiche, di analisi sulla nostra salute spirituale; tempo per pianificare seriamente la nostra “conversione”, la nostra ripartenza, ma soprattutto tempo di far vedere a Dio che siamo persone serie.
È arrivato il momento di gettare le nostre maschere gigionesche, che da anni, troppi, ci portiamo incollate addosso, quelle maschere che ci piace esibire davanti agli altri per sembrare diversi, per essere considerati migliori di quanto in realtà siamo! Quelle maschere che non ci vergogniamo di indossare neppure quando siamo soli, a tu per tu con Dio! Quanto siamo meschini! Eppure puntualmente sentiamo ripeterci: “ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai!”. È vero, siamo solo “polvere”: insignificante e arida polvere del deserto primordiale, che senza il soffio creatore di Dio, sarebbe rimasta senza vita. Senza di Lui, noi continuiamo ad essere ancora quella polvere inutile: perché Dio è l’unico che ci ha destinati all’immortalità, donandoci vita, sogni, speranza.
Purtroppo noi oggi viviamo in un mondo carico di odio, di lotte, di continue controversie e sopraffazioni sia a livello sociale, che culturale e religioso. L’unico motivo della nostra vita sembra essere quello di emergere, di imporci, di vincere sempre e comunque. Eppure Gesù, con la sua vita, ci ha insegnato il contrario. Egli non è venuto per dimostrare ad ogni costo a sua potenza. Non è venuto per vincere battaglie; si è calato nei nostri deserti quotidiani, nelle nostre fragilità umane fatte di fame, di stanchezza, di dolore, per dimostrarci che non siamo soli e soprattutto che non dobbiamo perdere la speranza.
Gesù è entrato in questo nostro deserto solo per amore, per rendercelo vivibile, sopportabile: è entrato, e continua a restarci, rimanendo al nostro fianco, con noi, come uno di noi.
Nel Vangelo di oggi, con il suo ritirarsi nel deserto in preghiera e in silenzio, Egli vuol ricordarci che la strada dell’amore, della felicità, della certezza, da lui tracciata, è l’unica percorribile, l’unica in grado di liberarci dalle striscianti e ambigue illusioni di un mondo tentatore. Ci insegna anche come dobbiamo combattere le tentazioni del maligno. Ma che fine hanno fatto oggi le tentazioni? Qualcuno parla ancora di tentazioni? In una società in cui tutto è permesso, tutto è abbordabile, tutto attuabile (“desideri qualcosa? prenditela!”), che senso ha parlare di tentazioni?
Eppure il cammino verso la Pasqua, passa proprio di lì: quelle che Gesù vive e combatte in prima persona, sono infatti le nostre tentazioni, le nostre grandi illusioni, i grandi inganni della nostra vita: quelli che forse non conosciamo ancora abbastanza, quelli che non vogliamo conoscere, di cui neghiamo l’esistenza ma che purtroppo ci sono, e continuano infidamente ad ostacolarci il cammino, a farcelo deviare.
Non illudiamoci: tutti nella vita sono costretti a fare continuamente delle scelte: diceva Sartre, che “l’uomo libero, l’uomo che vuol esercitare la sua libertà, è condannato a scegliere”.
Sappiamo infatti quanto sia difficile gestire questo inestimabile dono che è la libertà. Richiede maturità, convinzione, risolutezza. Tutte qualità che l’uomo moderno mette continuamente in discussione non accettando neppure l’idea di poter peccare: il peccato, l’offesa a Dio, grave o leggera che sia, è l’ultima delle sue preoccupazioni.
Ebbene, in questo deserto della quaresima, dobbiamo tornare all’essenziale; dobbiamo fare chiarezza su chi, o su che cosa, guidi la nostra vita, e soprattutto dove intende portarci; dobbiamo renderci conto degli errori che facciamo, soprattutto quando insistiamo sempre negli stessi; quando ci ostiniamo a fare scelte sbagliate, considerandoci infallibili, come se fossimo altrettanti Dio. Questa quaresima ci metta in guardia su questi limiti; sia un serio invito a fortificare la nostra innata fragilità, a ricoprire la nostra nudità; sia insomma occasione per riconoscere i nostri peccati, per raccoglierli e gettarli tutti nel cuore di Dio, nel fuoco del suo amore misericordioso. Perché solo così, solo in Lui, ci sentiremo veramente beati: non perché perfetti e immacolati, ma perché veramente amati. Amen.


giovedì 16 febbraio 2023

19 Febbraio 2023 – VII Domenica del Tempo Ordinario

 


Mt 5,38-48 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. 
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Capitolo cinque di Matteo: il testo continua ancora a dettare nuove regole comportamentali per il cristiano; Dio vuole che cambiamo mentalità, vuole che la nostra vita ricominci proprio da qui.
Ma allora, che abbiamo fatto in tutti questi anni? Come mai ci sentiamo già dei veri cristiani così come siamo? Che abbiamo fatto di tanto speciale, da sentirci così sicuri, così “santi”, da non preoccuparci più per come in realtà ci sistemiamo le cose a nostro esclusivo vantaggio? 
Si certo, ammiriamo il Vangelo, a nostro modo amiamo anche Gesù, talvolta anche con trasporto: ma poi? Beh, poi abbiamo tanti altri impegni che ci aspettano, tante cose che nessun altro può fare, se non noi: c’è il lavoro, c’è la famiglia, ci sono i figli, ci sono i nipoti; ci sono i parenti, gli amici, i conoscenti, ci sono quelli che rompono in continuazione; poi c’è lo sport, la palestra, la marcia quotidiana; c’è la spesa, la macchina, e perché no? c’è anche finalmente un po’ di relax, di svago, di riposo. Che possiamo fare ancora di più? 
C’è Matteo capitolo cinque: una serie di staffilate secche che ci demoliscono: “Fino ad oggi avete fatto così? Bene: da oggi dovete cambiare: basta pietismo, basta indifferenza, supponenza, superbia, egoismo, basta con furbizie varie. Siate onesti con voi stessi e con gli altri: non perdete tempo a guardare come si comporta la gente; davanti a voi si apre un percorso nuovo, un percorso che vi porterà ad un traguardo unico, chiaro, splendido, fino ad oggi impensabile: Siate santi come il Padre mio”. Allora fermi tutti: a che serve continuare a correre, zigzagando a destra e a manca, senza una vera convinzione, senza alcuna meta sicura, senza alcun risultato utile? La strada giusta è una sola, è quella che ci propone Gesù: sempre in Matteo capitolo cinque: “Beati i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i puri…; sarete beati quando vi insulteranno, quando vi perseguiteranno… Voi siete sale della terra e luce del mondo… Udiste che fu detto: occhio per occhio, dente per dente. Io però vi dico: non opporti al malvagio, anzi se uno ti colpisce la guancia destra, tu porgigli anche l’altra…”. 
Abbiamo capito? altro che il nostro “politically correct”: qui siamo decisamente in un’altra prospettiva! È un crescendo, è una escalation di rinunce, di sacrifici: “Ma Signore, non ti sembra eccessivo quello che pretendi dalle nostre deboli forze? Cosa vuoi esattamente da noi?”. E la solita voce dentro di noi ci ripete implacabile: “Voglio che tu sia santo come il Padre mio!”.
Altro che chiacchiere, amici miei. È arrivato il momento di buttarci veramente tutto alle spalle, di capire che non è più possibile condurre una vita, sì, sicuramente corretta, nel rispetto (un po’ addomesticato) anche dei comandamenti, ma appena appena passabile, se confrontata col vangelo di Matteo cinque!
E poi, di quali comandamenti parliamo? Di quelli cristiani? Ma senza Cristo, senza un vero amore per Lui, anche quelli non servono poi a molto: senza la “carità”, infatti, anche i miracoli perdono il loro smalto divino!
Invece, come cambierebbero le cose se ci mettessimo nella prospettiva di Matteo cinque: come cambieremmo anche noi se ci mettessimo nella determinazione di imitare il Padre! La nostra capacità di amare arriverebbe all’assurdo, all’impensabile, perché solo amando ad imitazione di Dio, arriveremmo a capire cosa significhi sentirci anche noi continuamente amati da Lui!
Cosa aspettiamo, allora, di uscire dalla logica dell'occhio per occhio e dente per dente? Quando diremo basta al do ut des? Quando decideremo di farla finita con la nostra fede anestetizzata?
Prendiamo con coraggio in mano il Vangelo, allunghiamo con decisione il passo sulle orme di Cristo, non facciamoci distrarre dagli specchietti luminosi del mondo, siamo seri!
Non trinceriamoci dietro alla scusa che per imitare Gesù sono necessari eroismi sovrumani!”. Nossignori, nulla di impossibile: dobbiamo soltanto mettere la nostra buona volontà, con umiltà, con sincerità: proviamo, sforziamoci, soprattutto ascoltiamo fedelmente la voce di Dio che abita in noi; lasciamoci guidare, lasciamoci consumare dalla sua presenza, perché con Lui tutto è possibile!
Si: questa è la grandezza di Dio: ha lasciato dentro di noi il suo Spirito; nel nostro cuore, nella nostra anima è presente Gesù in persona; un Gesù che da anni, pazientemente, vuol farci entrare in zucca un fatto elementare: Lui ci ama, ci ama continuamente, ci ha sempre amati. Tutti, uno per uno. E non si dà pace nel vederci andare alla deriva, allo sbando.
A questo punto, non vi sembra che sia arrivato il momento che anche noi dobbiamo fargli un cenno, dimostrargli un minimo di riconoscenza, di autentico amore? che ci costa? Basta anche un piccolo cenno, un primo passo, dimostrandogli con i fatti, che sì, anche noi siamo là, dietro i suoi passi; che finalmente abbiamo capito quanto Egli fa per noi, che lo apprezziamo, che vogliamo in qualche modo ricambiare, che vogliamo goderlo sul serio, per sempre.
Proviamoci, facciamolo questo passo, mettiamoci un po’ di entusiasmo: perché è così che imboccheremo la strada giusta che conduce alla santità: quella strada che ci porta a Dio.
Animo, dunque! Osiamo, buttiamoci con entusiasmo, e voliamo in alto, fin lassù! Amen!

 

 

giovedì 9 febbraio 2023

12 Febbraio 2023 – VI Domenica del Tempo Ordinario


Mt 5,17-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

 Un vangelo all’apparenza contraddittorio quello di oggi. Dapprima Gesù conferma in pieno la validità della Legge antica, e subito dopo si affretta a puntualizzare, a mettere dei paletti, a fare dei “distinguo”. Ma non c’è contraddizione alcuna in ciò, perché Lui stesso lo dichiara apertamente: “sono venuto per dare compimento”, sono venuto cioè a dare alla Legge il suo significato autentico. 
Gesù è molto franco e preciso: ciò che non gli sta bene è l’osservanza della legge divina puramente formale, esteriore: uno stile di vita adottato ormai da tutti. Ad un certo punto sembra spazientirsi e dire: “Basta, così non si può più andare avanti. Il vostro rapporto con Dio non può continuare a basarsi soltanto sulla superficialità, su di una religiosità personalizzata, accomodante, unicamente scenica e rappresentativa; non potete riempirvi la bocca dicendo: Noi siamo ebrei, siamo figli di Abramo, siamo il popolo dell’Alleanza, per poi fare come vi pare. Non potete giustificarvi dicendo che ciò che fate è volontà di Dio, è parola di Dio, quando Dio in realtà non c'entra proprio per nulla: voi non eseguite con il cuore le sue disposizioni, non fate la sua volontà, ma preferite comportarvi falsamente come gli scribi e i farisei, il cui rapporto con la legge è solo maniacale, fittizio, letterale: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”. 
A quei tempi infatti le autorità religiose imponevano a tutti una osservanza scrupolosa e totale di qualunque suggerimento della Bibbia, anche del più piccolo e insignificante: “se la Legge dice così, dovete fare così!”. Gesù invece chiarisce: “Neanche per sogno! Non dovete essere “ottusi”, non dovete preoccuparvi solo di quello che è scritto, ma del perché è scritto; dovete capire cioè cosa Dio vuole realmente da voi, e lo capirete soltanto se le vostre risposte, le vostre azioni, provengono dall’amore che nutrite per Lui, se sono generate e guidate dalla carità, da un totale coinvolgimento della vostra anima, non certo dalla superficialità, dall’ignoranza, obbedendo ciecamente, meccanicamente, senza sapere perché, senza alcuna convinzione.
Purtroppo non solo gli ebrei di allora, ma anche i cristiani di oggi, talvolta ragionano e si comportano con la loro stessa mentalità farisaica. Quante volte anche noi ci nascondiamo dietro tutta una serie di “regole”, di tradizioni fasulle! “Io mi comporto correttamente perché vado in chiesa tutte le domeniche, osservo i comandamenti e i precetti, rispetto il prossimo, faccio elemosine, amo i fratelli, amo il Papa, amo la Chiesa ecc.; per questo mi ritengo un buon cristiano, sono un cristiano in piena regola!”. Ovviamente, dopo la nostra brava esibizione autoreferenziale, ci aspettiamo anche un bel: “Ma che bravo!”
Solo che non siamo “bravi” proprio per niente! Pensiamo, parliamo e ci comportiamo così ad esclusivo compiacimento personale, per sentirci migliori degli altri, più rispettabili, additati come esempio; il nostro è un cristianesimo infantile, meccanico, superficiale, basato su poche nozioni mnemoniche imparate dal catechismo di Pio X: non ci interessa nient’altro, perché così ci sentiamo già in regola, superiori a qualunque altra “interpretazione” pretesca. Così facendo, però, ci qualifichiamo al massimo come scrupolosi, puntuali “esecutori”, ma non certo come “bravi cristiani”: perché nel nostro “fare”, nel nostro “rispettare” la legge di Dio, non c’è l’Amore, non c’è Dio, ci siamo solo “noi”! Amare gli altri solo perché ci viene comandato, equivale a non amare, significa essere vuoti, sterili; significa non aver nulla di “profondo”, di speciale, da donare; significa avere un cuore gelido, arido. Significa insomma accontentarci delle apparenze, rinunciando di donare Vita.
Ecco perché la legge di Gesù è “nuova”, completamente “diversa”: Egli non abolisce l'Antica Alleanza, ma prescrive, nei suoi confronti, un approccio più autentico e profondo. Stabilisce cioè che la sua osservanza non sia più solo esteriore, materiale (sono fedele a Dio perché osservo i suoi precetti) ma diventi interiore, convinta, emozionale (sono fedele a Dio perché lo amo, vivo nel suo amore). Non cancella la legge dei padri antichi, ma rompe definitivamente con quella mentalità che si fermava al “fare”, all’obbedire passivamente, al considerare obbligatorie certe usanze assurde, improponibili già a quei tempi; insomma egli condanna non la legge, ma il suo interpretarla ed eseguirla in maniera falsa, stupida, artificiosa, senza senso.  
Del resto le leggi, come tutte le cose, con il passare del tempo, o si evolvono, si perfezionano, oppure perdono la loro validità. Gesù non dice: “Abramo, Mosè e gli antichi, hanno sbagliato”. Al contrario sono stati tutti molto importanti per il loro tempo; ma oggi noi conosciamo verità che una volta essi ignoravano; oggi noi abbiamo capito che Dio non è solo un giudice inflessibile che puntualmente ci punisce ogni qualvolta sbagliamo; abbiamo capito che Dio non è una realtà esclusiva, riservata a poca gente, ad un singolo popolo, per di più numericamente limitato, ma è il Dio di tutti gli uomini, di tutto il mondo, dell’universo intero; abbiamo capito, soprattutto, che Dio è amore, è misericordia, compassione, tenerezza per tutti, per le donne, per i bambini, per gli esclusi, per i lebbrosi, per i peccatori.
Tutto questo per gli antichi non era ancora chiaro, e quindi non possiamo giudicarli: teniamo soltanto il “buono” e lasciamo ciò che non lo è più.
Non rimaniamo ancorati a semplici regole: le regole sono fatte per l'uomo e non l'uomo per le regole (Mc 2,27). Le regole insegnano a vivere, servono per aiutarci a stare con gli altri, a condividere gli stessi spazi, a raggiungere obiettivi comuni: ma quando si rivelano inservibili per la Vita, quando risultano obsolete, superate, devono essere aggiornate, corrette, sostituite. Solo i valori universali rimangono immutabili, durano per sempre; le regole, servono solo a realizzarli, a metterli in pratica, e quindi vanno sempre adattate, adeguate.
Noi insomma non dobbiamo lasciarci condizionare dalle apparenze, dal “si è fatto sempre così”; dobbiamo scendere in profondità, dobbiamo agire sempre in sintonia con la nostra coscienza. Dobbiamo, come dice Gesù, essere uomini liberi, uomini autentici, schietti, veri. Non dobbiamo cedere ai compromessi, all’ambiguità, all’ipocrisia, alla ricerca esclusiva del nostro “star bene”, costi quel che costi; dobbiamo avere il coraggio di difendere i nostri ideali, i nostri programmi, le nostre azioni; non svendiamo la nostra dignità per inseguire passeggere e inutili ideologie. Anche a costo di andare controcorrente.
Troppe volte, purtroppo, siamo riluttanti ad esporci, a difendere apertamente il nostro pensiero! Troppe volte cerchiamo di sottrarci alle nostre responsabilità! Ebbene, Gesù ci insegna che dobbiamo avere il coraggio di uscire allo scoperto, di parlare francamente, di comportarci da “cristiani”, da uomini e donne di fede: il nostro parlare deve essere sempre e solo “sì, sì; no, no”. Il “politichese”, che oggi va tanto di moda, non fa per noi, è solo ambiguità, inganno: Cristo non si è mai sognato di adottare un espediente così squallido. Mai! Un valido motivo per fare anche noi altrettanto! Amen.

 

  

giovedì 2 febbraio 2023

05 Febbraio 2023 – V Domenica del Tempo Ordinario


Mt 5,13-16  
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

 Dopo aver indicato con le “beatitudini” il difficile passaggio attraverso cui ogni discepolo deve passare per imitarlo fedelmente, rivolto ancora ai suoi Gesù esclama: «Voi siete il sale della terra… Voi siete la luce del mondo!». 
In altre parole: “Voi poveri pescatori che io vi ho scelto per essere pescatori di umanità, voi che mi avete obbedito ciecamente, riconoscendo in me il volto di Dio, voi “siete” il sale che con la vostra testimonianza dà sapore alla vita di quanti incontrate, “siete” quella luce che io chiamandovi ho acceso nel vostro cuore e che voi ora, “siete” chiamati ad accendere nel cuore di quanti porterete alla conversione”.
Anche qui Gesù si esprime con grande affabilità: non dà ordini, non usa imperativi, non dice “voi dovete essere”; ma usa uno stile colloquiale, comunica semplicemente una nuova caratteristica della loro attuale personalità: “voi già ora, accettando di seguire me, siete “sale”, siete già “luce”: qualunque vostra iniziativa infonde sapore e luce in chi vi guarda”.
Essere luce ed essere sale, significa pertanto essere elementi fondamentali per la vita dei fratelli, significa offrire loro significato e speranza, significa aiutarli a rispondere alle grandi domande che tutti si pongono: “Che senso ha la vita? Dove sta andando il mondo?”.
Le parole di Gesù sono sempre ricche di simbolismi: noi per questo dobbiamo approfondirle, dobbiamo capire il significato profondo dei loro riferimenti, per consentire loro di raggiungere il loro scopo. Le similitudini di Gesù hanno sempre infatti la capacità di dire grandi cose sulla vita concreta, con parole semplici, con riferimenti immediatamente comprensibili. Alla fine ci rendiamo conto che non c’è grande distanza tra il mistero del Regno che Gesù vuol farci conoscere, e gli eventi quotidiani, piccoli e grandi, della nostra vita: perché ogni personale conquista, come pure ogni tragedia, possono illuminarci per comprendere il mistero di Dio. Anche nei momenti più bui e difficili. Anche quando ci accorgiamo che la società in cui viviamo, che la Chiesa in cui crediamo, stanno precipitando in un tragico domani.
Inutile ignorarlo, inutile chiudere gli occhi ad ogni costo, fingendo che tutto sia roseo: il dramma mortale di questo nostro tempo è di dover assistere alla progressiva diffusione e normalizzazione di un cristianesimo senza Cristo, una religione senza fede, un culto senza convinzione.
Sono realtà drammatiche che portano ad inevitabili conflittualità interiori: il positivo e naturale desiderio dell'uomo di conoscer il senso autentico del suo vivere e del suo morire, è messo purtroppo in seria difficoltà, dall’incombente prospettiva di una insanabile sconfitta della civiltà cristiana, di una caparbia negazione del trascendente, di una insensata indifferenza ai valori umani e religiosi.
In questo momento drammatico della storia, il mondo, nonostante il suo delirio, attende comunque, ancorché inconsciamente, una risposta chiara e concreta, un'indicazione, una testimonianza che dia speranza e ragioni per continuare a vivere.
Ebbene, in tale contesto, essere luce e sale per i fratelli, diventa la missione primaria del nostro professarci cristiani; un compito che sicuramente ci spaventa, soprattutto se guardiamo alla nostra debolezza, alle nostre infedeltà, che troppo spesso ci privano proprio di luce e sale, rendendoci opachi, pieni di ombre, assolutamente insipidi.
Si, perché essere luce del mondo e sale della terra, significa donarsi ai fratelli in modo totale, costante, convinto. Equivale a dimostrare che il nostro cristianesimo non è affatto sterile e passivo, ma al contrario dinamico, entusiasta, intraprendente: è insomma una vita vissuta in Cristo, impregnata di gioia, di luce, di significato, di esultanza.
Una cosa impegnativa, sicuramente, ma non impossibile: grazie a Dio, la storia è piena di questi esempi: ci sono infatti, anche oggi, innumerevoli persone che, per la loro carità, per il loro altruismo senza limiti, meritano la nostra ammirazione, la nostra stima più sincera: sono sacerdoti, religiosi, uomini e donne consacrati, laici, che vivono in costante e disinteressato servizio per gli altri. Sono persone, dirigenti, insegnanti, assistenti, operai, che troviamo puntualmente negli ospedali, nelle case, nelle scuole, nell'industria, dovunque è richiesta una parola, un gesto di conforto. Persone normalissime, con mille difetti e limiti personali, ma che riflettono senza limiti la luce della carità e dell’amore di Dio.
Ecco: di fronte a queste nascoste realtà, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo cogliere e fare nostro quanto di buono e di bello c'è davvero nel mondo: dobbiamo essere consapevoli che, proprio per la presenza del male che insidia il cuore umano, noi tutti siamo chiamati a testimoniare e a portare Dio nel mondo, trasmettendo a tutti la luce e il calore del suo amore.
Ognuno allora deve chiedersi: sono io sale e luce per i fratelli, per le persone che vivono accanto a me? La mia vita è realmente un dono? Mi rendo conto che la mia vocazione di cristiano è dare amore e che, quando non amo, rimango nell'oscurità, nella tristezza, nell’intimo sconforto? Perché un grande pericolo ci insidia da sempre: un nemico multiforme ben radicato e nascosto dentro di noi, sotto nomi diversi: “egoismo, individualismo, orgoglio, indifferenza, disinteresse, insensibilità”. Ogni giorno, ogni minuto che per egoismo, pigrizia, disinteresse, passa senza alcuna iniziativa da parte nostra, è un giorno perso, un'occasione mancata; al contrario, ogni nostro passo spinto dalla carità, ogni atto che facciamo con amore, è un dono incalcolabile per tutti i fratelli, perché rivela al mondo intero un riflesso del volto di Dio.
Che significato avrebbe infatti essere “luce”, accendere, illuminare la nostra vita con l’amore divino e poi nasconderci sotto il “moggio” del disinteresse, dell’indifferenza, del non far nulla? Una lampada accesa va messa in alto, su un candelabro, perché la sua luce rischiari il cammino di tutti. Ecco perché, davanti alla prospettiva mondiale di un totale black out di Dio, dobbiamo prendere in mano la situazione, dobbiamo chiedere al Signore di rendere più luminosa la “nostra” luce, per contribuire nel nostro piccolo, con sempre maggior vigore, con nuovo entusiasmo, ad allontanare l’oscurità che incombe sull'umanità.
Comportandoci come? Semplicemente, umilmente, da autentici cristiani: i santi infatti ci hanno insegnato che sono le buone opere dei credenti, animate dalla preghiera e dall’amore, che assicurano l’efficacia della Luce divina nel mondo: è quindi la nostra vita, il nostro gestirla con fede e carità, il nostro vivere il Vangelo in modo convinto e coerente, che alimentano quella nostra piccola ma luminosa luce, grazie alla quale tutti, se vogliono, possono camminare più agevolmente sulla strada che li porta a Dio.
Gesù non ci chiede di fondare associazioni religiose, gruppi di preghiera, di promuovere spettacoli e pellegrinaggi spirituali; non ci chiede di scrivere libri di spiritualità, di moderare dibattiti televisivi sull’esistenza di Dio; ci chiede soltanto di mettere in pratica con semplicità le sue “beatitudini”, di testimoniare il suo Vangelo con la nostra vita, fedelmente, ma umilmente.
Non sono i fiumi di parole, ma soltanto le nostre azioni concrete, animate dalla “luce” splendente di Dio, che possono raggiungere il cuore dei fratelli, e suggerire loro: “Amico mio, guarda che anche tu sei luce, sei anima, sei Spirito di Dio; anche tu sei emozione, energia, fuoco; anche tu, se vuoi, puoi essere Luce per il mondo, puoi essere calore, puoi essere gusto: perché anche tu appartieni a quel Tutto che è Dio, quel Tutto, che già risplende dentro di te, che già riscalda il tuo cuore”.
Ecco, questo solo Dio si aspetta da noi e dalla società in cui viviamo: perché fino a quando gli uomini esigono di camminare senza la sua “luce”, fino a quando pretendono di vivere senza neppur conoscere il “sapore” del suo “amore”, per questo mondo non c’è alcuna possibilità di salvezza! Amen.