Gv 9,1-41
In quel tempo, Gesù passando, vide
un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha
peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui
ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di
Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è
giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo,
sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la
saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella
piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci
vedeva. […].
Il motivo di fondo che domina
la scena del vangelo del cieco nato, è il “contrasto”: l’opposizione
cioè tra luce e tenebre, tra chi vede e chi è cieco. I personaggi coinvolti,
come i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, i suoi conoscenti, descritti
tutti da Giovanni con abile realismo, sembrano avere tutti altre cose da
pensare, altri interessi da seguire, altri problemi da risolvere: il mendicante
cieco è solo una delle tante loro preoccupazioni: lui e la sua cecità non
meritano una particolare attenzione! Nessuno, infatti, tranne Gesù, “vede”
l’uomo; solo Lui comprende gli enormi disagi causati dalla sua infermità, solo
Lui si rende conto dei suoi problemi, delle sue esigenze. Tutti,
indistintamente, sono assorbiti dalle loro preoccupazioni.
Prendiamo per esempio i
discepoli. La loro immediata preoccupazione è: “Chi ha peccato? Lui o i suoi
genitori”. La mentalità ebraica di allora era infatti: “Se uno è malato, vuol
dire che lui o qualche suo antenato ha peccato”. Quindi per loro il vero
problema è: “Chi è il colpevole? Chi ha sbagliato? Chi è il responsabile?”. In
pratica sono quelli che in ogni vicenda vogliono individuare il colpevole, la
causa, il responsabile; è un modo per sentirsi liberi, per non farsi
coinvolgere, per non essere costretti ad intervenire personalmente: “È colpa
sua o della sua famiglia; noi non c’entriamo, non ci interessa, non possiamo
fargli nulla”.
Così gli amici, i conoscenti, del cieco. Alcuni
dicono: “Sì, è lui, è quello di prima”; altri “no”; altri “gli assomiglia”. Per
la loro mentalità uno non può cambiare: è così e rimarrà per sempre così. Sono
quelli, cioè, che etichettano le persone una volta per tutte, che pretendono di
sapere tutto di esse, quelli che pretendono di sapere già cosa uno pensa, ciò
che dirà, come si comporta.
Ci sono poi i genitori. Povera gente, non abituata a
trattare con le autorità: a quel tempo i capi della sinagoga incutevano un vero
terrore: una loro scomunica equivaleva alla morte sociale. Essi hanno paura,
cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “Ha l’età, parlerà lui di
sé stesso”. In altre parole: “Si arrangi; non vogliamo problemi; abbiamo paura
di quello che diranno le autorità!”. Sono quelli che si tirano indietro, che
non si espongono.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono
semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano:
“Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di
Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con
la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può essere un
“Profeta” e operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. Si
barricano cioè dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere
che le cose possono essere molto diverse da come essi le vedono e le predicano.
Ciò che li terrorizza, infatti, è soprattutto la prospettiva di doversi
ricredere, di dover cambiare il loro atteggiamento sia mentale che emotivo.
Quanta gente c’è anche oggi, che per principio nega ogni evidenza: è
sufficiente che la verità si discosti minimamente dalle loro convinzioni, per
non ammetterla, per non volerla accettare, per combatterla, per travisarla. Pur
di risultare credibili, calpestano le più elementari regole della logica,
vivono fossilizzati nei loro pregiudizi, nelle loro rabbie, nelle loro paure.
Qualunque pacato scambio di opinioni, con loro è impossibile.
Infine, per fortuna, c'è
Gesù. Egli è un uomo libero, non è tenuto a giustificare le sue azioni di
fronte a nessuno. Libero a tal punto, che arriverà ad accettare di essere
addirittura deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità,
essenza della sua stessa natura divina.
Ecco perché Gesù vuole che la
nostra libertà sia come la sua: perché solo imitandolo potremo assomigliargli;
solo così potremo anche noi interessarci veramente dei nostri fratelli,
riservare loro tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra completa
disponibilità, in modo che si sentano a loro volta fratelli stimati, amati, spinti
a diventare anch’essi buoni discepoli.
Egli conclude poi il suo
discorso con una espressione molto severa, risolutiva, una specie di sentenza
finale, che deve farci riflettere seriamente: “Se foste ciechi, non avreste
alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato
rimane”.
La frase qui ovviamente è
riferita al comportamento dei farisei, protagonisti negativi del processo al
cieco nato; ma vale anche per l’intera umanità, cristiani compresi. Cosa vuol
dire Gesù in particolare? Che la prima condizione per “uscire” dal peccato è di
riconoscere umilmente, in coscienza, di essere nel peccato: solo riconoscendoci
peccatori, spiritualmente “ciechi”, saremo illuminati da Dio e il nostro
peccato verrà perdonato e cancellato. Se al contrario, siamo convinti di “veder
bene”, di essere nel giusto, il nostro orgoglio ci pietrifica, ci rende cioè
refrattari alla luce divina: per cui il nostro peccato, reso ancor più grave
dall’ostinato rifiuto della luce, rimane in noi, non viene perdonato. In altre
parole, solo chi si riconosce peccatore può accedere alla misericordia di Dio;
chi invece si ritiene superiore, impeccabile, chi si propone come esempio di
virtù, chi millanta un’amicizia con Dio che non ha; chi insomma, nella sua
stoltezza, è convinto di non avere alcun bisogno di perdono, di mettersi
umilmente in discussione davanti a Dio, questi continuerà a vivere nel peccato,
lontano dalla misericordia e dall’amore di Dio. E questa è una gran brutta
cosa!
Pertanto, parole come “avere
gli occhi aperti”, “guardare attentamente”, “vedere la luce”,
si riferiscono ad un unico presupposto: “la nostra conversione”;
vogliono dire cioè che dobbiamo diventare “figli della luce”, persone che
“vedono” bene se la strada che percorrono, conduce effettivamente a Dio; figli
che, consapevoli della loro fragilità, non si fermano sulle loro cadute, sui
loro fallimenti, ma umilmente si rialzano, e perdonati, riprendono il cammino.
Le parole di Gesù,
indirettamente, ci pongono quindi un’altra domanda, altrettanto impegnativa:
“Tu che mi chiedi di “vedere”, sei disposto ad accettare e a seguire ciò che vedrai”?
In altre parole: “Tu che vuoi conoscermi, sei veramente disponibile a vivere
nella mia imitazione? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di
Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue
idee, alle tue false convinzioni, alla tua fede personalizzata, al tuo egoismo,
al tuo orgoglio, alla tua sete di onnipotenza? Perché ricordalo: seguire i miei
passi non significa “traguardo, riposo, sicurezza”, ma “cammino,
fatica, pericolo”.
La parola “Dio”, in
sanscrito, vuol dire “luce”: quindi, solo chi vive “collegato” a Lui, in
costante contatto con Lui. potrà sperimentare il flusso luminoso della sua Luce
divina, la gioia infinita del suo inesauribile amore; solo così potrà superare
indenne l’oscurità del percorso, e ammirare finalmente con gli occhi di
perdonato, perché amato, il volto del Padre, “così come Egli è”. E
questa sarà, per lui, vita eternamente felice. Amen.
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