giovedì 16 marzo 2023

19 Marzo 2023 – IV Domenica di Quaresima

Gv 9,1-41 
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. […].

Il motivo di fondo che domina la scena del vangelo del cieco nato, è il “contrasto”: l’opposizione cioè tra luce e tenebre, tra chi vede e chi è cieco. I personaggi coinvolti, come i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, i suoi conoscenti, descritti tutti da Giovanni con abile realismo, sembrano avere tutti altre cose da pensare, altri interessi da seguire, altri problemi da risolvere: il mendicante cieco è solo una delle tante loro preoccupazioni: lui e la sua cecità non meritano una particolare attenzione! Nessuno, infatti, tranne Gesù, “vede” l’uomo; solo Lui comprende gli enormi disagi causati dalla sua infermità, solo Lui si rende conto dei suoi problemi, delle sue esigenze. Tutti, indistintamente, sono assorbiti dalle loro preoccupazioni.
Prendiamo per esempio i discepoli. La loro immediata preoccupazione è: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. La mentalità ebraica di allora era infatti: “Se uno è malato, vuol dire che lui o qualche suo antenato ha peccato”. Quindi per loro il vero problema è: “Chi è il colpevole? Chi ha sbagliato? Chi è il responsabile?”. In pratica sono quelli che in ogni vicenda vogliono individuare il colpevole, la causa, il responsabile; è un modo per sentirsi liberi, per non farsi coinvolgere, per non essere costretti ad intervenire personalmente: “È colpa sua o della sua famiglia; noi non c’entriamo, non ci interessa, non possiamo fargli nulla”.
Così gli amici, i conoscenti, del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui, è quello di prima”; altri “no”; altri “gli assomiglia”. Per la loro mentalità uno non può cambiare: è così e rimarrà per sempre così. Sono quelli, cioè, che etichettano le persone una volta per tutte, che pretendono di sapere tutto di esse, quelli che pretendono di sapere già cosa uno pensa, ciò che dirà, come si comporta.
Ci sono poi i genitori. Povera gente, non abituata a trattare con le autorità: a quel tempo i capi della sinagoga incutevano un vero terrore: una loro scomunica equivaleva alla morte sociale. Essi hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “Ha l’età, parlerà lui di sé stesso”. In altre parole: “Si arrangi; non vogliamo problemi; abbiamo paura di quello che diranno le autorità!”. Sono quelli che si tirano indietro, che non si espongono.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può essere un “Profeta” e operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. Si barricano cioè dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che le cose possono essere molto diverse da come essi le vedono e le predicano. Ciò che li terrorizza, infatti, è soprattutto la prospettiva di doversi ricredere, di dover cambiare il loro atteggiamento sia mentale che emotivo. Quanta gente c’è anche oggi, che per principio nega ogni evidenza: è sufficiente che la verità si discosti minimamente dalle loro convinzioni, per non ammetterla, per non volerla accettare, per combatterla, per travisarla. Pur di risultare credibili, calpestano le più elementari regole della logica, vivono fossilizzati nei loro pregiudizi, nelle loro rabbie, nelle loro paure. Qualunque pacato scambio di opinioni, con loro è impossibile.
Infine, per fortuna, c'è Gesù. Egli è un uomo libero, non è tenuto a giustificare le sue azioni di fronte a nessuno. Libero a tal punto, che arriverà ad accettare di essere addirittura deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, essenza della sua stessa natura divina.
Ecco perché Gesù vuole che la nostra libertà sia come la sua: perché solo imitandolo potremo assomigliargli; solo così potremo anche noi interessarci veramente dei nostri fratelli, riservare loro tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra completa disponibilità, in modo che si sentano a loro volta fratelli stimati, amati, spinti a diventare anch’essi buoni discepoli.
Egli conclude poi il suo discorso con una espressione molto severa, risolutiva, una specie di sentenza finale, che deve farci riflettere seriamente: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato rimane”.
La frase qui ovviamente è riferita al comportamento dei farisei, protagonisti negativi del processo al cieco nato; ma vale anche per l’intera umanità, cristiani compresi. Cosa vuol dire Gesù in particolare? Che la prima condizione per “uscire” dal peccato è di riconoscere umilmente, in coscienza, di essere nel peccato: solo riconoscendoci peccatori, spiritualmente “ciechi”, saremo illuminati da Dio e il nostro peccato verrà perdonato e cancellato. Se al contrario, siamo convinti di “veder bene”, di essere nel giusto, il nostro orgoglio ci pietrifica, ci rende cioè refrattari alla luce divina: per cui il nostro peccato, reso ancor più grave dall’ostinato rifiuto della luce, rimane in noi, non viene perdonato. In altre parole, solo chi si riconosce peccatore può accedere alla misericordia di Dio; chi invece si ritiene superiore, impeccabile, chi si propone come esempio di virtù, chi millanta un’amicizia con Dio che non ha; chi insomma, nella sua stoltezza, è convinto di non avere alcun bisogno di perdono, di mettersi umilmente in discussione davanti a Dio, questi continuerà a vivere nel peccato, lontano dalla misericordia e dall’amore di Dio. E questa è una gran brutta cosa!
Pertanto, parole come “avere gli occhi aperti”, “guardare attentamente”, “vedere la luce”, si riferiscono ad un unico presupposto: “la nostra conversione”; vogliono dire cioè che dobbiamo diventare “figli della luce”, persone che “vedono” bene se la strada che percorrono, conduce effettivamente a Dio; figli che, consapevoli della loro fragilità, non si fermano sulle loro cadute, sui loro fallimenti, ma umilmente si rialzano, e perdonati, riprendono il cammino.
Le parole di Gesù, indirettamente, ci pongono quindi un’altra domanda, altrettanto impegnativa: “Tu che mi chiedi di “vedere”, sei disposto ad accettare e a seguire ciò che vedrai”? In altre parole: “Tu che vuoi conoscermi, sei veramente disponibile a vivere nella mia imitazione? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue false convinzioni, alla tua fede personalizzata, al tuo egoismo, al tuo orgoglio, alla tua sete di onnipotenza? Perché ricordalo: seguire i miei passi non significa “traguardo, riposo, sicurezza”, ma “cammino, fatica, pericolo”.
La parola “Dio”, in sanscrito, vuol dire “luce”: quindi, solo chi vive “collegato” a Lui, in costante contatto con Lui. potrà sperimentare il flusso luminoso della sua Luce divina, la gioia infinita del suo inesauribile amore; solo così potrà superare indenne l’oscurità del percorso, e ammirare finalmente con gli occhi di perdonato, perché amato, il volto del Padre, “così come Egli è”. E questa sarà, per lui, vita eternamente felice. Amen.

 

 

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