venerdì 27 maggio 2022

29 Maggio 2022 – Ascensione del Signore


Lc 24, 46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

 

Oggi la liturgia pone alla nostra attenzione gli ultimi momenti di Gesù su questa terra: dopo essersi accomiatato dai discepoli, li benedice, si distacca dalla terra e sale verso il cielo; sono questi i pochi particolari con cui Luca ci racconta, nell’ultima pagina del suo Vangelo, e nella prima degli Atti degli Apostoli, l’evento dell’ascensione.

Sono in tutto quattro versetti nei quali, in estrema sintesi, egli intende dirci: “Gesù è asceso al cielo: da questo momento egli non c'è più; ora al suo posto ci siete voi. Quindi voi, viri Galilaei, uomini di Galilea, e voi cristiani di oggi, voi chiesa, “quid statis aspicientes in coelum? Che state lì a fissare il cielo imbambolati? non continuate a guardare in alto con le mani in mano; datevi da fare! Lui non c'è più, va bene; ma ha lasciato voi a continuare la sua opera! Nei tre anni passati insieme, non si è certo risparmiato nell’insegnarvi cosa dovete fare”.

Ed è proprio così: Gesù ci ha lasciato, è tornato in cielo. Ma noi siamo qui, e qui c’è la sua Chiesa. Tocca ora a noi, a me, a voi, e non “agli altri”, trovare la giusta soluzione ai problemi della vita, come faceva Lui quando percorreva le strade della Palestina.

Non continuiamo a perder tempo chiedendoci per chi suona la campana: la campana suona per noi. Punto. È ora di muoverci. Soprattutto non dobbiamo aver alcun timore, perché non siamo soli: come già gli apostoli, anche noi abbiamo sempre Gesù nel cuore, dentro di noi.

Quando Luca dice che gli apostoli “stavano sempre nel tempio lodando Dio”, non intendeva dire che giorno e notte essi se ne stessero rintanati nel tempio: “stare nel tempio” vuol dire semplicemente “rimanere in contatto con Lui”, vuol dire desiderarlo, cercarlo, sentirlo, ascoltarlo, amarlo: e ciò ovunque siamo, dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo.

Anche Gesù ha passato l’intera sua vita terrena “rinchiuso” nel tempio, dall'inizio alla fine. Non perché anche lui fosse sempre lì. Ma perché era in continuo contatto con il Padre; lo sentiva, gli parlava. Del resto, per quanto ci riguarda, possiamo anche essere materialmente in chiesa, ma non per questo siamo nel “tempio” di Dio, in unione con Lui; come pure possiamo trovarci in qualunque angolo di questo mondo, e continuare ad essere in contatto con Lui, essere nel suo tempio. L’essenziale è rimanere sempre in stretto contatto con Lui.

Purtroppo gran parte della gente ha perso oggi qualunque collegamento con Dio, è “sconnessa”: è sempre di corsa, lavora, è occupata in mille faccende, in mille iniziative, fa sport, va in palestra, si diverte, ride, canta; fa di tutto, e non è mai in “casa”: è sempre altrove, non è mai veramente presente a sé stessa; è sempre lontana, distante. Perduta nel frastuono di una vita delirante, non sente, è sorda a qualunque richiamo del Dio della Vita. In una parola è completamente “scollegata” da Lui. Noi viviamo nell’illusione di onnipotenza, ci illudiamo di essere completamente autonomi, di poter fare tutto da soli: a noi, per il nostro vivere, Dio non serve.

Ma è qui che ci sbagliamo; nulla di ciò che ci riguarda accade per caso, lontano dallo sguardo amoroso del Padre. Egli non ci lascia mai soli: ci conosce troppo bene, conosce perfettamente i nostri limiti, le nostre indecisioni, i nostri dubbi, le nostre debolezze; conosce le nostre gioie, le nostre delusioni, le nostre lacrime, i sussulti del nostro cuore; conosce le fatiche, gli ostacoli che dobbiamo superare per continuare a procedere, zoppicando, per la sua strada; come pure conosce la gioia, lo slancio che proviamo dopo ogni scelta positiva; Lui sa... ma che Dio stupendo ci ha rivelato Gesù mentre era quaggiù! E che missione impegnativa ci ha affidato prima di salire al cielo! Sì, un incarico di grande responsabilità, perché ora tocca a noi mantenere presente, rivelare a tutto il mondo questo Volto sublime del Padre.

L'annuncio del Vangelo a tutte le genti, non si è concluso con la missione terrena di Gesù; non è un compito riservato esclusivamente alla sua persona: anzi lui stesso ha detto: “andate e predicate a tutte le genti…”. Quindi, ascoltando i suoi suggerimenti all’interno del nostro tempio, con lo sguardo rivolto a Lui in cielo, dobbiamo imparare a riprogettare questo mondo, dobbiamo impegnarci a modificarlo entro i parametri del suo originale progetto di vita e di amore.

Nello specifico noi, i nuovi discepoli di Gesù, non siamo chiamati a compiere azioni eccezionali, straordinarie, trascurando tutte le cose di quaggiù, per occuparci solo delle cose di lassù; dobbiamo al contrario vedere quelle di lassù continuando la vita di quaggiù, con i piedi ben piantati per terra. In altre parole dobbiamo sì guardare a Gesù in cielo, nella sua gloria, ma dobbiamo anche interessarci degli uomini, nostri fratelli, anch’essi figli di Dio, considerare l'umanità intera come un’unica famiglia, vedere nel domani di ogni persona non la morte, ma una vita gloriosa che durerà per sempre... È questo lo sguardo che l'ascensione del Signore ci sollecita a mantenere nella nostra vita quotidiana. Oggi, guariti dall'amore di Cristo, possiamo finalmente spalancare i nostri occhi alla luce dello Spirito, nonostante siano deboli, sensibili, fragili, bisognosi di tempo, per adattarsi all’intensità, allo splendore della sua luce.

Noi ora contempliamo Gesù vivere nella gloria del cielo: ma lo vediamo anche vivere misterioso qui su questa terra: egli infatti vive con la sua grazia nell'intimo di ogni cristiano; vive nel sacrificio eucaristico; vive nei tabernacoli del mondo, prolungando la sua presenza reale e redentrice; vive nella sua Parola che risuona nell'intimo delle coscienze; vive e si fa presente nei vescovi, nei sacerdoti, nei religiosi, chiamati nominativamente a rappresentarlo davanti agli uomini con le loro parole, con le loro opere, con la loro vita da consacrati.

È una presenza reale che ci conforta, ci consola, ci dà pace, ci motiva. Cristo è rimasto con ciascuno e con tutti noi. La sua è una presenza reale ed efficace, anche se invisibile e impalpabile. Una presenza da amico, da confidente, da padre amoroso e comprensivo, che ascolta i nostri segreti, le nostre intimità, le nostre piccole fragilità quotidiane, con lo stesso amore, con la stessa bontà e misericordia, delle nostre ribellioni interiori, dei nostri sfoghi d'ira, delle nostre lacrime di orgoglio, della nostra disperazione nel dolore e nella sofferenza...

Questa è la consolante realtà: Cristo è rimasto con noi, al nostro fianco. È rimasto con noi per salvarci, per aiutarci con il suo Spirito, a costruire dentro di noi l'uomo interiore, l'uomo nuovo, la sua “copia” vivente: perché noi siamo chiamati ad essere i "Gesù" di oggi: è questa la nostra missione: è questo il bello della nostra vita. Un compito che non deve essere un peso, ma un onore, una gioia unica: perché è la nostra possibilità di essere i “sosia” di Gesù Risorto, di poter portare il suo Volto in tutte le strade del mondo, al pari dei suoi primi dodici discepoli. Amen.

 

 

giovedì 19 maggio 2022

22 Maggio 2022 – VI Domenica di Pasqua


Gv 14,23-29

In quel tempo, Gesù disse: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

  

Gesù nella lunga catechesi tenuta ai discepoli durante l’ultima cena, dopo aver rivelato il tradimento da parte di Giuda, affronta il tema altrettanto spinoso della sua prossima partenza; cerca di preparare i discepoli a questo distacco, per loro sicuramente traumatico; vedendo il loro profondo turbamento, cerca di addolcire le sue parole: “Vi lascio la pace... Il vostro cuore non sia turbato, non abbia timore!”. È una preoccupazione paterna, la sua: cerca in qualche modo di rincuorarli, di infondere loro serenità, sicurezza: “Tranquilli, amici miei, voi ora siete addolorati, in ansia, ma vi assicuro che non sarete mai soli: dopo la separazione, la vostra sofferenza si tramuterà in una gioia indescrivibile, perché capirete che io sono ancora realmente con voi: sentirete la mia presenza in un modo completamente nuovo, la sentirete dentro di voi, e questo vi consolerà, vi darà forza”. Egli sa cosa significherà per loro affrontare da soli la paura, la delusione, la solitudine; per questo, nel consolarli, assicura la sua costante presenza in loro con il suo Spirito, che li seguirà, passo dopo passo, verso quelle nuove esperienze di vita.

Parole confortanti quelle di Gesù; parole di sicuro effetto; parole che i discepoli sentono dettate dal cuore: Gesù li ama, e l’amore vero trova sempre il modo per infondere forza, consolazione, nuovo vigore, nuovi propositi. Capita anche a noi, a volte, di dover consolare chi si trova in difficoltà, chi si trova a vivere momenti di smarrimento e di dolore; anche noi pronunciamo le nostre belle parole, ma ci accorgiamo che esse difficilmente raggiungono il cuore delle persone: scivolano via, non trasmettono una vera condivisione, non sono convincenti, rivelano una semplice cortesia: questo perché non apriamo veramente il nostro cuore, non ci immedesimiamo nello sconforto della persona; in questi casi, sarebbe preferibile stare in silenzio, senza parlare, senza dire nulla; sarebbe molto meglio far “sentire” semplicemente la nostra presenza, far capire che ci siamo, che comprendiamo, che condividiamo, che possono quindi contare su di noi. Consolare” infatti deriva dal latino “cum-solus”, significa cioè stare con chi è solo; affiancarsi a lui, silenziosamente, fraternamente, senza alcun invadente esibizionismo. L’importante è assicurargli la nostra presenza, la nostra sincera compartecipazione, una condivisione attenta, ma soprattutto discreta. Sappiamo che le difficoltà, le sofferenze, le delusioni, le separazioni, sono nella vita le nostre compagne di viaggio: nessuno può mai pensare di esserne esente. In tal caso però consolare non significa banalizzare l’accaduto, tanto meno appellarsi alla fatalità del destino, comportandoci come se non fosse successo nulla: consolare vuol dire soprattutto, e in ogni caso, dimostrare amore al fratello provato, aiutarlo a superare il suo particolare momento di debolezza, di smarrimento.

È infatti proprio così che si comporta qui Gesù con i discepoli: un Gesù che capisce, che consola, che ama: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Ecco: è la pace, la “sua” pace, che Egli dona: è lo stesso identico dono che Egli offrirà da risorto, nella sua prima apparizione nel cenacolo: perché la pace di Dio è serenità dell’anima, una serenità profonda, salda, irremovibile, che permette all’uomo di affrontare ogni sua paura: la paura del futuro, la paura delle malattie, della sofferenza, della morte, la paura di non essere amati. Un cuore in “pace” è un cuore saldo, forte, risoluto, che non si spaventa nelle avversità, non si dispera nel dolore, non si scoraggia nella fatica; un cuore in “pace”, riesce sempre a scoprire la presenza di Dio nella propria vita, riesce sempre a percepire la grandezza, la bellezza, l’amore del suo Signore: Lo incontra con gioia, perché si sente riconosciuto, si sente amato, si sente una cosa preziosa per Lui; un cuore in “pace”, capisce tutto questo, e con grande fiducia può esclamare: “io ti amo, o mio Dio, Tu mi ami: con Te, posso cambiare il mondo!”.

“Se uno mi ama osserverà la mia parola”. Che vuol dire qui Gesù con “osservare”? Il verbo greco “terèo” significa “custodire, guardare, aver cura, conservare, stare in guardia”; e quindi: “se uno mi ama, conserverà, custodirà la mia parola”; ne avrà cura, la guarderà attentamente; si comporta cioè come un pastore innamorato delle sue pecore: le ama perché rappresentano la sua unica ricchezza, le guarda, non le perde mai di vista, ne ha grande cura, le sorveglia dagli attacchi dei lupi e dei predatori.

Pertanto, “osservare”, qui non va inteso come “obbedire, mettere in atto, eseguire” le sue parole, i suoi comandamenti: in realtà è come se Gesù dicesse ai suoi: “Avete scoperto una verità? Avete trovato in me qualcosa che vi riscalda il cuore? Avete trovato nelle mie parole il cibo per la vostra anima? Avete scoperto in me la forza trainante per la vostra vita? Non perdete, non scartate questi doni! Custoditeli, abbiatene cura. Se mi amate, conservateli tutti nel vostro cuore, come se fossero un tesoro prezioso”.

È chiaro, ovviamente, che questa raccomandazione di Gesù vale anche per tutti noi: se amiamo il Signore, dobbiamo custodire sempre vivi nel nostro cuore i suoi insegnamenti, dobbiamo cioè conservare il suo vangelo come una guida infallibile per tutta la nostra vita: non dobbiamo perderlo mai di vista, perché è il nostro nutrimento fondamentale: mai farci distrarre dal mondo, mai utilizzare cibi avariati, ma dobbiamo essere sempre molto selettivi: “di cosa sento veramente il bisogno? Quale cibo può estinguere la mia “fame”? Cosa mi sazia, cosa mi fa sentire vivo?”. La nostra anima esige un trattamento esclusivo, non si accontenta di ciò che le passa davanti; vuole il suo nutrimento, il suo cibo; per cui una volta che l’abbiamo individuato, una volta che abbiamo capito dallo Spirito ciò che per lei è vitale, indispensabile per la sua sopravvivenza, dobbiamo conservarlo molto attentamente, dobbiamo custodirlo con amore, fare di tutto perché non si deteriori.

Oggi purtroppo il mondo non ci offre alcun aiuto in questo senso: l’unico “cibo” che ci offre in abbondanza è quello di ottenere il massimo piacere materiale dalle persone e dalle cose, di godere, di inebriarsi, in ogni singolo momento di questa vita precaria, instabile, fuggevole. I suoi massimi traguardi sono soltanto illusioni ossessive che avvelenano la vita. Se guardiamo a tutto ciò che ci viene proposto, ci confondiamo. Il rischio, se coinvolti, è di rimanere feriti, oltraggiati nell’anima, spogliati di ogni nostra dignità. Ecco perché ogni tanto è necessario fermarci, isolarci dalla confusione, dal chiasso, entrare in noi stessi, rinchiuderci nell’anima, pregare, chiarirci: per poi ripartire, riprendendo decisi la direzione e l’unico scopo valido del nostro andare.

Non abbandoniamoci alle maree della stupidità mediatica oggi imperante: non barattiamo la preziosità unica, inimitabile, della nostra anima con l’inutile e fatua chincaglieria che ci viene proposta in saldo. Seguiamo fedelmente le intuizioni suggerite dallo Spirito di Dio: non sottovalutiamole, non perdiamole, ma custodiamole con ogni cura! Non dimentichiamo mai ciò che appassiona, che fa vivere la nostra anima. Perché diventare sordi alle sue necessità, significa farla morire di inedia.

Conserviamo nel cuore soltanto ciò che sappiamo essere buono, sano, corretto, spiritualmente utile: l’amicizia di persone che rappresentano per noi dei “porti” di salvezza, delle ancore di salvataggio, dei veri salvagente nel pericolo; conserviamo i “nostri” incontri, le nostre esperienze positive, quelle che ci ricaricano, che ci danno forza ed energia per andare avanti, che sono sangue e linfa dell'anima; conserviamo quelle parole, quei richiami, quei discorsi che ci hanno scosso, che sono rimbombati dentro l’anima; perché tutto ciò è dono, tutto ciò è protezione e aiuto, tutto ciò è amore di Dio. Allora capiremo l’importanza di avere sempre in noi il suo Spirito, il Consolatore perfetto, la Luce del cuore, l’Ospite dolce dell’anima: allora capiremo la verità profonda e consolante delle parole di Gesù: “Io e mio Padre verremo da te e ci fermeremo ad abitare dentro di te”; una bellissima, incomparabile prospettiva trinitaria: Dio che non sta in cielo, che non sta tra le pareti ovattate di una chiesa, ma che vive, con il Figlio e tutto il suo amore, nel nostro cuore.

Ecco perché il messaggio del vangelo di oggi ci rimanda prepotentemente dentro di noi: perché è solo là che conserviamo tutta la nostra ricchezza, tutta la nostra bellezza: è da lì che attingiamo la nostra forza, il nostro entusiasmo, la nostra determinazione, il nostro essere fedeli discepoli di Cristo. È lì, nel nostro cuore, che risiede il nostro propulsore, il centro di comando da dove parte lo smistamento all’esterno, a favore dei fratelli, di tutto quel surplus d’amore che Dio genera in noi: e se all’esterno qualcosa di noi non convince, vuol dire che all’interno qualcosa non funziona a dovere: qualche “contatto” determinante si è ossidato, interrompendo la meravigliosa erogazione dell’amore divino. Urge allora una chiamata d’urgenza allo Spirito per un suo pronto intervento risolutore. Amen

 

  

giovedì 12 maggio 2022

15 Maggio 2022 – V Domenica di Pasqua

Gv 13,31-35

Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri»

Per comprendere bene il vangelo di oggi dobbiamo leggerlo nel suo contesto originale, altrimenti i riferimenti e il significato delle parole sfuggirebbero alla nostra attenzione. Il testo infatti inizia con “Quando fu uscito…”: ma a chi si riferisce? Chi è la persona che, una volta uscita, costringe Gesù a dare delle spiegazioni ai presenti su quanto è avvenuto e su quello che succederà dopo? Che significa che Gesù ora si sente “glorificato”? per che cosa? Cerchiamo di dare un senso a questi interrogativi.

La scena si svolge all’interno del cenacolo, durante l’ultima cena: Gesù ha appena finito di lavare i piedi ai dodici, e sta raccomandando ai presenti di seguire il suo esempio, mettendosi a servizio degli ultimi, di chi ne ha maggior bisogno. È un momento di grande intimità: egli sta impartendo le ultime raccomandazioni, sta consegnando loro il suo testamento spirituale: è serio, parla a voce bassa, confidenzialmente, lascia emergere dal cuore tutta l’amarezza e l’inquietudine per il suo grande sacrificio ormai vicino; improvvisamente tace; poi, proseguendo con voce rotta dall’emozione, rivela un particolare tremendo: “Uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21)Ne segue un silenzio glaciale. I dodici si guardano l’un l’altro: “Uno di noi? Impossibile! Noi siamo tutti con te!”. In loro domina lo sgomento, il dramma, la costernazione, ma si insinua anche il dubbio. Hanno bisogno di chiarimenti, e gli chiedono increduli: “Ma Signore, chi mai può essere?”. E Gesù: “È colui per il quale inzupperò il boccone, e glielo offrirò”A quel tempo, nei banchetti importanti, c’era l’usanza che il padrone di casa offrisse il primo boccone all’ospite d’onore, in segno di deferenza e di stima. È l’estremo gesto d’amore e di riguardo di Gesù nei confronti di Giuda il traditore, nel tentativo di distoglierlo dal suo insano proposito. Ha già provato in tutti i modi, gli ha dimostrato tutta la sua amicizia, la sua disponibilità, il suo cuore generoso. Ma ogni suo sforzo non è servito a nulla: Giuda rifiuterà ogni cosa, ed uscirà dal cenacolo perdendosi nelle tenebre della notte.

Non appena Giuda è uscito dal cenacolo - e qui inizia il nostro vangelo - Gesù offre dunque ai suoi una spiegazione: ma lo fa con parole ermetiche, di difficile interpretazione: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. A cosa mai si riferisce Gesù esclamando che “ora”, cioè in quel preciso momento è stato glorificato, quando in realtà Giuda, sbattendo la porta, è appena uscito col proposito di tradirlo, e Lui sa che la sua fine è ormai imminente? Perché parlare proprio ora di “gloria”, di “glorificazione”? Certo deve essere una “gloria” che gli sta molto a cuore, se Giovanni nel riferire le sue parole, in due soli versetti, ripete insistentemente per ben cinque volte lo stesso verbo “glorificare”. 

Per cercare di capirne il motivo, dobbiamo ricorrere al linguaggio biblico, che molto spesso dà alle parole un significato diverso dal nostro: infatti i termini “gloria”, “glorificare” (dal greco “doxa”, "dokèo"), contrariamente al nostro lodare, esaltare, celebrare, acquistano in Giovanni il significato di “rivelare, dimostrare, far vedere”Per cui Gesù, consapevole del fatto che tra poco sarebbe iniziata la sua ora, dichiarando ai discepoli di sentirsi “glorificato”, vuole far capire loro che il rifiuto di Giuda non è altro che l’inizio di quel programma di amore immenso e di estremo sacrificio, che il Padre gli aveva richiesto, per il riscatto dell’umanità peccatrice. Gesù quindi, accettando il suo sacrificio, “glorifica” dimostra, rivela al mondo intero il suo amore di Figlio per il Padre, e nello stesso tempo l’amore del Padre per l’umanità intera: un comune, smisurato amore per gli uomini, che verrà sacrificato sul patibolo della croce per la loro salvezza. L’elemento portante, dunque, di questo “inno di gloria”, di questa “rivelazione” del piano di Dio in Gesù, è dunque l’amore.

Un sentimento determinante, fondamentale, che ci offre la chiave interpretativa di questo vangelo, che in ultima analisi, ci mette concretamente di fronte alle nostre responsabilità: in pratica ci fa capire che come ha fatto Gesù, anche noi cristiani dobbiamo “glorificare” Dio; dobbiamo cioè “dimostrare” di essere suoi discepoli, dobbiamo rendere evidente la sua presenza nella nostra vita, imitando ciò che lui ha fatto nella sua: in altre parole, dobbiamo donare gratuitamente a tutti, anche noi come Lui, amore, comprensione, senza chiedere nulla in cambio, senza avanzare pretese; dobbiamo semplicemente amare, avendo come unico scopo - come raccomanda Paolo nella Lettera ai Romani c. 5 – di rendere partecipi gli altri, di quella sovrabbondanza di amore, che Dio ha riversato nei nostri cuori.

Noi Dio non lo vediamo, è vero: è difficile per noi amare chi non vediamo, chi non conosciamo personalmente, chi è lontano da noi; abbiamo però il nostro prossimo, che vediamo continuamente; abbiamo i nostri fratelli, che ci stanno sempre vicino: amando loro, è come se amassimo Lui, perché chi ama loro, ama Lui. E Lui ama tutti: vicini o lontani dal suo cuore, fedeli o infedeli alla sua chiesa, Dio ama veramente tutti, e lo fa senza pretendere nulla in cambio, senza alcun obbligo da parte nostra, perché il suo è un amore totalmente gratuito, un amore che è già nostro dal primo istante di vita; perché è un amore conquistato, e assicurato per tutti, dal sacrificio di Gesù sulla croce. Tutto quello che noi dobbiamo fare, è semplicemente di accoglierlo, di accettarlo, nient’altro.

Non servono miracoli per “testimoniare” al mondo questo amore di Dio, non serve una vita eroica: anzi, a volte, è Dio stesso che rivela la sua presenza in noi: noi non ce ne rendiamo conto, ma può capitare che nella vita di tutti i giorni, un raggio del suo amore illumini in maniera particolare la nostra anima, si impadronisca del nostro cuore: una presenza che ogni volta, lascia in noi una traccia inconfondibile del suo amore.

“Dove vado io, voi non potete venire”: i discepoli, dopo la sua cattura, dopo il suo distacco da loro, lo cercheranno, perché la sua improvvisa assenza provoca in loro ansia, preoccupazione: ma essi non possono seguirlo dove egli sta andando: perché egli sta liberamente percorrendo la strada che, attraverso la croce, lo riporta al Padre. In tale percorso nessuno, per ora, è in grado di accompagnarlo. Nessuno, ancora, è in grado di capire la grandezza del suo amore e di unirsi a lui nel donarlo. Nessuno ha ancora la capacità di amare in questo modo: neppure i suoi discepoli, quelli che gli stanno più vicini; soltanto dopo la sua passione e morte egli darà loro la possibilità di mettere in pratica la sua ultima volontà.

Un comandamento veramente nuovo, quello di Gesù: una norma sconosciuta fino ad allora, una regola di vita veramente straordinaria, che ha coinvolto radicalmente la loro esistenza: uno stile, un dovere primario, che coinvolge anche ogni futuro discepolo; un programma di vita che capovolge completamente le nostre priorità, il nostro metodo di giudizio, il valore delle nostre valutazioni, delle nostre categorie umane. Per noi, infatti, è discepolo di Cristo, è un “cristiano”, semplicemente chi è battezzato, chi riceve i sacramenti, chi va in chiesa, chi rispetta certe regole, certe norme di vita. Per Gesù invece, essere cristiani, essere suoi discepoli, vuol dire una cosa sola: “amare come Lui ha amato”; amare cioè con un amore identico al suo, identico a quello del Padre. Ma, ci chiediamo, come si esplica, in cosa consiste, questo amore del Padre? Ce lo spiega solennemente Giovanni in tre parole: “Deus caritas est! - Dio, è amore! (1Gv 4,16). Dio cioè, non “possiede” un amore da donare; Dio non “prova” amore; Dio è Amore: è Amore assoluto, Amore totale; tutta la sua “essenza” è Amore! Egli, per amare, non “trasmette” un sentimento, non esterna un’emozione, non “offre” qualcosa, come facciamo noi: Egli ama incorporando, assorbendo l’amato nel suo amore, trasformandolo in Amore (qui manet in caritate in Deo manet – chi ama, rimane in Dio). È solo così, che Dio ama gli uomini; tutti, indistintamente: anche quelli che non lo meritano; anche quelli che continuano a tradirlo, anche quelli che lo rifiutano, che lo ignorano, che lo insultano, che vivono come se non esistesse.

Questo, è il “comandamento nuovo” di Gesù: questo è il comandamento che Giovanni correttamente definisce entolèn kainèn, che in greco non significa “nuovo” in senso temporale, cioè l’ultimo, quello “più recente” (avrebbe detto “entolèn néan”), ma “nuovo” per il suo contenuto, “nuovo” nella sostanza, perché ha rovesciato completamente i contenuti della vecchia tradizione, della Legge mosaica, ha rivoluzionato il concetto stesso di Dio: trasformandolo da padrone esigente, in padre innamorato. Un comandamento nuovo anche perché: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Parole importanti, parole che dovrebbero essere tenute in seria considerazione anche e soprattutto da quei discepoli moderni, da quei cattolici che si ritengono osservanti, praticanti, perfettamente in regola con Dio semplicemente perché alla domenica vanno in chiesa.

Attenzione: Gesù non dice: “Si saprà che siete miei discepoli, se andate a messa, se dite il rosario tutti i giorni, se ascoltate attentamente le prediche, se fate delle offerte generose, se siete iscritti a tutte le associazioni cattoliche”. No, Gesù non si è mai sognato di dire questo. Anzi, all’epoca, egli si è dimostrato particolarmente severo e intransigente con gli scribi e farisei, proprio perché si consideravano “speciali”, si ritenevano “eletti” da Dio, gli unici “osservanti” perfetti della religione, i custodi del tempio. Quindi, non è il nostro esteriore, non è il nostro apparire, che ci qualifica davanti a Dio: ciò che ci deve distinguere, non è il “fare”, il “dare”, l’essere giudicati protagonisti della “carità”, elementi importanti, insostituibili, fedeli collaboratori dei preti. No.

Il nostro “habitus”, il nostro “contrassegno” originale, quello autentico, quello che ci fa riconoscere come discepoli di Cristo, è uno solo: l’amoreLe divise, le medaglie, i distintivi, le celebrazioni, le cerimonie, il canto corale, cose di cui noi molto spesso andiamo fieri, in realtà non contano nulla, sono solo dei corollari, incapaci da soli a qualificare la nostra fede, la nostra vita interiore. La nostra risposta alla “chiamata” di Dio, la nostra coerenza nel seguire i suoi insegnamenti, va misurata solo ed esclusivamente sull’amore, da come amiamo Dio, da come amiamo i nostri fratelli, il nostro prossimo; un amore che non prevede esibizioni straordinarie, interventi eroici, da prima pagina dei giornali o da interviste televisive: ma un amore attento, solerte, discreto, umile, nascosto: praticato con sollecitudine, con attenzione, con soluzioni che non hanno bisogno di pubblicità, di visibilità, ma che raggiungono immediatamente il loro scopo, perché spinte da un amore vero, compiute nella riservatezza, nell’umiltà, nel silenzio. Amen.

 

giovedì 5 maggio 2022

08 Maggio 2022 - IV Domenica di Pasqua


Gv 10, 27-30

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

 Il Vangelo di oggi, uno dei più corti dell’intero anno liturgico, fa parte di una delle catechesi tenute da Gesù a Gerusalemme. Sono poche parole, che però sintetizzano e documentano un messaggio per noi di estrema importanza: Le mie pecore ascoltano la mia voce, io le conosco, esse mi seguonoTre verbi, ascoltare, conoscere, seguire, che sviluppano tre momenti di un crescendo programmatico, che deve assolutamente determinare la nostra vita di cristiani “moderni”. Analizziamo meglio la portata di queste parole.

1. “Ascoltare”: nel linguaggio comune noi mettiamo sullo stesso piano i termini ascoltare, udire, sentire: per noi sono sinonimi, esprimono la stessa cosa. Ma non è così: “udire, sentire”, significa percepire semplicemente un suono: è un fenomeno naturale, spontaneo, fisiologico che non necessariamente coinvolge la volontà dell’individuo; uno “sente”, “ode” voci e suoni, e può rimanerne completamente indifferente ad essi. “Ascoltare” invece, è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo, nel nostro cuore, intorno a noi, determinando la nostra volontà ad agire di conseguenza, a fare delle scelte concrete. Il concetto, per esempio, è spiegato molto bene da san Benedetto, quando nel Prologo alla sua Regola, invita il discepolo ad “ascoltare” l’insegnamento del maestro: è in latino ma molto comprensibile:

Ausculta o fili, praecepta Magistri, inclina aurem cordis tui et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple, ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras … per Benedetto, cioè, l’ascolto dell’insegnamento deve interessare l’orecchio del cuore (aurem cordis tui) per poterlo accettare volentieri (libenter excipe) e soprattutto per metterlo subito in pratica (efficaciter comple)“Ascoltare” è quindi porre attenzione, fare una elaborazione mentale che comporta un’attuazione consapevole. Ne consegue che come uno ascolta, così anche si comporterà, così imposterà la sua vita. Da come parliamo, ma ancor più da come ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Se nella vita non “ascoltiamo” noi stessi e gli altri, non potremo neppure crescere, non potremo cioè diventare mai adulti, maturi: perché è ciò che ascoltiamo, che ci “costruisce” dentro. Non per nulla Paolo scrive ai Romani che la “fede nasce dall'ascolto”: fides ex auditu (Rm 10,17); attenzione: dall'ascolto, non dall'aver sentito tante belle prediche o tante catechesi! In realtà noi ogni giorno “udiamo” milioni di suoni, di parole, ma quante ne ascoltiamoNella nostra vita abbiamo “udito” migliaia di volte la proclamazione del Vangelo, senza però che scattasse qualcosa in noi. Perché? Perché ci fermiamo alla sola percezione materiale delle parole; non le “ascoltiamo”, non le metabolizziamo, ci scivolano via senza far vibrare le corde sensibili della nostra anima. Per noi è difficile ascoltare gli altri; ma lo è ancor più ascoltare noi stessi! Se invece ci ascoltassimo, potremmo inaspettatamente scoprire dentro di noi un’enorme quantità di parole, di suoni, di voci, di esperienze, di fatti, tutti in attesa di essere esaminati, catalogati, selezionati, capiti. Se ci ascoltassimo di più, nel silenzio della nostra anima, probabilmente non avremmo la necessità di cercare altrove soluzioni e risposte agli interrogativi della vita: eviteremmo risposte di “altri”, spesso decisamente inutili e illusorie, in quanto non fanno parte di noi, non ci riconoscono, non sono “noi”, non sono la “nostra vita”. Solo se ci ascoltassimo di più, potremmo renderci conto di quanto, nel silenzio interiore, la nostra anima parli! Anzi, a volte la sentiremmo addirittura gridare in maniera assordante. Se ci ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo, ma quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così “assurda” (da “ab-surda” = stonata, da sordo, fuori da ogni logica), ignorando le esigenze primarie dell’anima, i richiami del profondo, le richieste sostanziali della vita. Noi siamo sordi! E, da sordi, non essendoci “ascolto”, parliamo a sproposito, senza senso: il vaniloquio, è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare del nulla, tanto caro e praticato oggi dai nostri organi di informazione!

2. “Conoscere”: è la seconda parola da approfondire. Il pastore conosce una ad una le pecore che lo ascoltano. Per noi, “conoscere” in genere significa sapere chi è un certo tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma questa è una semplice raccolta di dati biografici, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità. Ben più profondo e pregnante è invece il significato biblico di conoscere, che significa fare un'esperienza, incontrare, sentire, capire: l’uomo della Bibbia, per esempio, “conosce” la propria donna nell’unirsi sessualmente a lei per procreare, per avere un figlio: due corpi si “conoscono”, si fondono nell’intimità, per assicurare continuità esistenziale alla propria famiglia. La “conoscenza” non consiste quindi nel raccogliere un sacco di informazioni; sarebbe come dire: “conosco com'è un liquore, perché “conosco” la sua marca, la sua tipica bottiglia”. Ma per conoscere veramente un liquore è necessario berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore. Questo è il punto: e questo principio vale anche per il nostro rapporto con Dio: noi lo “conosciamo”, non perché sappiamo a memoria le risposte del catechismo, ma perché lo sperimentiamo nella nostra vita, perché lo “sentiamo” vibrare nel nostro cuore, perché avvertiamo in noi la sua potenza, la sua forza, che ci coinvolge, perché lo “mangiamo nell’Eucaristia e, penetrandoci, ci cambia. È questa un’esperienza unica, indescrivibile, che ci destabilizza, ci astrae dalla nostra natura umana, dalla nostra fragilità temporale.

3. “Seguire”: è la nostra terza parola; è la conseguenza dell’ascoltare e del conoscere: una volta recepito, “assimilato” completamente il messaggio di Gesù, per noi sarà naturale concretizzarlo e trasferirlo con gioia nella nostra vita pratica. È così che conquisteremo la pace, la serenità del sentirci protetti, perché nessuno potrà mai “distoglierci, rapirci” dall’abbraccio di Dio. “Nessuno le strapperà dalla mia mano”: il verbo greco “arpàzo” significa proprio questo: “rapire, strappare via, prendere, rubare”. Purtroppo tutti noi mortali viviamo nel timore di perdere qualcosa, che qualcosa ci venga portato via, che quanto ci appartiene, quanto abbiamo conquistato con fatica e sacrificio, ci venga improvvisamente sottratto, rubato dalla mala sorte: è una paura che ci accompagna giorno dopo giorno, esattamente come la paura di perdere la nostra vita, i nostri cari, le nostre ricchezze; come pure la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, la notorietà. Un timore, una paura che genera preoccupazione, ansia: l’ansia è infatti la compagna fedele del nostro viaggio di uomini moderni, tecnologici. Ma perché la gente ha tanta paura di perdere qualcosa che in fondo non gli appartiene? Cosa abbiamo noi mortali di veramente “nostro”? A chi e a che cosa possiamo veramente dire: “sei mio”? Proprio a nulla, amici miei: perché tutto ciò che ci circonda, tutte le nostre ricchezze, i nostri beni, vita compresa, li abbiamo solo in “comodato d’uso”, in prestito temporaneo: completamente nudi siamo entrati in questo mondo e completamente nudi ne usciremo. Un giorno, vicino o lontano che sia, saremo costretti ad abbandonare tutto ciò che definiamo “nostro”, tutto ciò che amiamo, tutto ciò a cui siamo profondamente legati: è la conclusione della nostra vita terrena, il momento ultimo, è la morte. Una prospettiva finale e irrevocabile che, solo a pensarla, ci inquieta, ci preoccupa, ci infastidisce, ci turba. Ecco allora che una certezza ci viene in aiuto col vangelo di oggi: alle pecore che ascoltano la mia voce, che io conosco e che mi seguono “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Per questo i primi cristiani gridavano ai loro persecutori: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la Vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi e nessuno può strapparci dalle Sue mani”. 

Fidiamoci anche noi allora di questa promessa di Dio, della sua Parola: abbandoniamoci fin d’ora a Lui, aggrappiamoci a quella mano che amorosamente ci tende, non sottraiamoci mai a quel suo abbraccio paterno: allora vivremo sereni, nella certezza che nessuno mai potrà farci del male, nessuno mai potrà separarci dall’amore del Padre! Amen.

 

giovedì 28 aprile 2022

01 Maggio 2022 - III Domenica di Pasqua


Gv 21,1-19

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. e si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

 

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, e quindi stabiliamo che non c’è. 

Ma Lui chiede loro: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: e noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi da potergli offrire? Un qualcosa che valga, che sia valido, che sia in grado di attenuare almeno un po’ la sua fame di amore? Se siamo onesti dobbiamo rispondere anche noi come i discepoli: “No”E questo perché, in fondo, dobbiamo onestamente ammettere che non siamo per nulla soddisfatti di come siamo: ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, scontenti di tutto e di tutti. Di veramente prezioso da offrire a Dio, non abbiamo proprio nulla; per cui la prima cosa da fare è dirci francamente: “Dobbiamo rialzarci dalla nostra indolenza! Così non va! Dobbiamo guarire!”; solo che per poter guarire, dobbiamo prima di tutto ammettere seriamente di essere malati. Dio ci aiuta certamente, ci mette come sempre del suo, anche in questo nostro proposito di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse immediatamente, con effetto istantaneo: con un evento, un miracolo, che all’improvviso, in un attimo, ci migliori, faccia sparire tutti i nostri problemi, le nostre brutture. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare, cadere, rialzarci, continuando pazientemente a guardare sempre avanti. Esattamente come accadde quel mattino sulle rive del lago di Tiberiade. Dopo una notte intera di faticoso lavoro senza alcun risultato, Gesù rimanda i suoi discepoli in “mare”, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo però che ora ripartono con un obiettivo ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, della superficialità, dell’affidarsi alle possibilità, al caso. 

Ebbene: questo stesso ordine, con la stessa determinazione, Gesù lo ripete anche a noi: dopo i nostri fallimenti, puntualmente, ci rimanda nella nostra vita, nel nostro quotidiano; non ci impone di cambiare lavoro, di cambiare famiglia. Non ci dice di sconvolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove; ma: “Fate le cose di prima, le stesse, ma adesso fatele con amore, in maniera razionale, consapevole. Non vivete più di inutili fantasie; non aspettatevi che le difficoltà spariscano magicamente da sole, fatevi delle domande serie, osservatevi, guardatevi, chiedetevi seriamente cosa cercate, dove volete arrivare, cosa vi aspettate da voi stessi”. Allora, piuttosto che adagiarci sul “così fan tutti”, piuttosto che seguire scioccamente gli altri, chiediamoci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Quali ideali mi spingono? Quali paure mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono sincero e coerente in quel che faccio?”. Dobbiamo insomma convincerci che solo una vita vissuta responsabilmente può darci quella serenità, quella felicità di cui tanto abbiamo bisogno. Purtroppo, noi ci illudiamo che le cose in grado di saziare il nostro cuore si trovino all’esterno, al di fuori di noi. E continuiamo a gettare le nostre reti invano: quando invece ciò che può riempirle completamente, ciò che può renderci pieni di gioia, che ci fa sentire amati da Dio, che produce quell’energia continua che sentiamo esplodere dentro il nostro cuore, è solo Lui: e Lui non si trova al di fuori, alla nostra “sinistra”, ma dentro di noi. 

Questo è stato il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere: trovarono cioè Dio, nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui, la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò, perché amarono. Il messaggio è chiaro: se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e fragilità, anche noi potremo un giorno “vedere e riconoscere” il Signore. Soltanto allora la nostra vita cambierà, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia. Capita invece che spesso cerchiamo Dio nelle “visioni” dei ciarlatani, nelle pseudo apparizioni, nelle false parole dei santoni del momento. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, più che un desiderio di Dio, rivela una mancanza preoccupante di fede, un bisogno irrequieto di protagonismo, di apparire. Eppure Dio c’è sempre per noi, è sempre a nostra disposizione; il luogo preferenziale in cui trovarlo è là “dove c’è carità e amore”: dobbiamo solo imparare a “vederlo”, con grande umiltà. Perché le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo associativo, se sono privi di amore, di cuore, di altruismo, di Vita, non riusciranno mai a “vedere” il Signore. È successo a Pietro: lui l’uomo razionale, efficiente, l’uomo d’azione, l’uomo pratico che non concede spazio ai sentimentalismi, sul lago di Tiberiade, non riconosce il Signore: solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e lo indica a Pietro: “È il Signore!”.

Ebbene, Pietro assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo. Leggendo il vangelo, è interessante notare come Pietro, grazie a questo suo carattere altalenante, compia una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica: per esempio, una volta riconosciuto Gesù, senza alcuna esitazione, si getta in mare per raggiungerlo: era al largo, stava tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Una decisione improvvisa, quella di Pietro, che però, secondo i Padri della Chiesa, contiene un forte simbolismo: egli cioè “deve” buttarsi in acqua prima di raggiungere Gesù: perché deve “bagnare” la propria presunzione, la propria sicurezza; deve cioè fare un bagno di umiltà, deve ricredersi, deve immergersi, anche lui come Giovanni, nel “mare” dell’amore.

Altro particolare curioso: prima di buttarsi in acqua, “si veste”: ma se mentre pescava era nudo, che senso ha “rivestirsi” per gettarsi in mare? Sempre secondo i Padri, il senso c’è: perché vestirsi, significava per Pietro, indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significava rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione: autorità, ruolo, funzione, che hanno sempre bisogno, pertanto, di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. È Lui infatti, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, che sale con decisione sulla barca (immagine della chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio senza di lui, non può più far niente. È vero che è sempre Dio che agisce per primo: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra, ma senza l’aiuto di Pietro (della chiesa) e senza gli apostoli (gli uomini) non può fare nient’altro: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora”. Egli ha bisogno continuamente del loro amore, della loro disponibilità. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale, per assicurare la vita della chiesa. Prima infatti di conferire a Pietro il mandato di “guida”, di “pastore”, Gesù mette alla prova l’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèo”Ora, in greco, “agapào” indica un amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista; “filèo” invece si riferisce ad un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti sentimentali.

Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs me) più degli altri?”. Gesù è diretto nella sua domanda, esige una risposta netta, un amore incondizionato, un amore che sia “agàpe”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui modera la richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso. Ma Gesù insiste: per la seconda volta chiede a Pietro se il suo amore per lui è totale, assoluto, incondizionato; e il poveruomo, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con maggior cautela e circospezione gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene…” (“filò sè”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: questa volta, però, lo fa in modo diverso: mette da parte cioè l’impegnativo verbo “agapào” e passa a “filèo”, lo stesso verbo usato da Pietro, e gli chiede: “Simone, mi vuoi bene?(Sìmon, filéis me?). Gesù, nel suo amore infinito, a questo punto si accontenta anche del suo “ti voglio bene”; si abbassa, si adatta alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento, ancorché incompleto, imperfetto, è già amore!”. In pratica Gesù adegua il suo passo a quello di Pietro; il quale, a questo punto, si rende conto di quanto Gesù lo ami, di quanto tenga al suo amore: e avverte lo stesso pianto amaro del sinedrio risalirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi veramente di poco, delle briciole, anche di un cuore sofferente, ferito, purché ami al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti. Per tre volte Pietro ha rinnegato il Signore; per tre volte gli ha in pratica detto di no, e per tre volte il Signore lo interroga sulle possibilità vere e profonde del suo amore. Gesù insiste, pur conoscendone perfettamente i limiti; ma lo fa per far capire a Pietro una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi: pur nei tuoi limiti, devi essere convinto di farlo in maniera totale, sincera. Apprezzo il fatto che tu non ti senta esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione, per il fatto di essere Pietro, un mio discepolo, che io sto ponendo alla guida della mia Chiesa. È impensabile infatti che per questo, tu possa considerarti esonerato da paure, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite; non puoi purtroppo prescindere dalla tua umanità, non puoi illuderti di essere improvvisamente superiore a tutto e a tutti: perché se vivi in questa illusione, ricordatelo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso; sei vulnerabile, ma amami comunque, amami come puoi, amami come vuoi, purché il tuo amore sia sempre vero, reale, sincero”.

E infine Gesù conclude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19)La veste, come ho detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica Gesù dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi certamente decidere la direzione da percorrere, ma devi anche lasciarti condurre da Dio, dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi dunque su questa via. Lascia che sia Io a portarti, anche se non sai dove ti sto portando, anche se non vorresti farlo, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”. Ciascuno di noi infatti vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno, stabilire lui dove andare. Ma avere fede in Dio, amare Dio, significa lasciare spazio a Lui, abbandonarci a Lui, lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita. Nessuno a priori può essere certo che Dio, ad un certo momento, non decida di sconvolgere la nostra esistenza, la nostra vita, il nostro presente, il nostro futuro, chiedendoci qualcosa di più impegnativo. Chi può dire infatti che Dio non possa disporre l’abbandono dei nostri progetti, dei nostri ideali, per seguirlo più da vicino, per farci diventare persone completamente nuove, diverse? Noi amiamo immaginarci celebri, ricchi, realizzati, magari sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili; con una vecchiaia serena e piena di soddisfazioni: ma chi può assicurarci che tutto ciò sia veramente il nostro domani? Nessuno: solo Dio ci conosce, solo Lui sa perfettamente come siamo, solo Lui, nel suo immenso amore, predispone per noi sempre il meglio: anche se “questo” meglio può divergere dal “nostro”! L’importante è che noi siamo sempre e comunque pronti a ricambiare il suo amore, ripetendogli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Certo, una cosa facile a parole, ma che con Lui diventa sicuramente fattibile. Amen.

 

giovedì 21 aprile 2022

24 Aprile 2022: II Domenica di Pasqua.


Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.


I discepoli dopo essere stati testimoni della tragica fine di Gesù, si rifugiano nel cenacolo: sono molto tristi e scossi per la sua scomparsa, ma anche colmi di rabbia pensando a ciò che è accaduto: il popolo, sobillato dai capi religiosi, ha condannato a morte e ucciso il loro maestro, loro punto di riferimento, ricorrendo a motivazioni pretestuose e false. Per questo, nel cenacolo, regna un’atmosfera molto pesante: in un clima di paura per le loro vite, di inconsolabile tristezza per la perdita del loro maestro, di rabbia e odio per i suoi carnefici, Gesù improvvisamente appare in mezzo a loro, e cerca di tranquillizzarli: “Pace a voi”; ossia “state sereni, siate forti, fidatevi di me, perché, come il Padre ha mandato me, io mando voi; dovrete uscire da questo rifugio, nessun pericolo vi fermerà, andate per il mondo e continuate la missione che io ho iniziato. Andrete senza di me, ma il mio Spirito vi accompagnerà. Ricordate una cosa importante: a chiunque perdonerete i peccati, Dio li perdonerà loro”.

Parole programmatiche che a noi richiamano la natura sacramentale della nostra riconciliazione con Dio, ma che qui acquistano un senso molto più vasto, personale, che i discepoli dovranno fare proprio nella loro incipiente attività pastorale: un significato suggerito dal verbo greco “afiemi”, che oltre a perdonare significa “lasciate correre”: in altre parole, nella loro missione tra i popoli, di fronte al male subito, la parola d’ordine dovrà essere perdonare, senza ritorsioni, senza alcuna vendetta: “Perdona, lascia andare, lascia correre; raccogli i sentimenti negativi che provi nel tuo cuore (odio, rabbia, dolore, vergogna, desiderio di vendetta ecc.), tirali fuori, lasciali andare; non conservare nulla di negativo nella tua anima, accetta la tua vita così com’è”. Se non perdoniamo, se non lasciamo correre, vuol dire che preferiamo trattenere dentro di noi tutti questi sentimenti dannosi che soffocano il nostro cuore, che ci inaridiscono, ci avvelenano la vita, rendendola insensibile a qualunque sollecitudine.

Ci siamo mai chiesto come mai tanta gente sia perennemente arrabbiata, scontrosa, nervosa? Semplice, perché non perdona, non lascia correre, si offende per ogni sciocchezza, trattiene tutto questo pattume dentro di sé. È proprio questo che Gesù raccomanda agli apostoli: “Se entrate in una città e i suoi abitanti non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatevene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquilli” (Lc 10,11). Quindi: “Vi hanno rifiutato, vi hanno detto di no? Siate superiori, abbandonate lì il vostro disappunto, non portatevelo appresso, non fatevi condizionare, ma proseguite il vostro cammino a testa alta”. C’è un’altra cosa poi, molto importante, che Giovanni ci sottolinea descrivendo il comportamento di Tommaso: che la nostra fede, il nostro amore per Dio cresce, si affina, prende vigore, proprio dal toccare, dal verificare, dal constatare le nostre debolezze, le nostre ferite, la nostra vulnerabilità, i nostri traumi. 

Nella prima visita fatta da Gesù risorto ai suoi, mancava infatti Tommaso, l’apostolo diffidente, il quale per credere, per accettare e immedesimarsi nel Risorto, deve prima di tutto verificare la sua identità, controllando, toccando con mano le sue ferite. Tommaso, soprannominato “Didimo”, che in greco significa “gemello”, rappresenta in qualche modo la nostra esperienza di fede, di noi tanti suoi “gemelli”, che decidiamo di ricorrere a Dio, di credere in Lui, di amarlo come merita, soltanto dopo aver “toccato”, “sperimentato”, quelle inevitabili prove, quelle dolorose ferite, che la vita riserva a ciascuno di noi: succede infatti che anche noi, che ci professiamo cristiani, ci riavviciniamo alla fede soltanto in seguito a profonde ferite, a lacerazioni spirituali atroci: soltanto una volta destabilizzati, vinti e confusi, ci ricordiamo di Dio, ci rifugiamo in Lui, troviamo la forza di chiedergli conforto, aiuto, esprimendogli tutta la nostra debolezza, la nostra impotenza, la nostra miseria, bisognosi di conforto, di rassicurazioni, di protezione, di cure riabilitative.

Quanti cristiani purtroppo si ricordano di Dio solo in situazioni simili! Solo allora ascoltano la sua voce, solo allora sentono il bisogno di ricorrere a Lui, di mostrargli il loro cuore ferito; solo allora capiscono il valore del suo aiuto, della sua pietà, della sua misericordia. Purtroppo tutti nella vita, chi più chi meno, abbiamo fatto o dobbiamo fare, i conti con delle prove tremende, con dei momenti dolorosi, con delle ferite mortali. Ecco: l’importante è non insistere con le nostre lontananze, con le nostre assenze: non aspettiamo di incontrarlo soltanto quando le ferite sono diventate cancrena purulenta. Sappiamo che Lui è sempre lì, nel “cenacolo”, a nostra disposizione, e aspetta paziente di incontrarci, di riabbracciarci. Corriamo allora anche noi come i discepoli, come Tommaso; entriamo anche noi nel “cenacolo”, nelle nostre Chiese; presentiamoci a Lui con le nostre ferite, le nostre paure, con le nostre miserie; accostiamoci umilmente a lui Eucaristia, prendiamolo nelle nostre mani, tocchiamolo, mangiamolo, perché solo così il nostro cuore esploderà di gioia vera, di consolazione, di nuova forza, di nuovo entusiasmo. È il nostro incontro con Dio, quell’incontro ravvicinato, intenso, potente, che ci permette di sentire la sua voce nitida e suadente: “Metti la tua mano su ciò che ti fa male; tocca ciò che ti fa soffrire, va incontro al tuo dolore; prenditi cura della tua sofferenza, perché, insieme a me, anche tu risorgerai! Non essere più incredulo, ma sii sempre fedele!”. Ecco, sì, è proprio Lui, l’abbiamo finalmente trovato, sono parole sue: e al nostro cuore, carico di riconoscente umiltà, non rimane che esclamare: “Mio Signore e mio Dio!”

Nulla per noi cristiani è più terapeutico, nulla è più risanatore, più curativo, più lenitivo dell’Eucarestia. Per noi infatti è impossibile incontrare Dio in sembianze umane, come avvenne per Tommaso: noi su questa terra non potremo mai incontrarlo per strada, in carne ed ossa. Egli si è incarnato una sola volta, si è reso visibile, uomo come noi, in Gesù: ma Gesù è morto oltre duemila anni fa, è risorto e ha raggiunto il Padre in cielo: ha cioè concluso la sua “manifestazione” umana. Gesù però sapeva di questa nostra maggiore difficoltà nel credere, nel compiere il nostro percorso di fede, rispetto a Tommaso; tant’è che precisa: “Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno”.

Ebbene, quei “beati” siamo proprio noi, se crederemo realmente, completamente, in Lui. Ma in particolare, cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci, per coltivare la nostra fede, per fortificarla, per purificarla, renderla assoluta, in modo da credere profondamente nel Signore pur non avendolo incontrato durante la sua vita umana? C’è solo un metodo eccellente: frequentando con fede l’Eucaristia. Solo nella Messa possiamo infatti incontrare Gesù, possiamo vederlo, sentirlo, toccarlo. Una reale, concreta possibilità, che ci deve spingere a partecipare con grande attenzione e spiritualità alle nostre Eucaristie, senza confondere mai il “fine” con i “mezzi”, con quegli “accessori scenici” cioè, che tanto piacciono al nostro esibizionismo: perché i “mezzi” - come il canto, le letture, l’omelia, i riti liturgici - servono solo per farci raggiungere il “fine”, l’essenziale, che è appunto quello di “incontrare” Dio, di parlargli, di toccarlo con le nostre mani, di adorarlo. Se la nostra messa non raggiunge tale intimità, se usciamo dalla Chiesa senza portare con noi la sensazione chiara, netta, lucida, di averlo sentito vivo, presente, palpitante in noi e attorno a noi, allora dobbiamo porci delle serie domande sulla nostra fede, sulla nostra vita cristiana; perché l’Eucarestia non è una sacra rappresentazione, non celebra la memoria di un morto, ma rende vivo un Vivo: ogni volta che facciamo Eucaristia noi riviviamo infatti l’intera esperienza pasquale, Dio riattualizza con noi e per noi il suo sacrificio di salvezza, facendosi per noi realmente carne e sangue, cibo insostituibile per la crescita soprannaturale della nostra fede.

Giovanni, concludendo il vangelo di oggi, dice: ho scritto tutto questo perché voi tutti “crediate che Gesù è il Cristo, e perché abbiate la vita”: ecco, questo in sintesi deve significare per noi l’Eucaristia: credere, vivere, amare la Vita. Amen.

 

venerdì 15 aprile 2022

17 Aprile 2022 – Domenica di Pasqua: Risurrezione del Signore


Gv 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

  

Oggi celebriamo la Pasqua, il giorno della Risurrezione del Signore: esultiamo e rallegriamoci, perché in questo giorno particolare Dio ha “ricreato” il mondo, l’umanità intera. Dio, fedele nell’amore eterno per le sue creature, non si è mai rassegnato al crollo del suo capolavoro, non è mai rimasto indifferente alla distruzione di quel rapporto di intima amicizia che lui con tanto amore aveva instaurato con l’uomo. Oggi Dio fa “tabula rasa” del passato, riparte da zero, ripristina ex novo il creato. Questa volta non in prima persona, ma per mezzo di suo Figlio Gesù, il Verbo presente con Lui fin dal “principio”, che per consentire alle creature di tornare ad essere l’originale immagine del Padre, si è “incarnato”, è diventato anche lui “creatura. È la vita nuova in Cristo. È la nuova creazione. Grazie alla Pasqua del risorto, il mondo, le creature, l’intera creazione, si sono finalmente riconciliati col Padre. L'uomo, ha potuto riprendere il dialogo interrotto con il suo Dio, ha potuto finalmente ritrovare il vero, autentico senso della vita, della sua esistenza. Ma l’azione redentrice di Cristo non si è fermata al passato: Egli non si è limitato a risorgere solo allora, ma continua ogni giorno, ogni ora, a risorgere in noi: è il “Risorgente”, è colui che con la sua vittoria sulla morte, continua a far cadere quei massi che, per le nostre ricorrenti infedeltà, continuano ad ostruire la sensibilità del nostro cuore. La Pasqua del Cristo è per noi energia rigenerante, apertura a vita nuova, risveglio dal nostro dormire, ascesa in alto. Pasqua insomma è la festa dei macigni che rotolano via dal nostro cuore, spalancandolo ad una primavera di rapporti divini e di vita nuova.

Ma, in pratica, cosa significa “risurrezione” per noi? È un’esperienza che faremo solo dopo la nostra morte, oppure va affrontata nel presente, giorno dopo giorno? In tal caso, quando e come viverla? Quali i suggerimenti, i messaggi, le indicazioni che possiamo trarre dal vangelo di oggi? Leggiamolo con attenzione. Ciò che immediatamente colpisce è senza dubbio il comportamento dei tre protagonisti: Pietro, Giovanni il discepolo che “Gesù amava”, e Maria Maddalena.

Tutti e tre, la domenica di buon mattino, vanno al sepolcro: Maddalena per prima, da sola, gli altri, subito dopo, riaccompagnando la donna per appurare se la notizia della sparizione del corpo di Gesù, da lei riferita, corrisponda al vero. E qui abbiamo un primo messaggio: per verificare la nostra risurrezione dobbiamo prima di tutto “andare” al sepolcro, entrarvi dentro: dobbiamo cioè scendere materialmente in noi, raggiungere la nostra “tomba”. Dobbiamo vincere quell’innato sgomento che proviamo nel confrontarci con i grandi misteri della vita: con la morte, la fine di ogni cosa, la rottura di ogni equilibrio, il buio totale con cui il tempo si avvolge: dobbiamo esorcizzare queste umane realtà, dobbiamo entrare in noi, con forza e determinazione, perché solo così potremo scorgere la luce sfolgorante della nostra “risurrezione”. Prima però dobbiamo fare i conti con quella “pietra” enorme, con quel pesante macigno, che ostruisce l’entrata: è la nostra arroganza, è l’orgoglio atavico che frena, che blocca sul nascere qualunque nostro tentativo di rinnovamento, di rinascita interiore, di risurrezione: “Adesso cosa faccio?”. La difficoltà ci frena: è una pietra troppo pesante, ingombrante, inamovibile: non ce la faremo mai! Quante volte ci arrendiamo in partenza, quante volte ci rassegniamo al nostro puntuale cadere, senza opporre alcuna resistenza, senza neppur tentare qualche manovra di riscatto. È proprio vero: siamo dei rinunciatari, siamo dei perdenti.

Amiamo cullarci beatamente in quell’orgoglio nefasto che inibisce, vanifica ogni nostra timida aspirazione di risurrezione: dobbiamo spogliarci ad ogni costo del nostro falso perbenismo, della nostra ipocrisia, dobbiamo avere il coraggio di manifestare le nostre fragilità, le nostre debolezze, le sofferenze che ci tormentano l’anima, le prepotenze, le cattiverie, le umiliazioni, che abbiamo fatto o subito nella solitudine, nel silenzio, nel pianto. Dobbiamo insomma rimuovere la “pietra” dei nostri segreti inconfessati, talvolta inconfessabili; la “pietra” del non riuscire a lasciarci andare, ad abbandonarci nelle mani di Dio, a godere del suo amore; la “pietra” del sentirci vuoti, del non-riuscire a dare un senso alla nostra vita; la “pietra” del terrore della morte, della solitudine, delle sofferenze. Tutti dobbiamo fare i conti con una “pietra” del genere: una pietra che in ogni caso deve essere rimossa, deve assolutamente “rotolare via”, per consentirci di realizzare la nostra risurrezione.

Ma proseguiamo nella nostra lettura. Appena Maria Maddalena annuncia ai discepoli la scomparsa del corpo di Gesù, Pietro e Giovanni corrono immediatamente al sepolcro: Giovanni, più giovane, corre più veloce ed arriva per primo: ma, una volta giunto, aspetta che anche Pietro, più anziano e quindi più lento di lui, sopraggiunga. 

A questo punto l’evangelista evidenzia una sottile diversità nel loro comportamento: entrambi corrono al sepolcro: ma solo Giovanni, prima di entrare, si china verso l’interno, guarda, intuisce qualcosa; Pietro al contrario entra deciso e osserva distrattamente gli oggetti: “i teli posati là e il sudario”. Ora, “inchinarsi”, indica l’atteggiamento di umiltà di chi è disposto a mettere da parte, ad abbandonare, le proprie idee, i propri ragionamenti, i propri schemi; Giovanni, di fronte a ciò che vede, è disponibile a lasciarsi plasmare, a mettersi in gioco, a cambiare mentalità, mentre Pietro, testa dura, non si china, gli manca quell’umile disponibilità, non percepisce alcunché di speciale, continua a rimanere nelle sue convinzioni. Entrambi fanno una bella corsa: condizione fondamentale, decisiva. Se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se ci paralizziamo, convinti che non c’è più niente da fare, che la vita non ha più senso, nulla ci sarà mai possibile. Se non ci muoviamo dalle nostre fissazioni, se rifiutiamo di provare, di metterci in gioco, il fallimento è assicurato in partenza!

Pietro e Giovanni, con il loro comportamento, ci suggeriscono due modi diversi di accostarci al Dio della vita, alla fede in lui: quello della razionalità e quello del sentimento. Se da un lato la mente, il raziocinio, ci servono per capire, per spiegare, per interpretare il senso del suo esistere, dall’altro c’è il cuore, c’è l’anima, la vitalità, lo stupore, che ci spiegano il suo Amore per noi, facendoci appassionare, innamorare, inebriarci completamente di lui.

Allora, quando parliamo con chi ci sta a cuore, con le persone che amiamo, con i nostri figli, impariamo a guardarli negli occhi, entriamo dentro la loro anima: prestiamo attenzione non solo a quel che dicono ma soprattutto alle vibrazioni del loro cuore; in altre parole “ascoltiamo” la loro anima, cogliamo la sua loro gioia, il loro amore, i loro entusiasmi e le loro delusioni, la loro gioia e la loro tristezza. Quando andiamo in chiesa, ascoltiamo nel silenzio il nostro cuore che vibra percependo forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi, di Qualcuno con cui parlare, con cui confrontarci, con cui aprirci, a cui affidarci. Forse all’inizio sentiremo emergere dal passato solo lo strepitare di demoni e mostri: momenti brutti della vita, situazioni tragiche, scelte errate, cadute dolorose. Ma poi, nel riconoscere umilmente le nostre infedeltà, nell’abbandonarci fiduciosi alla sua misericordia, sentiremo solo Lui, lo Spirito avvolgente dell’Amore, la sorgente inesauribile della Vita, lo splendore abbagliante della Grazia e del perdono ottenuto; scopriremo allora che sì, uscire dal gelo della morte, dalla tirannia del male, è veramente possibile; scopriremo che quello che stiamo provando è la nostra Pasqua, è la nostra risurrezione.

Terzo personaggio che colpisce la nostra attenzione è Maria Maddalena. Maria, come ce la presenta Giovanni, è una donna che ha amato follemente Gesù: lo ha amato in maniera forte, passionale, viscerale. Gesù le aveva ridato la vita, liberandola da sette demoni, e lei in cambio gli aveva donato tutta sé stessa. Quella mattina, strada facendo, si rende conto che “il suo grande amore” non c’è più, è morto; lei è rimasta sola: l’unica consolazione rimastale è di stare più vicina possibile a quel corpo martoriato, averne amorevole cura. Giunta però al sepolcro, un nuovo angosciante dolore si aggiunge al precedente: il corpo di Gesù è scomparso: impietrita, col pianto in gola, corre dai discepoli: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”, comunica loro tra i singhiozzi.È sconvolta, c’è da capirla, può succedere a chiunque: anche perché lei considerava quel corpo scomparso una sua esclusiva proprietà, era il “suo” Signore, di nessun altro. 

Un’abitudine abbastanza comune quella di considerare gli amici, i nostri cari, le persone che amiamo come se ci appartenessero, come se fossero una nostra “esclusiva”: in realtà nessuno è “nostro”, nessuno ci appartiene. Pretenderlo, soprattutto nei confronti dei figli, è fuorviante, improponibile: ammiriamoli, riserviamo loro tutto il nostro amore, ma non soffochiamoli con le nostre gelosie, con le nostre asfissianti attenzioni. Non “possediamoli”, non fagocitiamo la loro vita. Seguiamoli, indirizziamoli sulla strada della maturità, rimaniamo sempre presenti al loro fianco, offriamo loro il supporto della nostra esperienza e del nostro amore, ma non permettiamoci mai di annullare la loro personalità. Non dimentichiamo mai che ciascuno ha davanti a sé la strada della propria vita da percorrere: e quella che stiamo percorrendo noi è decisamente diversa dalla loro. Anche nei nostri confronti dobbiamo essere realistici: perché tutto ciò che ci riguarda, nel presente, è destinato a passare, a lasciarci, a morire. Rimanere costantemente condizionati da ciò che è stato, equivale a morire, significa “morte”, significa “immobilismo”, significa rinunciare ad andare avanti. Se ci fermiamo a guardare indietro non andremo mai avanti. E allora, non attacchiamoci morbosamente a nulla: non alle persone, non alle cose, non ai problemi: se siamo arrabbiati per degli insulti; se ci brucia l’essere stati diffamati e calunniati in pubblico, se ci sentiamo traditi, umiliati, messi da parte da chi stimiamo, da chi amiamo, non tratteniamo nulla: perdoniamo, lasciamo correre, non rimaniamo schiavi degli eventi: piuttosto viviamo, prendiamo in mano la nostra vita, guardiamo in alto, concentriamoci solo su ciò che vale, su ciò che è eterno: Se vogliamo “vivere” la Vita vera, dobbiamo prima affrontare la morte, e dobbiamo uscirne vincitori. È la grande verità della Pasqua: per risorgere, dobbiamo accettare di morire a noi stessi, al nostro egoismo, al nostro orgoglio, al nostro mondo. Siamo figli della Vita: stiamo con la Vita, risorgiamo col Dio della Vita. Questa è la nostra risurrezione, questa è la Pasqua che auguro a tutti. Amen.

BUONA PASQUA!