giovedì 2 gennaio 2020

5 Gennaio 2020 – II Domenica dopo Natale


“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1-18)

Il vangelo che la Chiesa ci propone oggi, è lo stesso del giorno di Natale; un brano che è il più ricco, profondo e difficile di tutti i vangeli. Alcuni studiosi hanno passato la loro vita a studiare questa pericope giovannea: san Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino hanno detto, per esempio, che si tratta di un testo che va al di là di ogni comprensione umana.
Senza alcuna presunzione, per quanto ci riguarda, cerchiamo almeno di capire il significato di alcune espressioni.
“In principio” (in ebraico berescit; in greco en arché) sono le stesse parole con cui ha inizio nella Genesi, il primo libro della Bibbia, il racconto della creazione.
In particolare come iniziava l’Antico Testamento? “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1). Giovanni invece dice no: “In principio c’era il Verbo!”
Il Verbo è la traduzione latina del termine greco “Logos”, che ha due significati: “Parola” e “Progetto”; per cui possiamo dire: “All’inizio c’era un progetto”.
Questo è meraviglioso: prima ancora di creare ogni cosa, Dio aveva un’idea, un progetto.
Allora noi, il mondo, non siamo qui per caso. Siamo tutti qui perché Dio ha un progetto su di noi. Se non avesse avuto un progetto su di noi, non ci saremmo. Se ci siamo è perché Dio aveva un motivo ben preciso per crearci, un motivo davvero importante.
Quindi Dio ha un progetto. Ma per attuarlo, ha bisogno di noi. Vogliamo allora dargli una mano?
Identificando poi il Logos, il Verbo, con Dio, Giovanni si scontra con la teologia del tempo. L’Antico Testamento infatti identificava la Parola di Dio con i Dieci Comandamenti (il Decalogo) che Dio ha dato a Mosè (Es 31,18). Ma Giovanni dice: “No, la Parola, il Logos esiste ancor prima di tutte le altre parole”. Una novità impensabile, che stabilisce la priorità e l’importanza assoluta della nuova Parola. Infatti Giovanni farà dire a Gesù: “Vi do un comandamento nuovo (kain¾n): che vi amiate gli uni gli altri” (13,34).
Ora, per dire “nuovo” in greco ci sono due possibilità: “neos” e “kainos”; nel primo caso vuol dire “nuovo” rispetto ad un “altro” già esistente; con kainos si vuol invece stabilire che un qualcosa è “nuova” nel senso che annulla tutto il resto: Gesù, il Logos, quindi non dà un “altro” comandamento, ma in assoluto uno “nuovo”, che mette cioè in secondo piano tutte le Parole precedenti.
“Egli era in principio presso Dio” (Gv 1,2). Questo, Gv ce l’ha già detto: perché lo deve ripetere? Perché la lingua ebraica scrive tutte parole in caratteri maiuscoli, attaccate l’una all’altra, e non aveva, come abbiamo noi oggi, il grassetto, il corsivo, la sottolineatura, ecc. Per cui per evidenziare un concetto lo ripetevano. Una ripetizione quindi che sta ad indicare un concetto veramente importante.
“Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,3). Anche qui la seconda parte è una ripetizione della prima. Ma cosa significa? Che tutto è stato fatto per volontà divina. Noi, in altre parole, siamo qui solo per volontà di Dio. Magari i nostri genitori non ci volevano... magari la gente ci rifiuta, ci respinge... magari noi stessi non ci accettiamo, siamo insofferenti verso noi stessi... ma Dio ci vuole, perché ha un progetto ben preciso su di noi. La creazione pertanto non è cessata il settimo giorno, ma si sta compiendo continuamente, anche oggi, perché Dio ha bisogno di noi: è per questo che ci ha creato.
“In lui (cioè nel Logos-Progetto) era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4).
Il termine “Vita” (zoé) appare ben 37 volte in Giovanni. Un termine quindi con cui egli intende qualificare il Progetto di Dio, vuol darne una spiegazione: il progetto di Dio è un progetto di vita: una vita con un nuovo stile.
Prima di Gesù infatti gli “uomini di Dio” erano gli uomini di preghiera, quelli che si mortificavano, quelli che rinunciavano a tutto, quelli che reprimevano l’affettività in quanto pericolosa, quelli che digiunavano e seguivano un’ascetica ferrea, che non avevano tempo per la carità, l’amore verso il prossimo. Ma Gesù dirà di questa gente: “Sepolcri imbiancati: essi all’esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Mt 23,27).
Con Gesù, invece gli “uomini di Dio” sono quelli vivi, quelli che hanno vita, che sanno piangere, indignarsi, commuoversi, emozionarsi, che provano amore, misericordia, che si innamorano, che hanno slanci, che sanno stupirsi: più un uomo è vivo, più è pieno di Dio. L’essenza, il centro del Natale, è appunto la Vita, un bambino che nasce alla vita.
“La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5).
L’uomo che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, risplende, è luce.
Qui non si dice che lotta. A quel tempo, e anche oggi, ci sono molti fanatici che vogliono imporre le proprie regole e le proprie leggi ad altri. Qui, invece, è luce, splende, brilla: non costringe nessuno. Segue semplicemente la Luce, la luce vera, Gesù, il verbo incarnato, che è venuto nel mondo: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
È Gesù-quindi, la vera luce che illumina ogni uomo: attenzione in questo a non prendere abbagli! Domandiamoci spesso: “Qual è la cosa più importante che dà luce alla mia vita?”. È il partner, i figli, i soldi, il lavoro, il successo, la gloria, l’essere famosi... cos’è dunque la cosa più importante che condiziona la nostra vita? Deve essere solo una: la Vita!
“Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).
Mondo è “kosmos”: in Giovanni non indica semplicemente il creato, il cosmo, l’universo: ma è un termine che in lui acquista un senso negativo: è il sistema politico, religioso, civile, sul quale si fonda la società umana, in contrapposizione a quella divina. Il potere, infatti, sinonimo di orgoglio, di superiorità, di mancanza d’amore, di rigidità, ecc., non può conoscere Dio, non si abbassa ad amarlo. È vero, tutte le persone sono “divine”, in quanto anch’esse create da Dio, impregnate di Dio: solo che si sono, per così dire, dimenticate chi sono veramente, si sono dimenticate che hanno dentro di loro l’impronta di Dio, vivono senza riconoscerlo e quindi senza riconoscersi più. Che tristezza! È come essere dei re e vivere da schiavi!
“Venne fra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
È una denuncia tremenda. Quelli che non l’hanno accolto come Vita sono gli stessi che poi gliela toglieranno sulla croce. È il popolo eletto, il popolo prediletto da Dio! Chi non accoglie la Vita e non la fa vivere in sé, uccide Dio, la Vita. È incredibile come nei vangeli quelli che hanno accolto Gesù siano stati proprio i più lontani da Dio, i peccatori: al contrario quelli che non l’hanno voluto accogliere, che l’hanno sempre combattuto, condannandolo alla morte di croce, siano stati proprio i più vicini alla religione, i sommi sacerdoti, i tenutari del tempio. Una triste constatazione!
Il progetto che Dio ha pensato per ciascuno di noi è, a questo punto, estremamente chiaro: “Essere suoi figli” (Gv 1,12). Attenzione, non “servi” di Dio, ma “figli” di Dio: non come sentiamo spesso ripetere in certe prediche, che l’uomo è fatto per servire Dio, che dobbiamo buttarci ai suoi piedi, temerlo, servirlo in tutto e per tutto per non incorrere nei suoi tremendi castighi!
Noi infatti non siamo i servi di Dio, ma i serviti da Dio: Lui stesso ce l’ha insegnato abbassandosi a lavare i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-20). È Dio che serve noi: Egli non ci chiede più come una volta sacrifici cruenti, servizi, penitenze in suo onore: è Lui che è venuto a portare i suoi servizi, la sua disponibilità, il suo amore a noi. La “fede” non consiste più nel fare qualcosa per Lui e basta, ma accettare riconoscenti tutto quello che Lui fa per noi.
In questo è stato chiaro: “Non sono venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20,28).
Siamo figli di Dio, perché è Lui che ci ha generati come tali, con tale privilegio.
Tocca però a noi “diventare” veri figli di Dio: non lo siamo semplicemente per nascita, per appartenenza ad un popolo eletto, come succedeva per la casta sacerdotale dell’antico testamento: per essere veramente tali, dobbiamo diventarlo, dobbiamo cioè essere noi a “trasformarci” in figli. Come? Amando gli altri. Non con preghierine, digiuni o fioretti, ma con l’amore vero; perché saremo figli, solo quando sapremo amare anche chi non ci ama, quando ameremo senza aspettative, quando perdoneremo con amore, sempre e tutti. Perché, come Giovanni chiarirà nella sua prima lettera: “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8).
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Più che “abitare in mezzo a noi” il verbo greco ™sk»nwsen dice letteralmente: “venne a piantare una tenda fra noi” (skenÐ = tenda); farebbe cioè riferimento all’esodo degli Israeliti dall’Egitto, durante il quale Dio li accompagnava assicurando la sua presenza in una “tenda”. (Es 33,7-11; 40,34-38). In pratica Giovanni introduce qui una novità rispetto al passato: Dio cioè non abiterebbe più nel tempio tra i sacerdoti, ma in una tenda in mezzo al popolo.
Questa di Giovanni è una visione teologica decisamente “trasgressiva”: Dio non è più in un luogo esclusivo, solitario, ma “in mezzo” al suo popolo, tra la “sua” gente. Dio non è più immobile, fisso, in un luogo prestabilito, ma in continuo cammino, insieme agli uomini. 
La presenza di Dio non è più legata quindi ad un “luogo” ma ad un “tempo”: vale a dire nell’esatto momento in cui c’è l’amore, lì c’è Dio.
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14).
Nell’Antico Testamento nessun uomo poteva vedere Dio: Gesù al contrario dirà: Dio si vede... “Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”; in Gesù, cioè, c’è già tutto quello che è possibile vedere di Dio: gloria, potenza, amore. Possiamo pertanto dire che non è Gesù ad essere come Dio, ma è Dio che è come Gesù.
Quando la gente parla di Dio, dice tutto e il contrario di tutto. Il vangelo invece non solo è chiaro ma estremamente pratico: Dio è come Gesù: se vuoi sapere chi è Dio, guarda, imita, diventa, come Gesù. Tutto ciò che non è di Gesù, che non rispecchia Lui, non è da Dio; così non vengono sicuramente da Dio quelle pratiche religiose, quei pietismi puramente esteriori, quell’ascetismo formale, in quanto non si rispecchiano in Gesù, ma soddisfano semplicemente il nostro “ego”, la nostra voglia di esibirci. Gesù al contrario è “pieno di grazia e di verità”, ossia è “pieno di amore vero”: tutto quanto egli compie è “pieno di amore e di verità”.
È la caratteristica di Dio: l’amore del Dio di Gesù è un amore fedele, che non tradisce, che non cerca esibizionismi, personalismi, che non si vendica, che rimane sempre invariato nel tempo, anche se gli giriamo le spalle, anche se lo tradiamo.
Molte persone purtroppo pensano di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile nei suoi confronti, di essere indegni di Lui: ma Lui non è così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre: “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Una certezza ci deve sostenere sempre: l’amore di Dio non tradisce mai di fronte a niente, di fronte a nulla. Amen.



venerdì 27 dicembre 2019

29 Dicembre 2019 – S. Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.


“Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt 2,13-15.19-23).

Oggi, festa della Santa Famiglia. Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una minuscola comunità esente da ogni difficoltà e contrarietà. Di essa ci è stata talvolta tramandata un’immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con più problemi di tante altre: una madre rimasta incinta non si sa come; un padre che, dopo la nascita del figlio, scompare (che fine ha fatto Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala” questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici, che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà le avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe, nel piccolo paesino di Nazareth: ed essi erano veramente santi! Perché allora noi, che non siamo proprio dei santi, dovremmo esserne esenti?
La famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi paradisiaci, del “tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come sappiamo, è quello che è, parziale, limitato, mai perfetto, perché legato alla fragilità umana; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo anche se molte famiglie si ritrovano a vivere insieme, anche se siedono sempre attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”: c’è infatti la famiglia-autogrill in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma, in cui uno ordina, uno comanda, e gli altri devono obbedire; c’è la famiglia-albergo in cui tutto è perfetto, ordinato, ma dove non c’è vita, non si ride e non si scherza insieme, non ci si racconta e non ci si ascolta; c’è la famiglia-tv dove il padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono stare in silenzio.
Nella nostra società ci sono molte tipologie di case, molte abitazioni: c’è la casa al mare, in montagna, all’estero; c’è una “seconda casa” che è il pub, l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante case, tante stanze, tanti locali diversi, tante scelte di vita, ma di “famiglie” vere, ce ne sono ben poche. Molto poche!
Perché non basta che due individui si mettano insieme, vivano sotto lo stesso tetto, per essere una “famiglia”. Ci vogliono soprattutto due genitori esperti, maturi, un padre e una madre consapevoli di affrontare un ruolo estremamente importante.
Ora, se per i bambini c’è la scuola materna, elementare, media, superiore, l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, se per fare un qualsiasi lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi di formazione specializzati, per chi vuol formare una famiglia, per essere genitori responsabili, in grado di educare, non esiste purtroppo nessuna scuola. Eppure ci sarebbe anche per loro una grande necessità di andare a scuola! Ma chi può insegnare loro? Da chi possono imparare?
Eppure una famiglia esemplare, una famiglia che può insegnare a tutti, una famiglia autentica maestra, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio, ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, con il comportamento ci ha indicato quei principi fondamentali che ciascun genitore dovrebbe praticare e trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione, la preghiera.
Tutti i genitori, papà e mamme, sono chiamati ad imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova in sé stessa entusiasmo, amore, sopportazione, rispetto reciproco, momenti di crescita spirituale, è destinata ad appiattirsi, a rinsecchirsi, ad esaurirsi e, prima o poi, a perdere ogni linfa vitale, a morire. In tale contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di Gesù.
La storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che, in qualche modo, è il “destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha un suo “Erode”: per crescere deve soffrire, superare difficoltà, conflitti, umiliazioni. Ogni bambino deve, in qualche modo, fuggire dalla propria abitazione, da quello che lui è, dalla profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare un altro. E tutto questo per salvarsi, per affermarsi. Ogni bambino, fortunatamente, ha una forza interna, la forza del suo voler vivere ad ogni costo, che è più grande di tutte le forze contrarie, avverse e che gli permette di tornare sempre nella “sua casa”, nella terra promessa.
Soffocare, uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera strage degli innocenti: perché egli è quella parte di noi che sa stupirsi; che sa amare pienamente, completamente, sinceramente, che si dà senza trattenere niente; è la parte di noi che sente, che ascolta, che vive tutto con intensità, che nel bisogno sa chiedere aiuto, che non si sopravvaluta, che conosce i propri limiti; ma è anche quella parte di noi che è felice, che danza, che canta, che ride, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne frega di cosa dice la gente.
È così bello lasciarsi andare! Perché è la vita che è bella! Dobbiamo soltanto vincere la paura del nostro “Erode”: che però, a ben guardare, è lui che ci teme di più!
La festa di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli un bambino? Eppure Erode è terrorizzato da quel bambino, ha paura a lasciargli spazio, ha paura che cresca, che prenda forza; ha paura di non saperlo più controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è, invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire, che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza del “nostro” bambino: ed altri innocenti (che non c’entrano niente) saranno costretti a subire la nostra collera, il nostro disagio, la nostra rabbia. E saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena senza fine.
Guardare quel nostro “bambino”, è tornare a guardare oltre le nostre deformità, a quando i mali e i condizionamenti subiti, non avevano ancora segnato il nostro vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nel nostro esistere per un motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è una parte di noi che nessun Erode potrà mai distruggere. È trovare la forza, un punto d’appoggio, per ripartire.
Perché solo rialzandoci dalle miserie della vita, potremo vederci come Dio ci ha pensato, prima che il nostro volto si sfigurasse: solo allora potremo vedere la nostra infinita bellezza, la nostra grandezza e preziosità, e ci sarà chiaro che siamo angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a vedere il bambino che egli era, riesce a capire finalmente cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.


giovedì 19 dicembre 2019

22 Dicembre 2019 – IV Domenica di Avvento


“Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto” (Mt 1,18-24).

Per Giuseppe non fu sicuramente una notte facile quella! Lui i suoi progetti li aveva, eccome. Progetti modesti, da giovane artigiano: la bottega andava bene, merito della sua bravura e della sua affabilità con i clienti. Certo, non era una gran piazza, Nazareth, ma col tempo, chissà, avrebbe potuto ingrandirsi e, addirittura, trasferirsi nella vicina Sefforis. Da lì a poco avrebbe preso in casa la sua promessa sposa Maria, che tutti gli invidiavano per la bellezza e la modestia innata. Insomma, per Giuseppe, il pensiero di una famiglia con quella ragazza che gli aveva rapito il cuore, era fonte di gioia incontenibile.
Improvvisamente però, i progetti di Giuseppe vengono frantumati da un impensabile intervento di Dio: l’inattesa e impensabile gravidanza di Maria, della quale lui non è responsabile, lo getta nell’angoscia. Ma come: Maria? Proprio lei? Come è potuto succedere? Lui è l'unico a sapere che quel figlio non è frutto del suo seme. L'unico, insieme a Maria. Ed ora, cosa fare?
Non è il tempo della rabbia, questo, né del piangersi addosso; è il tempo di agire. Consegnarla alle autorità, abbandonandola al suo destino? Lui sa bene che il destino delle donne adultere è la pubblica lapidazione. No, non può fare questo.
La notte sopraggiunta alla tragica notizia, deve essere stata quindi terribile per il povero Giuseppe: l’ansia che lo tiene sveglio, il rigirarsi continuamente nel pagliericcio, le orribili visioni del domani che continuano a gettarlo nella disperazione più cupa. Ha sempre davanti agli occhi il volto sorridente di Maria: non riesce a capacitarsi, a credere alla realtà, non vuole arrendersi all'evidenza. Il suo orgoglio di maschio è sicuramente ferito, ma la tenerezza e le lacrime dell’innamorato hanno ben presto la meglio.
Il suo cuore improvvisamente si placa quando decide di seguire una soluzione alternativa: al rabbino avrebbe detto che si è stancato di Maria, che non l’ama più e che quindi scioglieva il contratto matrimoniale. Maria ne sarebbe uscita con l'onore compromesso, certo, ma avrebbe avuto la vita salva. Ecco, sì, questa è una buona idea. Perché Lui amava immensamente la sua giovane promessa sposa.
Il racconto potrebbe anche concludersi qui e noi potremmo già identificarci nella nostra vita personale con tutti i sogni infranti da un imprevisto, da una malattia, da un incidente, da una ingiustizia patita, dalle tante contrarietà che ci hanno ingiustamente frenato nelle nostre legittime aspirazioni. Parlo ovviamente non dei piccoli sogni legati a cose materiali, ma penso ai grandi progetti di vita, alla realizzazione di un futuro familiare e professionale dignitoso e stabile. Anche nel nostro cammino di fede possiamo a volte sperimentare impedimenti e disagi, quando pensiamo che Dio si sia allontanato da noi, e percepiamo la chiesa non come rifugio, ma come un ostacolo, con il risultato che quanto credevamo importante e fondamentale, ci sfugge e muore.
La storia di Giuseppe raccontata da Matteo, però, non finisce qui: non termina nemmeno con il suo proposito di agire nei confronti di Maria con bontà e rettitudine.
Dopo il dormiveglia tormentato dai dubbi e dall’angoscia, finalmente il sonno arriva: lo prende sul fare del mattino. Ed è lì che succede: un angelo, materializzatosi improvvisamente nel sonno, gli parla di una missione da compiere, di un figlio che avrebbe salvato il mondo, che lui, Giuseppe, non deve preoccuparsi di nulla, perché questa è la volontà dell’Altissimo. Un sogno strano, dolce, quasi vero. Maria era sua, era la sua sposa, ma Dio dall’eternità si era innamorato di lei, e aveva scelto il suo grembo verginale per la nascita del Verbo, suo Figlio.
Nel sogno Giuseppe tace: è stupito, attonito, senza parole. Poi si sveglia, sereno. I pensieri bui sono lontani, fuggiti con le tenebre: ora Giuseppe ha riacquistato tutta la sua forza e il suo entusiasmo: se Maria ha accettato di prestare il grembo a Dio, lui, Giuseppe, può anche fargli da padre a quel Dio che sarebbe nato.
Un nuovo progetto prende forma in Lui proprio dalle rovine del precedente, ormai irreparabilmente distrutto: Dio lo vuole coinvolgere in una storia che è decisamente superiore alle sue umane possibilità, una storia che vede come protagonista Maria, la sua giovane sposa:
Dio vuole entrare nella storia umana, servendosi della loro collaborazione.
Matteo, ottimo conoscitore dell’animo umano, ci fa notare che Giuseppe è “giusto”: cioè irreprensibile, autentico, onesto, un uomo pieno di dignità, non vendicativo; uno che non giudica secondo le apparenze; che pur ferito come marito, capisce che Dio, per assumere le sembianze umane, ha scelto Maria, e nella generosità del suo cuore, lascia prevalere la tenerezza e l’amore per quella sposa che deve condividere con Lui. È “giusto” perché, mettendosi dalla parte di Dio, si oppone alla follia dominante e al giudizio di morte della gente. Giuseppe è “giusto”, come potremmo esserlo tutti noi, se solo sapessimo amare come lui, e permettessimo umilmente a Dio di disporre di noi secondo la sua volontà.
Cerchiamo allora di imitarlo: mettiamo da parte la nostra voglia di apparire, coltiviamo seriamente in noi quelle virtù che devono essere sempre i nostri valori fondamentali: la mitezza, la bontà, la pazienza, la carità; impariamo a vivere la chiamata di Dio con il massimo impegno nell’umiltà, nel nascondimento: del resto, Dio conosce già perfettamente il nostro intimo e tutto quanto ci riguarda, e non gli serve una campagna pubblicitaria per quel poco che facciamo; il protagonismo ad ogni costo lasciamolo agli uomini del mondo: uomini che purtroppo oggi sono sempre più arroganti e ipocriti, gente che urla soltanto, per imporre il nulla che è in loro.
Di quanti Giuseppe avrebbe bisogno oggi la società! In politica, negli uffici, in famiglia, nei rapporti di coppia, nelle comunità religiose: uomini e donne “giusti”, sui quali Dio può veramente contare, dei quali può fidarsi in tutto, per realizzare nel mondo i suoi progetti di salvezza!
Ma non basta. Per far nascere Dio in noi, dobbiamo essere anche dei “sognatori”, gente che in questo mondo disincantato e cinico, ha il coraggio di credere ancora negli ideali, nelle promesse di Dio. Come Giuseppe, dobbiamo avere il coraggio del sogno, di piegare la nostra volontà a quella di Dio che ci chiede di collaborare al Suo progetto divino di salvare il mondo: un progetto che, dopo il suo ritorno al Padre, egli ha affidato alla sua Chiesa; un progetto divino che pertanto ci vede tutti responsabilmente coinvolti, consapevoli che se non sappiamo più sognare il nostro inserimento in Dio, se non inseguiamo gli ideali che Lui ci ha lasciato nel Vangelo, se non li ascoltiamo, se non li dimostriamo al mondo con la nostra vita, finiamo per soffocare lo Spirito di Dio in noi, continuando a vivere da parassiti, servi inutili, tralci infruttuosi, destinati ad essere recisi e bruciati.
Viviamo allora anche noi l’imminente Natale con la stessa fede di Giuseppe: viviamolo coinvolti come lui, nella sorpresa di un Dio perdutamente innamorato di noi, che non ci vuole inerti spettatori, pusillanimi e rinunciatari, ma discepoli innamorati in continua tensione verso il compimento della Sua volontà.
Questo è il mio cordiale e sincero augurio a tutti voi. Buon Natale.
Amen.



giovedì 12 dicembre 2019

15 Dicembre 2019 – III Domenica di Avvento


Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,2-11).

Oggi, la Parola ci fa incontrare ancora una volta Giovanni: questa volta però è un uomo ben diverso dall’esaltato e scontroso urlatore del deserto: è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia covata nei suoi confronti da una isterica cortigiana che manovrava la debolezza di un re-fantoccio.
Giovanni ha vissuto tutta la sua vita di predicatore scomodo solo per preparare la strada al Messia, senza alcun riguardo verso coloro che vivevano nel peccato e nel vizio; e quando lo ha finalmente riconosciuto, il Messia, nascosto tra la folla dei penitenti che giungevano a farsi battezzare, lo ha accolto schernendosi, riconoscendo in lui il “potente” che dopo di lui avrebbe battezzato non con l’acqua ma con lo Spirito santo e fuoco; in cuor suo però era rimasto stupito, confuso per l'atteggiamento riservato e umile, con cui si era presentato colui che doveva essere il Salvatore del mondo.
Ora, nella solitudine del carcere, Giovanni è perplesso; pensa, è dubbioso. Le notizie che i suoi inviati gli riportano non fanno che accrescere le sue perplessità, lasciandolo costernato: il Messia non si sta comportando come un condottiero, un capo del popolo, non incita con veemenza la gente, non è rivoluzionario né tantomeno catastrofico, non annuncia l’imminente giudizio di Dio, non minaccia la sua vendetta con il fuoco divorante. Gesù, al contrario, continuando nel suo profilo basso, semplice, suadente: offre perdono incondizionato a tutti, rimette le colpe, non minaccia né attua vendette, dice che quel “fuoco divorante” Lui lo vuole accendere, certo, ma partendo dall'amore, non dal terrore. È insomma un Messia troppo dissimile da quello che Giovanni e Israele si aspettavano, è un personaggio completamente fuori schema, fuori da ogni loro sospirata previsione.
Del resto Dio spiazza sempre tutti: anche quelle persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiando di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni si aspetta, è una venuta plateale, una irruzione nella storia con un frastuono assordante, accompagnata da schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, è solo; ci svela il volto di un Dio riservato, quasi nascosto: evidente, certo, ma pieno di ogni tenerezza e sensibilità, in ogni caso mai in maniera banale.
Gesù praticamente ci svela un Dio che divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no, in chi cioè gli volta le spalle. L'amore è una possibilità immensa, è l'unica cosa che ci lega tutti. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare, nella fragilità di ciò che siamo o che ci impegniamo di essere.
Ma noi, dal canto nostro, siamo certi di Dio? Riprendiamo allora in mano il Vangelo e chiediamo a Dio, nella preghiera, di condurci sempre per mano nella nostra autenticità. Siamo sempre pieni di dubbi? Consoliamoci, non siamo i soli: anche il più grande degli uomini, l'ultimo dei profeti, è stato assalito dai dubbi.
“Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete…” replica Gesù ai discepoli che il Battista aveva inviato per informarsi sulla sua identità; non dà loro una risposta esauriente. Devono trarla da soli. La fede non richiede l’evidenza, non necessita di “prove certe”, Dio non è il risultato di un teorema scientifico, con buona pace di quei simpaticoni, che pretendono di vedere l’anima nelle radiografie! Ci vengono offerti degli indizi, solo deboli indizi che lasciano intatta l'ambiguità del segno. Non è Dio che deve dimostrare qualcosa, siamo noi che dobbiamo trovarlo, accantonando le nostre ideologie, prendendo coscienza e conoscenza di noi stessi e del Dio che abita in noi.
“Guardati intorno, Giovanni”, è in pratica l’incoraggiamento di Gesù a suo cugino, dopo avergli elencato i grandi segni messianici profetizzati al popolo da Isaia.
Ecco, questo è il punto: per riconoscere i segni della presenza di Dio, dobbiamo anche noi “guardarci intorno”: renderci conto di quante persone nel mondo hanno incontrato Dio, e continuano ad incontrarlo: magari gente disperata, che trovandolo, ha dato un senso alla loro vita, convertendo il proprio cuore; persone straziate dal dolore, arrabbiate con Dio, che hanno imparato grazie a Lui, a perdonare; persone accecate dall'invidia o dalla cupidigia che con Lui hanno messo le ali, trasformandosi in gioia, in bontà, in amore quotidiano, in donazione di sé stessi! Dobbiamo guardare anche noi, come Giovanni, quelli che sono i segni della vittoria silenziosa del Messia, la forza dirompente del Vangelo sulle persone che cambiano, che guariscono, che scoprono Dio, potendo così ammirare, nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto, gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in deserti di solitudine e di egoismo.
Dobbiamo guardare e riconoscere in questi segni la presenza del Regno di Dio.
Purtroppo spesso non li vediamo, non ce ne rendiamo conto, non li vogliamo vedere, non li possiamo vedere, perché il problema tragico del nostro tempo è proprio quella cecità interiore che impedisce di vedere, di toccare con mano la presenza di Dio, nascosta, silenziosa, ma decisamente reale e concreta, in tutto ciò che ci circonda.
Quante sfumature della natura i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a cogliere! Meraviglie che ci lasciano indifferenti, che non ci colpiscono, non ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il cuore, nulla purtroppo di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui rimaniamo solo tanti ciechi famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo, la insudiciamo; la osserviamo, ma solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo, scrutiamo, ma non “vediamo”! 
“I ciechi riacquistano la vista”: chi invece incontra Dio, vede, ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia e si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case attraverso i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non si impadronisce di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla. Entra ed esce delicatamente, senza alterare o sconvolgere nulla.
Prepararsi al Natale significa, allora, modificare il nostro sguardo, far constatare ai tanti distratti, a noi ovviamente per primi, che il Regno avanza, è presente, che tutti possiamo renderlo presente, contribuire a realizzarlo. Impariamo tutti a riconoscere i segni della presenza di Dio, alziamo lo sguardo dalla nostra indifferenza, dal nostro dolore, per accorgerci della presenza e della salvezza di Dio, che si attua continuamente nelle nostre soffocate città.
In questa manciata di giorni che mancano al Natale, diventiamo anche noi segno di speranza per quanti a Natale si sentono abbandonati, soli, dimenticati! Pochi giorni per assicurare chi non sa se Dio c'è, e si chiede se anche il Nazareno, in fondo, non sia che un grande inganno, che Dio c'è, che è amore: diciamo loro come Dio abbia cambiato la nostra vita, come ci abbia soccorso nel dolore e nelle prove della vita. Perché Dio c’è veramente! Ecco, sia questa la nostra prospettiva, in un mondo che si dibatte tra problemi irrisolti, ipotesi strampalate, dubbi laceranti, dilaganti incertezze. Domandiamoci, come singoli credenti e come Chiesa, se siamo la risposta vivente alle domande profonde e incalzanti di tante persone che si dibattono nel buio; domandiamoci se siamo veramente quella risposta, che si trasforma in offerta di solidarietà, in atteggiamento di ascolto, in annuncio di speranza... Amen.


giovedì 5 dicembre 2019

8 Dicembre 2019 – Immacolata Concezione di Maria SS.


“Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te” (Lc 1,26-38)

Un angelo, un messaggero di Dio, si presenta in una casupola, meglio una grotta, situata tra le montagne della sperduta Galilea, abitata da un’umile e povera ragazza. E proprio qui la Parola di Dio, pur incomprensibile e inspiegabile, trova da parte della fanciulla la massima accoglienza.
Dio aveva già inviato il suo portavoce in una precedente occasione: nella religiosissima Giudea, nella civilissima e celebre Gerusalemme; e lo aveva mandato da un sacerdote del Tempio, Zaccaria, un “giusto”, un addetto alle cerimonie sacrificali, uno che era in costante contatto col “divino”. Solo che quel giusto, quel sacerdote, non gli aveva creduto, gli aveva argomentato che il messaggio recapitatogli, vista la situazione, non poteva essere altro che una “fandonia”. Un sacerdote che non crede, però, non ha nulla da dire al popolo: dice magari tante parole, racconta un sacco di cose, ma non trasmette nulla, non è un portavoce (pro-feta) di Dio. Per questo, Dio lo ha reso muto. Eppure, ciò che Dio attraverso il suo angelo gli proponeva, non doveva poi suonargli tanto strano, visto che lui era uno che conosceva molto bene la Bibbia: tante altre volte, infatti, Dio aveva fatto nascere figli da donne sterili: per esempio Sara, prima di avere Isacco, era sterile; Rebecca prima di avere Esaù e Giacobbe era sterile; i loro mariti erano Abramo e Isacco, personaggi famosissimi. Anche la madre di Sansone era sterile; anche Anna, Michal, la donna Shunammita, ecc. Perché non poteva succedere anche a sua moglie Elisabetta?
Zaccaria insomma era un sant’uomo, uno che sapeva tutto di Dio, ma che, in pratica, non “aveva” Dio. E a volte il troppo nasconde proprio l'insufficienza: uno cerca di sapere tutto, proprio perché non “possiede” ciò che cerca: e non “possiede” perché cerca con la mente ciò che invece va cercato con il cuore e con l’anima.
Dunque: dopo aver fallito il primo tentativo (con Zaccaria), l’angelo Gabriele ci riprova. Ma questa volta fa tutto in maniera completamente diversa. Prima era andato nella Giudea, terra santa e fedele a Dio, protagonista della storia della salvezza; ora va in Galilea, regione del nord, dove la popolazione si è mescolata con i pagani; una regione marchiata dal profeta Isaia come “Terra pagana”. Giuseppe Flavio, storico del tempo, aggiunge che i galilei erano persone litigiose, piantagrane; erano i poveri, i diseredati del tempo, i braccianti dell’epoca, sfruttati dai latifondisti della Giudea, e per questo continuamente in ebollizione, in rivoluzione. Al punto da far esclamare Natanaele: “Cosa può venire mai di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Erano insomma considerati degli incivili, abitavano in case per la maggior parte ricavate in caverne, nelle grotte; gente che era meglio lasciar perdere. 
In stridente contrasto con le pietre preziose, con la sontuosità e lo splendore del tempio, questa volta l’angelo entra in una misera casupola, in parte ricavata dalla roccia, con delle mura fatiscenti. Prima da un uomo e adesso da una ragazza, da una donna: cosa riprovevole, una bestemmia, un’eresia. La nascita di una donna infatti era considerata una disgrazia, una punizione lanciata da Dio contro determinati peccati; la nascita di una bambina veniva vista come un fastidio. Le donne non avevano nessun diritto, erano impure, e per giustificare questo si chiamava in causa la Bibbia. Quindi, che Dio si potesse rivolgere ad una donna era totalmente impensabile, fuori da ogni ragionamento.
Ma ciò che è assurdo per gli uomini non lo è affatto per Dio! Dio non guarda ciò che guarda l’uomo. Cosa fa allora l’angelo Gabriele?
«Nel sesto mese...». I numeri per la Bibbia hanno sempre un valore ben definito. Per esempio nella creazione, Dio ha lavorato per sei giorni: il settimo l’ha riservato a sé stesso: dopo i sei giorni è arrivato quindi il giorno di Dio, un evento divino, un incontro con Dio. Per cui quando Luca scrive qui “nel sesto mese” lascia già capire che più tardi arriverà qualcosa di soprannaturale, di divino.
E da chi va Gabriele? Da una donna, promessa sposa, che si chiama Maria. Luca inserisce volutamente il nome; ora, per noi, “Maria” è un nome soave; ma di certo non lo era a quel tempo: nella Bibbia esiste una sola Maria, la sorella di Mosè; una donna molto ambiziosa, che aveva cercato di fare le scarpe al fratello Mosè. Per questo Dio la maledisse con la lebbra (la lebbra era la maledizione di Dio). Dopo quella Maria nessuna più si chiamerà con quel nome fino alla madre di Gesù. Perché? Perché era un nome maledetto, oggetto di maledizione. Nessuno di noi metterebbe nome a suo figlio “Giuda”, un nome che si collega ad un traditore. Così era per Maria.
Quando l’angelo entra le dice: «Ti saluto o piena di grazia»: “Kecaritwmnj”, “riempita di grazia”; non si riferisce alla bravura di Maria, ai suoi meriti, al fatto che nessuna donna era brava quanto lei. No! Si riferisce all’azione di Dio. Lei è niente (Galilea, Nazareth, donna, Maria, ecc.) eppure Dio, di sua iniziativa, gratuitamente la riempie, la colma. Questa è la grandezza di Maria: Maria è grande non perché era santa o perfetta (come viene descritta in certe litanie) ma perché è la prima ad accogliere senza pretese l’amore gratuito di Dio.
Mentre Zaccaria e i sacerdoti del Tempio volevano conquistarsi l’amore di Dio con le preghiere, i riti e la santità, Maria non fa nient’altro che dirgli: “Sì”. Perché l’amore di Dio è immeritato, è sempre gratuito.
L’angelo poi le dice: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce, e lo chiamerai Gesù». Ma le donne ebree non potevano mai mettere il nome ai figli: erano sempre e solo i padri che lo facevano! Questa volta però sta succedendo veramente qualcosa di straordinario: Dio rompe completamente con ogni tradizione precedente, inizia un nuovo corso, qualcosa di completamente nuovo.
È Dio infatti che si manifesta come il totalmente nuovo: nessuno lo può controllare, nessuno può chiedergli spiegazioni, rassicurazioni, perché nessuno conosce questo “nuovo”. Qual è allora l’unica cosa da dire? La stessa di Maria: “Non so dove, non so come, non so perché, non so quando, ma mi fido di te”. Tutto qui.
E Maria risponde all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo!». Zaccaria era stato incredulo, Maria no. Lei vuole soltanto sapere il come, come avverrà tutto questo. In passato qualcuno, appellandosi proprio a questa frase, affermava che Maria avesse fatto voto di verginità. Ma questa cosa è impossibile per il mondo ebraico. Noi invece sappiamo perché Maria ha delle perplessità: perché era nella prima fase del suo matrimonio: era cioè fidanzata, già sposata, ma non ancora convivente: oltretutto risultare incinta in quel periodo, significava condanna e morte sicura.
E l’angelo spiega: «Lo Spirito Santo scenderà su di te». Emblematica questa frase; Luca mette qui in parallelo la discesa dello Spirito Santo su Maria, con la discesa dello Spirito Santo sulla prima chiesa. E chi è presente ora, come anche allora? Sempre Maria (At 1,14)!
Per il vangelo, dunque, Maria è la donna dello Spirito, è colei che vive, dall’inizio alla fine, guidata sempre dallo Spirito. Lui la guida e lei lo segue.
«Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». I “servi del Signore”, nella Bibbia, sono quelli che hanno obbedito ai comandi di Dio e che lo hanno seguito. Maria è l’ultima serva del Signore. È colei che chiude un tempo: dopo di lei nessuno sarà più “servo”, ma soltanto “figlio”.
Maria quindi affida all’angelo il suo “Sì” da riferire a Dio; anche se non sa esattamente a cosa dice sì; il suo è un sì totalmente nuovo, totalmente diverso da ciò che lei poteva pensare e capire. Ma apre comunque il suo cuore, offre la sua piena disponibilità. Perché Lei si fida di Dio. È per questo che apre un tempo nuovo, un nuovo corso storico: il tempo della fiducia. “Mi fido di te”. Essere uomini e donne “dello Spirito”, vuol dire appunto fidarsi di Dio: significa rispondere ad ogni sua chiamata con un “Sì” pieno e generoso.
Al contrario noi ci chiudiamo ermeticamente, recalcitriamo, dubitiamo, non ci fidiamo: siamo diffidenti perché guardiamo solo a noi stessi e non a Lui. Non vorremmo avere problemi: ma i problemi li troviamo, e numerosi anche, se continuiamo ad assecondare il nostro egoismo, se ascoltiamo solo noi stessi. Per questo dobbiamo rinforzare la nostra fede. Perché solo una fede sincera, disinteressata, umile, potrà far sgorgare, dal profondo del cuore, il nostro “si” a Dio: “Sì, Signore, mi fido di te!”. Sull’esempio di Maria. Amen.



giovedì 28 novembre 2019

1° Dicembre 2019 – I Domenica di Avvento – Ciclo “A”


“Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,37-44).

Dio arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o crediamo di cercarlo, e magari stoltamente convinti di averlo trovato, ci adagiamo senza fare più nulla, lasciando che la vita continui a scorrerci addosso, con i suoi desideri, le sue delusioni, le sue scoperte, le sue paure, i suoi entusiasmi e i suoi fallimenti.
Per questo abbiamo bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, per guardare dove stiamo andando, di trovare un filo conduttore che dia un senso a tutte le nostre vicende.
Con l'avvento, tempo di silenzio, di meditazione e di revisione interiore, un nuovo anno liturgico si apre davanti a noi, portandoci al grande appuntamento col Dio in noi: il Natale.
Non il Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso: uno stravolgimento del vero Natale, una fiera insopportabile della bontà posticcia e fasulla, che ha ridotto il Natale di Gesù ad una festa di compleanno, priva di qualunque espressione d’amore per il festeggiato.
Non è questo il nostro Natale: perché noi abbiamo necessità di incontrare solo quel Dio, che ogni anno cerca di rinascere bambino nei nostri cuori, diventando nuovamente accessibile, incontrabile, con il suo volto sorridente, ben riconoscibile e invitante.
Da oggi iniziamo a leggere Matteo, il pubblicano peccatore divenuto discepolo di Gesù: il suo vangelo, ci accompagnerà e ci incoraggerà sull'impervia strada della nostra conversione.
Il brano di oggi, tipicamente escatologico, non è facilmente comprensibile, e rischia di essere letto in chiave sbagliata.
Gesù, come al solito, è straordinario; si spiega cioè riferendosi agli eventi antichi: al tempo di Noè, per esempio, tutti, buoni e cattivi, vivevano nella superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli ma non si accorgevano di nulla, non pensavano a nulla. Tutti vivevano nelle loro illusioni, tutti si guardavano bene dall’accorgersi di ciò che succedeva intorno a loro, dall’aprire gli occhi sul futuro, perché aprirli avrebbe richiesto un cambiamento radicale della loro condotta. Così venne il diluvio e travolse tutti. “Tenetevi pronti” è dunque il suo invito conclusivo, vegliate, state allerta, pronti, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. In quel giorno, infatti, uno sarà preso, l'altro lasciato; uno incontrerà Dio, l'altro no; uno sarà salvato, l'altro abbandonato a sé stesso. Dio è discreto, modesto, non impone la sua presenza, ma la sua venuta finale è improvvisa, imprevedibile, tremenda. Un chiaro riferimento, ovviamente, all’“eskaton”, alle realtà ultime, al ritorno finale e glorioso di Dio.
A noi però è chiesto, nel frattempo, di prepararci a fare memoria anche di un’altra venuta, meno traumatica e decisamente più consolante, quella di Cristo redentore che, assumendo le nostre sembianze umane, è venuto per riscattare l’umanità dal peccato.
La Chiesa dedica a questo evento quattro settimane: un “tempo favorevole” in cui spalancare il nostro cuore, aprire gli occhi, e lasciar esplodere il desiderio di incontrare Dio. Come?
Le vie sono tante, basta convinzione e buona volontà: da umili principianti, per esempio, cerchiamo di avvicinarci a Lui, ritagliandoci magari uno spazio quotidiano per la preghiera, per la meditazione della Parola; oppure prima di iniziare il lavoro o durante la giornata, facciamo una piccola deviazione per entrare in una chiesa e salutare Gesù Eucaristia; ancora: cerchiamo di aiutare, secondo le nostre possibilità, qualche nostro fratello più sfortunato di noi, con un gesto di solidarietà, una buona parola e così via. Sono piccole cose che, se vissute bene, ci aiuteranno sicuramente a sintonizzare la nostra anima col divino, preparandoci ad accogliere più degnamente l’Emmanuele, il Dio con noi.
Purtroppo in questo periodo veniamo sempre più bombardati da una assillante pubblicità in vista del Natale, che ne stravolge il suo messaggio religioso; immagini di un buonismo fasullo, che esaltano puramente l’aspetto gaudente di una festività senz’anima, ostentato con superficialità e stupidità.
Evitiamo allora che il Dio dei poveri, il Dio che viene per gli emarginati di ogni tempo, il Dio che a Natale non nasce nel sontuoso Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme, continui ad essere sostituito da questo mondo con un buonismo sdolcinato e ipocrita. Se gli anziani soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita, non hanno anch’essi un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro essere cristiani, la nostra vita, il nostro esempio, il nostro annuncio di pace divina, sono ancora confusi, ambigui, travolti anch’essi da una inutile corsa al divertimento, alla spensieratezza, al benessere materiale.
Cerchiamo nei prossimi giorni di attesa che sono davanti a noi, di non farci travolgere da questo diluvio di parole e di immagini virtuali. Non lasciamoci fuorviare dalla mentalità edonistica del mondo, che è riuscito a banalizzare la festa sconvolgente di Dio che irrompe nella storia umana per salvarci da morte sicura.
Dobbiamo essere consapevoli di questo dramma che purtroppo si consuma ogni anno: da un lato Dio che si offre e si fa presente, dall’altro un’umanità assente, disinteressata, ignorante, che gli volta le spalle, che non si accorge di nulla: figli di Dio, che non vogliono vederlo.
Purtroppo Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato.
Per noi credenti, la solennità del Natale deve essere pertanto un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che ci obbliga a schierarci decisamente con Dio che, nella sua comprensione, nella sua dolcezza di Bambino, ci invita alla conversione.
In queste quattro settimane in Chiesa, nella tradizionale corona d’Avvento, viene accesa una nuova candela a settimana: quattro domeniche, quattro candele: per indicare un cammino di luce durante il quale siamo invitati a fare maggior chiarezza nella nostra vita, a far entrare in noi ogni giorno sempre più la luce di Dio, perché possa illuminare i nostri instabili passi.
Quattro candele che acquistano un significato solo se rappresentano un reale avanzamento, ancorché minimo, nel nostro cammino spirituale, se esprimono veramente la luce che rischiara il nostro buio opprimente, che illumina le nostre paure e le vince; se ci illuminano con la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate paura, con me nessun buio vi potrà mai ostacolare. Non lasciatevi prendere dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento, io sono con voi!”.
Ecco: a questo deve servirci l’Avvento: a riprenderci la nostra dignità di cristiani, per prepararci ad accogliere Colui che vuole abitare in noi, nella nostra “anima”, quel soffio divino del Padre, che “anima” la nostra vita.
Perché questo è tempo di riflessione, di cambiamento, di metamorfosi; un tempo vitale per poterci trasformare da inguardabili bruchi vermiformi, in leggiadre farfalle che si librano in alto, attratte dalla luce del Sole eterno. Amen.



giovedì 21 novembre 2019

24 Novembre 2019 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – N.S. Gesù Cristo Re dell’Universo


“In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,35-43)

La festa di oggi, Gesù Cristo re dell’Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede, una sfida alla nostra fragile contemporaneità, al nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Dire che Cristo è re dell’universo, significa che Lui avrà l’ultima parola sulla storia, su ogni storia, anche sulla nostra breve storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla falsa evidenza della sconfitta di Dio in questo mondo; dire che Cristo è re, significa credere invece che il mondo, nonostante tutto, non sta precipitando nel caos, ma nell’abbraccio tenerissimo e amoroso del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di testimonianza nel Regno, là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi dimostrativi, per dire a quanti hanno il cuore e la mente smarriti, “ecco, Dio vi ama”.
Cristo è un re fuori dagli schemi. Anzi: la regalità di Gesù è una regalità che va contro ogni nostra visione di un Re, per di più Dio; perché questo Dio Re è, agli occhi del mondo, il più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità: un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, messo alla gogna, sfigurato, piagato, sconfitto.
Una sconfitta, però, solo apparente, perché in realtà è la più esaltante vittoria dell’amore, un impensabile dono di sé per la salvezza del mondo.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che, contro ogni logica umana, manifesta la sua grandezza nel dono di sé stesso e nel perdono. Lui si è messo completamente in gioco, consegnandosi al mondo: non in maniera nascosta, non misteriosamente, ma in modo evidente, provocatoriamente evidente! Appeso ad una croce, ha giocato il tutto per tutto per piegare la durezza di cuore dell’uomo.
Gesù, è venuto a dirci di Dio, a raccontarci il suo amore, la sua vicinanza, la sua misericordia. Lui, figlio del Padre, ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E nonostante ciò, gli uomini ancora rispondono: “No, grazie! Non ci serve un Dio così! Preferiamo un Dio più lontano, magari scostante ed egoista, ma un po’ credulone, che quando serve lo possiamo facilmente convincere con le nostre chiacchiere e tenercelo buono con poco”.
Anche noi, forse, preferiamo farci un Dio simile, un Dio che soddisfi di più le nostre voglie, che ci assomigli di più nelle nostre fragilità umane, che non ci costringa ad una conversione impegnativa, che non ci chieda una adesione esclusiva, ma che si accontenti ogni tanto di qualche piccola attenzione; sicuramente preferiamo un Dio che non condanni le nostre infedeltà, ma semplicemente un Dio che le ignori, permettendoci di campare come meglio ci aggrada!
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell’inquietante affermazione della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: perché tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza salvare gli altri.
Il potente, così come lo pensa il mondo, è colui che salva sé stesso, che può permettersi di pensare solo a sé stesso, che ne ha i mezzi per farlo, senza bisogno degli altri.
In quest’ottica, Dio è un Dio con cui anche noi non possiamo misurarci: è il più potente dei potenti, Colui che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno! È un Dio che è per noi solo la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell’uomo potente, riuscito, ricco e sicuro; un Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
Ma il nostro Dio sulla croce, non salva sé stesso, non pensa a sé stesso, al contrario pensa a noi, salva noi, ciascuno di noi! Perché è un Dio che si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendo il suo cuore misericordioso al mondo, a me, a tutti.
I due ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono l’immagine del nostro essere discepoli.
Sono due malfattori, due uomini giustiziati secondo le leggi di quel tempo. Quello che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Il primo dei due non lo ammette e non può ricevere il perdono, il secondo si.
Il primo infatti sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa’ che accada quanto ti chiedo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; egli, cioè, concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente un suddito; ma a certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, la sua salvezza in extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta puerilmente il colpo, se va va. La sua richiesta non è amorevole: trasuda piccineria ed egoismo. Un po’ come il comportamento di tanti nei confronti della fede. “Cosa ci guadagno se credo?”
L’altro ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza, la sua, che è conseguenza delle sue scelte; mentre quella di Dio è innocente e pura. Sente e percepisce la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo pentimento e chiede amore, misericordia, salvezza.
Ecco: questa è l’icona del vero discepolo: di colui cioè che capisce che il volto di Dio è compassione, tenerezza, amore e perdono.
Nella nostra sofferenza umana, dobbiamo anche noi riconoscere: “davvero quest’uomo è il Figlio di Dio! Questo è il nostro Dio, questo è il Re che vogliamo!”
Allora, se finora abbiamo vissuto disinteressandoci di Dio, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo approfittati degli altri, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo disinteressati delle nostre infedeltà, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo inveito contro Dio per ciò che ci succede, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi dobbiamo cambiare. Perché solo cambiando possiamo immetterci sull’unica via che ci conduce a Dio, sulla via che ci permette di unirci a Lui, nel suo amore. Amen.