giovedì 7 aprile 2016

10 Aprile 2016 – III Domenica di Pasqua

«Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: Figlioli, non avete nulla da mangiare? Gli risposero: No. Allora egli disse loro: Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (Gv 21,1-19).-

Nel vangelo di oggi Gesù raggiunge i discepoli sul Lago di Tiberiade: ma essi non lo vedono. È sempre così: Dio c’è, noi non lo vediamo, quindi non c’è.
Lui chiede: “Avete qualcosa da mangiare?”. Lo chiede anche a noi: ma noi cosa abbiamo da offrirgli? Abbiamo qualcosa in noi di un certo valore da potergli dare? Un qualcosa che sia valido, efficace, utile al nutrimento e alla crescita della nostra e dell’altrui vita? Se siamo onesti dobbiamo rispondere: “No” (21,5). Perché in fondo dobbiamo ammettere che non siamo felici di come siamo, che ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati, insoddisfatti di tutto e di tutti. Quindi di veramente prezioso da regalare, non abbiamo proprio nulla. Anzi, un qualcosa di importante su cui lavorare ce l’abbiamo: è l'ammettere a noi stessi che non abbiamo nulla, che non siamo proprio nessuno! Un fatto che ci deve preoccupare: perché non possiamo risollevare la nostra situazione negativa se ci ostiniamo a ignorarla. Quindi la prima cosa da fare è prenderci di petto, e dirci francamente: “Così non va! Per che cosa viviamo? Che scopo ha la nostra vita?”. E fare una decisa inversione di marcia: una decisione che, vi assicuro, per farla ci vuole tanto coraggio: ma perché? Perché a noi piace vivere illudendoci, prospettandoci scenari di benessere e felicità, liberi da qualunque problema o imprevisto; un mondo posticcio e irreale in cui fingiamo di stare veramente a nostro agio: “Ho un lavoro, ho una casa, ho dei figli, non mi manca niente!”. Indossiamo la maschera pubblicitaria del “Mulino Bianco”, della famiglia felice, e tutto fila liscio. Ma dentro di noi? Meglio non guardare: perché troppo spesso moriamo di solitudine, di delusione, di malcontento, di rabbia, di vuoto.
Allora, la prima condizione per poter guarire, come già detto, è che dobbiamo ammettere di essere malati; dobbiamo soprattutto ammettere che siamo noi, e non gli altri, i malati gravi: siamo cioè noi per primi che dobbiamo cambiare vita, noi per primi che dobbiamo muoverci.
Dio ci aiuta certamente, ci mette veramente del suo, in questo nostro progetto di restauro interiore: ma non lo fa come pensiamo noi. Noi vorremmo che Lui intervenisse subito con una azione dall’esito istantaneo: un evento dal cielo, un miracolo incredibile che, all’improvviso, in un attimo, ci cambia la vita, fa sparire tutti i nostri problemi; una parola magica che, solo a pronunciarla, otteniamo quanto vogliamo. Ma non è così. Per raggiungere un risultato, anche minimo, dobbiamo provare, riprovare, faticare.
È quanto Gesù richiede ai suoi: dopo una intera notte di faticoso lavoro senza alcun risultato, Egli li rimanda in mare, al largo, nonostante fossero appena rientrati, stanchi e sfiduciati! Solo che ora li manda con un ordine ben preciso: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete” (21,6). La destra, per gli antichi, era la parte della ragione, della determinazione, del volere a tutti i costi un certo risultato, mentre la sinistra era quella dell’incompetenza, dell’affidarsi alle possibilità, al caso.
E lo richiede anche a noi; Gesù anche con noi adotta la stessa procedura: dopo i nostri fallimenti, ci rimanda ogni volta nella nostra vita, nel nostro quotidiano; e non ci dice di cambiare lavoro, di cambiare famiglia; non ci dice di stravolgere la nostra esistenza, di abbandonare tutto e tutti e di andare chissà dove. L’ordine che impartisce anche a noi è sempre lo stesso: “Fai le cose di prima, le stesse, ma adesso falle in maniera razionale, consapevole. Non vivere più con la testa fra le nuvole; non aspettare che le tue difficoltà spariscano magicamente, fatti delle domande serie, osservati, guardati, vedi come reagisci, chiediti cosa vuoi da te, qual è il tuo ideale, cosa ti appassiona”.
Allora, piuttosto che fare come fanno tutti, piuttosto che seguire supinamente la maggioranza, iniziamo col chiederci: “Io cosa voglio? Di cosa ho bisogno? Cosa mi va di accettare e cosa non mi va di accettare? Mi sta bene questo comportamento? Quali dinamiche mi muovono? Quali sono le paure che mi condizionano? Cosa mi blocca? Sono autentico in quel che faccio? Quali maschere preferisco indossare?”. Dobbiamo essere convinti che solo una vita vissuta consapevolmente può dare felicità. Per questo dobbiamo dare un nome, il suo nome, ad ogni cosa. E poi ancora: “In che cosa sono unico? Che cosa mi attrae nel profondo (perché “lì dove c’è il tuo cuore, lì c’è il tuo tesoro”)? Per che cosa voglio vivere? Quanto sono disposto a mettermi in gioco, ad espormi, a rischiare?”.
Noi ci illudiamo invece che quanto è in grado di saziare i nostri cuori si trovi al di fuori di noi (21,3). Però ciò che ci riempie le reti, ciò che ci fa cantare di gioia, ciò che ci fa sentire figli unici, e insieme fratelli, amati dallo stesso Dio, ciò che ci rende così vivi da lodarlo e ringraziarlo per il dono della vita, ciò che ci crea quell’energia continua che sentiamo dentro, è solo Lui, e Lui non si trova fuori di noi ma dentro di noi.
Per questo dobbiamo “stabilire il contatto” con noi stessi, dobbiamo calare le nostre reti dentro di noi; perché se vogliamo che esse (il cuore, l’anima) siano piene, è con noi che dobbiamo stare, con noi e con il Dio che ci inabita. Dobbiamo conoscerci, non dobbiamo fuggire di fronte ai nostri mostri, ma familiarizzare con essi, non dobbiamo trascurare il potere negativo dei nostri istinti, ma dobbiamo individuarli, dominarli e farceli amici; dobbiamo essere i padroni assoluti del nostro mondo interiore, sapendo di trovarvi sempre presente il Dio della Vita.
Questo fu il miracolo che gli apostoli riuscirono a compiere. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, nella vita di tutti i giorni. E con Lui la loro vita non fu più la stessa, da quel momento tutto cambiò.
Sappiamo, ce lo dice il vangelo di oggi, che Giovanni era il discepolo che Gesù amava (21,7): un amore che egli percepiva distintamente nel suo cuore, pur senza rendersene conto; un amore però che ha permesso solo a lui, umile pescatore da una vita, di riconoscere Gesù: “È il Signore!” (21,7). Così anche noi, se amiamo Gesù, se amiamo il nostro prossimo, se ascoltiamo ciò che ci suggerisce il cuore, se sentiamo il bisogno di cercarlo nel silenzio e nella preghiera, pur nella nostra debolezza e caducità, potremo un giorno “vedere” il Signore. E da quel momento la nostra vita inizierà a cambiare giorno dopo giorno, e ci scopriremo pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di gioia.
Ma, in sostanza, cosa dobbiamo fare? In che modo possiamo “vederlo” (e non solo “pensarlo”)? Come possiamo percepirlo? Come sentirlo? Sicuramente non facendo cose straordinarie, eclatanti, ma nei piccoli eventi di tutti i giorni, come nel dare una risposta “diversa” dalle solite, nell’iniziare una cosa nuova, nel riuscire finalmente a dire un “no”, nell’ammettere una paura che ci destabilizza, nel riuscire a pronunciare uno “scusami”, nel lasciarci andare alle emozioni, nel dare spazio ad un’idea creativa e un po’ pazza, nell’adottare un comportamento controcorrente, nel fare un incontro che non ci aspettavamo, nell’ammirare un tramonto sul mare, in una passeggiata in montagna, nello specchiarci in uno sguardo o in un sorriso di nostro figlio, in una complicità con nostra moglie, ecc.. Ecco, è in queste piccole cose che possiamo dire: “È il Signore!”, e riscoprire in noi una nuova concezione di vita.
La gente cerca Dio nelle visioni, nelle apparizioni, perché non “lo vede” nella propria vita. Per questo lo cerca “fuori”. Ma Dio ci appare, ci incontra, solo nella chiesa della nostra anima. A volte tutto questo nostro cercare nuove esperienze religiose, nuovi entusiasmi mistici, nuove esaltazioni carismatiche, denota in noi più una mancanza di fede, un bisogno di apparire, che una vera necessità, un autentico desiderio di incontrarlo.
Dio c’è per noi solo se lo “vediamo”. Altrimenti è un’idea che abbiamo in testa: forse è Lui, forse no. Se lo “vediamo” non può esserci alcun dubbio; ma se “non lo vediamo”, finiamo per credere in qualcosa che non sappiamo cosa sia.
Dove lo possiamo “vedere” concretamente? Soltanto dove c’è “carità e amore”. Le idee brillanti, le migliori strutture organizzative, l’efficientismo senza l’amore, senza il cuore, senza la Vita, certamente “non vedono” il Signore. Come è successo a Pietro. Egli, infatti, non riconosce il Signore: lui è l’uomo razionale, efficiente, irruento; è l’uomo dell’azione, l’uomo che non concede spazio ai sentimentalismi, al cuore. Solo Giovanni, il discepolo dell’amore, lo vede, lo riconosce e gli dice: “È il Signore!”.
Pietro in pratica assomiglia un po’ a quella chiesa dei nostri giorni, a quei presbiteri, a quei vescovi, a quei cristiani, che dopo una prima risposta generosa ed entusiasta alla loro chiamata, procedono stancamente, vivono di rendita, senza iniziative spontanee, adagiandosi nel loro consueto trantran; vanno a “pescare”, certo, ma non riescono a prendere nulla perché la loro vita è piatta, inerte, vivono una routine quotidiana priva di fervore e di entusiasmo.
Grazie a questo suo carattere intermittente, Pietro compie una serie di azioni avventate e per certi versi fuori da ogni nostra logica. Una volta riconosciuto Gesù, infatti, senza alcuna esitazione, egli si getta in mare per raggiungerlo. Era al largo, tribolando con le reti stracariche, perché non aspettare che la barca con il suo carico approdasse a riva? Questa decisione improvvisa di Pietro rivela però un forte simbolismo: egli deve buttarsi in acqua, perché deve “bagnare” (21,7) la propria presunzione, la propria sicurezza. Deve cioè fare un bagno di umiltà. Deve ricredersi. Deve immergersi anche lui nel “mare” dell’amore. Deve insomma ridare nuovi impulsi, nuovo slancio, nuova vitalità e duttilità alla sua mente poiché, continuando con la rigidità inflessibile dei suoi schemi mentali, avrebbe rischiato di bloccare il suo cuore e di condannare a morte certa la sua anima.
Sempre per questo il motivo, prima di buttarsi in acqua, “si veste” (21,7): ma se mentre pescava era nudo, che senso ha rivestirsi proprio per gettarsi in mare? Il senso c’è: vestirsi, significa infatti per Pietro indossare davanti agli altri la propria autorità di capo, significa rendere noto a tutti il proprio ruolo, la propria funzione; autorità, ruolo, funzione, che hanno bisogno sempre di un bagno di umiltà, di una certa “morbidezza” comportamentale. Lo stesso bisogno che c’è anche oggi per quei “rappresentanti” del sacro, preti e laici che siano, che si ritengono detentori unici della verità: che si credono altrettanti Dio in qualunque situazione e in qualunque campo! Anche oggi ogni tanto rispunta quell’intransigenza, quell’irruenza “petrina”, che hanno bisogno di un buon lavaggio di umiltà. Ecco perché i capi, i pastori del gregge di Dio, devono imitare Pietro che, immergendosi nel mare, ha purificato le sue colpe, ha affrontato le sue paure, ha riconosciuto e abbandonato le sue rigidità: solo in questo modo infatti, egli ha potuto essere scelto da Gesù come capo di quella barca (la chiesa), da Lui destinata a portare frutto (una pesca miracolosa) e a rimanere viva nei secoli grazie alla continua forza (lo Spirito, l’amore e la presenza di Gesù) che la sospinge.
È Pietro infatti che, una volta che anche gli altri discepoli sono giunti a riva, sale con decisione sulla barca (la chiesa); è sempre lui che trascina a terra la rete piena grossi pesci. È lui il protagonista. Dio non può far niente senza di lui. Sì, è sempre Dio che fa: è infatti Gesù che ha già acceso il fuoco con il pesce sopra (21,9), ma non può fare nient’altro senza Pietro (la chiesa) e senza gli uomini, gli apostoli: “Portate un po’ del pesce che avete preso or ora” (21,10). Egli ha bisogno del loro amore. E lo chiede apertamente, lo mette cioè come condizione essenziale per la vita della chiesa.
Prima di conferire il mandato a Pietro, infatti, Gesù antepone un esame sull’autenticità del suo amore; ed usa in proposito due verbi: “agapào” e “filèin”. Ora, in greco, “Agapào” indica l’amore profondo, vero, libero da condizionamenti, assoluto, totale; un amore non invadente, non impositivo, ma assolutamente gratuito e altruista. “Filèin” invece implica un amore meno impegnativo, è l’amore dell’amicizia, è il voler bene ad una persona, senza eccessivi coinvolgimenti personali.
Potremmo quindi interpretare così le tre domande di Gesù, apparentemente sempre uguali, ma molto diverse tra loro. La prima volta Egli chiede a Pietro: “Mi ami tu (agapàs) più degli altri?”. È diretto Gesù, esige una risposta netta, un amore da “agapào”; e Pietro, intimorito, non se la sente di ostentare una sicurezza che non ha, è più umile, per cui ridimensiona la portata della richiesta di Gesù, e cambia verbo: “Sì, Signore, ti voglio bene (filò sè)”. Egli si conosce bene, conosce le sue debolezze, i suoi voltafaccia, e cerca quindi di mantenere un profilo basso: “Sì, Gesù, ti sono amico” (“filèin”). Ma Gesù non rinuncia: per la seconda volta insiste per sapere se il suo amore è totale, incondizionato, e Pietro, sempre più confuso, non sapendo dove Gesù andasse a parare, con più cautela, con maggior circospezione, gli risponde che “sì, Signore, io ti voglio bene” (“filèin”). Per la terza volta, Gesù gli rivolge la stessa domanda: ma questa volta succede qualcosa di straordinario. Gesù mette da parte l’impegnativo verbo “agapào” ed usa “filèin”, lo stesso verbo di Pietro: “Simone, mi vuoi bene (fileis mè)? In pratica egli accetta il suo “ti voglio bene”, si abbassa, si accontenta, si avvicina alle sue possibilità, lo raggiunge entro i suoi limiti: “Simone, se ti fa paura l’amore impegnativo, totale, unico, mi sei almeno amico? Dammi almeno questo tuo affetto, purché sia umile e sincero, e a me basterà; perché per me questo tuo sentimento è già amore!”.
Gesù in pratica rallenta il suo passo sul ritmo di quello di Pietro; il quale, a questo punto, capisce quanto Gesù tenga al suo amore, e sente il pianto salirgli in gola; vede il suo Maestro che si abbassa a mendicare amore, vede un Dio accontentarsi delle briciole, un Dio al quale basta veramente poco: un cuore sofferente, ferito, che però vuol amare al meglio delle sue possibilità, sinceramente e umilmente, nella consapevolezza dei suoi limiti.
Tre volte Pietro ha rinnegato il Signore (18,27); tre volte gli ha detto di no, e tre volte il Signore lo interroga sulle sue motivazioni vere e profonde. Le posizioni di entrambi sono ancora lontane: “Mi ami come io ti amo?” chiede Gesù; “Ti voglio bene”, risponde Pietro. Egli sa di essere in un enorme deficit d’amore; ha bisogno di crescere, di mettersi in gioco, di rinnovarsi, di ammettere le proprie zone d’ombra e di falsità.
Gesù insiste, pur conoscendo perfettamente i limiti di Pietro; ma lo fa per fargli capire una cosa essenziale: “Tu che condurrai la mia Chiesa devi essere profondamente convinto di amarmi, le tue motivazioni devono essere convinte, totali, sincere. Apprezzo il fatto che tu non ti consideri esente dall’egoismo, dal narcisismo, dalla gelosia, dalla competizione solo perché sei Pietro, mio discepolo, e perché io ti sto ponendo alla guida della mia Chiesa. Non puoi pensare infatti che solo per questo, paura, istinti, pulsioni, bisogni, desideri, ferite, non ti tocchino; non puoi prescindere dalla tua umanità e cedere all’illusione che questi pericoli non ti riguardino. Perché se vivi in questa illusione, te lo ricordo, tu già mi tradisci, e tradisci te stesso. Ricordati che sei vulnerabile; amami come puoi, ma amami sinceramente: siine consapevole e vivi con gli occhi aperti”.
E infine Gesù chiude: “Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (21,19). La veste, l’abbiamo già detto, è il ruolo, la posizione di Pietro. In pratica dice: “Come c’è un tempo (gioventù) in cui tu decidi dove andare e cosa fare, e un tempo (vecchiaia) in cui non sei tu a decidere dove andare e cosa fare, così tu Pietro, tu Chiesa, devi decidere la direzione della tua strada, ma devi anche lasciarti condurre da Dio dove Lui, e il corso della storia, ti portano. Seguimi su questa via. Lascia che sia Dio a portarti, anche se non sai dove stai andando, anche se non vorresti andarci, anche se a volte resisti con tutte le tue forze”.
Ciascuno di noi vorrebbe decidere per la propria vita, tenerla in pugno e stabilire lui dove andare. Ma avere fede, amare Dio, è lasciare spazio a Lui: lasciarci condurre, lasciarci portare, lasciare che sia Lui a dirigere la nostra vita.
Nessuno può dire a priori, infatti, che Dio ad un certo punto non voglia rovesciare la nostra vita. Chi può dire che Dio non voglia qualcosa di più grande da noi? Chi può dire che Dio non ci faccia lasciare il lavoro, le amicizie, le nostre idee, per seguirlo più da vicino? Chi può dire che Dio non voglia cambiare radicalmente il nostro carattere per farci diventare persone completamente diverse? Chi può dire insomma che Dio non possa scombinare la nostra vita e le nostre idee?
Noi amiamo immaginarci arrivati, celebri, ricchi, sposati con una moglie bellissima, con figli meravigliosi, obbedienti, studiosi, adorabili: ma chi può assicurarci che un domani la nostra vita non cambi radicalmente, diventando una realtà del tutto diversa, esattamente all’opposto? L’importante è che noi siamo sempre pronti a rinnovare a Dio il nostro amore, e a ripetergli: “dovunque mi condurrai, Signore, io ti seguirò”. Amen.



mercoledì 30 marzo 2016

3 Aprile 2016 – II Domenica di Pasqua

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi si apre prospettandoci una situazione particolarmente difficile per i discepoli: dopo essere stati testimoni della tragica fine di Gesù, si rifugiano nel cenacolo e, presi dal terrore, si rinchiudono dentro; pensano infatti che ciò che è capitato a Lui, un domani avrebbe potuto capitare anche a loro. È chiaro che sono pieni di tristezza per la scomparsa di Gesù, ma anche colmi di rabbia per ciò che è accaduto: hanno ucciso il loro maestro, il loro punto di riferimento; e oltretutto lo hanno ucciso ingiustamente, con motivazioni pretestuose e false.
Quando Gesù infatti appare loro, deve dire: “Pace a voi, tranquillizzatevi”, perché il loro cuore è pieno di rabbia e di odio.
È arrivato il momento in cui ognuno deve prendere su di sé le proprie responsabilità. È arrivata l’ora in cui ognuno di loro deve uscire, andare per il mondo, e continuare la sua missione. La parola d’ordine è: “Perdonate”, “lasciate andare” (è questo il significato del verbo greco “afìemi”).
Probabilmente qui Giovanni mette in bocca a Gesù una formula sacramentale, già in uso comune quando lui scrive il vangelo. Il senso è molto semplice: “Perdona, lascia andare”: in altre parole “raccogli tutti i sentimenti negativi che hai dentro il tuo cuore (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), tirali fuori, liberali, manifestali in tutta la loro intensità. Non trattenere nulla, accetta la realtà così com’è”.
La Vita ci ha tolto chi amavamo più di ogni cosa al mondo, e per questo abbiamo smesso di vivere cristianamente? Vogliamo forse vivere sempre così, con l’astio nel cuore, pensando di essere stati traditi da Dio? Non abbiamo capito nulla! Lasciamo andare: se non liberiamo il nostro cuore, rimarremo attaccati ogni giorno, ogni momento, a quella tremenda ferita; continueremo, giorno dopo giorno, a coltivare il nostro ingiusto e sconveniente risentimento.
Non perdonare significa “trattenere”: ma in questo modo la vita non scorre più. Se noi tratteniamo dentro di noi le nostre emozioni, la rabbia, l’odio, impediamo che la vitalità del nostro cuore, della nostra anima, possa continuare a scorrere. Diventiamo aridi, secchi, avvelenati. È proprio questo il motivo per cui incontriamo tanta gente infuriata, arrabbiata, nervosa: non perdona, non lascia andare, trattiene tutto.
Gesù diceva agli apostoli: “Se entrate in una città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente” (Lc 10,11). Cosa vuol dire? Semplicemente: “Perdona!”. Non facciamone un’onta personale: ci hanno rifiutato, ci hanno detto di no? esprimiamo il nostro dolore, la nostra rabbia, ma lasciamo lì quel dolore, non portiamocelo dietro. Lasciamolo andare.
C’è un’altra cosa poi, molto importante, che Giovanni qui vuol farci capire: che la nostra fede, il nostro l’amore a Dio, cresce proprio dalla nostra vulnerabilità, dall’incontro, a volte anche traumatico, che abbiamo con le nostre ferite.
Se andiamo più a fondo, infatti, possiamo notare come nella prima visita fatta da Gesù risorto ai suoi, manchi proprio l’apostolo che si chiama Tommaso: il quale, per credere, vuol vedere e toccare personalmente le ferite di Gesù: mani, piedi e costato. Ora il nome Didimo, con cui veniva chiamato Tommaso, in greco, significa “gemello”: descrivendo quindi la sua esperienza, Giovanni avrebbe voluto descrivere l’esperienza di tutti noi, di tutti quei suoi “gemelli”, cioè, che si decidono a credere in Dio, ad amarlo come merita, soltanto dopo aver “toccato” le ferite; in pratica Giovanni vuol dirci qui che per tante persone l’inizio di un cammino di fede e di amore, coincide con il verificarsi di prove dolorose, di prove che lasciano ferite profonde: solo ragionando, meditando su queste ferite, esse scoprono la fede, si rifugiano in Dio, chiedono a Lui il conforto e l’aiuto per superare le loro difficoltà.
Infatti, come si comporta in genere la gente? Se ha paura, cerca di non sentirla. Se ha dei bisogni, cerca di non ascoltarli. Se ha subito un trauma, è meglio lasciarlo così com’è. Se c’è qualcosa da affrontare, meglio non farlo perché poi si ottengono conseguenza ancor più gravi.
Solo in quei casi che appaiono insostenibili, in quei casi particolarmente dolorosi, le persone si pongono il problema della fede, del soprannaturale, di un Dio che può aiutarle. Ed è proprio in questi casi, fa capire Giovanni, che “bisogna toccare le ferite, bisogna valutarne l’entità e le cause, bisogna ripulirle, curarle, perché finché una ferita è viva, finché sanguina, ci fa sì urlare, ma ci mette anche di fronte alla necessità di affrontarla e di cercare le cure più idonee”. Le ferite ci rendono vulnerabili (vulnus, infatti vuol dire ferita): ma ci rende anche molto più prudenti, più coscienziosi, più razionali. Ed è in quei momenti che sentiamo particolarmente imperioso il bisogno di conforto, di protezione, di rassicurazioni, di cure riabilitative.
È allora che ci ricordiamo di Dio, è allora che sentiamo il bisogno di ricorrere a Lui, di portare da Lui, in chiesa, il nostro cuore ferito; è allora che gli chiediamo aiuto, pietà, misericordia: chi di noi non si è comportato in questo modo? Chi di noi non ha mai avuto ferite dalla vita? Chi di noi a sua volta non ha ferito? Andiamo in chiesa con le nostre mani ferite: quelle mani che sono state legate, ferite, paralizzate; quelle mani, le nostre mani, che a loro volta hanno anche colpito, umiliato e ferito.
Allora entriamo nella casa di Dio, e con quelle mani prendiamo Gesù (la comunione) perché venga dentro di noi e ci guarisca. Lo mangiamo perché raggiunga il nostro cuore e lo ristabilisca, lo risani. Ebbene, per tante persone, la comunione rappresenta proprio questo incontro con Dio, un incontro ravvicinato che infonde la forza di guardare in faccia a ciò che fa male, a ciò che non va, a ciò che non ci piace, a ciò che metteremmo volentieri in un angolo, a ciò che non vorremmo mai più vedere.
E l’Eucarestia, come fece Gesù con Tommaso, ci rassicura, ci dice: “Dai un nome a ciò che ti fa male; metti la tua mano; tocca ciò che ti fa soffrire, incontra il tuo dolore; prenditi cura della tua sofferenza; apriti su ciò che ti fa male”. Ricorrere all’Eucarestia infatti è l’unico mezzo a nostra disposizione per trovare la forza di “toccare” le nostre ferite, per metterci mano, per guardarle e curarle. L’Eucarestia in queste circostanze, è infatti terapeutica, risanatrice, curativa, lenitiva, trasformativa. E Giovanni vuol dirci tra le righe proprio questo: “la tua Eucaristia deve essere quell’incontro che ti salva, che ti guarisce”.
Del resto, sempre se leggiamo attentamente, il testo del vangelo ci offre molte allusioni alle nostre Eucarestie domenicali. Così, “il primo giorno dopo il sabato” (20,19), è infatti la domenica, il giorno del Signore, il giorno dell’Eucarestia. “Pace a voi” (20,19.26), è il saluto di Gesù, e il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano per il banchetto eucaristico, è il saluto che ci viene rivolto alla messa della domenica . Il toccare (20,27) è il segno del toccare/ricevere il corpo di Cristo nella Comunione. “Mio Signore e mio Dio” (20,28) è praticamente ciò che deve succedere in ogni Eucarestia: un’esperienza, un incontro vivo, colmo di gioia e di riconoscenza.
Tommaso in realtà non rappresenta colui che dubita, ma colui che deve fare esperienza per poter credere, colui che deve sostenere un cammino di verifica della propria fede. Ed essendo lui nostro “gemello”, (Didimo), ciò che vale per lui, vale anche per tutti noi: solo che per noi è impossibile incontrare Gesù come è successo a lui. Dio noi non lo possiamo incontrare così; non lo possiamo incontrare fisicamente. Fisicamente Dio si è incarnato una volta, si è manifestato uomo come noi in Gesù: ma Gesù è morto oltre duemila anni fa, è risorto e ha raggiunto il Padre in cielo: e con questo ha concluso la sua “manifestazione” umana.
Del resto Gesù aveva già previsto questa difficoltà nel credere in Lui, tant’è che disse: “Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (20,29).
A questo punto, però, nasce spontanea una domanda: dove, come e quando possiamo noi vedere Dio e credere in Lui? Come possiamo noi incontrare personalmente il Dio della vita? Come possiamo far vivere, far crescere la nostra fede in Lui? Come possiamo coltivarla, fortificarla, purificarla questa fede?”. La risposta ci viene suggerita dal vangelo di oggi: soltanto attraverso l’esperienza interiore; possiamo cioè vedere e sentire Gesù solo nel nostro cuore, nella meditazione, nella preghiera, nel colloquio spirituale con lui, e soprattutto, in maniera ottimale e concreta, nell’Eucarestia.
Ecco perché dobbiamo fare molta attenzione nelle nostre Eucaristie: ecco perché non dobbiamo confondere il fine con i mezzi. I mezzi, come il canto, le letture, la celebrazione, le parole, il rito, la liturgia, ci devono servire per raggiungere il fine, che è quello di “incontrare” Dio. Ma se la nostra messa non è un’esperienza intima, se non usciamo dalla messa con la sensazione chiara, netta, distinta, di averlo sentito vivo in noi e nella comunità presente con noi, dobbiamo porci delle serie domande: perché fare Eucarestia significa rendere vivo un Vivo, non un morto. L’Eucarestia non è il ricordo di un morto: ma è la nostra esperienza pasquale di Colui che in quella messa si è fatto realmente cibo per noi, e sempre per noi è morto e risorto, per vivere sempre al nostro fianco. L’Eucarestia è quindi un’esperienza sanante, guaritrice; è un incontro con Colui che è la Vita, con Colui che ci fa vivere. Se l’incontro avviene, noi allora Lo vediamo, Lo percepiamo chiaramente, ci cambia. Se invece tutto ciò non avviene, non c’è incontro, non c’è Eucaristia.
Dobbiamo avere il coraggio di porci delle domande dure, precise, oneste, per non prenderci in giro; tipo: “le mie Eucarestie sono esperienze di vita, del Signore Risorto? Quando esco, ne esco trasformato? Parlano al mio cuore, lo fanno vivere, vibrare? Quando vado all’Eucarestia cosa cerco? Un’esperienza, la Vita, un anestetico, un calmante? Posso dire dopo un’eucarestia: Sì, io l’ho visto, l’ho taccato, l’ho incontrato e Lui ha parlato al mio cuore?”.
E Giovanni conclude oggi il suo vangelo con una frase meravigliosa: tutto questo è scritto perché crediate che Gesù è il Cristo, e perché abbiate la vita (20,30-31).
E allora: tutto ciò che avviene in chiesa, durante un’Eucarestia, accresce veramente la nostra vita? Ci fa vivere di più? Perché Lui è la Vita vera: incontrarlo è vivere di più e meglio. Amen.



giovedì 24 marzo 2016

27 Marzo 2016 – Pasqua di Risurrezione

«Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).

Oggi festeggiamo la Risurrezione di Gesù, una solennità che costituisce il fulcro della nostra fede. In genere però le persone non amano molto questa festa: è difficile da capire. Il Natale è più semplice: l’idea di un bambino che nasce, infatti, è subito chiara a tutti. E poi il Natale si festeggia con i regali, con i cenoni in famiglia, con un nuovo anno che inizia, e quindi la gente è più incline ad amare questa festa. La Pasqua invece è più ostica, più complicata, più difficile da comprendere e da vivere. Per esempio cosa intendiamo noi per “Risurrezione”? Il significato più comune è di “ritorno in vita dopo la morte”, facendo riferimento soprattutto alla vicenda di Cristo, il quale, morto e sepolto, è appunto “risuscitato”, dopo tre giorni di permanenza in una tomba.
Viene naturale quindi pensare, anche per noi cristiani, che la resurrezione riguardi uno che è morto e che poi torna a vivere. Ma non è proprio così! Perché nei vangeli la risurrezione non è esattamente questo. Se leggiamo attentamente quello che scrivono in proposito i rispettivi autori, notiamo che nessuno di essi usa in maniera esplicita il termine “morte” riferito a Gesù: tutti e quattro evitano di proposito di usare il verbo “morire”; dice infatti Matteo: “Gesù, emise di nuovo un forte grido, ed esalò lo spirito” (27,50); così Marco: “Gesù, emesso un grande grido, spirò” (15,37). Stessa cosa Luca: “Gesù, gridando a gran voce, disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo spirò” (23,46). Infine Giovanni: “Chinato il capo, spirò” (19,30). Tutti dunque parlano non di “morire” ma di “spirare, rendere lo spirito”.
Un verbo, spirare, che ha preso il significato che noi oggi gli diamo (quello di “morire”), solo più tardi, facendo riferimento proprio alla morte di Gesù; prima di allora non significava affatto il decesso di una persona, ma semplicemente “trasmettere lo spirito”, restituire a Dio lo spirito immortale. Quindi, a ben vedere, con la sua “risurrezione” lo spirito di Gesù, vivo e mai morto, si è nuovamente calato nel suo “contenitore” umano. Per questo nel pensiero dei vangeli, degli apostoli, di Paolo, della prima Chiesa, la risurrezione, riferita alla nostra vita cristiana, non è un evento che ci riguarda tanto dopo la morte, quanto da vivi. Pertanto nella sequela di Cristo, noi dobbiamo sì “risorgere” con il corpo alla fine dei tempi, ma anche e soprattutto da vivi, durante questa vita terrena. E questo perché Dio dona con la sua grazia all’uomo debole, morto col peccato, una qualità di vita così grande, così potente (è la vita divina) che è più forte di qualunque morte. I primi cristiani, che vivevano risuscitati in Cristo, non vedevano infatti la fine della vita terrena come una morte, ma solamente come un passaggio definitivo a quella Vita piena, a quella Vita divina, che avevano già sperimentato con Gesù qui in terra.
Allora la vita eterna non deve essere considerata come premio futuro per i buoni e per quelli che si sono comportati bene, ma un “modo di essere, un modo di vivere” già sperimentabile nel tempo presente. In questo senso San Paolo dice: “Non sono più io che vivo, è Cristo [risorto] che vive in me” (Gal 2,20).
In effetti, che la resurrezione riguardi non i morti, ma i vivi, è sicuramente un presupposto assolutamente consolante per noi, un presupposto che ci riguarda direttamente: e ci riguarda oggi, ora, perché è in questa vita che dobbiamo risorgere: parola del vangelo!
Vediamo allora in cosa consiste esattamente questa risurrezione, cosa dobbiamo fare per risorgere ora, finché siamo ancora in vita.
Se prendiamo in mano i vangeli e leggiamo il racconto della risurrezione, possiamo chiaramente cogliere alcuni elementi comportamentali che ci suggeriscono qual è la via più facilmente percorribile.
Prima di tutto è il movimento, la dinamicità. Le donne, Pietro e Giovanni, lasciano di buon mattino case e cenacolo per andare quasi di corsa al sepolcro. Il che indica anche per noi la necessità di muoverci, di prendere l’iniziativa; non possiamo stare una vita piantati nella nostra ombra, perdendo tempo; dobbiamo andare avanti, progredire, verso nuove conquiste personali, verso nuove emozioni: non possiamo vivere a ricasco degli altri. Purtroppo a noi piace molto esibire la nostra debolezza, la nostra stanchezza; piace moltissimo piangerci addosso, fare le vittime, lamentarci di tutto, senza mai muovere un passo. Certamente tutti abbiamo dei problemi, tutti abbiamo delle difficoltà; non siamo gli unici al mondo a soffrire. Quindi non drammatizziamo, non sentiamoci vittime fuori luogo di un destino che ce l’ha con noi. La vita è movimento, è energia: se la nostra vita non ci piace, se ha qualcosa che non va, invece di piangerci addosso, muoviamoci, cambiamola, rivoluzioniamola: in una parola, “risorgiamo”!
Mi fa sempre sorridere (e soprattutto pensare) la storiella di quell’uomo che ogni sera pregava Dio di farlo vincere al Superenalotto. E questo per una sera, due sere, una settimana, un mese, un anno. Ad un certo punto Dio, sfinito dalla caparbia insistenza dell’uomo, gli dice: “Va bene! Io ti farò anche vincere, ma tu, almeno, gioca la schedina!”. Non pretendiamo sempre tutto, senza da parte nostra fare nulla. Dio è sempre disponibile, è vero, ma tocca a noi per primi fare qualcosa, tocca a noi muoverci, tocca a noi fare il primo passo! E questo è “risurrezione”.
Un altro elemento, complementare al precedente, è la disponibilità al cambiamento: la Maddalena va al sepolcro, afflitta e triste, per piangere Gesù morto; ma trovando la tomba vuota, il suo sconforto si tramuta immediatamente in gioia, e torna indietro, certa, in cuor suo, che Lui è vivo. Nella vita le cose sono spesso diverse da come noi le pensiamo o le programmiamo: una volta che ci siamo “mossi”, dobbiamo anche essere disponibili a cambiare idea, a dare nuove opportunità ai nostri sforzi, alle nostre emozioni. La nostra Risurrezione è poter dire: “Mi do tanto da fare, ma forse il modo in cui vivo non va bene; ecco, ricomincio da capo”. Essere aperti mentalmente. Dobbiamo fare cioè come le donne e gli apostoli: essi, quando partono, non hanno alcun dubbio, sono sicuri: Lui è morto, tutto è finito. Ma poi si rendono conto che non è così. Erano certi di una cosa, ma poi tutto cambia: e ripartono entusiasti da lì. Non possiamo vivere con una mente immobile, statica, in costante simbiosi solo con le nostre convinzioni, con le nostre certezze. Dobbiamo aprirci, dobbiamo capire che solo uscendo da noi stessi, scendendo dal nostro piedistallo, possiamo acquisire nuovi elementi per diventare migliori. “Loro possono, perché credono di potere” scrive Virgilio. Ed è così! Perché Dio ci viene sempre in aiuto infondendoci una forza prorompente tale da superare qualunque ostacolo. È vero o no che gli apostoli cambiarono il mondo? Eppure chi l’avrebbe mai detto! Quindi, “Risurrezione” per noi deve essere: “Posso migliorare, posso diventare diverso da quel che sono! Lo credo, ne sono certo; lo voglio!”.
Un terzo elemento, sempre legato al movimento, è uscire fuori da noi stessi: donne e discepoli vanno al sepolcro: ma l’incontro con il Risorto li butterà fuori nel mondo. Stessa esperienza per i discepoli di Emmaus: tristi, sfiduciati, rinchiusi in loro stessi, avevano abbandonato Gerusalemme per tornare a casa loro: ma dopo l’incontro si trasformeranno, abbandoneranno le loro paure interiori, e torneranno entusiasti in città per operare nel gruppo degli apostoli. Stessa sorte anche per questi ultimi: chi erano infatti gli apostoli? Pietro lo aveva rinnegato bestemmiando; Giuda lo aveva tradito; Giacomo e Giovanni cercavano posti di potere e di prestigio; tutti, quando lui ne aveva più bisogno, si sono addormentati, lo hanno abbandonato, sono scappati. Non si può certo dire che fossero gente affidabile! Eppure, dopo l’ultimo incontro con Cristo, usciti prepotentemente da loro stessi e dal cenacolo in cui si erano rinchiusi, quei Dodici hanno cambiato il mondo!
Ebbene, il mondo ha bisogno anche di noi. Cosa aspettiamo? Usciamo dal nostro rifugio di comodo, gridiamo al mondo la nostra fede; tiriamo fuori tutte le nostre capacità, le nostre risorse. “Ma noi non sappiamo come fare, non abbiamo conoscenze, siamo gente umile”. Non importa: quel poco che siamo, quel poco che sappiamo, mettiamolo gratis a disposizione del mondo, a disposizione di chi soffre, di chi sta peggio di noi! Certo, dobbiamo fare anche i conti con la nostra fragilità umana, col nostro egoismo: “Cosa me ne viene in cambio? Cosa ci guadagno?”. Risorgiamo! Usciamo da questa mentalità piccina. Vogliamo essere felici? Il modo migliore per esserlo è far felici gli altri. Seneca diceva: “Se vuoi essere amato comincia ad amare”. Se vogliamo guarire le nostre ferite, guariamo le ferite degli altri. Se vogliamo essere ricchi, doniamo il poco che abbiamo. Mettiamo le nostre doti, i nostri talenti, il nostro tempo, le nostre risorse, a disposizione dei fratelli più bisognosi. Sì, perché per noi tutto questo è “risurrezione”.
Infine, ultimo presupposto, è “vivere”; vivere la Vita, vivere il Risorto, vivere la Luce dell’amore: perché, scrive Giovanni, in Lui c’è la vita e la Vita è la luce degli uomini (Gv 1,4). Chiediamoci spesso: “Cos’è che mi fa vivere? Quand’è che mi sento veramente vivo?”. Certo, respirare, campare, non è vivere; godersi la vita nell’ozio, non è vivere; consumarsi per accumulare sempre più ricchezze, onori, riconoscimenti, non è vivere. Vivere significa essere felici, essere innamorati, essere pieni di gioia nel donare, sentirsi avvolti dalla grazia divina, sentirsi in pace con Dio, con noi stessi e con il mondo intero; in questo modo noi non solo viviamo, ma siamo vitali, siamo cioè portatori di Vita, siamo insomma dei “risorti”, e come tali non “moriremo” mai più: perché, da “risorti”, noi seguiamo la Vita, amiamo la Vita, viviamo la Vita.  Amen.


A TUTTI AUGURO UNA SERENA E FELICE PASQUA DI RISURREZIONE!



giovedì 17 marzo 2016

20 Marzo 2016 – Domenica delle Palme

Passione di nostro Signore Gesù Cristo (Lc 22,14-23,56).

La liturgia di oggi ci presenta la storia della passione. Ogni evangelista offre un resoconto “personalizzato” di come si sono svolti i fatti; e ci chiediamo: c’era proprio bisogno di quattro storie “diverse” tra loro? In fin dei conti la Passione è unica. È vero; ma ciascun “cronista” ha “visto” i fatti con i propri occhi, e questo evento così traumatico ha “segnato” il loro cuore in maniera diversa. Abbiamo così uno stesso racconto, ma con sfumature diverse, con chiavi di lettura differenti: particolari che rendono il racconto della passione più che una fedele esposizione di un fatto storico, una raccolta di esperienze e di emozioni personali, con le quali ogni singolo autore ha voluto lasciarci di Gesù sofferente la sua immagine personale, quella che lui, nel riviverla nella sua memoria, ha descritto per noi.
Si tratta, ripeto, di lievi sfumature, di piccole sottolineature, che possiamo rilevare soltanto attraverso una lettura trasversale dei resoconti: annotazioni personalissime, quasi intime, ma di grande incisività, dalle quali possiamo sicuramente trarre interessanti considerazioni e utili suggerimenti per la nostra vita spirituale.
Accostiamoci allora umilmente alla lettura di questi testi: sicuramente anche questa volta, come ogni anno, essi ci suggeriranno cose nuove, apriranno il nostro cuore a nuove emozioni: ci parleranno sempre della passione di Gesù, ma in maniera diversa. Quest’anno forse avremo modo di identificarci meglio in un personaggio piuttosto che in un altro; ci colpiranno maggiormente espressioni che in passato non abbiamo colto, suscitando in noi sentimenti ed emozioni forse fino ad oggi sconosciute.
Partiamo per esempio dal racconto di Luca.
Per Luca Gesù è colui che perdona tutti. Egli addolcisce le figure dei vari personaggi: i discepoli rimangono fedeli a Gesù nelle prove; nel Getsemani infatti, essi si addormentano solo una volta e non tre come negli altri racconti, e il loro è un sonno di profonda tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni; Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché è innocente; il popolo è addolorato per ciò che succede e perfino uno dei due ladroni è fondamentalmente buono. In Luca Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l’orecchio del servo durante l’arresto, si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario, perdona i suoi crocifissori e promette il paradiso al ladrone pentito.
Per Marco, invece, Gesù è l’abbandonato. Tutti lo abbandonano, ma proprio tutti. I discepoli, dal monte degli Ulivi in poi, lo lasciano solo: mentre Gesù prega, per ben tre volte si addormentano; Pietro, riconosciuto come uno dei suoi discepoli, nega imprecando di conoscerlo; Giuda addirittura lo tradisce. Tutti fuggono: uno perfino lascia lì la veste pur di fuggire da Gesù. Romani e Giudei sono cinici: lo lasciano appeso alla croce sei ore e durante tutto questo periodo lo prendono in giro e lo deridono. Perfino quando Gesù, morendo, esclama: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, lo scherniscono. Tutti particolari che ci aiutano a superare momenti difficili quando ci sentiamo soli, quando tutti ci sono contro, quando crediamo di aver sbagliato tutto o addirittura di essere noi stessi sbagliati. Guardiamo Gesù e lo vediamo scoraggiato: perfino i suoi amici più cari, quelli più intimi, quelli con i quali aveva condiviso le gioie e le fatiche, quelli che avevano detto: “Noi, non ti abbandoneremo mai; noi ci saremo sempre per te; su di noi puoi contare”, perfino quelli, nel momento critico se ne sono andati. Perfino Dio, suo Padre, non gli parla più, è in silenzio, tace. Forse anche lui lo ha abbandonato? Forse Gesù ha davvero sbagliato tutto? Nessuno si schierò con Lui; nessuno prese le sue parti, nessuno si espose. Tutti ritennero più opportuno rimanerne fuori, non impicciarsi, non cercarsi rogne. Magari lo amavano; magari lo sentivano veramente come la loro vita, ma la paura li portò a negare i loro sentimenti d’amore.
Leggendo Marco possiamo renderci conto fino a che punto possiamo arrivare anche noi quando abbiamo paura: abbandoniamo tutto e tutti, tradiamo, neghiamo chi amiamo.
Ebbene, in questi momenti della vita pensiamo di aver sbagliato tutto; ci vien voglia addirittura di farla finita, di toglierci di mezzo; ci sentiamo soli, abbandonati e traditi. Ci sentiamo additati, ridicolizzati, presi in giro, beffeggiati e umiliati. È proprio allora che, guardando Lui che ha creduto sempre in ciò che sentiva dentro, dobbiamo credere anche noi in noi stessi, in ciò che abbiamo dentro, a tutti i costi. Alziamo gli occhi a Lui, e andiamo avanti con fiducia.
Matteo infine, che in parte ricalca Marco, si pone una grande domanda: chi è il colpevole della morte di Gesù? Per lui tutti, in qualche modo, contribuiscono alla morte del Signore: chi direttamente, chi indirettamente; chi agendo e chi non facendo nulla.
Giuda? Giuda s’impicca perché si rende conto di essere stato un burattino in mano ai sommi sacerdoti. Giuda è nient’altro che una insignificante pedina, mossa da imbroglioni e bari in una partita truccata. È un fantoccio che per denaro, per avidità, vende Gesù e, tutto sommato, vende se stesso. Poi schiacciato dal senso di colpa, non regge e si uccide. Altrettanti Giuda sono quegli adulti pronti a disfarsi di tutto ciò che hanno di più bello: lo fanno per il successo, per la carriera, per il denaro, per i soldi. Lavorano sempre, fanno una vita impossibile, una scalata rabbiosa pur di “ottenere”, di “avere”. Non si accorgono però che per i soldi stanno svendendo l’anima; non si accorgono che antepongono sempre qualcos’altro allo spirito, che ignorano le necessità dell’anima. Poi un bel giorno si svegliano e si accorgono di essere vuoti, insoddisfatti, senza nulla. Ma sono troppo deboli, la loro personalità è ormai troppo incancrenita per cambiare vita. Così si lasciano andare alla deriva, lasciano che il tempo passi inutilmente, nell’apatia e nell’indifferenza, finché un giorno, davanti alla morte, si accorgeranno che, purtroppo, la loro anima è morta già da tanto tempo!
Pietro? Pietro è l’uomo dei grandi entusiasmi: “Io non ti rinnegherò mai, Signore”. Fa grandi proclami, solenni dichiarazioni, ma poi la sua fermezza si scioglie come neve al sole: per ben tre volte tradirà il suo maestro e amico. Pietro sono tutti coloro che non conoscono se stessi: gente che si eccita all’idea di spaccare il mondo; che fa grandi proclami, che promette amore eterno, che giura eterna fedeltà: e forse in cuor loro ne sono anche convinti per davvero. Ma in loro c’è solo tanta, troppa, presunzione; o, più semplicemente, tantissima ignoranza: insomma non si conoscono; non sanno neppure cosa voglia dire “fedeltà”. Sono tutti coloro che si sposano e si giurano l’un l’altro amore eterno: ma poi? Sono tutti coloro che si accostano ai Sacramenti, che vanno a messa tutte le domeniche, pregando e garantendo che Gesù sarà sempre al centro della loro vita, che lo seguiranno in capo al mondo: ma poi? Sono quanti, dopo un incontro, un ritiro, un corso di approfondimento spirituale, giurano a Dio e a se stessi di cambiare vita sul serio: ma poi? Sono tutti quelli che, dopo le cadute, le infedeltà, promettono che non lo faranno più, che smetteranno, che saranno diversi: ma poi?...
Pilato? Pilato se ne lava le mani e con questo gesto crede di tirarsi fuori, di essere esente da ogni responsabilità. Sua moglie stessa lo aveva pregato di non avere a che fare con quell’uomo.
Pilato sono tutti quelli che dicono: “Io non c’entro”, e si credono a posto, si sentono tranquilli. Se c’è un problema a scuola, e non riguarda il loro figlio, se ne lavano le mani. Se c’è un problema in parrocchia o nel condominio dove vivono, ma non li riguarda direttamente, se ne lavano la mani. Di fronte a chi soffre, si tirano indietro:“cosa c’entro io? Ci pensino quelli che sono delegati e preposti a questo!”.
E la folla? La folla è “il popolo bue”, la gente che si lascia condizionare dall’ultima moda, dall’ultima tendenza. I sacerdoti e gli anziani li persuadono ad urlare: “Barabba”: e loro così fanno: lo fa uno a comando, e tutti lo seguono. La folla rappresenta tutte quelle persone che si lasciano condizionare, influenzare. Sono tutti quelli che non hanno un pensiero proprio, che vivono di frasi fatte, preconfezionate o di quanto sentono dire in giro. Sono quelli che non riescono a sostenere una posizione o un’idea. Sono tutte quelle persone che si bevono avidamente le ciarlatanate del politicante di turno: “Meno tasse per tutti; un milione di posti di lavoro; più occupazione; più benessere; più economia, salari più alti, ecc.”. Sono tutte quelle persone che credono stupidamente che tutto il mondo sia il Grande Fratello o l’Isola dei Famosi. Sono tutte quelle persone che impostano la vita correndo dietro all’ultimo prodotto, all’ultima tendenza, all’ultima stupidaggine, purché sia pubblicizzata come “novità”.
La folla non ha personalità: vive soltanto come “insieme”, non come “singolo”: nessuno di loro si sente direttamente responsabile della morte di Gesù, eppure sono proprio loro, tutti insieme, che lo hanno condannato a morte. In sostanza, il messaggio che i Vangeli lasciano trapelare è proprio questo: “Voi tutti siete colpevoli, direttamente o no, perché tutti, per paura o per interesse, l’avete tradito e non avete preso le sue parti”.
Gesù però, nella sua misericordia, perdona la folla: capisce e in qualche modo scagiona i suoi nemici: “non sanno quello che fanno!”. Si comportano così, cioè, perché vivono nel buio, nelle tenebre, nella totale cecità: se avessero avuto anche solo un barlume di razionalità, non avrebbero mai agito in questo modo. E questo vale sempre: la gente è cattiva non perché lo sia veramente, ma perché dentro è arrabbiata; la gente è nervosa, suscettibile, perché dentro è inquieta e non riesce a dar voce ai propri turbamenti interiori; la gente giudica e distrugge il prossimo, perché non conosce la misericordia, non conosce la tenerezza, non conosce l’amore; la gente disprezza gli altri e li umilia perché non sa leggere dentro il cuore umano.
Gesù li perdona non perché condivida ciò che fanno. Gesù li perdona perché sono ciechi, non ci vedono, scambiano il male per il bene e il bene per il male; credono di essere religiosi e invece vivono senza Dio; credono di rendere omaggio a Dio, ma uccidono quotidianamente suo Figlio; credono in chiunque stabilisca per loro una via da seguire, perché non hanno una coscienza propria; credono di sapere, ma vivono nell’ignoranza totale.
Quanta persone vivono così! Credono di essere libere e, invece, sono così condizionate che neppure se ne accorgono. Credono di essere i padroni della loro vita e invece sono solo spettatori degli eventi che passano. Dicono: “Io faccio la mia vita”, e non si accorgono che non sono loro gli artefici delle situazioni, ma sono le situazioni che li determinano. Credono di conoscersi, ma non sanno dire cosa sono; credono di conoscere Dio perché hanno letto qualche libro o visto qualche documentario o trasmissione, per cui bastano le chiacchiere di qualche pseudo esperto per metterli in confusione. Dio li perdonerà un giorno. Ma nessuno si giustifichi, perché è l’ignoranza, soprattutto quella “travestita” da sapere, che uccide, distrugge, umilia e compie le peggiori atrocità.

Meditiamo dunque queste considerazioni: in silenzio, nel silenzio del nostro cuore, leggiamo e ascoltiamoci. In silenzio, nel silenzio di chi sa di trovarsi di fronte alla vicenda del Figlio di Dio, ma anche alla vicenda di ogni uomo, lasciamo che queste parole ci entrino nell’anima. In silenzio, nel silenzio del nostro cuore, leggiamo questa vicenda e osserviamo con chi ciascuno di noi si pone, o in chi si riconosce. Amen.



giovedì 10 marzo 2016

13 Marzo 2016 – V Domenica di Quaresima

«Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (Gv 8,1-11).

Probabilmente le prime comunità cristiane hanno faticato ad accettare questo vangelo, apertamente in contrasto con la loro rigida mentalità in fatto di leggi matrimoniali.
Gesù si trova nel tempio. Ciò che avviene è sconcertante: siamo nella casa di Dio e gli esperti di Dio vogliono uccidere una donna. Scribi e farisei entrano nel tempio e gli conducono una donna. Praticamente hanno già le pietre in mano: la prima pietra della lapidazione (era l’usanza ebraica) spetta infatti a coloro che colgono la peccatrice in flagrante.
La donna è accusata di adulterio. Le parole “donna” e “adulterio” confermano il suo stato matrimoniale e per questa colpa era prevista la pena di morte. Il testo non dice se sia già stata processata: in ogni caso la stanno già conducendo fuori dalla città per lapidarla.
Ma Gesù le salva la vita. Se le cose fossero andate come da programma, ciascuno avrebbe scagliato la sua pietra. Nessuno avrebbe “ucciso”, però alla fine la donna sarebbe morta. Nessuno si sarebbe sentito colpevole dell’assassinio, anche se un assassinio sarebbe stato appena compiuto.
Di chi è la colpa dell’inquinamento dei mari e dell’aria, del buco dell’ozono, della deforestazione? Di chi la colpa di chi muore per mancanza d’acqua o di cibo o delle più elementari medicine? Io? Tu? Lui? Nessuno! Eppure la gente muore... Anche quella donna sarebbe sicuramente morta. E nessuno l’avrebbe uccisa.
Ai farisei e agli scribi in realtà non interessa la donna: il loro vero obiettivo è Gesù.
Se Gesù infatti si schiererà a favore della donna, automaticamente si porrà contro la legge. Lui che si dichiara il Messia non può porsi contro la legge dei Padri. Se si schiererà contro la donna si contraddirà, condannandola a morte: solo i Romani, peraltro molto liberali in materia sessuale, potevano infatti condannare a morte. Quindi scribi e farisei avrebbero avuto il pretesto per accusarlo di fronte all’autorità civile.
Tutti la condannano: nessuno si chiede i motivi, il perché si sia spinta a comportarsi in quel modo. Cosa cercava? Forse il marito la picchiava; forse il marito la respingeva; forse il marito la umiliava; forse il marito la teneva come una schiava; forse il marito aveva un’altra.
Nessuno si è fermato a riflettere sul perché è successo tutto questo. È successo: quindi, uccidiamola!
Come mai nessuno si è chiesto: “E l’uomo dov’è ora? Perché non prendiamo anche lui? Perché dev’essere colpevole solo la donna? L’adulterio si commette in due, perché qui c’è solo lei?”.
I farisei si rifanno alla Legge di Mosè, a ciò che è scritto nei codici e nei manuali di teologia. I farisei non hanno cuore, sono dei rigidi esecutori, sono dei formalisti.
Il loro criterio è la legge: “Il catechismo dice così, la legge comanda questo, la legge lo vieta o lo permette!”.
Ma “la legge non giustifica!”, dice san Paolo. È troppo semplice rifarsi alla legge, all’esterno. Il bambino può giustificarsi: “Lo dice la mamma! Papà mi ha detto che si fa così!”. Ma l’adulto, no: da grandi non dobbiamo più fare le cose solo perché ce lo dice qualcuno. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, dobbiamo fare le cose solo se crediamo in esse, altrimenti evitiamo di farle. “Ma gli altri fanno così; tutti fanno così; la legge stabilisce questo; si poteva fare!”: non possiamo più accampare scuse. Siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni.
Gesù si rifà alla legge inscritta nel cuore di ogni uomo, nel profondo di loro stessi. Noi possiamo anche uccidere la donna; possiamo anche accusarla e giudicarla colpevole ed essere in regola con la legge umana; ma non lo saremmo per la legge di Dio. Se una legge permette una cosa, non vuol dire che sia anche giusta.
Se ci chiediamo: “Cosa dice la legge?”, allora abbiamo già condannato la donna, e stiamo eseguendo la sentenza. Ma se ci chiediamo: “Cosa dice la mia coscienza, il mio cuore?”, come facciamo a condannarla? “Ma si è sempre fatto così, mia madre e mio padre hanno sempre fatto così, io ho imparato questo, le istituzioni stabiliscono questo!”. Nessuna giustificazione: “Tu non hai la tua coscienza? il tuo cuore? Che ne hai fatto?”.
Gesù rimette tutti di fronte alle proprie responsabilità: “Scagli per primo la pietra contro di lei chi è senza peccato!” (8,7). E nessuno lo fa’, non perché non si ritenessero giusti (non lo erano, ma loro ne erano convinti!), ma perché nessuno di loro è in grado di prendersi le proprie responsabilità.
Prima di parlare dobbiamo pensare bene a ciò che vogliamo dire. Le persone troppo spesso parlano di nascosto, dietro le spalle, gettano volentieri fango, insinuano, malignano: sono irresponsabili, non hanno personalità!
Fanno come i farisei che chiacchierano, spettegolano, malignano, accusano, insinuano e svergognano la donna. Non vedono l’ora di mettere in piazza il suo peccato, l’errore, lo sbaglio. Comunque lo definiscono immediatamente “peccato” e non vedono l’ora di annunciarlo per primi, di diffonderlo: “Flagrante adulterio” (8,4).
Gesù, chiamato in causa, non dice assolutamente nulla; non guarda neppure la donna, china solo il capo, profondamente amareggiato per il trattamento, maligno e incivile, riservato alla poveretta. Contrariamente ai suoi accusatori, Egli rispetta quella donna, capisce la sua vergogna, la sua umiliazione nell’essere messa alla berlina come una puttana, davanti a tutti, nell’essere additata come la peggiore e la più detestabile delle cose.
Molta gente si diverte a insinuarsi nella vita privata degli altri, a pubblicizzare maldicenze, a creare gossip inesistente, costruito e preordinato a tavolino, a malignare su ipotetiche avventure sentimentali; ci ricama sopra scientificamente, ricavandone lauti guadagni. È la storia quotidiana dei nostri giorni: i vari giornali e periodici spazzatura gareggiano nell’imbecillità; la quasi totalità di emittenti televisive intontiscono gli spettatori con trasmissioni idiote, in cui conduttori e conduttrici, con il supporto di opinionisti altrettanto idioti, fanno a gara nel farsi compatire per lo squallido voyerismo assunto come unico sistema di intrattenimento: vivono e guadagnano sulla nostra ottusità, costruendo continuamente falsi scoop in cui la maldicenza, le illazioni, le supposizioni, il perbenismo ipocrita, ne costituiscono le linee guida essenziali.
Una società che passa il tempo a rincorrere tanto pattume è una società che il più delle volte, non trovando vitalità in se stessa, cerca sussulti di emozione e di vita nelle notiziole scandalistiche, che evidenziano solo una tragica morte dello spirito. È una società vuota, in cui le persone, deprivate di ogni vita interiore, non fanno altro che vivere negli altri, cibandosi solo dei rifiuti e degli scarti della cronaca quotidiana.
A Gesù non interessa il peccato della donna: Egli, nella sua sensibilità, si preoccupa piuttosto di quello che lei in quel momento sta provando. I farisei la trattano come un oggetto; per loro quella donna è nessuno: non si rendono assolutamente conto che lì dietro c’è una storia, un volto, una vicenda, una persona con i suoi sentimenti, con le sue difficoltà, con i suoi problemi, con la sua onorabilità calpestata.
Gesù la chiama semplicemente “donna”: lo fa con rispetto, con amore, quasi con umiltà, restituendole con una parola la sua dignità, rivivendo con lei il suo dramma interiore.
I farisei però insistono, vogliono da lui risposte chiare, soluzioni definitive, leggi forti. Ma Gesù, in un silenzio assordante, continua a scrivere per terra; prende tempo. Loro vogliono una risposta immediata, lui non gliela dà. È pieno di rabbia e, nel silenzio, vuol scaricare tutta la sua indignazione: vuole essere nuovamente calmo, lucido, obiettivo nel rispondere.
“Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra” (8,7). Lapidariamente Egli ripropone ciò che l’usanza ebraica imponeva per coloro che si presentavano come accusatori: l’essere cioè totalmente immuni da ogni colpa, da ogni errore, da ogni peccato.
“Siete proprio sicuri che nulla vi riguardi? Ne siete proprio certi? Pensateci bene! Non avrete magari tradito vostra moglie, ma siete proprio certi di non aver mai desiderato in cuor vostro altre donne? Siete proprio sicuri di non aver mai avuto fantasie sessuali? Non vi succede mai di essere egoisti, di pensare solo al vostro piacere e non a quello della vostra compagna? Non vi succede mai di usare il sesso come vendetta o come arma di potere per ottenere ciò che volete? Non vi succede mai di essere aggressivi? Quello che imputate a quella donna non vi riguarda? Pensateci bene!”. Gesù li mette di fronte alla loro personale verità: “Chi di voi può dirsi immune dal peccato e da questo peccato?”.
Gesù non giustifica la donna e non le dice: “Brava, hai fatto bene!”. Le dice: “Và e d’ora in poi non peccare più” (8,11). “Forse hai sbagliato e forse hai fatto qualcosa di cui neppure tu ora sei soddisfatta. È successo, ma adesso non condannarti più. Adesso lascia stare, perdonati e sappi che tu puoi essere diversa, nuova!”. Questo è meraviglioso in Gesù: Egli fa leva sulle forze nascoste e profonde della donna: il suo è il vero amore. Non sottolinea il peccato, che probabilmente c’era ed era vero; sottolinea solo la sua possibilità di uscirne fuori, le sue risorse per costruirsi una vita migliore, per essere diversa. Gesù le dice: “Tu puoi. Non è vero che sei così e che sarai sempre così: non crederci! Puoi essere diversa; puoi essere migliore; puoi cambiare: io lo so, io ci credo!”.
Gesù non mette in risalto il suo errore. Anche lei sapeva di aver sbagliato! Egli sottolinea il positivo. Fede è semplicemente aver fiducia nell’altro. Ma non si può fingere: bisogna crederci! È credere che ce la possa fare; che abbia delle altre forze dentro di sé; che possa essere migliore. Gesù ama la donna perché le dice: “Sì avrai anche sbagliato, ma io credo in te”.
È meraviglioso quando qualcuno crede in noi, nelle nostre forze, nelle nostre possibilità, in ciò che siamo. È meraviglioso quando qualcuno sa andare oltre i nostri errori o i nostri limiti e ci dà fiducia. È meraviglioso quando qualcuno ci ama così tanto che ti fa sentire grandi, potenti: in una parola che ci fa sentire noi stessi.
L’amore dà fiducia. L’amore dei fratelli fa sì che noi possiamo ritrovare la fiducia in noi stessi.
Perché le persone guariscono con certi trattamenti? Cos’è che le fa guarire o cambiare o diventare se stesse? La competenza di chi insegna o guida? No! Un percorso terapeutico fatto bene? No! Ciò che li fa guarire è che trovano qualcuno che crede in loro e che ha fiducia in ciò che loro possono essere. È solo l’amore infatti che ci fa vedere quello che non siamo, quello che possiamo essere e che, se ci crediamo, senz’altro diventeremo. Amen.




giovedì 3 marzo 2016

6 Marzo 2016 – IV Domenica di Quaresima

«In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: Un uomo aveva due figli…» (Lc 15,1-3.11-32).

Il vangelo di questa domenica ci presenta un testo “classico” della quaresima: la parabola del figliol prodigo o del Padre misericordioso. Una delle parabole più incisive del Vangelo che ci descrive in maniera sublime il comportamento di un Padre innamorato che riabbraccia con gioia il figlio che è ritornato a casa, nonostante se ne fosse andato sbattendo la porta, e gli avesse estorto con insolenza un’eredità che non gli spettava. Un Padre che lo perdona e che dimentica tutte le offese, che lo stringe al suo cuore, dimostrandogli tutto il suo amore, la sua dolcezza, la sua misericordia: l’insegnamento? Dio è esattamente come quel Padre. Egli si comporta con noi, in questo modo, ogni giorno, ogni volta che sbagliamo.
Una parabola molto gratificante per noi: ma, nel contesto, a chi e per chi Gesù l’ha detta?
All’inizio del capitolo (15,1), Luca scrive che: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo”. Un pubblico dunque formato da peccatori incalliti, dagli emarginati, dagli esclusi, dalla feccia della società, da gente di malaffare, insomma, dal “peggio del peggio”; tutte persone però che di fronte alle parole consolanti di Gesù rimangono letteralmente sconvolti dalla gioia, dalla prospettiva che, nonostante tutto, Dio li avrebbe comunque “guardati” con misericordia.
Del resto, quando Gesù parlava, ripeteva sempre lo stesso concetto: “Il regno di Dio è per tutti”, non solo per i buoni, per gli osservanti, per i religiosi. E quando Egli mangiava, non faceva distinzioni nel scegliere i commensali: sedeva a pranzo con chiunque, senza alcuna vergogna o repulsione. In pratica Gesù, con il suo messaggio e con il suo comportamento, fa capire a tutti che la cosa più importante non è più quanto uno dimostra di essere bravo, ma se, e quanto, si lascia amare da Lui.
Subito dopo però, l’evangelista fa notare che i farisei e gli scribi “mormoravano”; lo criticavano cioè per il fatto che: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro” (15,2).
È una evidente dimostrazione di invidia, visto che Gesù sistematicamente li ignorava, preferendo accompagnarsi ai reietti della società: una breve annotazione però che ci porta a pensare che il motivo centrale della parabola, il personaggio su cui meditare, non sia tanto il padre misericordioso che ama infinitamente (il che rimane vero); e neppure il giovane figlio, l’adolescente che rompe ogni legame col padre per sperimentare le sue potenzialità, per capire se stesso; ma sia invece proprio il figlio maggiore, l’invidioso, colui che giudica con acrimonia sia il padre che il fratello; perché, e questo è il messaggio importante, chi giudica con rancore, chi critica con cattiveria, chi disprezza il prossimo, giudica, critica e disprezza Dio.
Gesù in pratica punta il dito proprio su questo genere di persone e sembra dire: “Voi mi giudicate e mi disprezzate, perché io amo tutti quelli che voi non amate; perché io credo che ci sia vita in coloro che voi ritenete morti; perché io trovo meriti in chi voi considerate peccatori; perché io abbraccio gli impuri e i contaminati che voi evitate ed emarginate. Mi giudicate e mi condannate perché non vi considero quelli che voi pretendete di essere, gli unici servitori fedeli di Dio e della sua legge. Ebbene: il fratello maggiore, il fratello invidioso e cattivo della parabola, siete proprio voi!”.
Gesù, con questa aperta allusione, sa bene di toccarli nel vivo, sa di provocare in loro rancore, rabbia e irritazione, perché sostanzialmente li definisce, maligni, astiosi, freddi, insensibili, senza cuore e senza misericordia: gente totalmente lontana da Dio, anche se si considera pia e religiosa: “A voi non interessa quello che sono le persone nella realtà, non interessa quella che è la loro vita; voi vi preoccupate solo del vostro apparire, della vostra posizione; quella che voi chiamate giustizia, è soltanto uno sterile formalismo da cui traete solo vantaggi a vostro uso e consumo”. Egli sa perfettamente che con le sue inflessibili precisazioni inevitabilmente aumenta il numero dei suoi nemici: tuttavia non perde occasione per stigmatizzare la falsità, l’esibizionismo, il perbenismo di facciata, di scribi e farisei.
La sua “meritocrazia”, infatti, non si basa più sul “quanto”: “Quanto preghi; quanto sei religioso; quanto sei bravo; quanti errori hai evitato; quanto sei in regola con le leggi”. Il suo nuovo criterio di valutazione, decisamente rivoluzionario, è soltanto: “Ami veramente?”. Dove per “amare” intende: “Io, nonostante le apparenze, credo in te; credo nel tuo valore, ti stimo e ti amo, al di là di quello che sei oggi, al di là di ciò che hai fatto, al di là di ciò che gli altri dicono e pensano di te. E poiché dico di amarti, ti aiuterò, farò di tutto perché le qualità che tu nascondi nel tuo intimo, quella bellezza e quella ricchezza che hai dentro di te, vengano alla luce e tutti possano ammirarle”.
In realtà valutare una persona, esprimere un giudizio nei suoi confronti, è sempre difficile, impegnativo, implica una conoscenza profonda dell’animo umano. Gli studiosi della psiche concludono spesso appellandosi alle varie tipologie di infermità: uno è schizofrenico; un altro ha disturbi ossessivo-compulsivi; un altro ancora è un borderline, un depresso bipolare ecc. Per loro, ai fini di una cura, è prima necessario fare una diagnosi, definire un quadro clinico: ma noi non siamo medici; l’unica cura che noi dobbiamo prestare al prossimo è quella dell’amore: per questo dobbiamo prescindere da qualunque “patologia”, dobbiamo evitare in tutti i modi di “etichettare”, di distinguere le persone in classi di merito, di preferire quelle più “in”, di anteporre certe tipologie di individui che ci sono più congeniali, a discapito degli altri. L’amore non fa differenze. Gesù, ai malati di qualunque specie, diceva: “Io vedo che tu soffri; io ti amo; se tu vuoi, allevierò la tua sofferenza, ti aiuterò a guarire”.
L’amore infatti non vede la malattia, vede solo una persona che soffre, una persona che grida al mondo il proprio dolore, una persona che ha bisogno di accoglienza, di tenerezza, di affetto, di comprensione, di misericordia. È solo l’amore, la carità, l’agape, che possono guarire queste persone, che possono recuperare ciò che sembrava perduto; al contrario del giudizio malevolo, dell’invidia, del rancore, che non fanno nient’altro che condannare.
Quante volte anche noi, parlando del prossimo, spariamo giudizi: “Quello è un poco di buono, una testa calda, è uno che beve, un approfittatore; quella è sempre stata così, è una prostituta, è ricca perché va con tutti”, ecc. Ma è questo il nostro donare amore? Come pensiamo di recuperare queste persone con l’amore, se noi per primi le etichettiamo, le schediamo, le condanniamo, le emarginiamo? Andiamo oltre, non fermiamoci in superficie, caliamoci in profondità, all’interno, nel cuore, nell’anima di chi soffre. Nessuno è mai irrimediabilmente perso: per Gesù le apparenze non contano.
Oltre a questo, la parabola di oggi ci offre anche una plastica immagine fotografica di quelle che possono essere le relazioni familiari. Ci presenta infatti i comportamenti di un padre e dei suoi due figli.
I figli sembrano diversi, hanno comportamenti apparentemente opposti; in realtà hanno lo stesso problema: entrambi non si sentono apprezzati dal padre, non nutrono per lui alcun amore, lo considerano un nemico: entrambi sono schiavi, entrambi sono succubi, sono dei “dipendenti”, entrambi si comportano da mercenari. Il minore cerca di arraffare più che può degli averi del padre: è chiaro, non conosce il suo amore. Lotta contro di lui. Pretende subito un’eredità che poteva ottenere solo dopo la morte del genitore. Praticamente gli dice: “Tu per me sei morto. Io non ho più nulla a che vedere con te: per me non esisti più!”.
Il maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando” (15,29). Si considera un servo, uno schiavo: obbedisce sempre, ma dentro di sé cova rabbia, odio. Ha paura del padre: lo teme, perché teme di perdere il suo privilegio di primogenito e gli si sottomette suo malgrado. La sua scelta è il “dovere”. Rinuncia alla sua vita per “timore” del padre: “Tu mi rifiuti (cioè non mi ami per quello che sono), ma io ti dimostrerò che ti sbagli”. Per questo gli fa vedere di essere bravo, il figlio più bravo. Adotta cioè la strategia, molto comune, di coloro che “fanno tutto quello che devono fare”, che si comportano sempre bene, che non trasgrediscono mai: per questo sono molto amati dai genitori, dai superiori, dalle autorità, ma nel loro cuore non conoscono l’amore: dovendo rinunciare ad una vita propria per ricevere in cambio amore e riconoscimenti, dentro di loro provano soltanto rabbia e risentimento.
Il minore, invece, poiché non si sente accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi rifiuti? Anch’io ti rifiuto!”. D’altronde che poteva fare? Se in casa c’è già un prediletto che rimane, a lui non resta altro che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro, per differenziarsi, deve per forza farne un’altra! In questo modo i due non si incontreranno mai! Il maggiore non chiamerà mai “fratello” il minore: tant’è che rivolgendosi al padre gli dice: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia. Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene e tu tratti mio fratello meglio di me!”.
Ha dissipato tutto “con le prostitute”: il testo non ci dice se ciò sia successo realmente; ma, vero o no, il tentativo del maggiore di screditare il fratello, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo davanti al padre, è evidente. Cosa c’è in gioco tra i due? In superficie i soldi, ma in profondità l’oggetto della contesa è l’amore del padre. L’attaccamento ai soldi è l’attaccamento al padre: poiché il primogenito era il preferito, il prescelto, il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso in partenza l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando poi torna, torna solo per interesse: torna per fame, per non morire di stenti.
E il padre? Dov’era? Come ha fatto a non accorgersi di ciò che accadeva in casa sua? Non si era mai accorto che il minore era insoddisfatto? Non si era mai accorto che il maggiore era solo un esecutore materiale dei suoi ordini? Non si era mai accorto di quello che realmente i due volevano? Non interviene, non dice nulla, neppure una parola. In casa sua succede di tutto, ma lui zitto. È un genitore che non sa rapportarsi con i figli: non sa parlare al loro cuore, non sa ascoltarli, non sa cosa dire loro, non ha niente da dire. Infatti, se uno non conosce il proprio cuore, non può conoscere il cuore dell’altro. L’unica cosa che sa fare è dare delle “cose”, ad entrambi: ma quando un genitore dà solo “cose” ai figli, vuol dire che non ha altro da dare, vuol dire che non ha anima, non ha spirito, non ha emozioni, non ha vitalità: non ha nulla di sé da trasmettere. È il fallimento dell’educazione.
Molti genitori riempiono i figli di giocattoli, di vacanze, di cose, di vestiti, di telefonini, di attività (sport, musica, lingue, corsi): ma tutto ciò non può sostituire la cosa più importante, l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore, di un rapporto diretto con lui (parole, momenti, abbracci). Un figlio ha bisogno della madre, del suo amore, di un rapporto diretto con lei (parole, carezze, sentimenti). Un padre non può sostituire la madre, così come una madre non può sostituire il padre. Entrambi, padre e madre, sono assolutamente insostituibili.
I genitori a volte dicono: “Hai tutto”; sì è vero, tutto di materiale, ma niente di spirituale, niente dell’anima.
Da questo punto di vista quella di oggi è la parabola del non detto, della non comunicazione; di una famiglia in cui nessuno parla. Per metà del racconto infatti nessuno dice niente, nessuno parla a qualcun altro (eccetto la frase iniziale del minore). Una situazione comune a tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”. Invece, un sacco di cose non vengono dette, rimangono dentro, non sono espresse, e poi improvvisamente esplodono. E quando poi succede, tutti cadono dalle nuvole: “Ma cosa gli è preso a quel figlio? Cos’ha? Non gli manca nulla!”.
La situazione invece cambia del tutto, quando i personaggi iniziano a parlare: il minore parla a sé stesso: “Quanti salariati...”. Cosa si dice? Di cosa parla? Del suo errore,“rientrò in sé” (15,17), di ciò che finalmente ha capito, della sua fame d’amore. Il padre parla quando lo vede e quando si commuove (15,21-24). E di cosa parla? Esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perderlo, parla ciò che ha imparato e di cosa è davvero importante. Anche il maggiore parla, ma della sua rabbia (15,29-30), del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale quando sa del ritorno del fratello.
I personaggi iniziano un viaggio in silenzio, senza alcuna comunicazione tra loro; ma poi cambiano radicalmente quando iniziano a parlare, comunicando tra loro, aprendosi.
E allora anche noi, se stiamo male come il minore, parliamo del nostro male. Non facciamo finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori, parliamo di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona ferita che soffre. Se proviamo gioia, emozione, vitalità, come il padre, esprimiamoli apertamente: il minore e il padre infatti, facendo così, rivelandosi reciprocamente i loro sentimenti, “guariscono”. Il maggiore non ancora, ma ha iniziato... vedremo!
Apriamoci, comunichiamo, parliamo di ciò che proviamo dentro; se non ci apriamo e non comunichiamo, la nostra anima morirà. Se non ci apriamo, nessuno potrà mai conoscerci; se non ci apriamo, nessuno mai potrà rendersi conto di quanto sia bella la nostra anima! Amen.



giovedì 25 febbraio 2016

28 Febbraio 2016 – III Domenica di Quaresima

«Quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
  
Due fatti di cronaca recente, uno consumato dalle autorità occupanti (una rappresaglia soffocata nel sangue), l’altro puramente fortuito (il crollo di una torre con numerose vittime), avevano particolarmente scosso l’opinione pubblica, soprattutto per le loro implicazioni: all’epoca infatti tutti erano fermamente convinti che il male, le disgrazie fisiche, gli infortuni, capitassero agli uomini in espiazione dei loro peccati personali o di quelli dei parenti più stretti.
Il vangelo di oggi si apre alludendo proprio a questi fatti di cronaca: alcune persone, nel riportarli a Gesù, gli avrebbero esternato tutto il loro sdegno e la loro amarezza nel constatare come una così grande quantità di persone “infedeli” fossero cadute vittime dei loro peccati.
Nella sua risposta, però, Gesù non commenta i fatti ma li usa per spezzare la mentalità del tempo. Egli in sostanza dice: “Quelli che sono morti non sono più colpevoli di voi!” (13,2.4). Cioè: “Quei poveretti non sono morti per espiare le loro colpe: anzi vi assicuro che voi che mi state ascoltando non siete di certo meno peccatori o colpevoli di loro!”.
Era una mentalità molto diffusa, ben radicata e dura a morire, che veniva motivata con l’espressione: “Chi sbaglia, deve pagare!”, dalla quale, come conseguenza, si traeva la conclusione che: “Chi ama, deve castigare”.
Una regola formativa che, pur stemperata col tempo nella sua rigidità assoluta, è giunta fino al nostro recente passato. Per cui, fino a pochi anni fa, la punizione costituiva un “dovere” per ogni buon “maestro” di vita: così, per esempio, un buon padre, per essere tale, doveva severamente punire i propri figli troppo esuberanti, “perché le piante storte vanno raddrizzate da subito, fin da giovani”.
Oggi fortunatamente questo tipo di mentalità assolutista, è quasi del tutto tramontata. Del resto, che tipo di amore può esercitare colui che per principio castiga drasticamente, umilia, ferisce o usa violenza su dei piccoli? L’esperienza ha dimostrato infatti che la punizione fisica non insegna nulla, non è mai educativa; semmai stabilisce soltanto che chi è il più forte esige obbedienza, e chi è il più debole, se non si adegua, automaticamente “le prende”. Un modo di pensare pertanto che il tempo ha dimostrato completamente errato: chi castiga, non ama; perché chi ama veramente, non può in nessun caso procurare dolore, sofferenza, umiliazione a colui che egli ama.
Intere generazioni però sono cresciute imparando a loro spese che per “essere amati” era necessario soffrire, stare male, accettare l’impossibile, rinunciare spesso alla propria dignità: così, per esempio, per salvare “l’amore” in famiglia, si accettava l’alcolismo, “le botte”, le umiliazioni, i tradimenti, gli abusi. Bisognava “portare pazienza”, perché in questo modo si acquistavano “meriti davanti al Signore”, si era dei “bravi cristiani”. È per questo che “i giovani” del secolo scorso hanno accettato cose impossibili: e quando oggi i figli o nipoti chiedono “perché”, non sanno rispondere. L’unica cosa che sanno dire è: “È sempre stato così; ci hanno insegnato così; abbiamo imparato questo”.
D’altronde l’idea “se sbagli, paghi” sta dietro anche ad un’altra espressione ancora oggi piuttosto abusata, male interpretata e male spiegata: “Dio è morto per i tuoi peccati”; una dichiarazione che ha scosso nel profondo la coscienza di intere generazioni. “Tu hai peccato, hai fatto il male e Dio ha dovuto pagare per te; Lui ha sofferto ed è morto sulla croce proprio per colpa tua, per i peccati che tu hai commesso”. Espressioni adottate molto più di frequente per noi anziani: una prospettiva che generava in noi un autentico senso di colpa, ci faceva sentire cattivi, sbagliati, fatti male, colpevoli del dolore di Gesù. Quando a Catechismo ci sentivamo dire: “Gesù è morto a causa dei tuoi peccati” non potevamo avere la capacità di capire, di renderci conto, che non si trattava dei “nostri” peccati personali; semplicemente ci sentivamo cattivi, personalmente colpevoli. E questo sentimento ci tornava puntuale e sconvolgente ogni qual volta la mamma o il papà o qualche fratellino, soffrivano, stavano male: la conclusione era sempre la stessa: “se soffrono, è per colpa mia”. E impauriti aspettavamo una punizione che prima o poi doveva arrivare.
Oggi tutto questo è tramontato, anche se talvolta possiamo ancora imbatterci in espressioni tipo: “Lo sai che con la tua cattiveria fai piangere Gesù? Perché procuri tanto dolore alla mamma? Tu mi fai morire! Con tutti i sacrifici che io e papà facciamo per te”; e non ci rendiamo conto che a lungo andare il bambino si sentirà ingrato, cattivo, senza cuore, e penserà di non poter mai essere felice. E spesso accade che questi sensi di colpa si trascinino fino all’età adulta, compromettendo uno sviluppo ed una maturità sana, aperta, propositiva, felice.
Quante persone, anche oggi, non sanno infatti divertirsi: non sanno giocare, non sanno ridere, non si concedono mai un po’ di relax, delle pause, delle cose piacevoli. Sono sempre impegnati a fare, produrre, realizzare qualcosa, pur di non fermarsi in loro stessi; sono continuamente in presa diretta, fanno di tutto, ma solo per un benessere esteriore: mai nulla per il loro benessere interiore. Ecco perché educare un bambino con il senso di colpa, significa distruggergli il piacere della vita, vuol dire avvelenargli il sangue, vuol dire: “Così non andrà mai bene; così non basterà mai; devi fare molto di più”; che, tradotto, vuol dire: “Non vali nulla, sei sbagliato!”.
Gesù dunque, con l’intervento riportato nel Vangelo di oggi, cerca di spezzare questa mentalità oppressiva: anche se subito dopo, con il seguito delle sue parole, sembra in qualche modo riproporla: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (13,3.5). Cioè: “se non cambierete vita, se non la smetterete di fare peccati, anche voi morirete allo stesso modo; farete la stessa fine di quei Galilei”.
Ma cosa vuol dire in realtà Gesù con queste parole? È per caso una frase intimidatoria, nel senso che se non cambiamo vita, Dio per punizione ci farà morire? Nossignori: Gesù non vuol dire questo. Dio non punisce, mai! Egli vuol semplicemente dire: “Guardate che tutto quello che fate ha delle conseguenze, delle ripercussioni”; in altre parole: “Se voi continuate a comportarvi negativamente , ricordatevi che il risultato che otterrete sarà altrettanto negativo! Non si tratta di una condanna, ma di una logica conseguenza.
Un giorno un Padre del deserto disse ai suoi discepoli: Vi do due notizie: una buona e l’altra cattiva. Quella cattiva è: “Se fate cose mortali, morirete”. “E quella buona?”, chiesero incuriositi i discepoli: “Che adesso lo sapete”, rispose il maestro.
La vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Molto infatti di quanto ci succede, succede perché noi lo vogliamo. È matematico. Tuttavia non dobbiamo colpevolizzarci, né cercare di ignorare o sottovalutare questa “legge” così dura: dobbiamo solo imparare umilmente a non ripetere gli stessi errori che ci hanno messo in tale situazione.
Convertirsi vuol dire infatti cambiare drasticamente direzione; shub in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta: stiamo andando in una certa direzione, ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare strada; ecco, in questo consiste “convertirsi”: dobbiamo cioè fare una decisa inversione a “U”.
Molti dei nostri comportamenti ci portano inevitabilmente a morire dentro, ci riducono alla superficialità, ci allontanano sempre più dal nostro cuore e da noi stessi. Il fatto è che purtroppo non ce ne accorgiamo.
Quando ad un certo punto ci succede il “dramma”, quando cioè le nostre azioni, il nostro comportamento ci si ritorce “contro”, piangiamo e diciamo: “Com’è stato possibile? Perché ci è successo questo? Perché Dio mi ha fatto questo?”. Ma Dio non c’entra: la causa siamo noi: sapevamo dove andare, ma volutamente abbiamo continuato a correre per la strada sbagliata, che ci ha portato inevitabilmente nel precipizio. Era chiarissimo, ma non abbiamo voluto vedere. Allora, finché siamo in tempo, convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà un momento in cui sarà troppo tardi.
Oggi è stato ampiamente dimostrato che perfino molte infermità sono conseguenza dei nostri comportamenti, dei nostri vissuti profondi, dei nostri schemi mentali: allergie, intolleranze, malattie psico-somatiche, affliggono l’umanità a seguito di determinati e ben precisi comportamenti. Non sono una “punizione”, ma non dipendono neppure da elementi patogeni esterni. Nascono per motivo interiori ben precisi.
Allora “convertirsi” vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi, farsi aiutare, riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere anche se all’inizio può essere difficile. Solo se vediamo, se riconosciamo, se avvertiamo, riusciamo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e fuori.
Responsabilità (da respondeo, rispondere, risposta) vuol dire che noi rispondiamo in prima persona della nostra vita, che non deleghiamo, che non scarichiamo le colpe della nostra vita alla società, agli altri, al passato, al mondo che è cattivo e che ce l’ha con noi. Responsabilità vuol dire che accettiamo di essere noi alla guida della nostra vita e che questa va nella direzione che noi le diamo.
La parabola del fico completa ciò che Gesù sta dicendo. L’albero da frutto impiega tre anni per crescere dopo i quali inizia a portare i primi frutti. L’albero della parabola, invece, ha già sei anni e non ha ancora portato alcun frutto (il padrone passa dopo tre anni di periodo fertile). Il fico non richiede cure particolari, non ne ha bisogno. Ecco perché il padrone ordina di tagliarlo, nonostante il vignaiolo chieda di fare ciò che normalmente non si fa’, tenta cioè un’ultima possibilità.
Spesso in passato, leggendo questa parabola, il commento era: “Che cattivo Gesù! Perché non ha ancora un po’ di pazienza? Perché è così duro?”. In realtà la parabola vuol solo dirci: “tu sei come quel fico!”: noi infatti possiamo portare frutto; possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci, realizzarci. Questo noi lo possiamo: la vita dà a tutti la possibilità di portare frutto, offre occasioni speciali, particolari, ci fa incrociare situazioni uniche affinché questo avvenga.
Tutti noi abbiamo avuto degli incontri che ci portavano in una certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci facevano respirare un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni da questa parte; provaci; forza, vedrai che ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto situazioni particolari e tragiche (la morte di un figlio, di un parente, di un amico carissimo; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci chiamavano nel dolore a vivere diversamente.
Cosa abbiamo fatto noi in quelle situazioni? Rinuncia oggi e rinuncia domani, posticipa, rimanda, tralascia, abbandona, evita, rifuggi oggi e rifuggi domani: ma verrà un giorno in cui sarà impossibile pensare al “domani”. E l’albero verrà tagliato: e non c’è più nulla da fare.
E non è un giudizio o una condanna di Gesù: è solamente una conseguenza delle nostre scelte. Del nostro troppo rimandare. Amen.