venerdì 27 febbraio 2015

1 Marzo 2015 – II Domenica di Quaresima


“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li condusse in disparte, essi soli, su un alto monte” (Mc 9,2-10).
Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: sono quelli stessi che lui ha personalmente chiamato al suo seguito, ai quali ha messo anche un soprannome: Simone diventa Pietro, cioè “testa dura”, Giacomo e Giovanni sono invece i “Boanèrghes”, ossia “i figli del tuono”, dei fanatici, dei collerici, dei violenti, a cui non sta mai bene nulla.
Sappiamo però dal vangelo che tutti gli apostoli, Pietro in particolare, cambiano radicalmente modo di pensare e di agire: Pietro si diventa il “capo”, la guida, il punto di riferimento del gruppo; Giovanni diventa addirittura il “discepolo amato, quello che posava il capo sul petto di Gesù” (per dire la trasformazione in amore, in dolcezza, in tenerezza): il loro è stato quindi un cambiamento radicale, definitivo: una revisione totale e profonda della loro vita.
Un cambiamento che ci mette di fronte ad una realtà: per poter seguire Gesù, è necessario trasformare non solo il nome, ma anche e soprattutto il carattere. In altre parole è necessario “convertirsi”; la conversione infatti comporta proprio questo: smettere di essere “noi stessi”. Certo noi rimaniamo sempre “noi stessi”, ma siamo “diversi”, non sentiamo, non pensiamo, non viviamo più come prima, perché abbiamo fatto una nuova esperienza che ci ha cambiati completamente. Gli orientali la chiamano “illuminazione”: prima eravamo ciechi, ora ci vediamo perfettamente; i cristiani “conversione”: vivere cioè una nuova vita con Lui, in Lui; in maniera diametralmente opposta allo stato di “peccato” che implica un comportamento lontano da Lui.
Gesù quindi “li condusse sopra un monte, in un luogo appartato, in disparte”.
Il monte non è tanto un'indicazione topografica, ma teologica. Cos'era il monte nell'antichità? Era il luogo della terra più elevato verso il cielo, quindi il luogo più vicino a Dio (che stava nei cieli). “In disparte” poi, nei vangeli, ha sempre una valenza negativa: significa, cioè, che questi discepoli sono in qualche modo in contrasto con Gesù, hanno cioè combinato qualcosa che non andava bene. È di poco prima, infatti, la ribellione testarda di Pietro, allorquando Gesù annuncia la possibilità di essere rifiutato e addirittura ucciso (anche qui Marco sottolinea che Pietro “lo prese in disparte”); uno scontro piuttosto violento, tanto che Gesù gli grida: “Lungi da me satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro vede ancora Gesù come un Messia potente, forte, uno che deve in ogni caso imporsi; non vuole saperne di un Gesù mite, remissivo, che predica parole di amore, di perdono e di misericordia.
Anche Gesù, quindi, li prende “in disparte”: deve cioè dimostrare, in maniera forte e inequivocabile, che Lui non è il messia che loro si aspettano; Lui non è un nuovo Elia, non è un nuovo Mosè, come essi avrebbero voluto. Dicevano sì di amarlo: ma amare significa vedere le persone per quello che sono, e non per quello che noi vorremmo che fossero.
A questo punto Gesù si trasfigura: Marco usa il verbo meta-morfeo, cioè “mi metamorfizzo”, entro in una completa metamorfosi. Inoltre il verbo è usato al passivo e, come sempre in questi casi, sta ad indicare un diretto intervento di Dio: quindi non è Gesù che “si” trasforma, ma è Dio stesso che “lo” trasforma. Dunque Dio lo trasfigura: un particolare colpisce l’attenzione dei tre discepoli: le sue vesti erano così bianche che “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Cosa vuol dire? Che per quanto noi facciamo (anche il miglior lavandaio) non potremo mai raggiungere da soli lo splendore di questa condizione: uno splendore che soltanto chi si lascia invadere da Dio può raggiungere; solo chi si lascia trasfigurare da Dio.
Vi ricordate Madre Teresa? Il suo volto era pieno di rughe, scavato, ma aveva uno sguardo splendido. Perché? Perché in lei Dio si rendeva visibilmente splendente; Dio la trasfigurava. Guardandola si vedeva in lei qualcosa di oltre, di più in là del suo volto: in lei risplendeva Lui.
La radice greca di “splendore” deriva da spodèo, che vuol dire “ridurre in cenere, eliminare, distruggere”. Lo splendore ha sempre a che fare con una trasformazione radicale, con un bruciare il vecchio, ridurlo in cenere, eliminarlo, per diventare qualcosa di completamente nuovo, di rinato.
Poi il testo continua: “E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù(Mc 9,4). È il massimo del massimo. Sono i due più grandi personaggi della tradizione d'Israele. Mosè il grande legislatore, il grande condottiero, il liberatore del popolo dalla schiavitù d'Egitto; Elia, il riformatore religioso, colui che con ferma determinazione, attraverso anche la violenza, aveva imposto al popolo “disperso” la legge di Mosè. Quelli che, secondo la tradizione, non erano neppure morti; quelli che, soli, avevano incontrato Dio a tu per tu, e avevano parlato con Lui. Qui però non parlano più con Dio, ma parlano con Gesù: si vuole cioè dimostrare che Dio e Gesù sono un tutt’uno. È chiaro. E fin qui tutto bene. Ma ora scatta la reazione di Pietro. Marco gli mette addirittura l'articolo: “Il Pietro”, come a dire il testardo, il duro. E cosa dice Pietro? “Rabbì”; Pietro chiama Gesù “Rabbì”; ma chi era il Rabbì? Era colui che si atteneva strettamente alla tradizione degli antichi. Solo due persone, in Marco, chiamano Gesù con questo nome: Pietro e Giuda. Sono coloro che, identificandolo con il messia annunciato dalla tradizione, non accettano le sue novità “rivoluzionarie”, destinate solo a stravolgerne la missione. In pratica Pietro gli dice: “No! Tu non puoi essere così. Devi essere diverso; devi essere colui che incarna la tradizione, quel liberatore che i nostri padri ci hanno predetto”. In altre parole rifiuta Gesù e gli dice: “Così come sei, noi non ti vogliamo!”. Egli nella sua testa ha un’idea chiara di come deve essere il “maestro”, il “Rabbì” e invece di essere lui a conformarsi alle idee di Gesù, pretende che sia Gesù a conformarsi alla sua idea.
In genere ci sono due modi di rapportarsi alle cose, alle persone, agli eventi.
Il primo dice: “Questo non è come io penso: quindi non vale”. In pratica riduciamo la realtà a ciò che pensiamo nel nostro cervello. Per cui se una cosa non è come noi la pensiamo, la eliminiamo, la scartiamo.
Il secondo invece dice: “Questo non è come io penso, ma può essere vero. Cercherò, studierò e, se sarà vero, lo accetterò anche se non è come io penso”. In questo caso la mente è disponibile ad adattarsi alla realtà.
Nel primo, identifichiamo tutto con noi stessi: rifiutiamo cioè la realtà in quanto tutto è e deve essere come pensiamo noi. Nel secondo ci apriamo invece alla realtà: riconosciamo cioè che la realtà è più grande di noi, esula da noi, non è come la pensiamo. Vivere, imparare, vuol dire aprire la nostra mente alla realtà, non ridurre la realtà alla nostra mente. Infatti, anche se una cosa ci sembra impossibile, non è detto che lo sia; anche se una cosa ci sembra evidente, non è detto che sia vera, reale.
Dunque: cosa dice Pietro? “Rabbi è bene per noi stare qui; facciamo tre capanne”. Perché tre capanne? Nella tradizione ebraica si sapeva tutto del Messia. E alla domanda: “Quando verrà il Messia?”, la risposta era chiara: “Durante la festa delle capanne”: la festa religiosa in cui si commemoravano i quarant'anni di deserto, dopo la liberazione dagli Egiziani e dalla schiavitù, ottenuta grazie a Mosè. Fare tre capanne significa allora cercare di tenersi buono Gesù: essi sapevano infatti che contrastando rudemente il suo operato, così diverso da come essi se lo aspettavano, prima o poi sarebbero incorsi nelle sue punizioni, nei suoi castighi. Lo vedono ancora con i loro “vecchi” occhi, e questo incute loro paura: “erano stati presi dallo spavento”.
Del resto, come se non bastasse la visione della “trasfigurazione”, sentono improvvisamente la voce di Dio che dalla nube che li sovrastava, esclama in maniera perentoria: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. È Lui che dovete ascoltare: non Mosè, non Elia, come avete sempre fatto, attaccati come siete al vecchio, alla tradizione, a ciò che è stato. Inutile insistere nel voler fare di testa vostra, come volete continuare a fare.
E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro”.
Per accettare Gesù, il Gesù che è davanti a loro, essi devono abbandonare, devono lasciare, rigettare, tutto ciò in cui prima credevano ciecamente. Un decisivo salto di qualità, che richiede la loro completa fiducia: devono credere anche se non capiscono e non condividono. Inoltre, una volta tornati giù, Egli si fa promettere di non parlare con nessuno di ciò che avevano visto, “fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti”. Altro particolare che li mette ancor più in confusione. Per loro è veramente troppo: obbediscono all’ordine di Gesù, anche se non riescono ancora a capirci nulla, soprattutto “cosa significasse quel risorgere dai morti”. Ma capiranno anche questo: lo capiranno più tardi, dopo la resurrezione.
E concludo: a noi cristiani del XXI secolo, cosa dice questo vangelo? Prima di tutto dobbiamo evitare il comportamento di Pietro che non accettava Gesù: lo voleva “diverso”. Oggi purtroppo quasi tutti amano un Gesù diverso: un Gesù che ognuno costruisce per sé, secondo le proprie idee, le proprie voglie. Ma così facendo amiamo un falso Gesù, un Gesù che ci siamo creati noi nella nostra testa, non il Gesù del Vangelo. Amiamo la nostra idea di Gesù, non Gesù.
Inoltre dobbiamo imparare ad accettare le persone per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero: dobbiamo amare la realtà, perché è l'unica cosa che esiste veramente. Se noi amiamo gli altri perché sono come noi, pensano come noi, fanno quello che vogliamo noi, non amiamo gli altri, ma soltanto noi stessi. Dobbiamo invece accettare che gli altri siano diversi da noi. Perché in questo consiste l'amore: accettare che ciascuno faccia una strada diversa da quella che noi vorremmo per lui. Amare è dire: “Io mi comporterei diversamente, ma accetto la tua scelta”. Accettiamo infine ciò che ci accade. Accettiamo questo mondo. “Questo mondo mi fa schifo; è pieno di ladri, di imbroglioni; ciascuno pensa solo a se stesso, non c'è solidarietà, non c’è carità, non c’è amore; è impossibile amarlo, non lo posso accettare!”. Avremo anche ragione: ma se eliminiamo questo mondo “di schifo”, quale altro mondo ci rimane? E se invece provassimo ad amarlo sul serio? Se provassimo noi, nel nostro piccolo, a migliorarlo, a farlo diverso? L'amore è anche accettazione: possiamo non condividere, possiamo essere contrari, possiamo dissentire, ma alla fine accettiamo le scelte degli altri; anche se non corrispondono ai nostri parametri. Dice Gesù, “se amate quelli che vi amano (cioè quelli che la pensano come voi), che merito ne avrete?” (Lc 6,32). È solo amando, sempre e comunque, che verremo riconosciuti come figli di Dio e riamati da Lui. Amen.  


giovedì 19 febbraio 2015

22 Febbraio 2015 – I Domenica di Quaresima

«In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Mc 1,12-15).
Con il vangelo che fa riferimento alle tentazioni di Gesù, la liturgia ci introduce ogni anno nel tempo della Quaresima. Nei due versetti che immediatamente precedono il brano di oggi, parlando del Battesimo di Gesù, Marco dice che “i cieli si spalancano, e su di Lui scende lo Spirito di Dio”. È ovviamente lo Spirito dell’Amore, che proclama: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. In questo istante Gesù percepisce Dio come Padre, come Madre, come accoglienza, come amore incondizionato, come presenza, come abbraccio, come predilezione.
Subito dopo però, nel versetto che segue, quello stesso Spirito d’Amore sospinge Gesù nel deserto. Lo stesso Dio che nella teofania battesimale lo dichiarava “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti e di penitenza, luogo di azione dei demoni e del male. “Come è possibile?” ci chiediamo: qui lo Spirito si dimostra chiaramente contrastante, incoerente! Ma se pensiamo così, siamo noi che non abbiamo capito Dio, siamo noi che ci siamo fatti di Dio un’idea completamente falsa. Noi, infatti, ci siamo abituati a ragionare di testa nostra: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un regalo da parte sua. Se una cosa, al contrario, è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non è di Dio, è un castigo che viene dal diavolo, dal male. Il vangelo di oggi ci insegna invece che tutto ciò che capita, bene o male che sia, viene da Dio, è lui, e lui solo, che lo permette. Quindi, non perdiamo tempo nel voler stabilire la provenienza buona o cattiva di un certo evento, di una certa situazione: l’origine è unica; preoccupiamoci invece di capire, di volta in volta, il vero motivo di quell’evento, di quella “prova” che Dio ci manda: qual è la strada, quale il passaggio da percorrere, quale la strettoia da superare.
Ricordate le prime pagine della Genesi? All'inizio della storia umana il serpente tenta Adamo ed Eva: esso viene automaticamente simboleggiato come il “male” che cerca di far cadere nel peccato i nostri primogenitori.
Ma il serpente non è il male; non è lui il peccato: egli è invece un passaggio necessario, una strada che dobbiamo obbligatoriamente percorrere per maturare, per evolvere, per liberare tutta l'energia e le potenzialità che abbiamo dentro di noi. In altre parole il serpente, Satana, l’avversario, svolge una funzione necessaria, una funzione positiva, utile nella nostra vita, in quanto ci educa, ci matura, ci rende possibile l’esercizio della nostra libertà, della nostra discrezionalità.
Ci sono persone che vedono il diavolo dappertutto, e scaricano fatalmente su di lui le conseguenze della loro accidia: del resto è più semplice scaricare tutto su di lui piuttosto che affrontare a viso aperto i problemi: ed è ovvio, perché se è il demonio che ci punisce, cosa possiamo farci noi? Niente!
Se però consideriamo le contrarietà che ci capitano, se consideriamo le prove della vita, come prove, come un ostacolo-barriera da superare, allora capiamo che siamo chiamati a compiere un passaggio, un percorso; e non è il diavolo che ci chiama a compiere questo passaggio. ma è Dio stesso. Dio, cioè, non vuole il nostro male; non vuole che ci abbandoniamo fatalmente al male, senza combattere, senza capire che Lui vuole da noi una reazione, che affrontiamo coraggiosamente i nostri demoni, e non che fuggiamo impauriti da loro. Lo Spirito infatti costringe nel deserto (nelle prove) Gesù (e anche noi), proprio perché si confronti faccia a faccia con i suoi demoni.
La parola tentazione (Mc 1,13: peirasmos) vuol dire “mettere alla prova, verificare, fare un test”. Un po’ come succede nelle nostre scuole: gli alunni studiano durante l’anno, e poi sono chiamati a sostenere una verifica, per vedere se hanno capito, se hanno studiato. È la stessa cosa. La tentazione non è Dio che vuol “farci sbagliare”. Assolutamente no. Egli ci mostra, ci documenta, ci rivela ciò che siamo in realtà, quali sono le nostre forze, la nostra volontà, la nostra fede, il nostro amore; ci fa capire, insomma, quali sono sul campo le nostre potenzialità.
La tentazione non è il male, ma è l’occasione che ci rivela il male, che ce lo rende visibile, è la manifestazione del nostro “alter ego”, quello che noi non vogliamo vedere né far vedere, quelle sembianze che preferiamo tenere nascoste, che preferiamo tenere lontane da noi; in altre parole la tentazione non fa altro che rendere pubblica l’altra nostra faccia, non quella “perbenista”, ma quella contraria, quella che si coniuga felicemente con quello che noi definiamo “il male”. Ogni uomo ha un lato oscuro di se stesso che non vuol vedere, che nasconde nel segreto, che non vuole soprattutto rivelare a nessuno. La tentazione, nostro malgrado, ci costringe a guardarlo in faccia, questo nostro demone, ci obbliga a prenderlo in seria considerazione, ci obbliga a stanarlo dalla nostra zona d’ombra: perché è attraverso questa lotta interiore, che possiamo far emergere la bellezza, la luce interiore, i doni, le grazie divine che Dio ha nascosto dentro di noi. E allora, nella nostra vita, tutto sarà più bello, tutto sarà più chiaro, tutto sarà più facile ed entusiasmante.
Se infatti osserviamo bene, una volta che Gesù ha superato l'esperienza delle tentazioni, non lo ferma più nessuno. Sì, perché il “dono” delle tentazioni è una forza irresistibile: tant’è che da quel momento Gesù non si preoccupa più di quello che la gente si aspetta da Lui, di quello che pensa di Lui; rinfrancato dalla ritrovata vicinanza col Padre, lascia cadere le attese della gente, e segue imperterrito la sua strada, la sua missione. Per questo dobbiamo entrare anche noi nel deserto: dobbiamo essere tentati, dobbiamo affrontare anche noi i nostri demoni. Ogni discesa nell'ombra, nel mistero di noi stessi, anche se all'inizio ci incute timore, consegue sempre un risultato inaspettato: quello di portare alla luce qualche “dono” nascosto e sconosciuto. I grandi regali non ce li fanno gli altri per il nostro compleanno: ce li facciamo noi, quando abbiamo il coraggio di entrare nel deserto, nel buio, nella nostra zona d’ombra, e individuare quelli che sono i nostri tesori nascosti, le nostre perle, le nostre gemme. La piena soddisfazione del cuore non è data dal possedere tante cose, ma dal saper “tirare fuori” quelle meraviglie che Dio ha piantato dentro di noi; e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere e valorizzarle. Per questo lo Spirito ci spinge nel deserto: dobbiamo vivere la nostra quaresima, dobbiamo entrare nella tentazione per verificare chi siamo realmente. Non a caso il vangelo parla proprio di deserto. Il deserto è duro, difficile, impegnativo; ci mette crudamente, senza fronzoli, di fronte alla realtà, a ciò che siamo davvero. Il deserto ci ricorda la faticosissima esperienza vissuta dal popolo ebraico, i quarant’anni di peregrinazione per raggiungere la terra promessa. In pratica ci fa capire che per raggiungere qualcosa di veramente importante, qualcosa di grande, di bello, di incredibile, ci vogliono tempo e costanza. Se non diamo tempo, lavoro, impegno, considerazione ad una cosa, vuol dire che quella cosa non ci interessa, non è importante per noi. Tutte le nostre aspirazioni, le nostre “terre promesse”, hanno bisogno di un lungo e faticoso cammino per essere raggiunte. Tutto ciò che è grande, richiede sempre qualcosa di grande. Ed è là, nel deserto totale, nel silenzio assoluto, dove non c'è niente e nessuno, che emergono le grandi domande: “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto?”. Sono domande che aspettano una nostra risposta: perché possiamo eludere ogni aspettativa che gli altri nutrono su di noi, ma non possiamo eludere la nostra coscienza; possiamo darla da bere a tutti, ma non a noi stessi; possiamo tenere sulla corda il mondo intero per tutta una vita, ma prima o poi arriverà la nostra “quaresima”: e da quel momento il “bluff” non è più ammesso. Amen.

giovedì 12 febbraio 2015

15 Febbraio 2015 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!» (Mc 1, 40-45).
Il vangelo di oggi ci riporta lo stupendo incontro tra Gesù e un lebbroso. Noi difficilmente riusciamo a capire oggi cosa volesse dire essere lebbrosi a quel tempo. In pratica erano dei morti viventi. E se per noi oggi è molto difficile contrarre questa malattia, tuttavia abbiamo molte probabilità di ritrovarci pienamente in quel lebbroso.
La lebbra è una malattia della pelle, e la pelle per noi è l’organo di relazione per eccellenza: ci mette cioè in contatto con l’esterno. Tutti noi sentiamo il bisogno naturale del contatto, dell’essere accarezzati, abbracciati, toccati. A volte ne abbiamo paura; a volte, per i fatti della vita, fuggiamo da qualunque vicinanza, ci dà fastidio; magari la evitiamo proprio perché ci ricorda esperienze amare, violente o sporche. Ma, nonostante ciò, noi tutti abbiamo il bisogno innato di essere avvicinati, toccati, accarezzati.
Il contatto ci rassicura. Quando qualcuno ci abbraccia ci sentiamo protetti: “Ci sono io, qui sei al sicuro, non aver paura”. I neonati, al loro affacciarsi alla vita, quando sono abbracciati, si sentono esattamente così: al sicuro, protetti; non hanno paure e non conoscono l’angoscia dell’ignoto. Ma quando ciò non avviene, un’ansia tremenda li invade e si sentono perduti: e piangono finché qualcuno non li riprende in braccio. Ebbene: noi siamo esattamente come i bambini. Quando stiamo male, un abbraccio silenzioso ci solleva più di tante parole, ci aiuta più di qualunque altra cosa. Anche il solo guardarsi negli occhi, può esprimere l’amore più di mille parole affettuose. Il darsi la mano, il tenersi per mano, ci esprime sicuramente l’interesse dell’altro nei nostri confronti, più qualunque sua rassicurazione vocale; un contatto, una vicinanza, ci rilassano, ci distendono, ci fanno sentire amati e accettati per quello che siamo, ci scaricano le tensioni: ci fanno ritrovare insomma il benessere, la piena armonia del corpo e dello spirito.
Eppure un tempo si diceva: “Il corpo è male; il corpo è peccato; state attenti, evitate di toccarvi!”. E ogni contatto sembrava essere una proposta sessuale. Ma allora perché Dio ci avrebbe dato un corpo, e lui stesso si sarebbe fatto corpo umano? Basta leggere il vangelo: quando la cultura di allora, molto più chiusa e moralista della nostra, proibiva addirittura di sfiorarsi in pubblico, Gesù non solo abbraccia le donne, accarezza i bambini, ma tocca anche i lebbrosi, le persone infette; tocca gli occhi dei ciechi, le orecchie dei sordi, prende per mano i paralizzati e impone le mani sulla loro testa. Egli stesso si lascia toccare dai lebbrosi, dai malati, dalle donne; anche dalle donne di assai dubbia moralità come quella che gli lava i piedi con le lacrime o quella che lo unge.
Ma il contatto è decisivo per un altro motivo. Quando uno ci tocca noi ci percepiamo, ci “sentiamo”. Abbiamo detto che quando una madre accarezza il figlio, senza fretta e con partecipazione, questi sente di esistere, di esserci, percepisce i propri limiti, i propri confini. L’esperienza ci dice infatti che se un bambino non è toccato, avrà grossi problemi di identità: non sa esattamente chi sia, non conosce i suoi confini, non sa distinguere tra sé e gli altri.
Quando in un clima di silenzio, di presenza, di consapevolezza, le persone si incontrano e si toccano, si sfiorano, o semplicemente si danno la mano, il contatto fa uscire tutto quello che c’è dentro: paura, traumi, dolori, sofferenze, ricordi, ecc. La mente talvolta può ingannare, ma il contatto no, non inganna mai, perché ripeto, il contatto ci “contatta”, ci mette in relazione con ciò che abbiamo dentro, con ciò che c’è dentro di noi. E questo può far paura, può far scappare, può procurarci un tremendo fastidio. In qualche modo noi stessi ci sentiamo sporchi, ci sentiamo da evitare, ci sentiamo “lebbrosi” come quello del vangelo.
Sì, perché la lebbra, oltre che una malattia personale, al tempo di Gesù, era una malattia sociale. Il lebbroso veniva escluso dalla comunità, doveva vivere fuori dal paese, lontano da tutti. Il lebbroso quando qualcuno gli si avvicinava doveva gridare: “Lebbroso, lebbroso” e suonare una campana per segnalare la sua presenza. Si credeva infatti che fosse una malattia contagiosa, trasmissibile. Non solo erano malati ma erano anche una vergogna sociale e non potevano essere toccati da nessuno.
Oggi, più comunemente, ci sono tante altre tipologie di lebbra: c’è la lebbra di quel giudizio tagliente e ingiusto da parte della gente, quell’etichetta che gli altri ci appiccicano addosso e noi non riusciamo più a togliere; c’è la lebbra di chi non si sopporta così com’è, non sopporta il proprio fisico, il proprio corpo, il proprio carattere, la propria vita; c’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra di chi non è sopportato dagli altri, di chi è escluso dal suo ambiente, di chi è messo in disparte nelle scelte lavorative, di chi è disprezzato, di chi è preso in giro, di chi è oggetto di scherno e viene umiliato per qualunque cosa; c’è la lebbra della vergogna, di quando si viene continuamente additati per degli errori commessi tanto tempo addietro; la lebbra di chi non perdona mai gli altri, di chi confessa da anni sempre lo stesso peccato senza mai pentirsi; di chi al contrario si trova colpevole sempre e di tutto; c’è la lebbra di chi si sente inferiore perché non ha avuto la possibilità di studiare, di fare carriera, di chi è convinto di non essere fisicamente bello, affascinante, attraente. Chi di noi non è affetto da qualcuna di queste forme di lebbra? Chi di noi può affermare in cuor suo di non assomigliare in qualche modo al lebbroso del vangelo di oggi?
Ma vediamo come si sono svolte le cose fra lui e Gesù. Prima di tutto sulla scena appare lui, il lebbroso, che si butta in ginocchio e lo supplica: “Se vuoi puoi guarirmi!”: egli sente che non può più continuare a vivere in questo modo, sente che da solo non potrà mai venirne fuori. Si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”.
Buttarsi in ginocchio equivale a smettere di resistere; piegare le ginocchia significa riconoscere di aver bisogno di qualcuno. Perché chi non si crede malato, non può guarire; chi si crede sano, non va dal medico. Il primo passo è pertanto: “Ho un problema, ho bisogno di una mano”.
Poi appare Gesù, il quale dimostra subito di provare nei suoi confronti qualcosa di forte ed intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco indica l’amore tipicamente al femminile, quello che ti tocca dentro, che ti “contorce le viscere”; le viscere, per gli antichi, sono il luogo dei sentimenti vulnerabili, come l’amore, la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Ora, quando un uomo arriva ad essere rifiutato da tutti, come prima cosa ha bisogno di sentirsi amato, di sentirsi accettato, accolto, di sapere che c’è qualcuno che non lo disprezza, qualcuno che non lo rifiuta, qualcuno che gli riserva quell’amore che salva: nient’altro. Perché solo quando ci sentiamo davvero amati, soltanto quando ci sentiamo stimati, ci rendiamo conto di avere un valore, di non essere dei miserabili, che la nostra vita vale veramente la pena di essere vissuta in pieno.
Gesù guarda quest’uomo, che tutti evitano e rifiutano, ma lo fa con occhi diversi: “Io credo in te; io so che in mezzo al tuo schifo c’è una perla, c’è una rosa, c’è qualcosa di grande. Sei così, in quanto deformato dal dolore della vita, ma io so e vedo la tua bellezza. Voglio che tu possa tornare a risplendere”.
Lo sanno bene i preti, gli educatori, gli psicologi, i maestri, gli insegnanti: se essi non credono sinceramente che l’alunno possa diventare migliore, questi non lo diventerà mai. Devono essere sicuri che lui riuscirà, che potrà migliorare, che potrà essere diverso da com’è. E se lui percepisce in loro questa sicurezza, è fatta. Se al contrario non rileva in loro alcuna certezza, nessuna fiducia, per lui non c’è alcuna possibilità.
Il sentimento di Gesù si trasforma quindi in azione: “Stese la mano”. Gesù lo ama, e il suo amore si fa azione, “lo tocca”. È il miracolo dell’amore.
Caliamoci per un istante nella realtà di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole tra i piedi, tutti gli stanno alla larga. Tutti dicono: “Sei ammalato perché sei un peccatore, non hai speranze, devi scontare!”; Gesù invece, il maestro, sfidando una religione per la quale anche solo toccare un lebbroso significava contrarre l’impurità, gli va incontro, lo tocca; stende le mani e lo abbraccia. È sufficiente questo gesto perché dentro di sé quest’uomo riconosca: “Ma allora non sono sbagliato completamente; allora anch’io posso essere amato; allora non faccio proprio schifo; allora posso vivere!”. Riconoscendo però la propria impurità, quasi si ritrae: “No, no, non farlo; sono un peccatore, faccio schifo, ho la lebbra, non toccarmi, non sono degno, non lo merito!”. E Gesù: “Sì che lo meriti, sì che ne sei degno. Io non ho paura della tua malattia”. L’uomo tenta ancora di ritrarsi, ma Gesù lo trattiene tra le braccia e gli dice: “Lo voglio, guarisci”. Il testo greco per dire “guarire”, usa il verbo katarizo, che significa tornare puro, limpido, diventare puro come una sorgente. In altre parole: “Sii te stesso: sii puro, chiaro, schietto. Torna ad essere la sorgente limpida che eri quando Dio ti ha creato. Se getti via da te tutto il rancore, l’amarezza, la vergogna, il rifiuto che hai subito, torni ad essere te stesso”.
Ecco, questo è per Gesù il vero significato di guarire: è essere se stessi, tornare ad essere quella forma autentica, quell’idea originale che Dio, Vita, ha attuato creandoci, e che i fatti e le circostanze della nostra vita hanno deformato, alienato, distrutto. “Fare la volontà di Dio”, pertanto, altro non è che essere pienamente noi stessi. Le persone sono infelici perché non vivono la propria conformazione: vogliono essere qualcos’altro che non sono. Neppure sanno chi sono e cercano di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare ciò per cui siamo stati “pensati” da Dio. Se uno non vive la propria forma si sforma, si deforma.
Molti a questo punto si chiedono: “Cosa devo fare?”. Hanno purtroppo perso il senso della propria origine, del proprio essere. “Sono finito!”. Si sentono perduti, alla deriva. Ma se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di scendere dentro di noi, potremo vedere che c’è uno spiraglio, una piccola parte che non è deformata, che non è corrotta, distrutta.
È proprio così: la sorgente di luce che Dio ha posto in noi, può anche essersi spenta, offuscata, coperta, ma non si è distrutta. È come essere in una stanza al buio: non si vede nulla. Ma la luce c’è, basta accenderla. Basta fare contatto con la Sorgente e la luce tornerà a brillare.
Gesù dice: “Io lo voglio!” Ma noi? Lo vogliamo noi? È per questo che Gesù non poteva guarire tutti. A casa sua, nel suo paese, non guarì praticamente nessuno: erano diffidenti nei suoi confronti, non volevano. Dio non può niente se noi non lo vogliamo; mentre può tutto, se lo vogliamo anche noi. Potremmo dire: “Ma chi è quell’ammalato terminale che non vorrebbe guarire? Di sicuro tutti lo vorrebbero!”. Ma non è proprio così. Infatti guarire, come abbiamo visto, significa “diventare puri, immacolati, tornare ad essere limpidi, cristallini”; significa cioè portare luce nel nostro buio, eliminare l’impurità, le incrostazioni che tolgono la lucentezza. Ora, tutti dicono di voler guarire; ma non tutti sono disposti ad accettare le conseguenze della guarigione. Abbiamo acquisito una forma che non è la nostra, non siamo più noi; guarire vuol dire appunto eliminare questa forma fasulla di noi stessi, per tornare nella nostra autenticità, nella nostra originalità. Le persone vorrebbero certo guarire, ma senza cambiare le loro idee, i loro pensieri, le loro certezze, il loro modo di vivere: non essere pronti ad operare una radicale trasformazione, significa in pratica non voler guarire! Significa rinunciare a vivere, a guarire, a riemergere alla luce. Gesù è pronto: “Io lo voglio”, ci dice. E noi? Che aspettiamo? Amen.

giovedì 5 febbraio 2015

8 Febbraio 2015 – V Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).
Il vangelo di oggi ci presenta Gesù nel pieno della sua attività: Egli predica e guarisce tutti gli ammalati che incontra. Succede che anche la suocera di Pietro sia ammalata: ha la febbre; è chiaro che Gesù, appena la vede, guarisce anche lei. E potremmo fermarci qui: niente di strano, lo fa con tutti, perché non farlo proprio con la suocera di Simone?
Ma, volendo scendere più in profondità, viene spontaneo chiederci: qual è il motivo, qual è la causa che ha scatenato nella suocera un febbrone così grave e preoccupante, da richiedere addirittura l’intervento di Gesù? Intanto, parlando di suocera, veniamo a sapere che Pietro è sposato, ha una famiglia. Sappiamo anche che poco prima egli è stato chiamato da Gesù, insieme ad Andrea, Giacomo e Giovanni, e che tutti lo hanno seguito lasciando perdere ogni cosa. E allora pensiamo: non sarà forse questo il vero motivo della febbre che coglie improvvisamente la madre della moglie di Pietro? Le due donne non lavorano, si occupano della casa e Pietro è l’unico loro sostentamento: “Ma cosa stai combinando Simone? Ti rendi conto di quello che stai facendo? Noi non siamo ricche, non possiamo permettere che tu te ne vada piantandoci in asso! Come pensi che camperemo? Chi ci permetterà di sopravvivere? E poi, cosa dirà la gente? Ci giudicheranno, ci disprezzeranno; alcuni già dicono: “bell’affare: tuo genero vi ha lasciate per seguire un esaltato che guarisce la gente in nome del demonio e che con il suo comportamento si è messo contro tutta la sinagoga e le autorità religiose. Ma chi è questo Gesù? Certo, tuo genero dimostra di essere un irresponsabile!”. Un buon motivo per far venire la febbre a questa povera donna!
Ora, per indicare questa febbre, Marco usa il termine greco "puršesso", che significa appunto “avere febbre, calore, fuoco” ma anche “essere alterato dentro, bruciare dentro, essere fortemente indignato, irritato”: significato che ci fa pensare ad una suocera “alterata, infuocata” più che all’esterno, proprio dentro di sé, nell’intimo; in altre parole era arrabbiata, furiosa contro Pietro, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità famigliare, e contro questo Gesù, un tipo strano e per nulla affidabile. È chiaro che la scelta di Simon Pietro ha delle gravi ripercussioni economiche e sociali per questa donna e per sua figlia, sulla cui sicurezza economica Simone, sposandola, aveva assunto dei precisi obblighi. Invece tutto viene dimenticato, tutto passa in secondo ordine: una prospettiva questa che la infiamma d’ira, che scatena in lei tutte le paure; una situazione che la sconvolge, che le procura collera, addirittura odio; è un fuoco rabbioso che le brucia l’anima. E più ci pensa, più cresce in lei il rancore, una febbre che cresce a dismisura.
A questo punto cosa fa Gesù? Egli intuisce il vero dramma di questa donna, egli sa in cosa consiste la sua malattia, la sua febbre: “questa donna ce l’ha con me”. Poteva benissimo far finta di nulla; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, se sta male per causa mia, me lo venga a dire! Sono problemi suoi, non miei!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa si avvicina, la fa alzare e la prende per mano.
Fra i due prima c’era distanza, incomprensione, non si conoscevano: Gesù quindi “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la incontra, si fa conoscere.
La sollevò”: la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si solleva cioè dalla sua paura, dal suo disappunto, dalla rabbia che la domina, dalle sue preoccupazioni per ciò che sta accadendo. “La prese per mano”: Gesù vuole proprio incontrarla, toccarla, entrare in simbiosi con lei; vuole che senta chi è lui, che se ne faccia un’esperienza personale, diretta, che lo possa conoscere a fondo. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”. Non sappiamo cosa si siano detti o cosa di preciso sia successo. Ma da queste poche parole capiamo che Gesù, venuto a conoscenza del risentimento della donna (“gli parlarono di lei”), prende lui l’iniziativa e va da lei: e la donna capisce che quell’uomo non è né un pazzo, né uno fuori di testa.
Il vangelo dice che addirittura passa a “servirli”. Dov’è finita tutta la sua rabbia? Il suo passaggio da uno stato d’animo all’altro è istantaneo, decisivo: dall’odio, all’umile servizio, dal rancore all’amore per quest’uomo straordinario; dal volergli stare il più lontano possibile, allo stargli vicino, al mettersi a sua completa disposizione; dal sentirlo come un nemico, al considerarlo un amico, uno che è con lei e per lei.
Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza. Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, in una parola la sua febbre, improvvisamente scompaiono.
Allora impariamo: Capita anche a noi di avere del rancore, del risentimento, della rabbia nei confronti di qualcuno? Chiariamoci subito, confrontiamoci subito con lui. Perché l’odio genera odio, il fuoco della rabbia montante brucerà sempre più l’anima, fino ad oscurare del tutto il lume della nostra mente.
C’è un problema? Risolviamolo! Non illudiamoci che, di fronte ad un problema, a un’incomprensione, a un dissapore, il metodo migliore sia quello di chiudere gli occhi, di ignorarne l’esistenza: in questo modo, non facciamo altro che alimentare lo stato di tensione derivante da quel problema.
Molte persone odiano perché sono concentrate solo su se stesse: non si mettono nei panni degli altri, non vogliono ascoltarli, non vogliono sentire le loro ragioni. Vedono solo se stesse, e sentono solo il proprio dolore. Ma se noi riusciamo a far sentire loro il nostro dolore, le nostre ragioni, le nostre spiegazioni, sicuramente riusciamo a stabilire un contatto, possiamo incontrarci; e in questo modo riusciamo anche a cancellare le ragioni dell’odio.
Comportiamoci seguendo l’esempio di Gesù. Egli fondamentalmente compie due azioni: per prima cosa è Lui che prende l’iniziativa, è Lui che si muove e va di persona. Noi invece il più delle volte ci chiudiamo in noi stessi, nella nostra rabbia, facciamo gli offesi, ci isoliamo. Certo, è piuttosto normale che quando uno è ferito, si chiuda in se stesso: ma se continuiamo a rimanere così, avvolti nel risentimento, non c’è alcuna possibilità di incontro, di apertura. E in questo modo non risolviamo assolutamente nulla.
La seconda cosa che fa Gesù è quella di usare una grande tenerezza, un amore autentico. Gesù infatti ha capito bene le ragioni di questa donna: è arrabbiata perché non lo conosce, perché lui ha un modo di vivere diverso da “quello di tutti”; tant’è che Simon Pietro, decidendo di seguirlo, ha fatto una scelta radicale, difficile, che lo ha messo contro i suoi famigliari.
L’ignoranza è causa sempre di tanta rabbia, di tanto dolore: ed è naturale. Ma proprio per questo, se vogliamo interagire con una persona arrabbiata con noi, ferita, dobbiamo usarle tanta comprensione, tanta delicatezza; altrimenti non si aprirà mai. Dobbiamo ascoltarla, dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto capire il perché del suo dolore, della sua rabbia. Se rimaniamo entrambi sul piano del rancore, continueremo a farci solo guerra; ma se la incontriamo nel dolore, se gli apriamo il nostro cuore, allora sicuramente apprezzerà la nostra vicinanza, la nostra amicizia.
Poi il vangelo continua: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”. Sono parole che ci fanno immaginare la presenza di una grande quantità di demoni; sembra quasi che all’epoca ci fossero demoni dappertutto. Ora noi, nella nostra mentalità, pensiamo che il demonio sia “una creatura reale” indipendente e autonoma, che stia ed operi al di fuori di noi: e siccome noi non lo vediamo, stiamo tranquilli. Non ci riguarda. Invece, sappiamo che non è così. Il demonio, come ci spiega il Vangelo, è un essere puramente spirituale, uno spirito ribelle, un “qualcosa” che accompagna e segue l’uomo in ogni suo passo; un “qualcosa” che ci riguarda molto da vicino, che riguarda la nostra libertà, la nostra natura umana, che suggerisce, persuade la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che esulano dall’Amore. “Demoni” sono le allettanti lusinghe del male, i luccichii invitanti del peccato, che ci oscurano la ragione. “Demoni” siamo noi quando, posseduti da questo spirito cattivo cui abbiamo permesso di annidarsi nel nostro cuore, adottiamo uno stile di vita completamente opposto da quello suggerito alla nostra coscienza dallo Spirito di Dio; siamo “demoni” quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente inerte, insensibile, svuotata, morta. Molto spesso purtroppo noi non ci rendiamo conto della presenza e della potenza di azione di questo “malefico tentatore”: tant’è che il demonio peggiore ce l’hanno proprio quelli che sono convinti di non averne! Il “Demonio”, insomma, è una grave malattia dell’anima, che riesce a indebolire e a incancrenire la nostra vita spirituale.
Come combatterlo? Matteo ci dice che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione: ma in luogo deserto. È infatti nel “deserto” della penitenza, nella solitudine, nel mettere a nudo la nostra anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che possiamo individuare e combattere i nostri demoni: e li possiamo vincere, come Gesù, soprattutto con la preghiera: una preghiera a Dio intensa, umile, sincera, riconoscente; è questa, infatti, come ci hanno insegnato anche i santi, l’unica arma valida con cui possiamo smascherare, cacciare e sconfiggere i nostri demoni interiori. Di qualunque genere essi siano. Amen.

giovedì 29 gennaio 2015

1 Febbraio 2015 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,21-28)

È sabato e Gesù entra nella sinagoga. Ma, come sottolinea Marco, nella sinagoga Gesù ci va per insegnare, non per partecipare ad un rito. Egli non partecipa ai riti della propria religione, non entra nella sinagoga per pregare o per partecipare alle liturgie: lui ci va per insegnare.
Questo ci fa capire che c'è un modo di pregare e di fare liturgia che non interessa a Dio. Il che, tradotto in chiaro, significa: se la preghiera e la liturgia non diventano vitalità, amore concreto, passione, scelte, decisioni, coraggio, guarigione, fiducia, apertura, solidarietà, queste preghiere e queste liturgie non interessano a Dio. Se la liturgia si riduce ad essere semplice evasione dalla realtà e dalla vita, non diventerà mai un incontro con il Dio della Vita. Ecco perché le liturgie devono emozionare, devono appassionare il nostro cuore, devono annientare i nostri fantasmi, i nostri mostri interiori, devono potenziare le nostre risorse, la nostra fede, devono soddisfare la nostra anima e l'Infinito che ci abita dentro.
Gesù predica e la gente è “stupita”; rimane positivamente sconvolta (ek-plesso), da ciò che lui dice, da come lui parla: perché lo fa come uno che ha “autorità”, credibilità, fascino: non “come gli scribi”.
Che vuol dire? Chi sono questi scribi? Gli scribi sono coloro che nella sinagoga leggono la Bibbia, la interpretano e la spiegano alla gente: rappresentano la voce infallibile del magistero. Quando parlano è come se parlasse Dio stesso. Solo che le loro parole, il loro insegnamento, le loro raccomandazioni sono sempre le stesse, aride, ripetitive, asfissianti; sono una serie infinita di imposizioni, di regole, di prescrizioni, di norme. Con quale risultato? Che la gente si sente sempre in colpa: ci sono 613 regole ben precise da rispettare: una tortura. Impossibile non dimenticarne qualcuna: c’è sempre qualcosa che non va bene! Nessuno mai è completamente a posto con Dio.
Poi arriva Gesù: e cosa succede? Un’autentica rivoluzione! Egli in sostanza dice: “Dio vi ama, indipendentemente da tutto e da tutti: è questa la buona notizia (eu-anghelion = il vangelo) che io vi porto. Non importa se avete pregato o no, se siete bravi o no, se siete in regola o no: Dio vi ama; ama in maniera esclusiva ciascuno di voi, a prescindere da come siete”.
È quindi naturale che la gente si entusiasmi all’istante: Gesù non è come gli scribi, non sta lì ad imporre formule dottrinali, regole da accettare e da osservare, cose da evitare, preghiere da dire. A Gesù non interessa se uno va o non va in sinagoga; a Lui interessa solo se uno ama, se è pieno di compassione, di tenerezza, di ascolto, di empatia, di solidarietà, di tolleranza, di perdono. Perché è solo attraverso l’amore che si può entrare in comunione con Dio. Ogni altra via è perfettamente inutile.
La gente capisce il valore di queste parole, respira a pieni polmoni questa ventata di aria fresca, si sente finalmente libera e apprezzata: “Questo sì che parla come uno che ha autorità, come uno che viene da Dio. Veramente dai suoi discorsi traspare il volto di Dio, non certo da quelli dei nostri scribi!”. Il mormorio di approvazione si spande a macchia d’olio tra i presenti.
Ma ecco una reazione immediata: un uomo “dallo spirito impuro”, si mette a gridare; il suo spirito (ruah) non è quello di Dio, appartiene al male, è “impuro”, è contro Dio; di fronte al “bene” rappresentato da Gesù, inveisce violentemente contro. È un uomo come tanti, magari conosciuto e apprezzato da tutti: ma nessuno prima di allora si era mai accorto che fosse posseduto da uno spirito maligno. Non sempre quello che noi vediamo corrisponde alla realtà: quel poveraccio sembrava religioso, pio, un uomo perbene, e invece dentro di sé ha il demonio: prega (va in sinagoga) come tutti, ma la sua preghiera non lo mette in comunione con Dio; anzi lo mette in comunione con la rabbia e l'odio.
E per questo si scatena: “Che c'entri tu con noi? Sei venuto a rovinarci?”. Parole che meritano alcune considerazioni: prima di tutto, perché parla al plurale? Che ruolo pensa di ricoprire per attribuirsi l’autorità di parlare a nome degli altri? È chiaro che anche qui, come sempre, il maligno cerca di portare la gente dalla sua parte, contando sulla latente cattiveria insita nell’animo umano a seguito della originale ribellione con Dio. Ma perché tanto baccano? Perché tanta avversione nei confronti di Gesù e del suo messaggio? In fin dei conti il Maestro entra nella sinagoga e predica tranquillamente; solo però che la gente capisce e apprezza subito ciò che lui dice: questo è il punto. Praticamente Gesù, con la sua predicazione, distrugge quella che è la teologia ufficiale, l'insegnamento tradizionale. Di fronte a ciò, come può “lo spirito immondo” non dimostrarsi furibondo? È la stravolgente novità di un gratuito e profondo amore che Dio nutre per ciascun uomo in quanto tale.
Quell’uomo è dunque un posseduto dal male e fagocitato dalle credenze religiose: a lui hanno sempre detto che Dio è così e così, e lui ci crede. I sacerdoti e gli scribi gli hanno detto che si fa così, che si pensa così, che questo è bene e quello è male. E lui, da buon ebreo, religioso, rispettoso e pio, esegue.
Quell’uomo è uno di quelli a cui, quando chiediamo “Tu cosa pensi?”, non ci dice: “Io credo a questo, per questo motivo e per quest'altro...”, ma ci dice: “La chiesa dice... il partito dice... l’autorità dice... le regole dicono... la tradizione dice...”.
Lui non pensa: è un pensato. Lui non vive: sono gli altri che vivono per lui. Anzi: lui si sente in diritto di difendere questo suo “credo”, anche violentemente, solo al pensiero di essere in qualche modo attaccato dagli “estranei”. Il pittore Francisco Goya diceva giustamente: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Nessuno può giustificarsi dicendo: “Io obbedisco, faccio quello che mi dicono, sto sempre con le regole, eseguo e basta”. Noi tutti abbiamo una nostra testa: pensiamo, ragioniamo e qualunque cosa facciamo, siamo “noi” che la facciamo, quindi ne siamo noi, in prima persona, gli unici responsabili.
Nei vangeli Dio non chiede mai l'obbedienza. Possiamo leggere e rileggere i vangeli e non troveremo mai, neppure una sola volta, la richiesta di Gesù di obbedire a Dio. Mai! Solo due volte in Marco e cinque in tutti gli altri vangeli (Mt 8,27; Mc 1,27; Mc 4,41; Lc 8,25; Gv 3,36), troveremo la parola “obbedire, obbedienza”. Ma non è mai riferita all’uomo: sono sempre le forze della natura e quelle ostili a Dio che gli obbediscono! Non a caso il vangelo di oggi termina proprio usando questo verbo (upakouo), e anche qui sono gli spiriti immondi che obbediscono a Gesù! Lui dunque non ci chiede di obbedire a Dio: ci chiede invece di assomigliare al Padre; ma questa è tutta un'altra cosa.
Tornando al vangelo, il posseduto continua la sua invettiva contro Gesù, dicendo: “Io so chi tu sei. Il Santo di Dio(Mc 1,24).
Chi era il santo di Dio? Nella loro tradizione gli ebrei pensavano che, dopo Mosè, Dio avrebbe suscitato il Santo, cioè il Messia, colui che doveva continuare l’opera di Mosè, aiutando il popolo ad osservare la legge, ad interpretarla fedelmente.
Praticamente quest’uomo invasato associa Gesù al ruolo che la tradizione attribuiva al Messia: “No, tu non puoi insegnare questo; tu sei il Santo di Dio e il Santo non dice questo. Se dici questo ci distruggi. Non puoi dire questo perché va contro a ciò che ci è sempre stato detto, è contrario alle nostre regole religiose. Non puoi!”. Ma Gesù dice: “Taci! Esci da quell'uomo! E straziandolo e gridando forte uscì da lui”.
Liberarci dalle nostre idee, dalle nostre credenze, è infatti un dramma, uno strazio; è sempre un dolore enorme, immenso. Forse proprio per questo Marco mette all’inizio del suo vangelo questo episodio: dobbiamo capirlo bene.
Ci è stato sempre detto: “Se credi in Dio, niente grilli per la testa; niente affettività, niente carezze, abbracci, coccole, che sono robe pericolose; niente troppa euforia, non ridere troppo, non lasciarti andare alla troppa gioia, pensa invece a chi sta peggio di te; bando alla sessualità: è un pericolo; stai alla larga e ricordati che Dio ti vede!; vitalità, energia, sogni: non puoi fare quello che vuoi nella vita!; realizzare i tuoi sogni ad ogni costo: sei un egoista che pensi solo a te stesso; se non sei d'accordo con ciò che ti viene detto, sei una “testa calda” e Dio ti punirà; divertimenti? no, mai; non perdere tempo; chi ha tempo non aspetti tempo! Rinunce, sacrifici, sì, ma divertirti no, perché il divertimento viene dal demonio”.
Poi arriva Gesù e ci dice: “Guarda che tutte quelle cose, a cui tu rinunci “per Dio”, vengono da Dio, le ha previste Lui. Non è Dio che ti chiede di rinunciare ad esse! Anzi, Dio vuole che tu viva, e viva nella pienezza, nell'abbondanza” (Cfr. Gv 10,10).
E allora giustamente ci arrabbiamo: “E no!?! Con tutte le fatiche che ho fatto! Con tutto quello a cui ho rinunciato! Eh, no, non è giusto!”. È uno strazio, perché ci rendiamo conto che tutta la nostra fatica non ci ha portato vicino a Dio, ma solo a “tagliare” la nostra persona, a comprimerla, a reprimerla, ad uccidere la Vita che invece poteva crescere, espandersi in noi.
Allora ci rendiamo conto che pensavamo di agire “in nome di Dio” ma che in pratica abbiamo agito contro Dio. E se accettiamo questa verità, sarà straziante, perché dobbiamo stravolgere dal profondo la nostra vita, dobbiamo cambiare tutto. E se abbiamo quaranta, cinquant'anni, e siamo radicati profondamente in certe credenze, se ci troviamo con una personalità strutturata, rigida, insicura, insofferente e chiusa ad ogni novità, beh, pensiamo, “chi ce lo fa fare?”
Il vangelo rende liberi chi ama la vita; ma è straziante per chi ama solo obbedire.
E allora, cosa dice a noi questo vangelo? Prima di tutto che dobbiamo stare attenti a cosa crediamo; in seconda battuta che dobbiamo verificare come e quanto ciò in cui crediamo abbia condizionato la nostra vita in termini di realizzazione.
Una credenza (religiosa, comportamentale, interiore, su di noi o sugli altri, ecc.) nasce perché ci è stata insegnata direttamente o indirettamente, oppure perché l’abbiamo imparata dalla vita attraverso le nostre esperienze personali. In ogni caso, noi siamo quello che crediamo, e quello che crediamo ci trasforma.
Una cosa è difficile nella misura in cui vogliamo noi che sia difficile. Tutto è difficile prima di diventare facile.
Rinunciare ad una cosa, trincerandosi dietro le difficoltà da affrontare per ottenerla (“sarebbe bellissimo, ma per me è veramente impossibile!”) significa voler evitare a priori la fatica e il sacrificio di inseguirla, di rifiutare qualunque contrarietà pur di concretizzare un nostro sogno. Con il risultato sicuro che così facendo non realizzeremo mai il nostro sogno (che magari è anche il sogno di Dio) e vivremo con l’intimo disappunto di non essere diventati quello che avremmo potuto essere, non avendo avuto il coraggio neppur di tentare.
“Io sono così, è il mio carattere, non posso farci nulla”. Un ragionamento deleterio che significa morte interiore, immobilità totale, nessuna evoluzione. Al contrario la nostra vita sarà vita piena, se ci sforzeremo di diventare quelle persone che crediamo di poter diventare: perché è realizzando il più possibile ciò in cui crediamo che stabilirà il grado di riuscita della nostra vita. Amen.

giovedì 22 gennaio 2015

25 Gennaio 2015 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,14-20).

Dopo che Giovanni fu arrestato”. Marco ci sottolinea nel vangelo di oggi che Gesù inizia la sua attività dopo che il Battista è stato carcerato, è stato messo a tacere dalle autorità. Un potere piuttosto stupido, poiché pensa di far tacere con la prigione la voce di un profeta, senza preoccuparsi che poi, ogni volta, Dio suscita subito un'altra voce ancora più forte e potente. Puntualmente infatti, dopo che Giovanni Battista è stato zittito e tutto sembrava risolto, ecco che Gesù, il Figlio di Dio, con voce ancor più autorevole e incisiva, inizia a predicare il suo “vangelo”, la sua “buona notizia”.
In che cosa consiste questa buona notizia? Che non solo Dio è buono, ma è un Dio esclusivamente buono, un Dio dal cui amore nessuno può sentirsi escluso, qualunque sia la sua condotta, la sua vita, il suo comportamento.
Lo stesso Pietro, dopo la sua tormentata conversione, giungerà alla conclusione che “nessun uomo può essere considerato impuro(At 10,38). Noi siamo abituati a sentire le religione che dividono gli uomini tra buoni e cattivi, tra puri e impuri, tra meritevoli e non. Ma il Dio di Gesù, no. Per Dio non c'è nessuna persona al mondo che possa essere esclusa dal suo amore: è questa la buona notizia che l'umanità aspettava. L'Amore di Dio è a disposizione di tutti gli uomini, è più grande di qualunque errore umano, in quanto li comprende e li perdona tutti. Scrive infatti Giovanni l’evangelista: “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore(1Gv 3,30).
Gesù dunque inizia la sua attività missionaria e dice: “Il tempo è compiuto”. Ma di quale tempo parla? Del tempo riservato all’uomo: all’epoca dei patriarchi Dio aveva infatti stipulato un patto con il suo popolo, ratificato con Mosè mediante la consegna delle sue leggi: e questo popolo, osservandole, doveva condurre un tenore di vita tale che, attraverso la loro testimonianza, gli altri popoli avrebbero dovuto riconoscere che il Dio di Israele era il più grande.
Ma ciò non si è verificato: anzi l'ingiustizia stessa veniva esercitata in nome di Dio. Un fatto intollerabile, insopportabile. Un fatto che costringerà Gesù ad esclamare: “Il tempo è compiuto”. Basta: il tempo è finito. Il tempo dell’infedeltà, dell’arroganza, dell’imbroglio, del sotterfugio è finalmente scaduto.
È necessario mettere un punto fermo. Noi stessi, per quanto ci riguarda, anche se è difficile, dobbiamo aver il coraggio di dire: “Questo mio modo di comportarmi è finito; devo chiudere questo periodo della mia vita”. Inutile illudersi, inutile insistere o attaccarsi all'impossibile. Se una cosa deve essere finita, dobbiamo finirla. Se un'esperienza non è buona o è di intralcio, è inutile pensare di continuarla. Se ci siamo fatti un'opinione falsa, dobbiamo cambiarla. Altrimenti diventiamo bugiardi, viviamo nella menzogna, nel compromesso. Se abbiamo chiuso un periodo negativo della nostra vita, è inutile ricordare e rimpiangere quei tempi. Non era vita. La vita è oggi, è ora; l’ieri è passato definitivamente. Se una porta è chiusa, non ha senso continuare a bussare. Essere uomini e donne vivi, vuol dire nascere e morire, aprire e chiudere, accendere e spegnere: quando la situazione lo richiede. Anche se sé difficile, anche se ci costa.
Perché, come annuncia Gesù: “Il regno di Dio è vicino”.
Il termine “regno”, per un ebreo, era un termine tristemente famoso, evocava un’esperienza decisamente spiacevole. Israele infatti aveva voluto caparbiamente la monarchia e il re. Tutti i profeti erano contrari, ma il popolo volle comunque essere “regno”. I profeti volevano che fosse Dio stesso a regnare (il regno di Dio) ma il popolo volle a tutti i costi un uomo, un “vero re” come le altre nazioni più forti. Inutili risultarono gli avvertimenti del profeta Samuele: “Guardate che il re prenderà i vostri figli per la guerra e li farà morire in battaglia; prenderà le vostre figlie per farle donne di corte e sue concubine; prenderà i vostri terreni e i vostri prodotti migliori; prenderà i lavoratori delle vostre terre e li farà suoi schiavi; vi caricherà di tasse e balzelli, ecc., e voi griderete contro quel re, contro quel re che voi avete voluto ad ogni costo” (Cfr. 1Sam 8,11-18). Nonostante tutto, il popolo volle il suo re. E venne il re. E fu subito un'esperienza disastrosa; la monarchia scatenò la più grande tragedia di questo popolo. I re furono uno peggio dell'altro: causarono la scissione, la divisione, l'occupazione e la deportazione.
Tutto questa delusione, tutta questa frustrazione, aveva però fatto germogliare una nuova speranza, l'attesa di un nuovo “regno” in cui Dio stesso avrebbe assunto il comando supremo e universale. Quindi quando Gesù parla annunciando l’imminente arrivo del regno di Dio, il popolo non capisce, non pensa ad un regno spirituale, dell'aldilà, come intendeva Gesù, ma pensa ad un regno materiale, nell'aldiquà, su questa terra, quello che intere generazioni stanno aspettando, quel regno in cui sarà Dio stesso a governare il suo popolo.
Finalmente il popolo sente un predicatore che annuncia l’imminenza di questo “regno” tanto atteso: “Il regno di Dio è vicino: convertitevi”. Ma perché Gesù dice “il regno è vicino” piuttosto che esclamare “il regno di Dio è già qui”? E poi, perché per entrare in questo regno Egli richiede una “conversione”? Che novità è questa? Anche perché Gesù non intende qui, con il termine “conversione”, un semplice “tornare indietro”, cioè un “tornare al Signore” dopo tanto tempo di lontananza. Qui egli parla di “metanoia”, di una “conversione” cioè che consiste in qualcosa di molto più impegnativo, in un qualcosa che comporta un “radicale cambiamento” di pensieri, di comportamenti, di vita ecc.”. Per entrare nel regno di Dio cioè dobbiamo metterci in un cambiamento totale e continuo, in un costante progresso nella perfezione, insomma, in una incessante, approfondita, “conversione”. Convertirsi infatti significa sbloccarsi, affrancarsi dalle proprie convinzioni, emanciparsi dalle proprie vedute. Non dobbiamo fossilizzarci mai sui nostri traguardi: perché non arriveremo mai a conoscere Dio completamente: Dio, la Vita, è sempre più grande, è sempre più “oltre”: per raggiungerne una pallida immagine, dobbiamo continuare a progredire, ad andare avanti, con coraggio e perseveranza. Quante volte, durante la nostra vita, in diverse situazioni, abbiamo pensato di aver finalmente trovato Dio: ma poi abbiamo scoperto che quel nostro “Dio” non era Dio; ogni volta abbiamo dovuto constatare che il “nostro” Dio coincideva con il nostro egoismo latente. Tante volte. Troppe volte. Al punto che oggi stesso non abbiamo la certezza se ciò che chiamiamo “Dio” sia veramente Dio, il Dio di Gesù, oppure un riflesso della nostra smisurata autoreferenzialità. La vita è così, piena di insidie: ecco perché dobbiamo continuamente rettificarne i parametri, dobbiamo cambiare, crescere, divenire, evolvere nella sequela, in una parola dobbiamo essere “vivi”, idonei ad entrare nel regno. Nell'acqua che scorre c'è la vita che si rinnova; nell'acqua ferma, stagnante, c’è solo la morte, la decomposizione delle cellule vitali, la putrefazione.
Il tempo è compiuto, il regno è vicino” per noi vuol dire anche: “Vivi adesso, convertiti ora, in questo momento, perché il tempo che avevi a disposizione, è finito”.
Il fattore tempo: quanto è aleatorio! Noi programmiamo la nostra vita solo sul divenire: “Quando sarò grande, quando avrò tempo, quando le cose cambieranno, quando i figli saranno grandi, quando avrò meno impegni, quando starò meglio”.
E non vogliamo capire che la vita è adesso, è ora, in questo momento, non domani. Il presente è fuggente, è fatto di istanti che dal futuro passano irrevocabilmente al passato. Non fare oggi una cosa, significa rimandarla anche domani: se non sentiamo il desiderio, la necessità oggi, come potremo sentirli domani?”. Ecco perché dobbiamo vivere adesso, dobbiamo vivere ora, qui, in questo istante. C’è un problema da risolvere? Facciamolo ora; domani sarà ancora più grande. Abbiamo una rabbia repressa, un mostro, uno scheletro da tirar fuori? Facciamolo ora, domani può essere troppo tardi. Dobbiamo fare un cambiamento radicale? Facciamolo adesso perché il tempo è solo “ora”. Domani potrebbe essere “mai”. Abbiamo da ringraziare chi ci ama, chi ci sostiene, chi ci sopporta? Facciamolo ora, perché così il nostro cuore si sentirà subito doppiamente amato. Abbiamo del pianto trattenuto? Liberiamo il nostro cuore dall'oppressione e dalla tensione: piangiamo! Dobbiamo dire un “no” o un “si” difficile? Facciamolo adesso, subito, e ci sentiremo finalmente liberi.
Sì, perché ogni volta che rimandiamo ciò che dobbiamo fare, puntualmente una voce arriva alla nostra coscienza: “Non vali niente. Non lo fai perché hai paura. Sei un incapace!”. Guai a farsi coinvolgere in questa spirale perversa del rimandare una cosa e del rimorso per non averla fatta: l’esperienza ci insegna che se oggi non facciamo nulla, sicuramente domani faremo ancora meno. Scrolliamoci di dosso l’apatia del nulla facente: fare ora, fare adesso, fare subito, significa “essere presenti al presente, significa vivere!”.
Poi Gesù, ci dice Marco nel vangelo di oggi, proseguendo nel suo cammino, sceglie i suoi discepoli, un gruppo di dodici uomini, ai quali promette: “Vi farò diventare pescatori di uomini”.
Cosa vuol dire esattamente Gesù? Per gli ebrei il mare era il caos, l'abisso, l'orrore del mondo, il male. Per cui diventare “pescatori” significava diventare persone che “pescavano” che “tiravano fuori dal loro ambiente”, persone cioè che liberavano la gente dal potere del male, dal potere di satana, dalle malattie, dai demoni, dalle infermità del corpo, della mente e dell'anima. In che modo? Facendo esattamente quello che faceva Gesù. Cose semplici: soprattutto dispensare amore, tenerezza, accoglienza, emozioni forti, passione, libertà, fiducia: un metodo elementare, di sicuro effetto in quanto basato esclusivamente sull’amore; un metodo che poi, se ne renderanno conto, funzionerà alla perfezione: perché i lebbrosi, i morti, i ciechi, gli esclusi, i peccatori, i bloccati, guariranno sul serio, sia fuori che dentro. Erano morti, sprofondati nel mare dell’abisso, della malattia, della disperazione e loro li hanno incredibilmente pescati alla vita, li hanno salvati: e questa è decisamente la buona notizia (=vangelo) che sono chiamati a diffondere nel mondo!
Gesù non fu un politico, non fu un medico, né uno psicologo: fu solo un guaritore. Di corpi e di anime. E guarì sul serio! E quello che fece Lui lo fecero anche gli apostoli; e dopo di loro, tanti altri uomini pieni di fiducia e di amore.
Oggi purtroppo noi che siamo Chiesa abbiamo dimenticato questa missione: siamo diventati cerebrali, freddi, non sappiamo più guarire. Ma una Chiesa che non “guarisce”, che non salva gli uomini per questa vita, come può pensare di poterli salvarli per l'altra? Ecco perché dobbiamo tornare al metodo di Gesù, al metodo dell'amore. Gesù guardava le persone e le amava col cuore, con l'anima: il suo era un amore che raggiungeva i malati ed essi guarivano. Egli fu il più grande terapeuta: la sua unica terapia era l'amore. Un amore concreto: fatto di accoglienza, di ascolto, di empatia, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia nell'altro. Oggi l’uomo ha bisogno soprattutto di tornare a sentire, di percepire questo amore di Dio, questo amore che risana l’anima, che trasforma il cuore. Noi per primi abbiamo bisogno di questo. La Chiesa ha bisogno di questo. Perché il suo è l’amore che guarisce. È l’amore che salva. Amen.
 

mercoledì 14 gennaio 2015

18 Gennaio 2015 – II Domenica del Tempo Ordinario

In quel tempo, Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!» (Gv 1,35-42).

Il Vangelo di oggi ci descrive la vocazione dei primi due discepoli di Gesù. Di uno conosciamo il nome: è Andrea; l’altro dovrebbe essere proprio colui che descrive i particolari dell’incontro, Giovanni l’evangelista. Entrambi sono discepoli del Battista: ed è sufficiente che quest’ultimo, vedendo passare Gesù, dica: “Ecco l’agnello di Dio”, che i due, senza dire una parola, quasi attratti magneticamente dalla sua personalità, abbandonano il loro maestro e si mettono silenziosamente al seguito di Gesù. E in cuor loro sono felici, sono entusiasti di poter vivere questa inaspettata avventura.
Andrea corre poi dal fratello Simone e cerca di coinvolgerlo nel suo entusiasmo: “Abbiamo trovato il Messia!”, ma deve fare i conti con la sua diffidenza: Simone infatti non mostra né contentezza, né felicità, né interesse, né curiosità. Non per nulla Gesù, vistolo arrivare gli cambia subito il nome in “Cefa”, ossia in “Testa dura, testa di pietra”; uno insomma che al primo impatto era piuttosto “corazzato”, impenetrabile, sospettoso; ma una volta superata questa barriera, era in grado di raggiungere vette di pensiero, di amore e di intuizioni, assolutamente irraggiungibili dagli altri discepoli.
Cosa ci fa capire tutto questo? Che per seguire Gesù bisogna lasciarsi entusiasmare, bisogna lasciarsi prendere, bisogna appassionarsi. La sua chiamata riguarda il cuore non la mente. Rispondere alla sua chiamata, significa seguirlo senza compromessi, senza fare calcoli, spinti solo dalla forza del cuore, dai sentimenti, dalle emozioni.
È successo e succede così anche per noi? Siamo veramente gente appassionata? Gente entusiasta? Siamo felici di essere Chiesa? Viviamo con trasporto e partecipazione le liturgie di lode? Ci emozioniamo? Beh, dobbiamo riconoscere che a volte è piuttosto difficile vedere nei nostri volti energia, interesse, emozione, vitalità, entusiasmo: è più facile vedere persone che ogni tanto sbirciano l’orologio…
Dobbiamo invece capire l’importanza del farci coinvolgere emotivamente da Gesù: solo se noi dimostriamo il nostro entusiasmo, il nostro essere convinti, la nostra gioia, potremo compiere quello stesso ruolo di intermediari, descritto per i primi discepoli nel vangelo di oggi. Il Battista infatti fa da intermediario per Andrea e l'altro discepolo; Andrea poi diventa intermediario per suo fratello Simon Pietro. Il giorno dopo, quando Gesù incontra Filippo, questi sarà intermediario per Natanaele. E così via. Uno incontra qualcosa di bello, di grande, di intenso, di vero e invita l’altro: “Vieni anche tu a vedere!”. Del resto è una cosa naturale: quando incontriamo qualcuno o qualcosa che ci rende felici, vogliamo che anche gli altri facciano la stessa esperienza; se incontriamo qualcosa che ci fa vivere, vogliamo che anche gli altri provino quanto questa cosa sia vitale; se incontriamo qualcosa di vero, vogliamo che anche altri respirino questa stessa verità e questa stessa luce.
La vera evangelizzazione, la vera missione, avviene infatti per contagio: “Oh, sapessi cos'ho incontrato!? Vieni anche tu!”. E noi li seguiamo non per chissà quale motivo, ma perché sentiamo tutto il loro entusiasmo, la loro gioia, la loro energia: sentiamo cioè che quella esperienza ha fatto loro un gran bene. E siamo colpiti dalla loro “testimonianza”.
Perché allora non fidarci? Perché non provare? Perché non sperimentare anche noi? A volte invece preferiamo rispondere: “No, no, grazie, non fa per me!”. Ma se non abbiamo neppure provato! Non è vero che non fa per noi: è che abbiamo paura, è che temiamo di metterci in gioco, è che siamo già morti dentro!
Col battesimo, con i sacramenti della iniziazione cristiana, abbiamo espresso la nostra volontà di seguire la chiamata di Gesù. Poi, diventati adulti, Egli ci ha rivolto la grande domanda: “Che cosa cercate?” Attenzione, non “chi” cercate, ma “cosa” cercate; sembra ininfluente, ma la differenza è fondamentale: perché alla fine ognuno otterrà solo ciò che ha ardentemente cercato; ognuno cioè non avrà niente di più di ciò che ha desiderato. Se il nostro desiderio è la ricchezza, una volta raggiunta non andremo oltre; se il nostro desiderio e di mangiare e bere, una volta sazi, ci fermeremo lì. Il desiderio praticamente se da un lato è la nostra spinta iniziale, dall’altro è anche il nostro limite massimo raggiungibile. Un uomo è ciò che desidera. Se desideriamo poco avremo poco. Se desideriamo molto, avremo molto. In genere l’uomo desidera soprattutto “cose”: l'auto nuova, l’ultimo modello di telefono, un grosso conto in banca, un buon lavoro, una casa signorile. Ma le cose non soddisfano il suo desiderio (sembra, ma non lo fanno!). Perché raggiunto quell’obiettivo, egli continuerà ad essere insoddisfatto, continuerà a cercare ancora “cose” nuove.
Il vero desiderio è qualcosa di grande (de-siderio, letteralmente vuol dire: “disceso dal cielo”, “de-sidus”): un progetto per cui appassionarsi, un sogno da realizzare, una chiamata, un qualcosa di grande, cui il nostro cuore anela. In altre parole qui Gesù dice: “Se cercate vita, pienezza, felicità, libertà, verità, umanità, allora potete venirmi dietro, perché Io offro solo questo. Se cercate altro, se cercate solo le “cose”, non è questo il percorso da seguire”.
Per questo i due discepoli gli chiedono: “Maestro, dove abiti?”. In greco: pù mèneis? “dove rimani?”. Sembra la stessa cosa, ma il significato è molto diverso. I discepoli sono ad un livello più superficiale, e gli chiedono: “Dove stai?, Dove abiti?”. Pensano ad un posto fisico, ad un luogo. Ma quel verbo (mèno) è un verbo che Giovanni mette più volte in bocca a Gesù (c. 15) quando dice: “Chi rimane in me (o ménon)... se non rimane in me (éan mè tis méne)... se rimanete (èan mèinete)... rimanete (mèinate) nel mio amore” (Gv 15,5-9).
Gesù in pratica parla di un rimanere sostanzialmente diverso, che non si riferisce ad un luogo ma ad un modo di vivere. Si tratta cioè di vivere e di essere in un certo modo. E mentre i discepoli vogliono conoscere il luogo in cui Gesù “abita”, non hanno capito che Egli “rimane” dentro di loro. Loro lo cercano fuori ma Lui è dentro di loro da sempre, e intende rimanervi per sempre.
Questo è il grande passaggio della vita: smettere di cercare fuori quello che va cercato dentro. Le persone che cercano solo fuori, pensano: “Quando avrò ottenuto quella cosa sarò finalmente felice”. Ma non funziona così. La felicità non sta nell’avere, nell’ottenere cose, ma nell’essere qualcuno. La felicità non sta nel possedere tante cose e neppure tante persone: la felicità è uno stato d’animo che noi raggiungiamo vivendo con il Qualcuno che è dentro di noi. E ciò dipende solo ed esclusivamente da noi! Per questo Gesù risponde: “Venite e vedrete”. I due si aspettavano una risposta circostanziata, un luogo preciso e riconoscibile; ma Gesù non dà alcuna indicazione precisa: “Vuoi sapere dove abito? Vieni e vedi! Vuoi conoscermi meglio? Vieni e vedi. Sei tu che ti devi buttare. Non hai altre possibilità. Non te lo posso insegnare io, ma lo devi scoprire tu da solo. Per questo vieni e seguimi!”.
“Venire”, “seguire” sono infatti verbi di movimento, sono dinamici: Gesù non invita nessuno a starsene seduti a pensare, aspettando che passi il tempo: il suo è un invito a muoversi. Vuol dire: “Esci dalle tue posizioni, dalle tue idee, dalle tue convinzioni; muoviti, datti da fare!”.
Quante volte ci capita di incoraggiare delle persone a fare qualcosa: “Fai quell'esperienza... prova a seguire quel corso... vai a quell'incontro... frequenta quel gruppo... dai, provaci!... fai qualcosa di diverso...” ma poi sistematicamente quelle persone non fanno niente.
C'è chi dice: “Ma sì, tanto i miei problemi devo risolvermeli da solo!... non ho bisogno di altri... cos'avrà mai da dirmi?... nessuno mi cambia la vita... non ho tempo per queste cose... sto bene così!”. Oppure: “Ho paura... e se poi è troppo?... e se poi devo cambiare tutto?”.
Insomma spesso la nostra sequela è un “vorrei, ma non voglio”. Ma “andare”, seguire Gesù, vuol dire muoversi, cambiare, evolvere, spostarsi. Per questo chi non vuol camminare, chi è pigro, chi preferisce starsene tranquillo, non potrà mai conoscere veramente Dio. “Vieni e vedi!”. Dio ci chiama perché dobbiamo fare un nostro percorso di vita, ci vuole decisamente lontani dalle nostre posizioni di partenza. Di sicuro è proprio per questo che Dio ci fa paura. Perché ci coinvolge. Ci butta giù dal letto. È un fuoco che ci brucia dentro: non ammette mezze misure, compromessi, non tollera “distinguo” o astuzie mentali: è tutto o niente. Con lui dobbiamo mirare sempre al massimo, perché chi si accontenta del poco, rischia di non avere neppure quello. Dobbiamo “vedere”, dobbiamo fare piena esperienza di Lui, dobbiamo calcare esattamente le sue orme, dobbiamo renderci conto di persona di come ci vuole: non è ammesso fermarsi ai “mi pare” ai “si dice”; ciascuno deve “verificare”, deve controllare personalmente. Ricordate l’esclamazione di Giobbe? “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio; ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Fare esperienza di Dio, vederlo, constatarlo: è questo che fa la vera differenza in chi vuole essere discepolo.
Sapere tutto sull'amore è sicuramente una cosa buona; ma provare l’amore, vivere l'amore è tutt'altra cosa. Solo quando siamo stati innamorati, solo quando abbiamo vissuto gioie e dolori, sappiamo esattamente cosa vuol dire amare. Essere laureati in medicina o in psicologia, non ci rende automaticamente medici o psicologi. È l'esperienza, l'incarnarsi nel ruolo, il continuo provare che ci fa capire cosa vuol dire essere medici o psicologi. È come aver studiato a memoria tutto il manuale della patente: ma se non guidiamo, se non proviamo, se non ci esercitiamo, non sapremo mai cosa voglia dire guidare un'auto.
Esperienza vuol dire: “Lasciarsi coinvolgere”. Letteralmente “uscire da sé (ex) per comprendere una cosa da tutti i lati (perì)”. Quello che vediamo, quello che sappiamo, è soltanto un raggio di luce. Non è il sole! Un punto di vista è la vista da un punto. “Esperienza” vuol dire invece: “solo provando, entrandoci, capirò tutti i lati, ogni aspetto, di questa cosa”. Ma per arrivare a tanto, dobbiamo “Ex-per-ire”, dobbiamo cioè – come dice la parola latina - “Uscire da noi stessi (ex) per viaggiare/andare/conoscere (ire) nella vita”. Dobbiamo muoverci, dobbiamo camminare nella vita, altrimenti non conosceremo mai la grandezza della vita.
Quante volte ci permettiamo invece di parlare di cose o di persone che non conosciamo, che non abbiamo “sperimentato”. “Se non sappiamo, tacciamo; se vogliamo sapere, informiamoci, andiamo a vedere, controlliamo personalmente”.
È per questo che per seguire il vangelo ci vuole coraggio. Il vangelo non è rassicurante da questo punto di vista; non ci dirà mai: “Andrà tutto bene, tutto filerà liscio come l'olio”. Non è così. Dio è rassicurante perché ci dice: “Non aver paura, ci sono io!”, non perché ci garantisce: “Non avrai mai problemi, tutto finirà bene!”.
“È la vita che guarisce la vita”. Solo vivendo, solo immergendoci nella vita, solo entrando dentro la vita, sentiremo e sperimenteremo cos'è la vita. Non possiamo conoscere gli interni di un palazzo, rimanendo fuori, all’esterno.
Tutti noi vorremo che la vita fosse un viaggio senza bufere, senza pericoli o rischi. Per questo cerchiamo di evitare il più possibile esperienze e coinvolgimenti.
Ma la vita è proprio coinvolgersi, entrare dentro, provarci: altrimenti non la conosceremo mai. Quando gli apostoli andavano da Gesù e gli dicevano: “Ecco, noi che abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, che cosa avremo in cambio? che garanzie avremo?” (Mt 19,27) Egli rispondeva: “Nessuna!”.
Dio non ci promette una vita tranquilla senza pericoli, “serena e in pace” (come la maggior parte della gente chiede): Gesù promette al contrario intensità, vita alla grande, esporsi, vibrare, coinvolgersi, lottare, essere al centro del mondo, vittorie e sconfitte; Gesù in poche parole prometta la Vita (Gv 14,6; 10,10), una vita vera e abbondante, ma con molti rischi.
Le società assicurative fondano i loro profitti proprio sulla nostra voglia di sicurezza: “Se poi succede questo? meglio che mi assicuri! E se poi succede quest’altro?... E se poi sbaglio?... E se poi non è come pensavo?”. Certo, ciò è possibile; tutto è possibile; ma dobbiamo correre i rischi; perché altrimenti l’unico grande rischio che corriamo è di sprecare una vita senza vivere. Chi vive corre il rischio di morire; chi spera corre il rischio di disperare; chi tenta di fare corre il rischio di fallire. Ma questo è vivere, questo è rischiare. L’altro grande rischio nella vita è quello di non rischiare nulla. Ma chi non rischia nulla, è una nullità, non diviene nulla. Solo la persona che rischia vive liberamente. La vita è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta intensamente è il nostro dono a Lui; una vita sprecata è il più grave peccato di ingratitudine. Amen.