giovedì 8 maggio 2014

11 Maggio 2014 – IV Domenica di Pasqua

«Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,1-10).
Gesù, per spiegare le grandi verità di Dio, e farsi capire, usa semplici immagini proprie del suo tempo. Il “recinto” era una specie di muretto che circondava uno spazio utilizzato da più pastori. Alla sera i pastori vi conducevano le pecore e di notte bastava un solo guardiano. Al mattino, quando il pastore ritornava, chiamava le sue pecore per nome e queste lo riconoscevano dalla voce. Ecco perché le chiama “una ad una” e perché le pecore “conoscono la sua voce”: era una cosa che tutti conoscevano e che succedeva continuamente. Le pecore conoscevano la voce del loro pastore perché tutto il giorno stavano con lui: lui le proteggeva, lui le difendeva, lui le portava al pascolo. Si creava tra di loro un rapporto di conoscenza, di relazione.
Oggi l'immagine del pastore a noi dice ben poco; la civiltà pastorizia è quasi completamente scomparsa, ma a quel tempo essa era praticata da gran parte della popolazione.
Il testo tuttavia, offre anche a noi numerosi spunti di riflessione.
Il pastore è colui che ci ama, colui che ci conduce verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; il pastore è colui che ci difende, che ci protegge dagli attacchi nemici, che ci aiuta nei momenti difficili; il pastore è il nostro sicuro riferimento per sapere dove andare, quale strada percorrere. “State attenti” – ci mette in guardia Gesù – “perché molti vengono da voi in nome di Dio e in nome dell'amore. Molti vengono dicendo di volere il vostro bene. Voi però state attenti perché molto spesso si tratta di briganti e ladri!”. Ma allora come individuarli? Semplice: il pastore (genitore, coniuge, amico, prete o guida spirituale che sia) entra per la “nostra porta” solo per darci vita, per farci crescere, fiorire, evolvere, per farci diventare migliori. Il ladro invece viene per rubare, per sottrarci quello che abbiamo di più bello, per distruggere i nostri sogni, per legarci alla sua volontà. Il pastore ci invita, ci consiglia, ci persuade senza nulla imporci, non usa la forza, è sempre attento, presente, disponibile. Il ladro è violento, prepotente, ci colpevolizza, vuole sottometterci, rubando la vita che abbiamo dentro. Il pastore ci conduce alla verità, il ladro ci trascina nell’inganno: ci fa giudicare vero quello che è falso e falso quello che è vero.
Se una persona ci umilia continuamente, ci disprezza, ci fa sentire in colpa su tutto e sminuisce ogni nostra iniziativa, è un brigante; se una persona ci fa sentire solo cattivi, sporchi, sbagliati, è un brigante; se una persona ci fa sentire comunque degli idioti, dei cretini, degli stupidi, è un brigante. Se una persona ci usa per soddisfare il suo piacere fisico o i suoi interessi, è un brigante; se una persona pretende di starci troppo addosso, ripetendoci insistentemente che senza di noi non può vivere, è un brigante. Se stare con una persona ci priva della gioia di vivere, della nostra personalità, della nostra vitalità, quella persona è un ladro. Se stare con una persona annienta la nostra creatività, la nostra fantasia, la bellezza che abbiamo dentro di noi, la nostra espansività, quella persona è un ladro. Se stare con una persona ci intristisce, ci spegne, ci soffoca, invece di accenderci, di farci respirare, quella persona è un ladro.
La vita è vivere. La vita è espandersi. La vita è dilatarsi. Noi siamo fatti per crescere sempre di più, per realizzarci sempre più, per diventare quelli che nel disegno di Dio dobbiamo essere, quelli cioè che nella loro vita realizzano tutto ciò che Dio ha pensato per loro.
Allora dobbiamo chiederci: se nella vita ci sono tanti ladri in azione, se i ladri ci hanno portato via la vita, l'entusiasmo, la fantasia, la creatività, la voglia di vivere, di combattere, di essere nuovi e diversi (quanta gente è rassegnata, smorta, spenta!) perché non abbiamo fatto nulla per opporci? Perché non siamo stati pastori di noi stessi? Perché abbiamo permesso loro di entrare nella nostra anima?
Ogni volta che non ci difendiamo, che non ci proteggiamo, che non lottiamo per noi stessi, che non combattiamo per la nostra vita (cosa c'è di più importante della nostra vita?), che permettiamo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi ci trattiamo come se non avessimo alcun valore, come se fossimo delle nullità che tutti possono utilizzare a loro piacimento. Se ci amiamo, combattiamo per noi!
Se noi non proteggiamo (pastore) ciò che abbiamo di più caro e prezioso, perché lo dovrebbero fare gli altri? Se non difendiamo la nostra parte migliore, i nostri tesori, chi lo farà? Se non custodiamo i nostri tesori, ci verranno rubati. Se non sappiamo custodire ciò che possediamo, tutti verranno e faranno di noi quello che vorranno. Ma poi non dobbiamo lamentarci se ci derubano, perché siamo noi che dobbiamo custodire ciò che ci è stato affidato, siamo noi che dobbiamo custodirlo con ogni cura: noi e nessun altro!
Quante persone invece permettono al partner di rubargli l'anima, la vita che hanno dentro, la vitalità, la gioia, l’estroversione, la simpatia! E da persone vive, diventano dei morti ambulanti, degli “zombies”.
Ma l’immagine centrale del vangelo di oggi è sicuramente la “porta”: “Io sono la porta!” dice Gesù. Ora, la porta è simbolo del passaggio da una sfera, da un luogo, da una situazione ad un'altra.
Gesù è quindi la porta di entrata verso noi stessi: Egli ci conduce nel nostro intimo, nella nostra anima, nel nostro cuore per fare un bilancio della nostra vita. Ma Gesù ci porta anche fuori di noi, all’esterno, fuori dal nostro io, verso gli altri, verso i fratelli.
Ci sono porte della nostra vita che sono perennemente chiuse a chiave, serrate con tutti i lucchetti possibili, che mai vorremmo aprire. Ma prima o poi arriva il momento in cui è necessario aprire quelle porte, anche se aprirle ci fa paura, anche se siamo terrorizzati da ciò che troveremo, anche se faremmo di tutto per non aprirle. Ci sono dei passaggi che dobbiamo fare ad ogni costo: ne va della nostra vita. La vita ci mette di fronte a certe porte: se vogliamo andare avanti dobbiamo passare di lì. Noi vorremmo evitarla, entrare da un'altra parte, trovare una soluzione alternativa, ma non si può. Se vogliamo progredire dobbiamo passare di lì. Altrimenti ci fermiamo., ci blocchiamo.
Ci piacerebbe passare per altre vie per evitarci sofferenza e fatica: ma sono i briganti che fanno così. Ma non abbiamo alternative: la porta ci sta davanti; dobbiamo oltrepassarla e basta! Perché la porta – anche se la temiamo - ci conduce comunque verso qualcosa di nuovo, di diverso: è un passaggio obbligato. Dio è un passaggio obbligato. Magari ora non lo capiamo, ma un giorno i nostro occhi si apriranno e capiremo!
Allora, non fermiamoci, usciamo, cambiamo, progrediamo! Apriamo la porta al nuovo, abbiamo il coraggio di ricominciare, di andare oltre, di cambiare.
Noi siamo portati ad essere sempre gli stessi: ma la vita non è così. La vita è sempre nuova, diversa, altra, in continua evoluzione. Dio è porta: se incontriamo Dio, Dio ci fa diversi, ci trasforma, ci cambia, ci apre porte sconosciute; apre tutte le stanze della nostra anima, e poi ci manda fuori,ci manda là dove neppure immaginiamo. Più un uomo è ottuso, chiuso, pieno di pregiudizi, sempre sulla difensiva, meno conosce Dio. Gesù è la porta: usciamo, andiamo, apriamoci, incontriamo gli altri, impariamo, non fermiamoci, non temiamo.
Vangelo vuol dire “buona nuova”. È buona, proprio perché è sempre nuova, non è mai la stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio buono, ma perché portò un messaggio nuovo. Il nuovo ci terrorizza, ci fa paura. Il nuovo ci toglie le sicurezze che avevamo prima. Ma se uno non diventa nuovo, non si rinnova, è già vecchio, ha già smesso di vivere. “Tutto invecchia”, dice Il Qohelet: per cui o ti rinnovi o muori. La gioventù non è un'età, ma una “dimensione” della vita.
Anche una parrocchia, anche una chiesa, possono essere vecchie. E se una chiesa è vecchia, diventa inutile, superflua, nessuno sa cosa farsene di lei. Per questo bisogna saper cogliere il nuovo, le nuove esigenze e le nuove situazioni.
Bisogna soprattutto mettersi in gioco, perché rinnovarsi (cioè entrare per la porta del tempo presente) non vuol dire solo prendere qualcosa di nuovo ma anche avere il coraggio di lasciare qualcosa di vecchio, qualcosa di inutile, qualche zavorra alla quale siamo affezionati, ma che inevitabilmente ci rallenta la corsa. E potremmo perdere il treno del nostro rinnovamento, potremmo perdere la corsa verso una vita nuova, più splendida, più entusiasmante, più aperta, più ricca, più traboccante e ricca: una vita che possiamo raggiungere attraversando la porta di Cristo risorto, perché Lui solo è “vita vera e abbondante”. Amen.

giovedì 1 maggio 2014

4 Maggio 2014 – III Domenica di Pasqua

«Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo». (Lc 24, 13-35).
Il vangelo di oggi racconta la delusione dei due discepoli che, abbandonata Gerusalemme, si dirigono verso Emmaus. Camminano e parlano fra loro. È naturale che i loro discorsi siano incentrati sulle ultime ore di vita del loro maestro, la cui tragica fine è ancora impressa dolorosamente nella loro mente. Avevano creduto in Gesù, avevano posto il lui grandi speranze; veramente quest'uomo li aveva "presi", entusiasmati, contagiati. Ma adesso tutto è finito e la loro delusione è grande, enorme, insopportabile, senza fine.
Sembra vederli quei poveretti, quando al tramonto camminano assorti nei loro sconfortanti ricordi: eppure quante volte ci ritroviamo anche noi nello stesso identico stato d’animo: “Questo proprio non mi doveva succedere! Non me l'aspettavo! Non ci voleva! Ed ora cosa faccio?”. E siamo delusi, abbattuti: “Pensavo che le cose andassero diversamente, e invece...”. E siamo infuriati: “perché la vita ce l’ha tanto con me? Che ho mai fatto a Dio di tanto male?”. Quante volte siamo delusi anche noi da come va la nostra vita! Nutrivamo tante speranze, avevamo delle attese, delle aspettative sui nostri rapporti, sul nostro matrimonio, sulle amicizie, sul nostro futuro… e invece, poi, contro ogni logica, tutto è andato storto!
Sì, siamo giustamente e profondamente delusi: e non ci accorgiamo che, sempre nella nostra vita, quando siamo in difficoltà, Gesù si mette al nostro fianco, cammina con noi, percorre la nostra stessa strada. Come succede ai due discepoli di Emmaus, non ci rendiamo conto della sua presenza, non lo riconosciamo. Eppure quella di vederlo è un’esperienza meravigliosa che tutti possiamo vivere, nessuno escluso: è sufficiente avere fede.
Purtroppo però noi ci siamo fatti di Dio un’idea tutta nostra: quando cioè deve intervenire, egli lo fa in maniera forte, straordinaria, si presenta in modo eccezionale, con una presenza sovrumana, con metodi strabilianti: solo così noi lo potremmo riconoscere; solo così potremmo accettare i suoi discorsi, i suoi consigli. Se vuole avvicinarsi a noi, lo deve fare in certi modi, a certe condizioni: siamo noi a dettare le condizioni, a stabilire come, dove, quando. Nella vita abbiamo cose ben più importanti per la testa, che immaginare un Dio che improvvisamente decide di calarsi nella nostra vita, nelle nostre giornate, camminare al nostro fianco, rimanendo in incognito. Non siamo inclini agli indovinelli!
Eppure dovremmo sapere che proprio quando non lo vediamo, proprio quando la nostra vita è uno schifo, arida, quando abbiamo veramente bisogno di Lui, quando lo chiamiamo a gran voce ma lui non si fa vivo, non è Lui che non viene da noi, ma siamo noi che, schiavi dei nostri schemi mentali, non riusciamo a vederlo. E nonostante ciò, Egli ripasserà ancora, correrà da noi ogniqualvolta ci troviamo in difficoltà:ma se noi continuiamo a guardare sempre con il paraocchi, continueremo sempre a non vederlo: questa purtroppo è la nostra grande sventura.
Sì, perché Dio nella sua pazienza, nel suo immenso amore, continua a starci sempre accanto, anche quando noi non lo vediamo, lo ignoriamo. Dio ci parla, ci guida, ci indirizza anche se non ci accorgiamo che è veramente Lui.
Continuiamo testardamente ad andare per la nostra strada, in senso contrario a quello in cui dovremmo andare. Siamo al buio, senza Luce, senza Dio: continuiamo a fare ciò che non dovremmo fare, proseguiamo a casaccio per la nostra cattiva strada, rincorsi dalla paura, dall’angoscia, dal risentimento.
Gli apostoli avevano abbandonato tutto per Gesù: casa, lavoro, famiglia, moglie, figli; in una parola tutte le loro certezze: possiamo quindi capire bene la delusione immensa che hanno provato alla sua morte.
Per loro è stata veramente la “fine del mondo”. Ma, incredibilmente, è proprio in questo “fallimento”, è all'interno di questa amara delusione, che incontrano Gesù.
Quando ci succede qualcosa di grave e il mondo sembra crollare intorno a noi, in realtà è la fine di un nostro mondo, non “del” mondo. Quando ci sentiamo dei falliti, abbiamo mancato solo un nostro obiettivo, un nostro modo di vederci, un modo di pensare, di vivere, ma non siamo “noi” i falliti. È nel bel mezzo delle nostre delusioni, dei nostri fallimenti, che possiamo scorgere Dio al nostro fianco; è proprio allora che possiamo incontrarlo a tu per tu, ascoltarlo, parlargli apertamente. È qui, una volta abbattuti i muri del nostro orgoglio, della nostra caparbietà, delle nostre apparenti sicurezze, che lui può entrare in noi e noi in Lui. È questa l’occasione in cui possiamo fare una esperienza vera e profonda di Dio: è proprio nel nostro fallimento più totale, quando cioè nessuno più ci stima, quando il lavoro, la vita, la famiglia, non ci danno più alcuna soddisfazione, quando ci accorgiamo di aver perduto la nostra facciata, il nostro buon nome, la nostra onorabilità, quando ci scopriamo colpiti da una malattia che non perdona: è esattamente allora che possiamo sentire in pieno la forza e il conforto del suo amore. È allora che Dio si avvicina a noi: e non perché abbiamo qualcosa di “bello” da offrirgli, ma semplicemente perché lui cerca noi, in tutta la nostra nudità, in tutte le nostre debolezze e miserie. Allora abbiamo la certezza che Lui ci ama semplicemente perché siamo noi, così come siamo; ci chiama con il nostro nome: noi e nessun altro. Allora lo “sentiamo” per davvero; allora conosciamo veramente chi è Dio.
Ogni volta che cadiamo, ogni volta che falliamo, dobbiamo chiederci: “Cosa mi sta dicendo ora Dio? Cosa devo imparare?” E dobbiamo ascoltarlo, perché lui solo ci guida alla salvezza, solo a lui noi interessiamo così come siamo, anche se siamo caduti così in basso. E lui, quando si avvicina, ci fa parlare, ci fa esprimere tutta la nostra amarezza, le nostre delusioni, la nostra tristezza, il nostro malessere, tutti i disagi che abbiamo dentro.
Noi abbiamo bisogno di "tirare fuori" il nostro male, il nostro dolore, tutto ciò che ci opprime. Il dolore è come un veleno: se non lo sputiamo fuori ci uccide. Abbiamo bisogno di "tirare fuori" le nostre gioie, le nostre speranze, la nostra vita, perché prenda forma, perché circoli, perché viva, perché si espanda. Abbiamo bisogno di raccontare le nostre esperienze, il nostro profondo perché raccontandolo lo facciamo esistere.
Chi ha vissuto queste esperienze lo sa: quando i nostri cuori si sono aperti nella preghiera, quando si sono rivelati umilmente in tutta la loro debolezza, quando abbiamo abbassato tutte le nostre maschere, è allora che abbiamo sentito davvero Dio. Chi non vuole aprirsi quando lui si avvicina, decide di non incontrare il Dio della vita. E non capisce che senza la luce di Dio nulla ha un senso: perché è lui che ci indica il filo conduttore che lega tutto ciò che ci succede: è così che possiamo guardare la nostra vita con gli occhi di Gesù, con gli occhi della fede. E la nostra vita acquista allora un senso profondo. Anche le cose apparentemente più negative, come la malattia, le disgrazie più sconvolgenti, acquistano un significato. Non è mai un caso se succedono e viviamo certe cose: e quando ci accorgiamo che tutto accade per un senso, per un motivo, è allora che diventiamo responsabili della nostra vita e di quella degli altri; è allora che non possiamo più vivere con gli occhi chiusi; è allora che sentiamo la nostra vita veramente nelle nostre mani e soprattutto nelle nostre scelte.
Gesù si affianca ai discepoli e li ascolta. Non fa altro. Loro però non lo riconoscono perché sono troppo presi dai loro problemi, dal loro dolore, dalla loro delusione e dalla loro sofferenza. Avviene esattamente anche a noi quando siamo troppo dentro ad una cosa: non vediamo altro che questa. Solamente dopo aver "buttato fuori" tutta la nostra sofferenza potremo "vedere" le cose diversamente. Solo allora potremo vedere Gesù.
E allora quando ci rivolgiamo a Lui, preghiamolo non perché sia Lui a risolvere i nostri problemi, ma perché aiuti noi a vederli e a risolverli. E dobbiamo essere pronti ad accettare la sua risposta. Qualunque risposta.
Il vangelo di oggi, poi, ci dice che tutto questo (Gesù che ci accompagna, Gesù che vuole che ci confidiamo con lui, Gesù che ci spiega che tutto ha un senso positivo nella vita, compresi i fallimenti e le sconfitte) lo possiamo trovare realmente nell’Eucaristia: allo “spezzare del pane” sull’altare, anche i nostri occhi si apriranno, e sentiremo il nostro cuore aprirsi e “ardere” di gioia.
Anche i discepoli lo riconoscono in questo momento; e anche noi, in questo momento, capiremo che Lui è sempre, continuamente, al nostro fianco; capiremo che Lui c’è sempre, quando lo vediamo e anche quando non lo vediamo, quando lo sentiamo e anche quando non lo sentiamo. È una certezza intima, quella che sentiremo, che ci consolerà, ci ricaricherà, ci darà la forza di superare ogni asperità del nostro cammino. In quel momento di grande intimità con Lui, sentiremo il nostro cuore ardere di un fuoco che illumina, che riscalda, che brucia, che spiana ogni difficoltà: e ci sentiremo pronti, nel nostro andare, ad essere anche noi fuoco di luce e di calore per quanti incontriamo. Sì, perché quando abbiamo Dio dentro di noi, non abbiamo più bisogno di trovarlo fuori; quando Dio è dentro di noi, ovunque andiamo, lo porteremo sempre con noi e potremo condividerlo nell’amore e nella carità con quanti incontriamo. Amen.

 

giovedì 24 aprile 2014

27 Aprile 2014 – II Domenica di Pasqua

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!» (Gv 20,19-31) .
Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare noi, i discepoli futuri: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavando da tale incontro quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito, divulgando nel mondo la sua Parola e fondando la Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per proseguire nella Chiesa la loro stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che succede a noi ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: noi riviviamo, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto: egli è presente in mezzo a noi; non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di allora, forza di cui abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo esplodere la sua voce dentro di noi: “Pace a voi!”. Sono le stesse parole rivolte ai discepoli radunati nel cenacolo, parole con cui tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, salutano i fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione eucaristica.

Santa Eucaristia! Importanza e bellezza dell’Eucaristia! Noi settimanalmente possiamo ripetere la stessa esperienza vissuta dagli apostoli! È il nostro appuntamento settimanale con Gesù, nel “suo” giorno, il “primo della settimana”, il “dies Domini”, il giorno del Signore.
È l’occasione sublime in cui possiamo parlargli francamente a tu per tu, confidargli le nostre paure, svelargli i nostri segreti, aprirgli le nostre “chiusure” ermetiche, appianare tutti i nostri contorti “distinguo”. Sì, perché l’Eucaristia è forza e perdono.
Prima di tutto è “forza”: perché noi tutti quando andiamo in chiesa, soffocati dalle nostre paure, dalle nostre chiusure, incontriamo il Risorto, incontriamo la Forza, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore misericordioso. E che ci succede? I battiti irresistibili del suo cuore, sovrastano l’aridità del nostro, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre tiepidezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà. Solo lì, in quel preciso momento, possiamo ritrovare la voglia di vivere e di ripartire; la voglia di aprirci, di cambiare; la voglia di essere migliori.
Nell'Eucarestia, davanti a Lui, noi ritroviamo l'energia per affrontare e superare tutto quello che ci sembra impossibile. È lì, alla presenza del Risorto dentro di noi che, al pari degli apostoli, sentiamo che nulla può farci più paura, nulla può più fermarci.
L’Eucaristia è poi “perdono”: Gesù nella sua vita terrena ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare. Ebbene: noi tutti, quando ci presentiamo alla sua Cena, rappresentiamo un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Ci presentiamo a Lui, confidando nella sua misericordia. Prima di sperare però il suo perdono, dobbiamo imparare anche noi a perdonare i nostri fratelli, e soprattutto imparare a perdonarci. Sì perché noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista: ma lui esiste, è lì, nel nostro cuore; ci corrode l’anima, ci incattivisce; anche se non lo vogliamo, nei momenti più impensati , egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare l’Amore e, riversando in Lui le nostre miserie, potremo a nostra volta rivolgere ai nostri fratelli il sentimento del vero perdono.
Ogni volta che noi andiamo a messa, dobbiamo permettere alla nostra anima di percorrere questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, la prostituta siamo noi; i peccatori siamo noi; i “pubblicani” siamo noi; i farisei siamo noi. E andiamo lì, davanti a Gesù, per ricevere il suo perdono: e l'Eucarestia ci fa vivere, ci fa felici, ci fa liberi, spingendoci a portare amore (perdono) dove non c'è.
Possiamo quindi dire che l'Eucarestia è l'incontro con le nostre ferite. E solo dopo averle “toccate”, come fece Tommaso con le ferite di Gesù (mani, piedi e costato), potremo anche noi esclamare: “Mio Signore e mio Dio!”; potremo cioè esprimere a Gesù la nostra più intima e sincera proclamazione d’amore. Con queste parole noi affermiamo la nostra personale esperienza di Gesù Risorto, il nostro incontro diretto con Lui: con gli occhi della fede, lo abbiamo visto, toccato, sperimentato personalmente. E a questo punto non abbiamo più bisogno che gli altri ci vengano a dire le loro di esperienze; noi abbiamo vissuto la nostra.
In realtà a nessuno può bastare le esperienze altrui. Dio è un'esperienza diretta, personale: ognuno lo deve “toccare”, vedere, incontrare. Altrimenti ci costruiamo delle teorie, ci facciamo delle idee, seguiamo delle intuizioni altrui, dei pensieri “fantastici”, ma non abbiamo nessuna esperienza diretta con Lui. Saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, ma non hanno mai sperimentato quanto sia inebriante degustarne un buon bicchiere; o come chi afferma di conoscere tutto sull’amore, per averlo letto o studiato sui libri: ma ignorano cosa vuol dire sentirsi amati, innamorati: è tutt’altra cosa. Con le parole “calore”, “vino, nessuno si è mai riscaldato o ubriacato! È l'esperienza delle cose che produce la vera conoscenza, quella del cuore. Esperienza (da “ex-perior”) vuol dire infatti provare, sentire, toccare, sperimentare.
Ecco perché le nostre liturgie eucaristiche non ci devono “parlare” di Dio; ce lo devono far sentire, toccare, sperimentare. E noi dobbiamo aver il coraggio di lasciarci coinvolgere, di lasciarci “toccare”, perché se ciò non avviene, le nostre belle liturgie non servono a niente: i canti, la partecipazione dell’assemblea, i gesti, le letture, tutto è liturgia “efficace”, soltanto se ci mettono in contatto con Dio. Ripeto: se le nostre celebrazioni eucaristiche, rigorosamente conformi alle norme liturgiche, non ci fanno sentire Dio, non ce lo fanno toccare, non ce lo portano nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono a niente, sono assolutamente inutili: sono insomma piacevoli evasioni dal quotidiano, sono momenti di ammirazione per il bello in se stesso; ma non sono l’incontro personale con il Dio della Vita; non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui ci “parla dentro”, con cui Lui entra in vibrazione con la nostra anima e la nostra sete di Infinito; emozioni che ci fanno fare i conti con le nostre realtà, le nostre risorse, le nostre potenzialità.
E concludo: nell’Eucaristia le nostre ferite, le nostre miserie, ci portano a Dio; e Dio, a sua volta ci porta alle nostre “ferite”, ci fa mettere il dito sulle nostre di piaghe. Perché solo “toccandole”, avendone la cognizione esatta, potremo curarle, potremo liberarcene.
Del resto, chi non ha ferite? Come si può pensare di vivere senza essere feriti? Allora chi non ha bisogno dell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere ferito, non sente il bisogno di andare da Colui che può guarirci? La Comunione della domenica fatta in grazia di Dio, è il suo balsamo, la sua crema, il suo unguento, l’unico medicamento valido per le nostre ferite. È in questo modo che Lui ci assicura accoglienza, protezione, accettazione, fiducia, amore.
Allora, andare a messa non è più un dovere, un atto abitudinario da fare, ma un bisogno di ricongiungerci con noi stessi, con gli altri, con la Vita, con l’Amore. Se comprendiamo questo, andare a messa la domenica sarà fonte di grande gioia per l’incontro con Dio che andremo a fare, sarà un bisogno impellente, improrogabile, del nostro cuore e della nostra anima. Amen.

mercoledì 16 aprile 2014

20 Aprile 2014 – Solennità di Pasqua

«Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20,1-9).
Il vangelo di Pasqua ci presenta tre figure in movimento: Pietro, Giovanni e Maria Maddalena. Tutti e tre vanno al sepolcro, luogo di morte; ma per “vedere” Gesù, devono compiere questo tragitto e superare l'ostacolo della pietra. È un particolare che deve farci riflettere.
Nel “sepolcro” noi pensiamo di trovare la morte, la fine, la rottura di un’esistenza, il buio; invece... troviamo vita, bellezza, gioia di vivere. Il nostro incontro con Cristo inizia proprio da lì. Ma per poterlo incontrare, per poterlo “vedere”, dobbiamo fare i conti con un percorso e con quanto ci preclude ogni visuale: l’accesso a Gesù nel sepolcro è chiuso, ostruito da una pietra: una pietra pesante, un macigno, la cui rimozione ci sembra assolutamente impossibile; per cui, meglio ignorarla. Ma c’è: sì, perché la “pietra” in questione è l'incapacità di provare dentro di noi sentimenti veri, profondi, gioiosi; è la paura di mostrarci per quello che siamo, facendoci piuttosto esibire maschere e facciate diverse; “pietra” è la paura della vulnerabilità, del piangere; “pietra” è quel dolore silenzioso che ci urla dentro, quel segreto che nascondiamo in noi; è il dolore e la sofferenza per chi ci ha lasciato; pietra è il freddo, la solitudine che ci sentiamo dentro, che ci congela l’anima, impedendoci di tirar fuori il nostro amore; pietra è il terrore di morire, la paura delle malattie, l’angoscia di rimanere soli, il rimpianto per gli anni che passano inesorabilmente. Tutti abbiamo una pietra del genere con cui fare i conti: ma dobbiamo essere convinti che rimuovendola, troveremo qualcosa di completamente nuovo, di diverso: la pietra è il nostro motivo di morte che va superato, va spazzato via. Se lo ignoriamo, se lo evitiamo, non potremo mai incontrarci con Lui, non potremo mai trovare la Vita.
Nel nostro cammino, poi, dobbiamo come Giovanni, “inchinarci” per vedere l’interno del sepolcro; dobbiamo cioè inginocchiarci, dobbiamo accettare umilmente la nostra debolezza, il nostro continuo cadere. Dobbiamo cambiare: e dobbiamo volerlo! perché se non lo vogliamo, non cambierà mai nulla, tutto rimarrà nelle tenebre. Il sepolcro rimarrà la nostra dimora stabile: ci sarà impossibile vedere lo splendore della “risurrezione”, il cambiamento radicale della nostra esistenza.
Pietro e Giovanni corrono: anche questo è importante, decisivo: non basta trascinarci pesantemente, controvoglia; non basta adattarsi a quello che fanno tutti. Siamo noi, io tu gli altri, che dobbiamo incontrarlo: nella nostra diversità, pur essendo tutti speciali, dobbiamo spingere al massimo; se ci rassegniamo, se ci immobilizziamo, se traccheggiamo, non approdiamo a nulla, se non cominciamo a correre, ci precludiamo ogni risultato. Rimanere nel “sepolcro”, rimanere nelle nostre zone buie, significa rifiutare volutamente ogni invito, ogni tentativo della Vita di farci uscire.
Ci comportiamo un po’ come il bambino che sta per nascere: “Lasciami qui, non voglio! Se esco muoio, sto bene così come sto: perché mettere fine ad una vita tanto beata?”. Ma il bimbo non muore, anzi, al contrario, nasce alla vita! La stessa identica cosa succede alla morte: “Oddio, che paura! Non voglio morire! Cosa mi aspetta di là?” E anche questa volta si nasce a vita nuova, si entra in un’altra esistenza: al cui ingresso ci saranno due mani aperte, misericordiose, piene di amore, che ci accoglieranno, ci abbracceranno. Nel fondo della morte c'è sempre la vita.
Ci sono altre piccole cose che ci insegnano a Pasqua questa grande verità: per esempio, l’usanza di regalare ai bambini un uovo (adesso è di cioccolata perché è più buono, ma quand’ero bambino si usavano “le uova” bollite e colorate). Perché? Perché Pasqua, come l’uovo, è appunto il simbolo della vita, di qualcosa che nasce, di qualcosa di nuovo, di inaspettato, di imprevisto che viene alla luce. È il simbolo della nostra trasformazione, della nostra rinascita, del nostro passaggio decisivo da credenti in embrione, a discepoli maturi e convinti. Ma “risorgere” non è cosa facile. Anche l’uovo, come la pietra del sepolcro pasquale, offre una resistenza all’apertura: c’è uno scudo, una corazza, una barriera da superare perché qualcosa di nuovo possa sorgere. Allora augurarci “Buona Pasqua” vuol dire augurarci che questa trasformazione avvenga: che nella nostra vita possa nascere finalmente qualcosa di totalmente nuovo, di lungamente atteso, di meraviglioso.
La resurrezione deve essere per noi un salto esistenziale decisivo: il Gesù risorto non è tornato a vivere la vita di prima (il Gesù storico è morto per sempre); il Gesù risorto è passato ad una nuova dimensione, completamente diversa: ora Egli vive nella sua dimensione divina, celeste, eterna. In quanto Dio glorioso, egli continua comunque a vivere in mezzo noi; continua a vivere in ciascuno di noi, nell’uomo di ogni tempo. È una verità, questa, che ci lascia abbastanza indifferenti: siamo decisamente molto poco “spirituali”; per credere in Lui sul serio, vorremmo “vederlo”, toccarlo, sentirlo, percepirlo. Come san Tommaso. Come gli apostoli: che, dimenticata ogni paura, ogni esitazione, hanno poi affrontato ogni ostacolo, qualunque pericolo, perché lo sentivano vivo e presente dentro di loro e con loro. Ma sappiamo bene cosa ha detto Gesù in proposito: “…beati quelli che non vedranno e crederanno!”
La risurrezione, oltre che “conversione”, oltre che nascita ad una vita nuova, deve diventare allora, anche per noi, una missione, una risposta al suo invito di “testimoniarlo” nel mondo: “Sì, Signore, andiamo noi!”.
E, nonostante il nostro vezzo di scansare volentieri qualunque responsabilità, dobbiamo fare al meglio la nostra parte. L'umanità ha bisogno di noi; ha bisogno che noi, con la nostra vita da “risorti”, insegniamo agli uomini a vivere ad un livello di valori superiore.
L'umanità oggi è in grado di distruggersi: sembra che gli uomini, nella loro dissennatezza, mirino proprio a questo. Non c’è tempo da perdere: prima che accada, il “mondo” deve cambiare: la nostra società distratta, alienata, ripiegata su se stessa, deve “rinascere in spirito e verità”; deve assolutamente fare questo salto; ma per farlo ha bisogno di noi.
Nella nostra “risurrezione” abbiamo incontrato Cristo: non deludiamolo. Crediamoci! Non servono una cultura eccelsa, una lunga preparazione: gli apostoli erano come noi, gente semplice, ignorante. Ma è l’incontro con Gesù che li ha cambiati, come deve cambiare anche noi. Nel testimoniare Gesù, c’è una sostanziale differenza tra i sapienti, i dotti, e gli umili credenti: i primi, coloro che lo hanno studiato, trasmettono idee, teorie su di Lui; ma chi lo ha “incontrato”, chi lo “vive”, chi crede in Lui, trasmette la Vita, trasmette l’Amore.
Andate in tutto il mondo... io sono con voi” continua a ripeterci il Risorto. Che aspettiamo?
Noi possiamo e dobbiamo: basta esserne convinti. Virgilio infatti diceva: “Possono, perché credono di potere”. È proprio così! Mostriamo il volto di Dio al mondo intero: in modo che tutti i nostri fratelli possano finalmente esclamare in cuor loro, come Giobbe, “Dio, io ti conoscevo solo per sentito dire; ma ora i miei occhi ti vedono”. Amen.

giovedì 10 aprile 2014

13 Aprile 2014 – Domenica delle Palme

«Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea» (Mt 21,1-11).
Gerusalemme è la città che rifiuta Gesù; i suoi abitanti, quelli che gli preparano la croce.
Gesù non vuole entrare in Gerusalemme in un modo qualunque, ma predispone tutta una serie di preparativi che devono dare al suo ingresso un profondo significato simbolico, conforme in tutto a quanto previsto nelle Scritture: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma” (Zc 9,9). Egli entra in Gerusalemme non come un re che vuole impadronirsi del potere, che viene a giudicare e punire, ma come un re che intende servire.
Con questa azione simbolica Gesù vuole attribuire al suo ministero finale un valore paradossalmente regale. Colui che morirà in croce è colui che è entrato “regalmente”, trionfalmente nella città; una regalità che proietta la sua luce sulla croce; una regalità quindi non conforme agli schemi umani, ma alla logica di Dio: egli infatti non entra su carri trascinati da cavalli, come fanno i re e i trionfatori mondani, poiché la sua regalità non è basata sulla violenza, ma sulla giustizia e sulla pace.
La reazione coinvolgente della folla lascia intravedere qualcosa dei fermenti messianici che serpeggiavano nel popolo all’epoca del dominio romano. I loro gesti richiamano peraltro quanto si faceva normalmente per le processioni nella festa delle Capanne e quanto viene evocato dal Salmo 118: “Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare”. Le loro acclamazioni “Osanna al figlio di David” dimostrano che essi riconoscono in Gesù questo Re, che viene a salvare il suo popolo.
In sostanza a Gerusalemme viene offerta l’ultima possibilità per ravvedersi: ma questo non viene capito. La folla enorme e festante che accompagna Gesù infatti non è costituita dagli abitanti di Gerusalemme, ma dai pellegrini, che arrivano in città numerosi per l’imminente festa di Pasqua.
Gli abitanti dunque ancora una volta non gli vanno incontro: mantengono lo stesso atteggiamento di indifferenza, tenuto all’annuncio della sua nascita. Per essi Gesù continua a rimanere uno sconosciuto. Sono anche questa volta gli umili, i devoti, gli osservanti, i pellegrini, che in vista della città, stendono sulla strada i loro mantelli e i rami recisi dagli alberi. È in questo modo, semplice e popolare, che il re umile e mansueto viene intronizzato. Ma solo chi è altrettanto umile, misericordioso, mansueto, può cogliere in lui la sua vera immagine di Dio misericordioso: sotto la sua povertà può scorgere la ricchezza, sotto la vergogna l'onore, sotto la morte la vita immortale.
Siamo dunque alla fine del cammino di Gesù su questa terra. Ha faticato molto per far capire a tutti, con la sua vita, la sua testimonianza, il vero volto di Dio; ma la gente dimostra ancora di non aver capito nulla. A noi oggi viene spontaneo dire: “Certo che a quel tempo erano proprio duri di comprendonio!” Ma noi, tanto critici, siamo proprio certi che ci saremmo comportati diversamente? Non siamo forse noi quelli che, quando ci fa comodo, pensiamo a Dio soltanto come ad uno che ci aggiusta la vita? Accendiamo la candela e l'esame ci va bene; un po' di acqua benedetta, e la salute è assicurata. In pratica cioè stiamo anche noi osannando “il figlio di Davide”, e non il Figlio di Dio. In altre parole stiamo adorando un altro Dio, un Dio che ci fa comodo, un Dio che non è quello di Gesù Cristo.
Il Dio che è venuto a rivelarci Gesù è un Dio che non usa la forza, il potere, la prepotenza; non è venuto per sottometterci al suo volere, ma usa nei nostri confronti la debolezza dell'Amore, ci lascia sempre liberi di scegliere Lui o chiunque altro: come il padre misericordioso, ci lascia andare, liberi di fare la nostra vita lontano da lui, ma tiene sempre lo sguardo fisso sulla strada, sperando di vederci tornare per poterci riabbracciare, senza chiederci niente, pronto a fare festa per noi.
Il nostro Dio non si contorna di gente colta e altolocata, ma sceglie gli ultimi, i più bisognosi, perché sono quelli più oppressi, più schiacciati dal potere, che poi sono anche quelli più disponibili ad accogliere la sua Parola di salvezza.
Per questo motivo, a coronamento di una vita vissuta in questo modo, egli sceglie di entrare in Gerusalemme cavalcando un'asina: e la gente continua a non capire, perché un comportamento del genere è decisamente fuori dalla mentalità comune, da ogni aspettativa; come lo è anche per la nostra. Non siamo forse noi quelli che si guardano bene dal scegliere di stare dalla parte di chi non ha voce, del disabile, dell'anziano, dello straniero, rispondendo ai loro bisogni e non imponendo un aiuto a modo nostro? Non siamo forse noi quelli che, invece di vivere sobriamente accontentandoci di quello che abbiamo, cerchiamo di accumulare sempre di più, ci circondiamo di oggetti inutili, di chincaglierie che riempiono le mensole delle nostre case, adoriamo il Dio denaro, invece di condividere gioiosamente il poco con i poveri della terra? È una questione di mentalità!
Se ci riconosciamo in questa tipologia di persone, allora chiediamoci: “Cosa posso fare per cambiare il mio modo di pensare, adottando quello di Gesù?” Beh, penso che la prima cosa da fare sia proprio quella di conoscere a fondo il suo pensiero, di capirlo, di assimilarlo, di metabolizzarlo: e questo lo possiamo fare attraverso l’ascolto e la meditazione della sua Parola: magari riservando settimanalmente qualche momento di silenzio per riflettere sul brano di vangelo della domenica.
In questo modo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, noi impareremo a conoscere Gesù sempre meglio; impareremo a vederlo come lui è veramente; ci scopriremo sempre più somiglianti a lui, pronti a vivere anche noi la nostra “passione”, ad amare l’altro fino in fondo, fino al punto di dare la nostra vita perché “l'altro abbia la Vita”. Amen.

venerdì 4 aprile 2014

6 Aprile 2014 – V Domenica di Quaresima

«Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato» (Gv 11,1-45).
Quello che ci colpisce, ad una prima lettura del vangelo di oggi, è il comportamento decisamente incoerente di Gesù nei confronti di un suo carissimo amico: venuto infatti a conoscenza della malattia di Lazzaro, Egli si preoccupa di tranquillizzare tutti – “questa malattia non porterà alla morte” - ma poi in realtà avviene il contrario: Lazzaro muore; inoltre, dopo aver saputo che l’amico stava male, invece di correre da lui, continua per altri due giorni a predicare là dove si trovava: se veramente Lazzaro gli interessava, perché ha perso del tempo prezioso? Non avrebbe fatto meglio a correre subito da lui, raggiungendolo immediatamente? Nei suoi discorsi, Egli parla continuamente di resurrezione dai morti, di immortalità, di vita eterna: tutti argomenti che implicano gioia, fiducia, serenità; ma allora perché di fronte all’amico morto, lui scoppia in un pianto dirotto, come se resurrezione e vita eterna, al dunque, non contassero nulla? Infine, perché ha aspettato che Lazzaro morisse, che venisse sepolto, per resuscitarlo? Non era più semplice e immediato “guarirlo” fintantoché era vivo, risparmiando ai parenti il dolore straziante della morte, e a tanta gente il disagio di presenziare alla sepoltura del cadavere?
Ebbene: la spiegazione la troviamo in queste altre parole di Gesù: “[questi fatti sono successi] per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Che vuol dire? Che Lui ha volutamente aspettato che gli eventi precipitassero, perché così poteva dimostrare di essere veramente l’inviato del Padre. È una spiegazione teologica: in altre parole Gesù vuol dimostrare a tutti che la Vita (lui stesso) è più forte della morte. L’amore (lui è l’Amore) è più forte della morte e chi lo ama, anche se muore, non muore.
È chiaro che questo vangelo va letto alla luce della resurrezione di Gesù; esso vede infatti, nel ritorno in vita di Lazzaro, un preannuncio di quello che poi succederà a Gesù, anche se la risurrezione di quest’ultimo avverrà su un piano esistenziale totalmente diverso, comporterà conseguenze diametralmente opposte: infatti, mentre il Lazzaro “risorto” torna a vivere la sua vita di prima, ancorché “nuova”, potendo acquisire nuove esperienze, nuovi sentimenti, nuovi legami, nuova spiritualità, Gesù invece non riprenderà le sue sembianze umane, ma continuerà il suo esistere in un altro mondo, in un'altra forma; riprenderà cioè esclusivamente la sua esistenza divina.
Quando dunque Gesù giunge a Betania – come il vangelo si preoccupa di sottolineare - la salma di Lazzaro già “manda odore, poiché è di quattro giorni”. Presso gli Ebrei il funerale e la sepoltura avvenivano nello stesso giorno della morte; si credeva però che lo spirito rimanesse nel corpo fina a quando il cadavere era ancora riconoscibile. Il quarto giorno, quando il processo di decomposizione era ormai avanzato, lo spirito abbandonava il corpo del defunto e scendeva per sempre nella dimora dei morti, lo sheol, nel quale rimaneva in attesa della resurrezione.
Cosa vuol dire allora che uno di “quattro giorni” - cioè certamente e definitivamente morto - ritorna in vita? Vuol dire: “Anche quando uno è ormai morto, con l’anima che ha lasciato definitivamente il corpo... anche quando ogni barlume di speranza è perduta... anche quando ormai tutto sembra impossibile... Gesù, il Dio della Vita, dimostra di essere più forte, più potente di ogni morte”. In altre parole la risurrezione di Lazzaro ci dice che per Gesù non c'è “morte o sepolcro” dal quale Egli non possa farci uscire (“Esci fuori!”); che non esiste legame mortale (“piedi e mani avvolte da bende”) dal quale poterci sciogliere; che non esiste maschera o camuffamento (“Volto coperto da un sudario”) che non possa toglierci.
Ci sono poi, nell’ultima parte del vangelo di oggi, altre sfumature da cogliere, altre frasi di rara bellezza da meditare. Per esempio:
Dove l'avete posto?”; cioè, che ne avete fatto di lui? Dove l'avete messo? Traduco in vita pratica: che ne abbiamo fatto della nostra voglia di vivere, del nostro impegno, del nostro entusiasmo? Che ne abbiamo fatto dei sorrisi che regalavamo? Che ne abbiamo fatto dei nostri sogni? Che ne abbiamo fatto di ciò che eravamo? Che ne abbiamo fatto della nostra voglia di aiutare gli altri? Che ne abbiamo fatto delle doti che avevamo? Dove li abbiamo sepolti? Perché siamo morti? Sì, perché quando seppelliamo ciò che siamo, noi moriamo. Avevamo dei doni, dei talenti, ma per paura, per conformismo, per non crearci “rogne”, li nascondiamo: e allora moriamo, preferiamo la morte. Dio invece è Vita: in Lui e con Lui viviamo al massimo di noi stessi. Se sopravviviamo, se trasciniamo stancamente e inutilmente i nostri giorni, vanifichiamo il dono di Dio. Dio ci ha fatto un dono meraviglioso: la vita. Viviamola come suo dono; viviamola come un dono che Lui continua a regalarci ogni volta che noi cadiamo e ci allontaniamo da lui.
“Togliete la pietra”. Quante volte abbiamo “coperto” le nostre vere intenzioni, quante volte abbiamo messo una pietra sopra la nostra coscienza! Non vogliamo vederci “dentro”: non vogliamo che il nostro intimo, la nostra anima, abbandonata e stagnante, riveli all’esterno il suo olezzo nauseabondo. Ma togliamo dunque la pietra! Tiriamo fuori i nostri segreti! Tiriamo fuori la vergogna, gli scheletri dall’armadio! Tiriamo fuori l'odio, la sofferenza! Come possiamo pensare di vivere se continuiamo a custodire dentro di noi la morte? Non ci può essere “vita” per chi vive nella morte. Apriamoci, spalanchiamo il nostro cuore. Facciamo entrare Dio: Lui è perdono; Lui non si vergogna di noi. Lui ci ama veramente. Non temiamo: perché con Lui tutto può essere riportato alla luce, tutto può essere riportato in vita.
Scioglietelo e lasciatelo andare”. Rimanere legati, uccide; sciogliamo allora tutti i lacci che ci costringono, tutti i nodi che ci limitano. Lasciamoci andare a Lui! Lasciamo “libero” l’altro: perché questo è amore. Ognuno ha la sua strada e la sua missione. L'amore è permettere a ciascuno di compiere il suo viaggio. Se il nostro cammino coincide con il suo, bene. Se non è così, pazienza, ma noi dobbiamo lasciarlo andare. Se abbiamo fatto del bene a qualcuno, lasciamolo andare: non pretendiamo che ci dimostri riconoscenza per tutta la vita: ci ha già detto “grazie”; non rinfacciamogli ad ogni occasione quel poco di bene che gli abbiamo fatto. Lasciamolo libero!
Vieni fuori”. Vogliamo smetterla di nasconderci? Ci sentiamo rinchiusi in una prigione? Veniamone fuori! Siamo in una situazione, in una relazione, che ci fa morire? Veniamone fuori! Siamo convinti di non valere, di non farcela? Veniamone fuori! abbiamo sempre paura di fare brutta figura, di sbagliare e ce ne stiamo sempre in disparte, in un angolo? Veniamone fuori! Abbiamo paura di osare perché poi tutti ci vedono? Veniamo fuori! Abbiamo delle doti, delle capacità, ma temiamo l'opposizione degli altri? Veniamo fuori! Smettiamola di giustificarci: “Io sono umile; io non ho le capacità; io non sono adatto”; diciamoci piuttosto la verità: “Io ho paura”; non abbiamo il coraggio di venire fuori. Dio infatti vuole che noi emergiamo, che ci realizziamo, che brilliamo. Dimostriamo a tutti, proprio attraverso i doni immeritati che Lui riserva di continuo alla nostra persona, che Dio è Amore. Assolutamente da provare. Amen.

venerdì 28 marzo 2014

30 Marzo 2014 – IV Domenica di Quaresima – “Laetare”

«Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi» (Gv 9,1-41).
Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo che pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano, e infine Gesù; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale; un vangelo di luce e tenebre, di chi vede e di chi non vede.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei saputoni, agli interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti si interessano ad ogni cosa, vogliono conoscere ogni particolare dell’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardano - tutti lo guardavano da sempre - ma nessuno lo “vede”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi.
Innanzitutto ci sono i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Gli ebrei dicevano: “Se uno è malato, lui o i suoi predecessori devono aver peccato”. Punto. “Sbagliano i tuoi antenati? Paghi tu!”. Questo è il principio, non si scappa. Quindi il problema dei discepoli è: “Chi è il colpevole della cecità di quest’uomo? Dov'è l'errore? Chi ha sbagliato?”. Essi vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: non vogliono in ogni caso essere coinvolti personalmente nella vicissitudini dell’uomo: “È colpa sua, noi non c'entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi: è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca: corruzione, distrazione di capitali, montagne di rifiuti abbandonati per strada, delinquenza diffusa, genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, immigrati che creano problemi sociali, criminalità minorile in aumento esponenziale. L'unica preoccupazione è quella di scaricare le colpe su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Così, poi, tutti ci sentiamo più a posto, più tranquilli, con la nostra coscienza in pace. Trovato il “nostro” colpevole, ci buttiamo in fretta tutto alle spalle. Ma è giusto fare così?
Ci sono poi gli amici, i conoscenti del cieco. Alcuni dicono: “Sì, è lui quello che era cieco”; altri, “no”; altri, “gli assomiglia”. Sono quelle persone per le quali noi non possiamo cambiare. Dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi diventiamo migliori, di essere “altri”, soprattutto se questo cambiamento altera in qualche modo il nostro rapporto con loro. “Ma come: era cieco ed ora ci vede? Impossibile: com'è successo?” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo, hanno già deciso a priori chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa poter dire, cosa poter rispondere.
Ci sono i genitori. A quel tempo la scomunica della sinagoga era una morte sociale. Essere scomunicati equivaleva a morire socialmente. Chiamati dunque a testimoniare, quei genitori hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: “È abbastanza grande, può dire tutto di sé lui stesso! Che c’entriamo noi? È un problema suo!”. Un comportamento frequente anche oggi: e purtroppo, per un figlio, non c'è peggior tradimento che sentirsi abbandonato, per paura del giudizio della gente, dai suoi stessi genitori, le persone a lui più care, più vicine, di cui lui si fida ciecamente; chi lo deve difendere e proteggere, lo abbandona, lo tradisce. Oppure, peggio ancora, lo denigra, lo svergogna, lo rifiuta. È una situazione fin troppo usuale: il figlio si sente solo, perso, abbandonato, disperato, ma soprattutto tradito. Sente che il genitore pensa più a se stesso (paura di sfigurare, di non esser all’altezza, ecc.) che a lui, e ciò innesca comportamenti spesso tragici.
Poi ancora ci sono i farisei. I farisei qui sono semplicemente ridicoli, fanno una misera figura. Di fronte all'evidenza negano: “Non può essere come dice lui; noi conosciamo la verità; noi siamo figli di Mosè: quell'uomo, che di sabato ha sputato per terra e impastato la saliva con la polvere, andando contro la legge, è un peccatore; non può operare per conto di Dio. Vuole per caso insegnare a noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come le vedono loro; che sono cambiate; per cui sono terrorizzati dalla prospettiva che essi stessi devono cambiare atteggiamento, devono cambiare cuore; sono maturati altri tempi. Ma per loro è inammissibile: piuttosto di cambiare, negano la realtà. Sono troppo preoccupati di salvare la loro immagine, di essere considerati i discepoli autentici di Mosè; più che la verità, preferiscono difendere il proprio ruolo esteriore.
Ecco, i farisei rappresentano tutti quelli che negano la verità: è sufficiente che si discosti dalle loro convinzioni, e per principio non la vogliono vedere, non la accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del negativo che c'è in loro, dovrebbero rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Perché, in pratica, “vedere” comporta necessariamente “cambiare”: meglio quindi non vedere, ignorare a tutti i costi.
Infine, per fortuna c'è anche Gesù. Gesù non deve difendere nulla: egli è libero. Libero come colui che accetta di poter fare brutta figura, di poter essere deriso, rifiutato, umiliato, malmenato, percosso, pur di difendere la verità, la propria coscienza. Gesù non si deve preoccupare degli altri, non gli interessa cosa diranno, e neppure deve salvare la faccia. Poiché non deve preoccuparsi di sé, si preoccupa dell'altro. Gesù è colui che ci “vede”, ci scorge, nota noi e i nostri problemi, perché non ha nessun interesse personale da difendere. Chi invece è occupato dai suoi problemi, non può occuparsi degli altri.
Ebbene: capita che spesso ci ritroviamo in tutte queste “persone”: i loro pregi e difetti sono i nostri. Sono i nostri “io” interiori. Apriamo allora per bene i nostri occhi: scrutiamo attentamente il nostro intimo; ma soprattutto “vediamo” e di conseguenza traiamo le nostre regole di vita. Non facciamo l’errore di fossilizzarci sui nostri lati negativi: su ciò che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, su come avremmo dovuto essere e non siamo, sulle troppe difficoltà che incontriamo nella ricerca di ottenere risultati soddisfacenti. Perché se concentriamo la nostra attenzione soltanto sui fallimenti, sulle sconfitte, l’immagine di noi che ne ricaviamo sarà decisamente negativa e fallimentare. Concentriamoci invece su quello che facciamo, anche se è poco; lavoriamo sempre sul positivo, su quello che possiamo costruire: così quando guardiamo il nostro prossimo, mettiamo in luce le sue doti, le cose belle, le sue capacità: in questo modo si sentirà valorizzato, amato, importante: si sentirà incoraggiato a fare sempre meglio. Ricordate le nostre pagelle di scuola? Tutti 7 e 8, e magari solo un 5. Qual'era il commento immancabile di nostro padre? “Perché quel 5? Sei proprio un somaro!”. Invece di spronarci, apprezzarci e incoraggiarci per gli altri bei voti, ci faceva sentire in colpa, disprezzati, falliti: una cosa che ci distruggeva, ci buttava a terra.
Al contrario è l'amore, il “vedere” positivo, la fiducia riposta nelle persone, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non la considerazione del solo negativo.
Il vero peccato – ci dice il vangelo -non è il “non vedere”: è il non “voler” vedere, l’ostinarsi nel rimanere ciechi a tutti i costi. È un avvertimento che va preso molto sul serio: non dobbiamo addolcirlo, minimizzarlo, ammorbidirlo; è una frase tremenda: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Che significa? Che il peccato di tantissima gente è quello di essere convinta di “vedere”, di sapere cioè cosa sia la verità (magari la insegna anche agli altri); gente che si propone come esempio da seguire, gente che crede di sapere chi è Dio, e cosa fare per seguirlo; gente convinta di essere dei bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, ecc. Gente convinta di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione: perché essi sono i depositari della verità.
Brutta cosa! Gesù a tutti questi illusi continua a ripetere: “Siete dei ciechi. Il vostro dramma è di vivere nell’oscurità, nel buio totale; e nonostante ciò vi promuovete come guide esperte per gli altri”. Impossibile: “può un cieco guidare un altro cieco?”. Eppure quanti uomini, con una trave nell'occhio, passano la vita divertendosi ad osservare soltanto “la pagliuzza nell'occhio degli altri?”.
Chiariamoci le idee: luce, illuminazione, risveglio, occhi aperti, occhi che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare i figli della luce, quelli che “vedono”, che si rendono conto sul da farsi, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i figli delle tenebre, preferiscono vivere nell’oscurità, nel peccato, nella notte dell'ignoranza. Quindi: il grande peccato, l'unico, è rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, allora, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”?. In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti eri fatto di me, il Cristo, della Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee personali, alle tue convinzioni errate, alla tua fede addomesticata, alla tua vita irregolare?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, la gioia, l’amore, la nostra risposta sarà sicuramente “si”. Cessiamo allora di essere ciechi, di amare le tenebre. “Dio”, in sanscrito, vuol dire appunto “luce”: viviamo in Dio, e godremo dello splendore della Luce, nel caldo luminoso del suo Amore. E saremo felici. Amen.