giovedì 10 ottobre 2013

13 Ottobre 2013 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli vennero incontro dieci lebbrosi… “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano» (Lc 17,11-19)
Il vangelo racconta di dieci guarigioni e di un solo miracolo: dieci lebbrosi vanno da Gesù e vengono guariti, ma uno solo si rende conto di ciò che gli è successo, solo in lui avviene il miracolo. Perché “guarire” è molto più che acquistare la guarigione corporale; “guarire” significa compiere una trasformazione, una conversione interiore.
Gesù dunque entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era un morto vivente, non poteva avere più comunicazione sociale con nessuno, era un isolato, un escluso. Avere la lebbra era una sentenza di morte lenta. Era il sacerdote che, in caso di guarigione, aveva il compito di esaminare il lebbroso, di dichiararlo puro, cioè guarito. Allora il guarito si sottoponeva a tutta una serie di riti e poteva essere reintegrato nella società.
Qui Gesù – contrariamente al suo normale comportamento negli altri casi di guarigione - non fa nulla: non li tocca, non li guarisce immediatamente, non si informa su di loro. Li manda semplicemente dai sacerdoti, ancora malati, ancora lebbrosi,. Perché? Non poteva guarirli subito? O la loro guarigione dipendeva proprio dall'andare dai sacerdoti? In effetti è così: questi dieci credono alla parola di Gesù, hanno fede e questa loro fiducia li guarisce.
La fede di questi dieci è che sono convinti di poter guarire, di poter cambiare la loro situazione, e così avviene. Non è semplice per loro presentarsi a quell’autorità che li rifiutava proprio per la loro malattia: ma essi, anche se si vergognano della loro condizione, sfidano il giudizio pubblico e sociale, sfidano il rifiuto di quelle persone e vanno comunque da loro. Il segreto della loro guarigione sta qui: nell’aver recuperato la fiducia in sé e nell’andare incontro proprio a quelle situazioni che temono di più.
Se noi non crediamo in qualcosa di migliore per noi, non ci può succedere nulla di migliore. Se noi non crediamo che Dio ci ama, se dubitiamo, se siamo scettici, Dio non può trasformarci. Se noi non crediamo che possiamo guarire, non guariremo!
Molte persone non cambiano la loro vita, le loro malattie, le loro paure, i loro comportamenti negativi, perché non credono che “ la guarigione” possa succedere proprio a loro.
Quando ci sentiamo in colpa, il nostro impulso è quello di scappare, di nasconderci, di evitare incontri. Gesù invece ci dice: “Fuori”. “Hai paura di andare? Ebbene: è proprio lì che devi andare! Vai, apriti, fatti vedere, chiedi e non vergognarti”.
Ai lebbrosi che invocavano la sua misericordia, Gesù non dice: “Andate nel tempio e fermatevi lì a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”. È l’azione che è richiesta; non una staticità passiva, un’attesa rassegnata; la loro preghiera deve diventare movimento, energia. Pregare è agire, altrimenti la preghiera rimane un lamento inutile, una filastrocca arida. Pregare è uscire, combattere, affrontare ciò che temiamo; è muoversi, è cambiare, fare ciò che Lui ci ha detto.
Non cadiamo nel qualunquismo religioso, non facciamo del nostro credo, del nostro vangelo, della Parola di Dio, solo una egoistica sintesi personale di ciò che ci fa comodo. I miracoli avvengono, ma solo se noi crediamo in Dio con fede autentica, intima, cristallina; altrimenti Lui non può farci nulla. Non basta sperarlo, non basta desiderarlo, non basta volerlo ardentemente: il miracolo, la guarigione, avviene solo se ci crediamo.
Tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare. Perché? Non erano stati guariti tutti e dieci? Il vangelo spiega che “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro”. Ebbene: è proprio quel “vedendosi” che è decisivo. Uno di loro “vede”, si accorge di ciò che gli è successo: se ne rende conto, riconosce la fortuna, la benedizione, la grandezza di ciò che gli è successo. E gli altri? Degli altri non si dice che abbiano visto.
Gli altri nove hanno eseguito l’ordine di Gesù e sono andati dai sacerdoti: hanno obbedito all’ordine e si sentono a posto. Ma questa è la religione del “contabile”: tu mi comandi una cosa, io la faccio e siamo pari. Non si sono accorti del dono; non sono stati toccati nel profondo. Sono stati guariti dalla malattia ma non sono cambiati dentro. Sono stati guariti ma non hanno visto Dio. Non c'è stato sussulto, meraviglia, lode, ringraziamento in loro; avevano sete, hanno ricevuto il bicchiere d'acqua e si sono accontentati, tutto è finito lì. Non sono stati neppure sfiorati dal desiderio di andare oltre, di raggiungere la sorgente, la fonte, la forza che li aveva guariti.
Il ritorno del samaritano è il segno che lui solo ha “visto”; ha capito cioè di aver ottenuto un qualcosa di molto prezioso che non gli era dovuto. E per questo “ritorna” per ringraziare Gesù.
Le persone pensano che tutto sia dovuto. Hanno pretese smisurate, esagerate, eccessive, nei confronti degli altri, e di se stessi: i privilegi non bastano mai. I nove lebbrosi hanno avuto anch’essi un dono grandissimo, ma non se ne sono accorti, non se ne sono resi conto; è stato come se non l'avessero avuta! E non sono tornati a ringraziare, a rendergli gloria: un’azione strettamente collegata all’accorgersi, all’essere consapevoli, al rendersi conto di ciò che succede, di ciò che capita, di ciò che avviene in loro e attorno a loro.
Il verbo “rendere gloria”, in greco, è strettamente collegato all’accorgersi,
L’uomo in questo è particolarmente distratto. È refrattario alla riconoscenza.
Così la nostra “eucarestia” (dal greco eÇcar°zw, ringraziare, rendere grazie) dovrebbe essere il modo migliore per “rendere grazie” a Dio, per ringraziarlo della sua costante presenza nella nostra vita.
Ma le nostre eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; rischiano di essere un precetto, un'osservanza; sono senza festa, senza vitalità, senza passione. Sono un'ordinaria amministrazione, un inno all'indifferenza: non “vediamo”, non ci rendiamo conto del passaggio di Dio, non sappiamo vedere cosa Egli fa per noi, non c'è sussulto nel nostro esserci.
L'egocentrismo delle persone si manifesta nella mancanza di gioia e di festa nella loro vita: non si accontentano mai, pensano di non ricevere mai abbastanza; sono sempre fissati su quel qualcosa che ancora non hanno. Dio, la società, gli altri, sono sempre colpevoli di non dar loro di più.
Il miracolo è invece rendersi conto, percepire che niente ci è dovuto, che niente è un diritto. “Ringraziare, grazia, gratitudine”, provengono infatti dalla stessa parola: “gratis”.
Tutto ciò che abbiamo e siamo, è gratis. Non ce lo meritiamo e non ci è dovuto: tutto è solo un dono. Apprezziamolo e ringraziamo Dio: ringraziamolo per i figli, non ci sono “dovuti”, sono un dono; ringraziamolo per l'amore, non ci è dovuto, ma è un dono; ringraziamolo per la vita, non ci è dovuta: è un dono. Godiamo di questi doni, godiamo di essere sue creature, frutto del suo amore: godiamo del sole che ci riscalda, della strada su cui camminiamo, degli uccelli che ogni mattina cantano, del respiro che pulsa e del cuore che batte in noi; godiamo perché siamo vivi, perché possiamo parlare, perché possiamo esprimerci, perché possiamo piangere. Ringraziamo Dio per gli amici, per le occasioni che abbiamo, per le possibilità di vita che ci ritroviamo. Tutto questo per noi è gratis. Ringraziamo Dio, perché nulla ci è dovuto. Ringraziamolo perché tutto ciò che avviene, tutto ciò che ci riguarda, è un dono miracoloso del Suo amore.
Chi non ringrazia, dimostra di non conoscere Dio. E non conoscendolo, si auto esclude dal rendergli lode. Al contrario “tornerà indietro” a ringraziare, a “bene-dire”, a  lodare Dio, colui che si rende conto di essere una insignificante particella di un immenso, meraviglioso mosaico; di appartenere cioè ad un mistero divino di amore incalcolabile, un mistero che lo trascende, che lo supera vorticosamente, nel quale si sente totalmente immerso.
Fare della nostra vita una lode perenne a Dio: è questo il senso della nostra vita. E ciò non significa esibire costantemente un sorriso beota stampato in faccia (oltretutto indice di grande falsità); ma significa dire sempre di sì a Dio; significa accoglierlo e dargli voce in tutti gli istanti della nostra vita. Una vita di lode è la vita di colui che non si sottrae alla Sua volontà; di colui che continua a “tornare” alla sua presenza; di colui che, dal suo profondo, gli innalza lode per tutto ciò che vive, in segno di umile ringraziamento. Perché egli ha veramente “visto”. Amen.
 

giovedì 3 ottobre 2013

6 Ottobre 2013 – XXVII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli apostoli pongono a Gesù una domanda: “Aumenta la nostra fede”... Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe»
(Lc 17,5-10).
Nel vangelo di oggi gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di crescere, di maturare, di capire; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già a un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non dice neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero fare, per raggiungere una maggior comprensione del suo annuncio; si limita semplicemente a indicare alcune possibilità estreme, realizzabili con una fede veramente autentica: un modo per metterli in condizione di fare da soli delle considerazioni, di fare un'autoverifica sulla portata e l’autenticità della loro fede: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile: salvo poi, una volta seminato e messo a dimora, crescere rapidamente a dismisura, per diventare, nell'arco di un solo anno, una pianta alta anche tre o quattro metri. Il gelso, invece, è un albero secolare, che può vivere anche seicento anni; ha radici molto profonde, che si abbarbicano tenacemente nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si radichi addirittura nel mare, beh non solo è difficile, ma sicuramente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta una fede minima,  purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile.
In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
Nel vangelo troviamo molti riferimenti sulle possibilità della fede: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a misurare la qualità della nostra fede, se abbiamo veramente fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: basta guardare a come reagiamo di fronte agli ostacoli che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Se abbiamo anche un briciolo di fede vera (il granello di senapa!) riusciamo a fare miracoli, anche enormi.
Dobbiamo spostare il “gelso”, l’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Il primo impatto ovvio è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai! È troppo grande”. Ma il gelso, in fin dei conti, altro non è che la nostra paura di cambiare, la paura dell’ignoto, del non sapere cosa ci accadrà poi; il timore di non essere all’altezza, di non avere le forze per reggere; la paura di guardarci dentro; la paura di affrontare quelli che temiamo, quelli che consideriamo superiori; la paura che ci fa mendicare amore per non rimanere soli; la paura di diventare impopolari, di essere derisi per aver fallito il nostro inserimento nella società,; la paura di una malattia improvvisa  e mortale...
Ma niente è impossibile, niente insuperabile, niente insopportabile: basta solo un po' di fede. Dobbiamo solo iniziare, darci da fare, metterci in movimento: e poi scopriremo che il nostro iniziale barlume di fede diventerà ben presto enorme (il piccolo seme che diventa un albero rigoglioso) e compirà l'impossibile.
Quante volte ci lamentiamo anche noi con Gesù: “Ho poca fede! Così non ce la faccio, non ci riuscirò mai, aumenta Tu la mia fede!”. E quante volte Lo abbiamo puntualmente sentito nel nostro cuore rassicurarci: “Lo so che ne hai poca, è normale. Fidati di quel poco che hai! Fallo crescere! Nutri quel poco che c'è in te... e vedrai!”.
Aver fede non vuol dire pregare: la fede non sono le “nostre” preghiere. La fede è fiducia, convinzione, certezza, percezione interna di essere amati, di essere degni d'amore, di essere protetti e di avere la forza per affrontare ciò che abbiamo davanti. La fede non è quello che sappiamo ma quello che viviamo, che abbiamo dentro; è il sentimento, la forza, l'energia. Religione e Fede sono due cose completamente diverse: religione è quello che facciamo, l’insieme delle nostre pratiche; la fede invece è la vitalità, l'energia, la passione che mettiamo nel farle. Esattamente come nella vita normale: la religione è il comportamento esteriore, sono i regali, le attenzioni per la persona amata, la cortesia, la galanteria: i fiori, un anello, un invito a cena. La fede è invece l’amore, la forza del sentimento che percepiamo dentro di noi, la passione che nutriamo per lei, il desiderio che ci brucia nel cuore. Tutto chiaro?
Quindi: da come reagiamo di fronte alle piccole cose, come pure davanti alle difficoltà, agli imprevisti, agli ostacoli della vita, possiamo misurare la nostra fede, la nostra fiducia in Dio. Certo, la fede non elimina materialmente i problemi e le difficoltà: ci dà però sicuramente la pace e la serenità per poterli affrontare. L'uomo di fede vive con una fiducia profonda: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. In questo modo affronta ogni cosa con una tale energia da riuscire a piegare veramente gli eventi e le situazioni a suo favore.
Il “gelso” però, oltre che le difficoltà materiali, rappresenta anche i nostri schemi mentali malsani, le nostre abitudini distorte, le nostre convinzioni egoistiche; i nostri schemi ci danno sicurezza, sono conosciuti, ci fanno agire in maniera automatica, senza fatica; anche se spesso sono inutili, inconcludenti. Aver fede, in tal caso, vuol dire: “Riconosco i miei automatismi, che mi fanno vivere come un robot, e li rompo”. Spacco, spezzo, cambio le dinamiche automatiche che vivo senza neppure sapere di averle. Mi credo libero e invece sono un manichino che reagisce in maniera predeterminata. Più vivo di automatismi, di pensieri fatti, di idee degli altri, di frasi ricorrenti e preconfezionate, di ciò che fanno e pensano gli altri, più mi immedesimo negli altri, uniformato, adeguato, adattato al sistema; e più sono condizionato, meno padrone di me stesso, meno libero.
Fede, fiducia, vuol dire che le cose si possono fare in maniera diversa. Fede, fiducia, vuol dire che ciò che sembra impossibile si può affrontare.
Attenzione però, perché c’è anche il rovescio di questa medaglia: ed è la “fissazione”, l’esatto contrario di “fede e fiducia”. “Fissazione” è quando, di fronte al mutarsi di una idea, di una situazione, di un comportamento, noi reagiamo sempre allo stesso modo: ci siamo “fissati”, fermati, e non c'è verso di cambiare prospettiva, posizione. “Fissazione” è quando noi stessi siamo il “gelso”, ostinati sulle nostre posizioni, cocciuti e testardi; per paura di cambiare (abbiamo fatto sempre così!), e di ciò che comporta, ci ostiniamo a percorrere la solita strada, quella conosciuta e più facile, anche se senza uscita.
La nostra società è piena di fissazioni. Persone che, quando hanno deciso una cosa, rimane quella per tutta la vita, anche se continuano a sbatterci contro. La fissazione impedisce di crescere in quanto esclude ogni possibilità di trovare strade alternative, più consone alla situazione. Molte persone, in questo modo, si sono create una loro personale realtà. Un'idea sull'amore? l'amore è così. Un'idea su Dio? Dio è così. Un'idea sulla politica? la politica è così. “Questa cosa si fa così e basta”; “quella persona, per quanto possa fare, sarà sempre così, non cambierà mai!” (è una sentenza di morte!).
La fede, al contrario, è innanzitutto elasticità; è non rimanere ancorati, fissati, sclerotizzati nelle rispettive posizioni, idee, schemi. Fede è poter cambiare, poter divenire. Fede è dare nuove possibilità alle persone, è credere nel Dio che le abita. Fede è donare fiducia.
E concludo: abbiamo fede, abbandoniamoci nelle braccia di Dio; ma questa volta facciamolo sul serio, non come siamo soliti fare, per finta, a parole.
Purtroppo abbiamo la brutta abitudine di ricordarci di Dio soltanto quando stiamo con l'acqua alla gola, quando ci accorgiamo di non farcela più; e mettiamo Dio alla prova. Gli diciamo che ci fidiamo di Lui, ma lo facciamo solo apparentemente; sappiamo solo parlare e straparlare, ma non abbiamo la fede e il coraggio di camminare sulle acque, di staccarci dalla riva, andare al largo e raggiungerlo. Eppure Lui ci ascolta sempre, e spesso lo fa anche in maniera così totale e clamorosa da spiazzarci completamente, mettendoci in condizione di dovergli dare delle risposte finalmente coerenti.
A volte la nostra vita è irrequieta, piena di dubbi, di ansie: ma ci guardiamo bene dal ricorrere a Lui con fede, per paura di dover poi cambiare; Lo invochiamo, ma non gli lasciamo nessuna possibilità di agire e di salvarci; lo invochiamo, è vero, ma pretendiamo anche di spiegargli cosa deve fare.
Allora, vogliamo essere veramente suoi discepoli? Mettiamo la nostra vita e la nostra volontà nelle sue mani: ma per davvero, sul serio! Pregando con fede e come si deve.
A questo proposito un prete, in modo scherzoso (ma non troppo), metteva in guardia i suoi parrocchiani: “Non affliggete troppo Dio con le vostre continue lamentele, con le vostre continue preghiere di insoddisfatti cronici; ricordate che l’unico, serio rischio, delle vostre preghiere è che Dio le ascolti; e così l’unica cosa che vi rimane poi da fare, è diventare santi sul serio, con i fatti, non a chiacchiere!”.
Un’ultima provocazione per concludere: non dimentichiamoci mai che, nonostante tutto quello che facciamo, siamo sempre “servi inutili”. In ogni caso. Evitiamo allora di armarci di quel sacro “zelo” così fuori luogo; non imbarchiamoci in “sante crociate”, per le quali siamo completamente inadeguati. Impariamo invece a stare umilmente al nostro posto. Quello che Gesù vuole da noi è che viviamo da uomini di grande fede, che andiamo avanti per la nostra strada con un cuore umile e caritatevole, stracolmo di pace, completamente aperto all’accoglienza dei nostri fratelli. Con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Accantoniamo quindi definitivamente le nostre arie di superiorità, sempre inopportune e commiserevoli, e lasciamo fare a Dio il suo mestiere. Anche perché, detto tra noi, non abbiamo assolutamente nulla da insegnargli. Amen.
 

giovedì 26 settembre 2013

29 Settembre 2013 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe…» (Lc 16,19-31)
Ad un primo veloce approccio col Vangelo di oggi, si potrebbe concludere che i ricchi vanno all'inferno e i poveri in paradiso. Quindi, visto così, sarebbe un invito per i poveri a sopportare con pazienza le miserie di questa vita, in vista di una ricompensa lassù: fermo restando che quaggiù i poveri rimarrebbero sempre poveri e i ricchi sempre ricchi.
Il senso della parabola però è molto più profondo e indica in realtà quello che ci accadrà se continueremo a vivere disinteressandoci degli altri, del bisognoso che bussa alla nostra porta, mentre noi facciamo finta di non vedere quello che ci succede intorno, quello che, per qualche tornaconto, non vogliamo vedere e che invece dovremmo vedere.
Nel vangelo ci vengono proposti due personaggi, il ricco e il povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso (segno di grande agiatezza e di alta posizione sociale), una casa, cibo a volontà, che gli consente ogni giorno di mangiare lautamente e abbondantemente; ha “fratelli”, cioè relazioni, amici, amore; ha una sepoltura (cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo). Il ricco insomma ha tutto, non gli manca niente. L'unica cosa che non ha è un nome.
Poi c'è Lazzaro. Lazzaro non ha proprio nulla. Non ha casa, non ha cibo né amici (è solo con i cani!) e non ha nemmeno sepoltura. Lazzaro è indifeso, è mendicante, bisognoso, malato, ricoperto di piaghe, affamato e solo. L'unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro, che vuol dire “Dio aiuta”.
Ebbene: per la Bibbia avere un nome è fondamentale, perché il nome identifica una persona, è la persona stessa. Conoscere il proprio nome significa conoscersi, avere un'identità, una strada da percorrere, qualcosa da realizzare, essere vivi. Lazzaro, “Dio aiuta”, è il povero; il suo nome è la sua vita: ha bisogno di Dio, ha bisogno che qualcuno lo aiuti, che Dio si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione.
Il ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome. Il ricco non ha nome perché è incosciente, non si conosce, vive nella superficialità, si disinteressa completamente di ciò che succede alle porte di casa sua, e per questo non ha alcun potere sulla sua stessa vita.
Il ricco non si accorge di Lazzaro: non lo vede neppure; ma come avrà fatto a non vederlo? Era lì... alle porte di casa sua... tutti i giorni a mendicare: chiedeva aiuto e urlava il suo disagio.
Questo è il grave problema del ricco, questa è la sua condanna: il non accorgersi. E una stessa condanna sarà riservata anche a noi, ci dice il vangelo, se vivremo non accorgendoci dei Lazzaro nostri fratelli, ma soprattutto del Lazzaro che è in noi: non accorgendoci, cioè, del bisogno, del disagio della nostra anima, della nostra coscienza che urla, che strepita, che vuole la nostra attenzione, e che noi lasciamo fuori, alle porte della nostra casa.
L'inferno e il paradiso sono nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra Lazzaro o se lasciarlo fuori.
L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi: se facciamo i “ricchi”, se sfarfalliamo, se chiacchieriamo a vuoto, se non ci poniamo mai domande serie da scuoterci l’anima, se non affrontiamo mai questioni vitali, profonde; se ci guardiamo bene dallo scavare dentro di noi, se evitiamo insomma le difficoltà, i problemi, se evitiamo il bene perché è scomodo e ci dà fastidio, se in una parola non ascoltiamo la voce della nostra coscienza, finiremo sicuramente all'inferno, alla perdita dell’amore eterno.
Dobbiamo pertanto convertirci: la conversione è il passaggio che facciamo dall’inferno al paradiso, è il momento stesso in cui smettiamo di lusingarci da “ricchi”, e accettiamo, pur con dolore ma con un senso di liberazione e sollievo, che siamo tanti Lazzaro. È in quell'istante infatti che potremo sperimentare con mano che veramente “Dio salva”.
Noi siamo i Lazzaro: siamo i soli, gli indigenti, i pieni di miserie. Siamo i soli, perché in casa nostra non abbiamo proprio nessuno.
È triste ammetterlo, ma quante volte nella vita, siamo stati Lazzaro: quante volte ci siamo trovati anche noi a dover “mendicare” amore, affetto, comprensione, e non è arrivato nulla!
Fa male aver bisogno di amore; fa tanto male dover chiedere amore, riconoscere che ne abbiamo bisogno. Fa male tendere la mano per ricevere, dover mettere a nudo la nostra anima per poter essere nuovamente accettati, perché qualcuno possa farci entrare nella sua “casa”: abbiamo il terrore di venire nuovamente feriti. Siamo deboli e vulnerabili, anche se ostentiamo sicurezza e presunzione. Del resto non è facile accettare di essere Lazzaro: di dover mendicare amicizia, calore umano, di doverci accontentare di briciole d’amore, convinti che in fondo “qualcosa” è sempre meglio di niente! In certi momenti siamo addirittura pronti a scendere a dei compromessi con noi stessi, a permettere agli altri di fare di noi quello che vogliono, pur di avere in cambio un riconoscimento, calore, comprensione, sostegno.
Non ci piace vederci come Lazzaro che, solo e abbandonato, bussa ad una porta a cui nessuno apre, un Lazzaro che nessuno vede né sente; essere Lazzaro ci fa vergognare, ci fa soffrire.
Ma è molto peggio essere i “ricchi”, perché significa trasformare la nostra vita fin da ora in un inferno. Si, perché l'inferno è solitudine; inferno è chiudere per sempre la porta di casa nostra, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L'inferno è “chiusura”: è impedire a Dio di entrare con la sua luce, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono e misericordia là dove c'è tormento, solitudine e sofferenza.
L'inferno o il paradiso è quindi nelle nostre mani.
Tocca a noi decidere pertanto se ospitare in casa nostra gli altri Lazzaro, quelli che ci sono vicini, o se lasciarli fuori: dei Lazzaro che urlano, ma che noi non sentiamo. Ma se ci stanno urlando perché stanno male, guardiamoli una buona volta, e accogliamoli! Se ci stanno urlando silenziosamente la loro paura, le loro angosce, accorgiamoci delle loro urla silenziose, accogliamoli e ascoltiamoli. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito, il nostro partner, i nostri confratelli, i nostri amici, hanno bisogno del nostro amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che i nostri figli, i nostri nipoti, hanno bisogno di noi, del nostro incoraggiamento, del nostro apprezzamento? Non vediamo che i nostri fratelli soffrono, che hanno la tristezza e il pianto negli occhi? Non vediamo, non sentiamo l'angoscia di chi ci vive a fianco? Non vediamo i dolori e i pesi che si tengono dentro? Eppure questi Lazzaro ci sono così vicini, fuori della nostra porta: ma noi siamo occupati nelle nostre cose, occupati nei nostri affari, nel “giardino” della nostra casa, e non diamo loro ascolto.
Nella seconda parte del vangelo c'è poi la preghiera del ricco che vorrebbe andare dai suoi fratelli perché non facciano la sua stessa fine. Ma – interviene Abramo – ciò non è possibile. Del resto, se uno ha il cuore indurito, neppure davanti a Cristo in persona crederebbe.
I segni ci sono: chi vuol vedere vede, chi non vuol vedere non vedrà mai. Molte persone vivono una vita da sordi, non hanno orecchie per ascoltare, vivono senza udire le voci degli uomini di Dio che li ri-chiamano. Molte persone hanno vicino “Mosè e i Profeti”, hanno profeti e persone, possibilità ed esperienze per poter sentire e crescere, occasioni che ricordano loro di prendersi cura di Lazzaro, della loro anima, del loro mondo interiore, di chi soffre vicino a loro, di coltivare la propria sensibilità. Non sono i miracoli che salvano, è la fede. Esseri vivi e svegli al mattino è davvero un miracolo; i computer più sofisticati fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della vita: ma tutto questo neppure ci sfiora. Siamo immersi in un continuo miracolo che si chiama vita, ma tutto questo non ci stupisce né ci commuove. E chi non vuol credere, non crederà neppure se i morti resuscitano.
Noi siamo esseri di luce e di ombra. Siamo contemporaneamente l'uomo ricco e anche Lazzaro; siamo ciò che ci piace, ma siamo soprattutto ciò che rifiutiamo, che non vogliamo accettare e accogliere nella nostra vita, che è doloroso, insostenibile; siamo esseri divini, ma anche terribilmente umani. E se ci nascondiamo una cosa, non vuol dire che non ci appartenga.
Il grande compito della nostra vita è portare luce dove c'è buio. Ma chi vuole aver a che fare col buio? Nessuno. Perché il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa terribilmente paura. Chi vuole entrare con la propria flebile luce in certi inferni della vita? Ovvio, nessuno. L'ignoranza è l'illusione di credere che certe cose non esistono solo perché non le vediamo. Eppure è proprio questo che la vita ci chiama a fare. Entrare negli altri con la luce di Dio, della coscienza, della consapevolezza, con la fiducia e con la forza del Padre, per portare luce e liberazione negli inferni delle anime. L'inferno è tale perché è buio; ma se c'è una luce, per quanto debole sia, anche il buio più pesto può diventare abitabile.
Noi siamo figli della luce, noi siamo figli di Dio: non dimentichiamolo.
Il diavolo, il male, ama il buio, il sotterfugio, il nascondimento, l'anonimato, la notte, l'oscurità. L'ignoranza è il peccato più grave: vuol dire lasciare nel buio, nell'anonimato, nel nascondimento, ciò che chiede di essere portato alla luce. Anche il ricco ignorava Lazzaro, ed è per questo che ha creato il suo inferno. Il buio è ciò che non sappiamo, ciò che ci spaventa, ciò che evitiamo. Vera spiritualità è portare luce nelle tenebre della nostra vita; è portare consapevolezza nell'ignoranza della nostra esistenza; è vedere tutto ciò che è Lazzaro.
Per chi vive al buio, per i figli delle tenebre non c'è possibilità di salvezza; solo i figli della luce, solo chi avrà la fiducia di non nascondersi nulla e di far entrare la luce di Dio nella propria vita potrà salvarsi e potrà vivere.
C'è una storiella: è sera e un uomo sta cercando in casa sua qualcosa. Arriva un amico e gli chiede: “Cosa cerchi?” “Cerco le chiavi dell'auto”. Allora anche l'amico si mette ad aiutarlo ed entrambi cercano per un bel po' in quella camera. Ad un certo punto l’amico gli chiede: “ Ma dove di preciso le hai perse?”. “Le ho perse in cantina”. “Ma diamine, perché cerchiamo qui allora?”. “Perché qui c'è più luce!”.
Si potrebbe anche ridere, se non fosse che questa storiella ci propone una grande realtà.
Noi tutti preferiamo muoverci dove c’è luce, sicurezza, serenità: preferiamo non lasciarci coinvolgere dal buio, dalle difficoltà della vita presente, dalle necessità del prossimo. Ma come pensiamo di raggiungere la luce, la felicità, l’amore eterno di Dio, se ignoriamo il richiamo del nostro fratello Lazzaro, e lo lasciamo morire davanti alla nostra porta? Noi abbiamo il terrore della cecità degli occhi: ma per quella del cuore nessun timore ci sfiora. Pensiamoci. Amen.
 

giovedì 19 settembre 2013

22 Settembre 2013 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua» (Lc 16,1-13).
Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza non poco e suscita in noi un notevole disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Non dice: “Ha fatto bene a fare così” e quindi: “Se ti è possibile fai anche tu altrettanto!”. Gesù, al contrario, di quel contabile disonesto si limita a lodare solo la capacità di reagire ad una situazione compromessa: il darsi da fare cioè di uno che non si rassegna, che non si butta giù, che non “piange a vuoto”, ma che trova a tutti i costi la soluzione definitiva ad un problema apparentemente irrisolvibile.
Dove infatti il testo dice: «Il padrone lodò l'amministratore disonesto», appare evidente che si tratta di una traduzione non proprio corretta: è impensabile infatti che un padrone, per quanto bravo e santo sia, accortosi di essere stato derubato dal suo amministratore, gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio bene! Hai tutta la mia stima!”.
Per capire il vero senso del testo, era sufficiente tradurre il termine greco “κυριος” del versetto 8, invece che con “padrone”, con “Signore” (è infatti “κυριος” l’appellativo più ricorrente per indicare Gesù: Luca lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventerebbe immediatamente comprensibile: “Il κυριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore”. Non è il padrone, dunque, ma è Gesù che loda l’uomo, è Gesù che sottolinea, come esempio da seguire, non ciò che lui fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In pillole insomma Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone “dormienti”, imbambolate, inconcludenti, persone cui sta bene tutto, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, uno che ha saputo valutare molto bene le sue reali possibilità”. In questo modo lo schema da seguire, così come ci viene indicato, è molto semplice: ci accorgiamo che in una certa situazione non possiamo più “lavorare”? Che quella strada che avevamo imboccato non è più praticabile? Basta, inutile tergiversare: dobbiamo immediatamente trovarne un’altra, dobbiamo agire in un altro modo, con un'altra logica; dobbiamo fare scelte mirate, più creative, concrete; in una parola dobbiamo correre subito ai ripari, inventarci un rimedio veloce ed efficace.
Quando una cosa non funziona più, è inutile insistere, lottare, illudersi che possa cambiare. Quando una cosa non funziona più, dobbiamo semplicemente cambiarla.
L’area di applicazione più ovvia di questi insegnamenti, è quella del nostro comportamento di fronte alla colpa. Abbiamo sbagliato, ci siamo comportati egoisticamente, abbiamo calpestato i nostri principi, abbiamo tradito noi stessi, la fiducia e i diritti degli altri? Se siamo già caduti così in basso, inutile recriminare, inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima. Seguitare a rimuginare sul male fatto, su cosa avremmo dovuto fare e non l’abbiamo fatto, su come avremmo dovuto farlo, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, troppo sicuri di noi, parecchio stupidi ed egoisti; ma a questo punto vogliamo forse morire? A che serve farla finita, morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolviamo? Ciò che è stato è stato. Ma se il passato non si può cambiare, siamo noi però che possiamo cambiare: siamo noi che dobbiamo imparare a non ripetere il male; a chiedere perdono a Dio e al prossimo, a riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo noi, insomma, che ci dobbiamo correggere, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
Nel vangelo è dunque la risolutezza dell'amministratore che viene lodata: non si lascia annientare dal fatto di essere colpevole di frode; non si arrende. Quante persone invece dopo un errore, dopo una colpa, anche se non grave, si lasciano andare completamente, non reagiscono, non alzano un dito per tornare come prima.
Invece, abbiamo rubato? Abbiamo tradito il partner? Abbiamo completamente sbagliato nell’educare i figli, ecc.?; certo sono fatti oggettivamente gravi, concreti. Ma non perdiamo tempo: prendiamo immediatamente in mano la situazione, rialziamoci e corriamo dal medico per le cure del caso. È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. Qualunque cosa facciamo, dobbiamo perdonarci. E perdonarci, significa riconoscere il mal fatto, provarne un sincero dispiacere; non tanto in noi stessi, per conto nostro, nella nostra testa, ma di fronte a “qualcuno” che può a sua volta perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci, e torniamo a vivere nuovamente liberi, a testa alta.
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto l’amministratore infedele; finora egli aveva “sfruttato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora invece si accorge che quelli con cui trattava, non sono oggetti, sono degli uomini, delle persone. E come mai se ne accorge? Perché anche lui ora si trova nella stessa loro condizione. Anche lui adesso è un “debitore” del padrone, esattamente come loro. Anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè è caduto in basso, quando è costretto a vivere le stesse esperienze negative dei miseri, a dover affrontare le loro stesse situazioni compromesse, le stesse colpe - che nasce in lui la misericordia. L’uomo perfetto, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non conosce la misericordia, non sa cosa sia, non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui non è un debole e non conosce alcuna caduta. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla sua pelle cosa voglia dire sbagliare, sentirsi uno schifo, sentirsi indegni, colpevoli, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi non sbaglia mai, non può che giudicare gli altri con disprezzo. Chi non sbaglia mai non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
Tutti in genere riconosciamo apertamente di sbagliare, di essere peccatori: ma la maggior parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere quelli che facciamo; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere i critici più spietati con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire: prima, egli spendeva tutte le sue energie per defraudare i “debitori”; dopo, le sfrutta tutte per aiutarli. E ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui non ha colpe nascoste, non ha lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di niente, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È poi molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti ad ogni valore morale irrinunciabile, a Dio e alla famiglia…
Pertanto se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci! Ci sentiamo in colpa perché abbiamo un carattere difficile, perché non riusciamo a dominare i nostri istinti, i nostri scatti d’ira, perché ripetiamo all’infinito i soliti errori? perdoniamoci! Solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati: perché solo in questo modo, potremo nuovamente trasfigurarci nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.
 

giovedì 12 settembre 2013

15 Settembre 2013 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze…»
(Lc 15,1-32).
Questo brano del vangelo ha molte chiavi di lettura: è la storia di Dio Padre che aspetta il ritorno a casa di ogni figlio smarrito, e lo accoglie sempre a braccia aperte. È la storia di quei giovani in procinto di affacciarsi nel mondo: per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria collocazione nella società, devono prima “uscire” da una mentalità ristretta, chiusa, infantile. È la storia di ogni uomo, di tutti noi, che a volte possediamo le cose ma non ce ne rendiamo conto; da qui la necessità di capire, di apprezzare e riconoscere quello che già possediamo: ci sono differenze infatti che non potremo mai cogliere stando rintanati in noi stessi, ma solo “uscendo” da noi, vivendo, magari sbagliando, ma provando e riprovando. È la storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita; ma anche di come non sia mai troppo tardi per rimediarvi: possiamo finire con i porci, condurre una vita depravata, razzolare tra i rifiuti, ma abbiamo sempre la possibilità di redimerci, di recuperare la nostra vita e soprattutto riacquistare la nostra dignità. È la storia dell'amore che rimane, che vince su tutto: è la storia di quel padre che, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto ricevuto dal figlio, al di là di tutto, continua a rimanere un padre affettuoso, un padre innamorato del figlio. È la storia di chi ha paura di crescere, di cambiare: di chi se ne sta chiuso in se stesso, con le sue solite idee, con il suo solito lavoro, nel suo solito mondo, e muore: muore perché la sua non è vita, vivere non è questo: non è vita quella del figlio maggiore che dichiara un depravato, un morto, suo fratello, e non si accorge che sta parlando di sé; è lui che è un morto in casa, è lui che è corroso e paralizzato dalla paura; e cosa fa? Giudica! Giudica il fratello perché non riesce a vivere come lui, e ciò lo infastidisce profondamente. Il giudizio è sempre la voce della morte: attacchiamo l’altro, perché noi non siamo in grado di imitarlo e vivere la vita come fa lui.
Ecco, queste sono alcune possibili chiavi di lettura di questo vangelo. Più in generale esso ci propone la storia dell’uomo, l’evolversi della vita: ci descrive, ci mostra con mano, come le nostre relazioni interpersonali, durante l’esistenza, siano destinate a cambiare.
Guardiamo meglio cosa succede. C'è un padre con due figli, e quindi, essendo in tre, ci vengono descritte tre relazioni: quella tra il padre e il figlio minore; quella tra il padre e il maggiore, e infine quella tra i due fratelli, il minore e il maggiore.
Per entrambi i figli il padre è colui “che dà”. Il figlio minore gli dice infatti: «Dammi la parte di eredità che mi spetta». Quel “dammi” rivela chiaramente come lui consideri suo padre: suo padre è colui che gli deve “dare”. Anche il figlio maggiore la vede in questo modo, e gli rimprovera: «Tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con gli amici».
Tutti i figli, in fondo, vedono il padre e la madre in questo modo: come coloro cioè che devono “dare” sempre: il cibo, i vestiti, la casa, i soldi per i libri, per mangiare la pizza con gli amici, per uscire e divertirsi. Del resto, guai se non facessero così: guai se i genitori non assicurassero ai loro figli sostentamento e nutrimento: è la loro stessa funzione naturale quella di “dare”, fin dai primi anni di vita: sono lì esattamente per quello.
E la relazione tra i due fratelli? Non si rivolgono mai la parola. Non si diranno mai niente: i due fratelli non s'incontreranno mai! Perché? Semplice: non “vogliono” incontrarsi; entrambi sono in conflitto per il padre, un conflitto che però li divide: vince il maggiore (il prescelto), perde il minore che se ne deve andare.
Si capisce allora perché egli si rivolga al padre in maniera così dura e perentoria: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Non a caso si rivolge così; non perché abbia un caratteraccio, non perché sia un depravato. Si rivolge così perché il padre ha scelto il maggiore (com'era normale e ovvio a quel tempo e, per certi aspetti, in ogni tempo) e lui si sente rifiutato. Non è il preferito; il padre ha scelto l'altro: e non essere scelti, non essere i primi, fa sempre molto male!
Tra i due fratelli c'è relazione, ma è una relazione di odio, di competizione, di conflitto. Non si dicono niente ma si odiano “a sangue”: e risulta particolarmente evidente quando il maggiore, rivolgendosi al padre, allude al fratello chiamandolo “questo tuo figlio”: non lo vuol riconoscere come fratello, per lui è soltanto un estraneo, uno che ha divorato i “tuoi averi con le prostitute”, uno che merita solo odio e disprezzo. Egli si sente più forte: è l'erede legittimo, e si sente quindi personalmente “defraudato”.
Il minore invece, geloso del legame speciale esistente tra il fratello e suo padre, si sente in netto svantaggio, e non può fare altro che andarsene. Anche se la differenza che lamenta in fondo rientra nella normalità. Da che mondo è mondo, infatti, i genitori non hanno mai trattato due fratelli esattamente allo stesso modo; mai, in nessuna epoca, i figli hanno avuto da loro un trattamento assolutamente paritario. Quando diciamo che i figli sono per noi tutti uguali, ci illudiamo, facciamo solo della teoria. Non è così. Pensiamoci un attimo: il primogenito, essendo il primo figlio, quello “atteso”, quello “desiderato”, quello “cercato” e “voluto”, ha dai genitori un amore e una sollecitudine del tutto particolare. Li ha tutti per lui. Il secondo non sarà mai come il “primo”, perché non sarà più una novità, non procurerà più lo stesso impatto emotivo, non richiederà lo stesso investimento di energie, né la stessa pianificazione del primo. Il primo, poi, rispetto al secondo, è sempre “più avanti” nella scala delle attese dei genitori: arriva prima a correre, a scrivere, a leggere, a fare le cose; gode di maggior fiducia da parte della mamma, che lo ritiene più bravo e responsabile, e gli da qualche piccolo incarico, a volte anche di badare al fratello minore.
È ovvio quindi che, agli occhi di quest’ultimo, sia lui il più bravo, lui il più affidabile, e quindi anche, sia lui il preferito; è tutto ovvio e naturale. Ma vedere uno che è sempre e comunque “più” di noi, essere costretti a dover lottare continuamente per dimostrare che noi valiamo di più, sappiamo “di più”, possiamo fare “di più”, beh, a lungo andare, distrugge anche i più forti.
Ebbene: quello che il vangelo riporta è nient'altro che questo: il maggiore sa di essere il primo, e il minore sa di essere il secondo.
Questa perlomeno era la situazione iniziale, ma poi c'è stato un distacco, una lontananza. C’è stato un viaggio salutare, che ha ridimensionato le cose: il minore si è staccato dal padre, cioè dall’immagine di colui che deve solo “cedere” il suo patrimonio, ed ha intrapreso quel lungo viaggio che l’avrebbe riportato dentro di sé, sui suoi passi, sulle sue valutazioni (rientrò in se stesso). Anche il padre ha dovuto fare un viaggio analogo, anche lui ha dovuto superare una immagine distorta, rancorosa: quella di avere un figlio ingrato, ribelle, egoista, che dopo aver ricevuto i soldi, invece di ringraziare, di dimostrargli riconoscenza e amore, fa perdere le sue tracce; è cambiato al punto che lo troviamo in ansia, fuori di casa, mentre attende angosciato il suo ritorno.
L’unico che non ha fatto nessun viaggio è il figlio maggiore. Per lui suo padre è rimasto “quello che dà”, e suo fratello continua ad essere per lui “quello inferiore”, il depravato, il “porco”, quello che ha dissipato tutto con le prostitute. Egli è spinto da invidia e da livore: non tollera che suo fratello, il “minore”, quello che è sempre stato meno di lui, sia accolto in casa dal padre con una dignità e con onori tali che neppure a lui, il fedele, gli erano mai stati riconosciuti: per questo reagisce distruggendo il fratello, distruggendo la sua immagine, infangandola, screditandola. Questo palese affronto alla sua superiorità, al suo primato indiscusso, scatena in lui collera, rabbia, rancore. Il suo vero problema è appunto non essersi mai mosso da casa; non essere uscito da se stesso, non aver fatto alcun “viaggio” purificatore. Quante persone, rimaste sempre ferme, tappate “in casa”, rivelano per questo tutti i loro limiti, la loro chiusura mentale, le loro solite quattro idee, il solito modo di pensare, le stesse cose e le stesse tradizioni di sempre. Per conoscere, per imparare, per cambiare, bisogna uscire dal nostro microcosmo chiuso e limitato, bisogna mettersi in discussione; uscire è scoprire immagini nuove, nuove cose incredibili; uscire è rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi della nostra piccola e sclerotizzata testa. Ma uscire fa paura, è pericoloso, ci mette in balia di forze avverse: non è forse meglio rimanere in casa, al sicuro, soli e protetti dalle nostre personali certezze?
In questo modo il minore, uscendo, rischiando, è cresciuto, è diventato uomo, ha trovato la sua vita vera; il maggiore invece, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi, è diventato un uomo morto.
Al ritorno del minore, dunque, sia lui che il padre sono completamente diversi: il padre non è più “colui che dà” e lui non è più “colui che prende”, ma uno che a sua volta “dà”.
E questo figlio, coperto di stracci, senza più nulla, ma vinto dal dolore e dal rimorso, cosa può dare ora al padre? Gli dà la gioia di esprimere la sua nuova vera paternità: gli conferma cioè che essere padre non è più questione di soldi (patrimonio), ma di amore, di affetto, di presenza (paternità). Il viaggio che lo ha portato dal “patrimonio” (ti do le mie cose) alla “paternità” (ti do l'amore), è stato determinante: essere padri non è dare cose, posizioni, uno status sociale; paternità è dare qualcosa di sé, è poter essere una casa che rimane aperta ogni volta che i figli vorranno tornare: e il “far festa con il vitello grasso”, altro non è che una espressione di questo nuovo amore.
Sullo sfondo, invece, il figlio maggiore sarà ancora lì, a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e soldi scialacquati: non ha capito la loro trasformazione; lui non è ancora “passato”, non ha fatto ancora nessun viaggio, per lui l’immagine del padre è sempre la stessa, quella di prima: e per questo si sente rifiutato. Improvvisamente percepisce che il padre è radicalmente cambiato (“ama mio fratello quanto me”), non accetta questo cambiamento, si scontra con questa novità (“io non sono più il suo preferito”). E sempre per questo lo rifiuta e lo attacca. Non ha capito che i rapporti nella vita devono cambiare; se non cambiano muoiono o finiscono (che è la stessa cosa).
Le relazioni non finiscono perché viene meno l'amore. Le relazioni finiscono perché noi non vogliamo cambiare, ci irrigidiamo sulle nostre posizioni, ci ostiniamo a rimanere fermi, ci opponiamo con tutte le forze a far “evolvere” il nostro rapporto, farlo crescere, renderlo adulto.
Ma questo, lo ripeto, non è vivere.
Le scelte che la vita ci propone sono pertanto due: o uscire dalle nostre certezze, rischiare di perderci, ma vivere poi nella felicità; oppure non muoverci, non cambiare, fare cioè come il figlio maggiore, che dall’alto del suo legalismo statico giudica e disprezza tutti, ma è infelice. A noi la scelta dunque, ben sapendo che la nostra vita sarà condizionata da ciò che scegliamo. Amen.
 

venerdì 6 settembre 2013

8 Settembre 2013 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-33).
Di fronte alla grande folla che lo segue, Gesù se ne esce anche questa volta con delle parole molto dure. Per lo meno sembrano dure a noi che siamo abituati a fermarci in superficie, senza curarci di approfondire, di capire in tutte le sue sfumature il senso autentico dei suoi discorsi.
Gesù dunque sembra freddare, scoraggiare la folla che lo segue. Ora, se ad una importante manifestazione si verifica una folta partecipazione di pubblico, è umano, naturale, che chi l’ha organizzata provi grande soddisfazione; infatti, il massimo per chiunque abbia un messaggio da trasmettere, è sicuramente la presenza di una folla che gli dimostra curiosità, interesse, ammirazione.
Gesù però non la pensa in questo modo: la gente con cui ha a che fare, è eterogenea, spesso distratta, un po’ chiassosa; una folla che lo segue non perché attratta dal suo messaggio “rivoluzionario”, ma per emulazione, per fanatismo, per curiosità; tanto per fare qualcosa di nuovo, perché tutti fanno così.
Egli non ama le folle sterminate di questo tipo: Egli preferisce al suo seguito magari poca gente, ma che sia convinta, motivata, che sappia quello che fa e quello che vuole; gente che per seguirlo sia pronta a rinunciare anche agli affetti più cari: «Chi non odia il padre, la madre, il figlio, le sorelle non può essere mio discepolo».
Un messaggio forte e chiaro: anche se in cuor nostro pensiamo che qui Gesù sia andato un po’ oltre, che ci chieda veramente l’impossibile. Non ci aveva sempre detto il contrario? Come possiamo “odiare” le persone più care al mondo?
Le parole di Gesù, però, vanno oltre il loro significato immediato: Egli vuole dirci che nella vita esistono due tipi di amore: uno buono, da coltivare, e uno cattivo da evitare; un amore che ci rende liberi e un amore che ci rende schiavi. C'è un amore che ci affranca, che ci redime, un amore che ci ridona a noi stessi, alla nostra esistenza; e c’è un amore al contrario che ci ingabbia, ci tarpa le ali, ci mortifica, ci imprigiona, un amore che ci lega indissolubilmente a sé. Il primo ci libera, ci salva; il secondo ci uccide!
Viene spontaneo allora chiederci: “Cosa c’entra tutto questo con l’amore per i propri genitori? Se non è buono quello di amore, quale altro mai lo sarà?!”. Ma andiamo per gradi: cerchiamo prima di tutto di scoprire e di capire con quale amore noi amiamo, con quale amore veniamo amati, o come siamo stati amati nel passato. Allora capiremo che non tutto quello che definiamo amore è “vero” amore: possiamo infatti definire amore quello di chi ci obbliga a fare solo ciò che vuole lui? Quello di chi condiziona una qualche dimostrazione di affetto, di amore, alla perfetta esecuzione dei suoi ordini? Possiamo chiamare amore per il prossimo, per il proprio compagno, per i fratelli, quello di chi tradisce la loro fiducia, di chi si comporta in maniera disonesta, mirando solo al proprio tornaconto? Purtroppo, il più delle volte, quello che noi chiamiamo amore, altro non è che un travestimento dell’egoismo, dell’ingordigia, dell’avarizia, della nostra avidità, del nostro amor proprio.
Ebbene: in questi casi – dice Gesù - come pure in tutte quelle pseudo dimostrazioni d’amore che sviliscono la nostra dignità di persone, che si frappongono cioè tra noi e ciò che Dio vuole da noi, dobbiamo lasciare, dobbiamo distaccarci, dobbiamo separarci, dobbiamo prendere un’altra strada. Anche se ciò coinvolgesse persone a noi carissime, come i nostri genitori, i nostri cari.
Gesù usa qui la parola “odiare” perché sa bene quanti sacrifici costi diventare figli unici di Dio, diventare cioè “liberi”. Cosa c’è di più doloroso del dire un “no” secco a chi amiamo, a nostro padre e nostra madre, pur di non tradire noi stessi, la nostra vita, la nostra chiamata? Non fa forse paura l’abbandonare una strada conosciuta, quella che in famiglia molti hanno già percorso prima di noi, per seguire quella nuova, quella “nostra”, quella che Dio ci ha chiesto di seguire in esclusiva, una strada completamente sconosciuta? È forse semplice compiere il nostro viaggio in solitario, uscendo dalla massa, dal gregge? È piacevole sentirci addosso la disapprovazione della gente, il loro biasimo, perché non ci adattiamo come loro, non facciamo come loro, perché noi vogliamo il meglio? Non sarebbe molto più semplice fare come fanno tutti, essere accettati dalla comunità, dalla società, dagli altri, piuttosto che esporsi, avviarsi per una strada sconosciuta, pur di realizzare noi stessi fino in fondo, nella nostra unicità di figli di Dio, seguendo la Sua chiamata?
È vero: noi per natura cerchiamo di assomigliare agli altri, di essere in tutto come loro; ma Gesù ci ricorda qui che tutti noi, ciascuno di noi, siamo intimamente diversi dagli altri: per cui se non abbiamo il coraggio di marcare questa differenza, di “separarci” dagli altri, se non abbiamo il coraggio di vincere la paura dell'abbandono, della solitudine, dell'impopolarità, dell'essere giudicati, se abbiamo insomma paura di realizzare a fondo noi stessi, se siamo in qualche modo attratti dalla mediocrità di un amore senza valore, non siamo degni di Lui, non possiamo seguirlo, non possiamo incamminarci su quella strada, unica, esclusiva, che Lui ha pensato e voluto solo per noi.
A parlarne sembra un’impresa facile quella di seguire Gesù, ma non lo è! Perché seguirlo, vuol dire percorrere quella stessa strada che lo ha portato al Calvario, alla morte di croce. Ora capiamo finalmente perché Egli smonti con tanta crudezza i facili entusiasmi di quelle persone che prendono tutto alla leggera, che considerano la salvezza eterna come un diritto acquisito per il semplice fatto di chiamarsi “cristiani”; di quelli che pensano di andare avanti per tutta la vita senza troppi scossoni, mantenendo il piede su più staffe, dimostrando di essere senza testa e senza cuore.
Nossignori: nella vita per differenziarci, per distaccarci, per separarci, per vivere la “nostra” esistenza, dobbiamo esporci, dobbiamo correre dei rischi notevoli; altrimenti non ci sarà “vita” in noi; e il nostro spirito, la nostra anima, inesorabilmente moriranno. Vivere la Vita di Dio, comporta il rinascere a noi stessi, l’essere autonomi, protagonisti, l’essere unici: in una parola, riscoprire la nostra vera fisionomia che ci “differenzia” dagli altri.
Purtroppo la società in cui viviamo non ci è di alcun aiuto in questo: una società di persone anestetizzate, drogate, smidollate, che vivono adagiate le une sulle altre, che rinunciano a qualunque tratto identificativo della persona; anzi, una società che calpesta impunemente lo stesso nobile concetto di “persona”, di “famiglia”. E noi non ce ne accorgiamo! Non ci rendiamo conto che chi vive “attaccato” a queste ideologie, chi è in simbiosi con esse, con la mentalità imposta da certo mondo, è soltanto un parassita: perché vive questa sua squallida esistenza, succhiando il sangue dai buoni, succhiando la vita da quelli che, nonostante tutto, perseverano e faticosamente procedono nel loro cammino sulla retta via. «Chi non odia il padre, la madre, il figlio, le sorelle non può essere mio discepolo».
Certo, sentirsi amati è una cosa bella; godere di una posizione sociale invidiabile è una cosa buona; come pure essere stimati, rispettati, essere belli e attraenti, sentirsi in grazia; essere efficienti, organizzati, sapersi ben programmare: sono sicuramente tutte cose buone, cose belle. Ma quando queste cose cominciano a condizionarci, a mancarci troppo, ad essere indispensabili, allora diventano una droga mortale. Allora ci attacchiamo ad esse con tutte le nostre forze, ci leghiamo indissolubilmente ad esse, senza di loro non possiamo più vivere, abbiamo il terrore di perderle. In quel momento non siamo più noi che dominiamo le cose che ci servono, ma sono le cose che ci dominano, siamo praticamente schiavizzati dalle cose. Non amiamo più le persone, anche se sentiamo un bisogno assoluto di essere amati. In quel momento perdiamo la nostra libertà. Per questo Gesù ci dice: “Staccati, separati da tutto questo. Se vivi così non potrai mai essere te stesso, non troverai mai l’amore, ma rovinerai la tua vita per sempre”.
Una medaglia ha sempre due facce: l'amore è una faccia; l'altra è la libertà. Non c'è amore senza libertà. L'amore è la faccia benevola, la faccia sorridente della vita; la libertà è la faccia seria, esigente, quella del “dovere”. L'amore crea “unioni”, la libertà crea “persone”. L'amore senza la libertà crea solo legami di fusione apparente, di confusione, di paura. È come essere ancora attaccati al cordone ombelicale. Non ci siamo sciolti,non ci siamo slegati, non siamo indipendenti, autonomi. L'amore con la libertà crea invece persone vere, complete, autentiche, persone che non marciano al ritmo dei tamburi della società, ma che seguono la danza, il ritmo, la musica che sgorga dal loro cuore. Chi è libero può seguire il Dio dell’Amore; chi è dominato riuscirà a seguire al massimo quegli idoli “patacca”, che lui stesso si è auto costruito.
In buona sostanza, Gesù oggi, con le sue parole, non intende dire che per seguirlo dobbiamo “a priori” rinnegare il padre, la madre, i figli, gli amici. Ma vuol dire: facciamo in modo che tutti i nostri legami con le persone e le cose siano “liberanti”, siano cioè vivi, affrancati da zavorre inutili e pesanti che ostacolerebbero il nostro cammino verso Dio. Perché chi rimane impastoiato nei valori, nei legami di questo mondo, non riuscirà a librarsi in alto, non potrà mai raggiungere quella libertà interiore che gli permette di seguire fedelmente le orme di Cristo…
Liberiamoci quindi da tutti quei legami che ci imprigionano, che ci condizionano, da tutte le camicie di forza di questa società alienante. Rimaniamo liberi! Teniamo per noi solo quello che ci serve per il cammino, senza farci trattenere o rallentare da tutto ciò che uccide la nostra anima.
Ci attende un grande compito nella nostra vita: diventare figli di Dio. Noi tutti geneticamente proveniamo da una madre e da un padre. Ci piaccia o no, è così. Noi siamo i loro figli. Non solo abbiamo in noi le loro somiglianze fisiche, ma “prendiamo” dai nostri genitori anche le somiglianze caratteriali, emotive, interiori. Siamo un miscuglio di nostro padre e di nostra madre. Ma il grande compito della vita non è quello di diventare identici ai nostri genitori, ma di diventare figli di Dio, perché è Dio il nostro vero Padre, e Dio-Vita, la nostra vera madre. È la sua quella “somiglianza” perfetta che dobbiamo raggiungere, quella stessa con cui siamo stati creati.
Se ci fermeremo per diventare uguali a nostro padre e a nostra madre, avremo sicuramente la loro stima, ma mancheremo l'obiettivo della nostra vita. Quando avremo esaudito le aspettative dei nostri cari, del nostro parroco, del nostro capo, dei nostri superiori, dei nostri amici, diventando esattamente come loro ci volevano, avremo forse la loro ammirazione, ma mancheremo all'appuntamento con la nostra vita e con il progetto che Dio ha sempre avuto per noi. Incontreremo forse il loro riconoscimento, ma perderemo l’essenza di noi stessi, l’impronta originaria impressa da Dio nel nostro cuore e nella nostra anima.
Per questo Gesù, più avanti, ci mette in guardia anche dai facili entusiasmi; ci dice praticamente che non dobbiamo illuderci, ma al contrario essere concreti, di fare i conti con la realtà; dobbiamo cioè essere previdenti; dobbiamo agire e fare le cose pianificandole, con cervello. Dobbiamo soprattutto valutare bene le nostre forze, le nostre possibilità, e agire di conseguenza.
Per non prendere cantonate dalla vita, nell’inseguire quelle che sono le nostre aspirazioni, quello che vorremmo fare od essere, dobbiamo prefiggerci solo ciò che obiettivamente possiamo fare ed essere, in base alle nostre reali possibilità ed energie. Alcune persone continuano a fallire nella vita perché si pongono obiettivi troppo alti, richiedono troppo da sé, non calcolano chi sono realmente, cosa possono dare e di quanto possono disporre.
Dobbiamo invece fare sempre i conti con la realtà, con la dura e cruda legge della realtà. Perché la realtà è l'unica cosa che esiste, il resto è fantasia della nostra testa. Noi vorremmo essere più semplici, più simpatici, più intelligenti, meno ansiosi; vorremmo non aver detto quel “sì” o quel “no”; vorremmo non aver fatto certi incontri; vorremmo che le persone che ci sono vicine fossero diverse, che ci aiutassero di più, che si accorgessero di quanto bisogno abbiamo del loro amore; vorremmo che la gente ci apprezzasse di più e sparlasse meno di noi; vorremmo che nel mondo non ci fossero tutte queste guerre e tutto questo odio; vorremmo avere meno impegni e costrizioni sociali, e più tempo per vivere, più tempo per i nostri figli, per i nostri cari, per noi, per ciò che ci appassiona. Ma la realtà, purtroppo, è ciò che viviamo, non ciò che noi vorremmo.
Noi siamo quel che siamo; viviamo in questo mondo, non in un altro. Questa è la nostra unica esistenza, la nostra unica storia, la nostra unica possibilità di realizzarci, di distenderci, di divenire. Tutto il resto, tutti i “Vorrei”, tutti gli “Oh come sarebbe bello”, sono solo aspirazioni, sogni della nostra fantasia. Diceva un vecchio monaco: “È stolto colui che avendo messo il piede su di un serpente, chiude gli occhi per non vederlo, per cancellare la sua presenza: perché, anche così facendo, il serpente lo morderà comunque!”. Svegliamoci, apriamo gli occhi, guardiamo dove mettiamo i piedi, e viviamo senza farci false illusioni. Amen.
 

venerdì 30 agosto 2013

1 Settembre 2013 – XXII Domenica del Tempo Ordinario

«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te… Invece va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,1.7-14).
Per l’insegnamento di oggi Gesù trae lo spunto dalla vita vissuta, dal comportamento normale della gente: nello specifico, da come si comportano in genere gli invitati ad un pranzo di nozze. Non appena si apre la sala del banchetto, si assiste ad un balzo collettivo in avanti per la conquista dei primi posti, quelli più in vista, quelli più vicini agli sposi, quelli normalmente riservati alle persone che contano: ovviamente, lo scopo è quello di mettersi in evidenza, di dimostrare agli altri commensali la propria superiorità, la propria familiarità con gli sposi; una volta occupato questo posto prestigioso, poi, si guardano bene dal cederlo; salvo poi – in presenza di qualche invitato veramente importante -  su invito del padrone di casa, subire l’umiliazione di dover arretrare agli ultimi posti, tra lo scherno e la commiserazione dei presenti.
Quante volte sarà capitato anche a noi di notare una cosa del genere! Un comportamento quasi irrazionale, un bisogno irresistibile, vitale, quello dell’apparire, quello del dimostrare agli altri il proprio prestigio: una mentalità che fin dall’infanzia ci viene inculcata dalla società consumistica e arrivista in cui viviamo. La nostra società in particolare è una società illusoria, menzognera: fin da piccoli ci spinge a inseguire sogni impossibili, irrealizzabili, a rivestirci di panni che non sono nostri, a raggiungere posizioni per noi sproporzionate, nelle quali non potremo mai essere noi stessi.
Gesù nota questa tendenza umana, e la stigmatizza: del resto, se vogliamo a tutti i costi posizionarci ai primi posti senza averne i requisiti, per pura ambizione, dimostriamo di non essere obiettivi con noi stessi, di non apprezzare la posizione che ci compete naturalmente; dimostriamo di vivere una realtà, una dimensione, che non è la nostra; dimostriamo di non amare la nostra vita vera, di non capire quello che effettivamente siamo e rappresentiamo nella società. Dimostriamo insomma una grande immaturità, che è sistematicamente causa di una profonda infelicità.
Vale allora la pena di spendere una vita intera alla ricerca continua di false illusioni? Struggersi in un costante logorio interiore, nella rabbia e nell’invidia per quanti sono più fortunati, più in alto di noi? Ricordiamoci che nella vita ognuno ha ricevuto dei precisi “talenti”, e ciascuno è tenuto a farli fruttare sapientemente, con ogni cura possibile; ma sarebbe stupido quel tale che, avendone avuti due soltanto, pretendesse risultati pari o maggiori di coloro che ne hanno ricevuti cento. Sarebbe doppiamente un perdente: per non aver apprezzato il suo massimo risultato personale, e per la frustrazione e la delusione continua di non poter raggiungere un traguardo per lui comunque irraggiungibile.
Ognuno rivela il suo carattere con i fatti. Per capire chi abbiamo di fronte, per capire chi egli sia, cosa consideri importante, e soprattutto cosa pensi e cosa conservi dentro, è sufficiente guardarlo come parla, cosa dice, come si muove, come si relaziona, come si comporta.
Legare la nostra felicità semplicemente al sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, è pura immagine. Inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, perché in realtà, dentro di noi, ci sentiamo delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine esteriore, per quanto grandiosa, può farci felici. Non lo può per definizione. Perché la felicità nasce solo dalla nostra vita concreta, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa nostra vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore. Al contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci appaiono sfocati, scontornati, eliminati, distrutti. E la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento.
Allora che fare? Come dobbiamo reagire? Semplice: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie. Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?
Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata.
Regno dei cieli, oltre che sentire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore che riflette l’amore di Dio, è provare anche la paura, l'angoscia, la tristezza: perché esse ci rendono umili e vicini a tutti gli uomini nostri fratelli. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l'ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è percepire l'amore che danza dentro di noi e che trasmettiamo in quanti incontriamo. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli sono gli occhi pieni di passione di chi ci ama, occhi che ci penetrano e che raggiungono l'anima. Regno dei cieli è dispensare amore, affetto e presenza ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza prendere, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è sentirsi vivi, così vivi da sentire completamente piena e traboccante la nostra vita; così vivi da poter anche morire soddisfatti, perché abbiamo vissuto abbastanza, seminando in questo mondo sincerità, speranza e amore. Regno dei cieli è poter ammirare l’innocenza di un bambino, l'eccitazione nei suoi occhi quando vede la mamma, o quando salta di gioia godendo del suo amore. Regno dei cieli è sentirsi noi tra le braccia del Padre, ed essere certi che lì, tutto sommato, non c’è proprio nulla da temere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e anche per quelle utili. Regno dei cieli è sentirci parte importante ed essenziale di questo mondo; sentirci come si sente un figlio, parte integrante di una vera famiglia, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre.
Tutto questo è normalità. Quando nasciamo, tutto questo lo conosciamo già. È invece crescendo che la società ci insegna ad abbandonare questo “regno dei cieli”. La maggior parte della gente crede che tutto ciò sia solo una grande “balla”, frottole per bambini, illusioni per preti e squilibrati.
Lo sapeva anche Gesù: tant’è che solo in pochi credettero al suo Regno dei cieli. Però quei pochi che gli credettero e lo sperimentarono, lasciarono tutto quello che avevano per seguirlo, e non furono mai più gli stessi. Gli altri, quelli che non gli credettero, lo uccisero perché era un “eretico”, uno che diceva falsità, che illudeva la povera gente.
«Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». È proprio così.
Per chi cerca sempre e solo di salire in alto, per sentirsi superiore agli altri, “umiliarsi” è una esperienza terribile, improponibile. Umiliarsi (che poi significa entrare in contatto con la propria “umanità”) è davvero tragico per tutti, ci fa davvero male. Perché, una volta che ci togliamo la nostra bella maschera, non troviamo più nulla di noi stessi: di quel grande personaggio che pensavamo di essere non troviamo più traccia. La maschera in qualche modo ci dava sicurezza. Non eravamo noi, ma per gli altri eravamo sicuramente “qualcuno”. Ora, senza camuffamenti, ci rendiamo conto che, nella nostra goffaggine, non siamo nessuno. O al più, peggiori di tanti altri.
È un momento difficile, duro, ma è un passaggio obbligato per ritrovare la nostra vita autentica, la strada verso noi stessi. È la conversione: cesseremo cioè di vivere una vita non nostra, a beneficio della gente, ostentando un qualcuno che non siamo; inizieremo umilmente a ricostruirci una nuova esistenza partendo dal nostro interno, da ciò che siamo veramente dentro, dalla nostra coscienza; ricomporremo pezzo dopo pezzo la nostra identità, ripartendo dal basso, dagli ultimi posti.
Del resto - il Vangelo lo sottolinea espressamente - se non ci mettiamo all'ultimo posto, se non iniziamo dalle fondamenta nascoste, dall’umiltà più convinta, non potremo mai costruire nulla, e non potremo neppure accogliere, ospitare, invitare chi a sua volta è anche lui “ultimo”.
Ecco: questo significa seguire il richiamo del “regno dei cieli”. Un “regno dei cieli” che è comunque un problema serio. Se infatti ci guardiamo allo specchio della nostra anima, se siamo onesti con noi stessi, noi che pensiamo di essere già veri cristiani, cosa vediamo in fondo, in fondo? Le nostre debolezze: che cioè anche a noi, discepoli convinti, piace stare ai primi posti; che ci piace trattare soprattutto con le persone belle, affascinanti, amabili, mentre cerchiamo di evitare quelle meno gradevoli, i poveri, i miseri; che ci piace aver a che fare con chi ha una posizione prestigiosa; che ci sentiamo onorati della loro amicizia e compagnia; che con tutto l’amore che predichiamo, se potessimo, elimineremmo volentieri quelle persone che ci stanno di traverso, o almeno faremmo loro, con grande piacere, un po' di male. Non ci vediamo forse così? No!? Se diciamo di no, non siamo sinceri con noi stessi: e sappiamo di mentire!
Certo, non è bello scoprirsi così! Ma questa è purtroppo la nostra natura umana! È la base su cui dobbiamo innalzare il nostro “regno dei cieli”. Guai a chi non si vede così. Guai a chi crede di essere superiore a queste miserie, a chi crede che tutto questo non gli appartenga. Vederci così fragili, al contrario, ci fa bene. Ci fa bene perché ci rende umili, ci ricorda la nostra debolezza umana: ci ricorda che, quando vediamo qualcuno che cade, non lo dobbiamo giudicare; perché sappiamo che ciò che è capitato a lui, può capitare in peggio anche a noi.
E concludo: solo se ascolteremo attentamente la nostra anima e conosceremo a fondo il nostro cuore, saremo in grado di ascoltare e conoscere il cuore degli altri. Solo se saremo sinceri con noi stessi, se non ci mentiremo, potremo essere sinceri e onesti con gli altri. Chi non si accetta così com’è, chi non sa stare umilmente al proprio posto, non accetterà mai nessuno altro alla pari! Perché chi si ritiene “primo”, guarderà gli altri sempre e solo come “secondi”. Amen.