«Chi di voi è senza peccato,
getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per
terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più
anziani» (Gv 8,1-11).
Gesù
si trova nel tempio. Ciò che avviene è sconcertante: siamo nella casa di Dio e quelli
che si ritengono gli esperti della legge divina vogliono uccidere una donna.
Gli scribi e i farisei irrompono in gruppo nel tempio; interrompono la
catechesi di Gesù per condurgli una donna colta in flagrante adulterio. Essi
l’hanno già condannata, hanno le pietre in mano per lapidarla, appena fuori
città, perché questo era il tipo di morte prevista dalla legge; ma volevano
comunque mettere alla prova Gesù. E Gesù le salva la vita.
Osserviamo
meglio la scena: scribi e farisei vanno dunque da Gesù in gruppo, in massa.
Gesù, invece è solo. La massa, pur avendo un potere enorme, è incapace di assumersi
le responsabilità individuali. Nel branco, nel gruppo, ognuno perde la propria
identità. Tutti si sentono autorizzati a fare di tutto, a compiere anche ciò
che, da soli, non farebbero mai.
Gesù però
li blocca, li mette ciascuno di fronte alle proprie responsabilità; e quando
capiscono di dover rispondere alla propria coscienza per tale esecuzione
mortale, ognuno si defila, e se ne va in silenzio. Nessuno ha più il coraggio
di scagliare anche una sola pietra.
Ma, come
ho detto, ai farisei e agli scribi, in realtà, non interessa fare “giustizia”,
non interessa punire quella donna: è Gesù il loro vero obiettivo. Se Gesù
infatti si schiera a favore della donna, automaticamente si mette contro la
legge, ed essi hanno un valido motivo per combatterlo; Lui, infatti, che si
dichiara il Messia, paladino della rettitudine, deve dimostrarsi coerente; non
può certo opporsi così apertamente alla legge dei suoi Padri. Se invece si
schiera contro la donna, condannandola a morte, cade comunque in
contraddizione, poiché soltanto i Romani potevano condannare qualcuno alla pena
capitale. Quindi in entrambi i casi hanno dei buoni motivi per poi accusarlo alle
autorità.
Ma
prima di tutto questo, prima di armare tanto scompiglio, come mai nessuno di
loro si è chiesto quali fossero i veri motivi che hanno spinto la donna a
comportarsi in tale maniera? Cosa cercava? Chissà: forse il marito la
picchiava; forse il marito la respingeva; forse il marito la umiliava; forse il
marito la teneva come una schiava; forse il marito aveva un'altra. Nessuno si è
fermato a riflettere sul perché sia successo tutto questo: è successo, quindi, deve
morire! Sembra di assistere a tante situazioni di oggi!
E poi,
perché nessuno si è chiesto: “Dov’è l’uomo che giaceva con lei? Perché non abbiamo
preso anche lui? Perché solo la donna deve essere condannata? Perché?”.
Ma niente
di tutto ciò: i farisei ( e solo loro?) hanno il paraocchi: si riempiono la
bocca della legge mosaica, si rifanno ciecamente a ciò che è prescritto nei
codici e nei manuali di teologia; essi non hanno cuore; e neppure cervello: sono
dei semplici esecutori, agiscono in malafede, sono dei maniaci della forma. L’unico
criterio di giudizio è la “loro” legge. Però “la legge” non giustifica, dice
san Paolo. È troppo semplice appoggiarsi “a terzi”. Un bambino lo può fare: “Me
l’ha detto mamma! Papà mi ha detto che si fa così!”. Ma in età adulta non
possiamo fare soltanto le cose che ci dicono di fare. Dobbiamo prenderci le nostre
responsabilità, dobbiamo cioè farle o non farle perché ci crediamo o non ci
crediamo.
“Tutti
fanno così”: non è una giustificazione valida e razionale. Siamo noi gli unici responsabili
di ciò che facciamo.
E Gesù
nel tempio ci dà una solenne lezione: mette tutti di fronte alla propria
coscienza, alle proprie responsabilità: “Chi di voi è senza peccato, scagli per
primo la pietra contro di lei”. Ovviamente nessuno lo fa: perché, nonostante siano
considerati dalla gente dei “giusti”, in cuor loro, nell’intimità della loro
coscienza, sanno perfettamente di non esserlo: e pertanto non rischiano,
preferiscono non esporsi personalmente.
Pure
noi: ci è capitato di esprimere un giudizio tagliente, una valutazione
totalmente negativa? Prendiamocene apertamente la responsabilità! “Ma no...
sai... io non volevo... io pensavo…”. La prossima volta, fratelli miei, prima
di parlare, pensiamoci. Quante persone, purtroppo, amano parlare di nascosto,
dietro le spalle, gettare fango, insinuare, malignare! Non hanno dignità, non hanno
personalità.
Sono
come quei farisei: chiacchierano, spettegolano, malignano, accusano, insinuano,
arrivando a svergognare completamente la donna. Non vedono l'ora di mettere in
piazza il suo peccato, l'errore, la sua colpa. La etichettano immediatamente:
“Adultera!”. E godono nell’inscenare la tragedia di lapidarla!
Gesù,
di fronte a tanta falsità, non dice assolutamente nulla; ignora del tutto quel
gruppo di scalmanati; non guarda neppure la donna; china solo il capo e pensa: “Quanto
starà soffrendo questa poveretta! Chi sono questi buzzurri senza cuore, che
sbraitano tanto? Come si fa a trattare così una persona?”. Gesù in cuor suo rispetta
quella donna, comprende la sua debolezza, capisce la sua vergogna, il grande
imbarazzo, per essere tacciata come una puttana davanti a tutti, famigliari,
conoscenti, amici; l’essere additata come la peggiore e la più detestabile
delle persone.
La
calunnia: uno sport ritenuto sconsideratamente innocuo da chi lo pratica. Un
gioco. Quante volte capita anche a noi, fratelli miei, di divertirci a
malignare, a ricamare sulle disgrazie altrui! “Hai sentito di quello? E di
quell'altro? Te lo dicevo io che non era come voleva far credere!” e giù, ci
divertiamo a spettegolare, a calpestare e a volte distruggere il privato degli
altri. È storia dei nostri giorni: il gossip è il passatempo più ambito e più seguito
dalla massa: sembra che non ci interessi nulla all’infuori dello scoop, della notizia
esplosiva, scandalistica; sempre all’erta, sempre pronti a denigrare: basta una
piccola illazione, un cenno, una semplice supposizione, e noi partiamo!
È
chiaro, pertanto, che una società impegnata costantemente a rincorrere l'ultimo
“scandalo”, è una società che, non avendo vitalità in sé, cerca motivazioni, sussulti,
emozioni all’esterno, ai margini della vita e dell’onestà, nel torbido del
quotidiano; è il segnale d’allarme che preannuncia la disfatta e la morte dello
spirito. È una società vuota, le cui persone, completamente vuote di loro, cercano
pienezza e stimoli rovistando nella vita altrui: per questo giornali e riviste scandalistiche
incontrano cotanta diffusione!
La società
poi è abituata a generalizzare: lo psicologo e il medico parlano di “pazienti”;
il prete parla di “parrocchiani”; l'assistente sociale di “utenti”; per lo Stato
siamo il “numero” di codice fiscale, per la banca un “debitore”. Eppure nella
vita noi tutti abbiamo un nome, siamo delle entità ben distinte, siamo persone
che amano, che soffrono, che vivono e sperano.
I
farisei dunque trattano quella donna come un oggetto. Per loro è nessuno, una
delle tante donne del popolo. Niente di che. Non si rendono conto che dietro a
quella malcapitata c'è forse una tragedia; comunque una storia, un volto, una
vicenda, una persona ben precisa, con i suoi sentimenti, con le sue difficoltà,
con i suoi problemi, con la sua dignità.
E Gesù
tace. Essi lo incalzano. Pretendono una risposta chiara, una lettura forte
della legge: vogliono comunque scaricarsi da ogni responsabilità individuale: “Noi
siamo a posto, ce l’ha confermato anche lui, doveva essere uccisa!”.
Ma Gesù
non si esprime; al contrario, scrive per terra. Continua a prendere tempo. Loro
vogliono una risposta immediata e lui non gliela dà. Sente il suo cuore pieno di
rabbia, e cerca di scaricarla scrivendo: questo gli permette di continuare ad essere
obiettivo, di pesare bene le parole, di non rispondere d’impulso, senza la
lucidità e la padronanza richieste dal caso.
Anche
noi, quando siamo arrabbiati, dobbiamo fare altrettanto, fratelli; dobbiamo trovare
il modo per calmarci. Perché altrimenti ci graffiamo reciprocamente, ci
facciamo del male, ci feriamo fino all'inverosimile. Prendiamoci cinque minuti;
andiamo in un'altra stanza; occupiamoci di qualcos’altro; andiamo a farci un
giro fuori e poi, quando rientriamo scaricati, possiamo affrontare il problema
con le dovute calma e lucidità.
I
farisei però insistono: “Guarda cos'ha fatto quella donna lì? Perché non ti
decidi?”.
E finalmente
Gesù risponde: “Chi di voi è senza
peccato scagli per primo la pietra”. In altre parole: “Voi, siete proprio
sicuri di essere innocenti? Di essere completamente in regola? Di non avere
qualche scheletro nell’armadio? Ne siete proprio certi? Pensateci un po’!”.
Ecco:
quando stiamo per puntare il dito contro qualcuno, pensiamo per un istante che in
quel preciso momento almeno tre persone lo stanno puntando contro di noi. “Anche
se non hai tradito materialmente tua moglie, sei proprio sicuro di non pensare
ad altre donne? Sei proprio sicuro di non desiderarle? Sei proprio a posto con
la tua sessualità?”. In questo modo Gesù li mette di fronte alla loro
coscienza, li lega alla loro percezione intima della verità: “Chi di voi può
dirsi completamente immune dal peccato, in particolare da questo peccato?”.
Gesù poi
si rivolge alla donna: non la giustifica, non le dice: “Brava, hai fatto bene!”.
Le dice: “Và e d'ora in poi non peccare
più”. “Forse hai sbagliato, forse hai fatto qualcosa di cui neppure tu ora sei
contenta. È successo, rialzati, non condannarti più, lascia stare, volta
pagina, perdonati; soprattutto ricordati che se vuoi, puoi essere diversa,
nuova!”.
Capite?
Non è meraviglioso? Gesù non fa paternali, non fa tremende lavate di testa; fa
soltanto leva sulla forza del cuore, sui sentimenti nascosti e profondi della
donna, della persona. Questo è amore, fratelli. Non si ferma a rimarcare il
peccato in sé, che probabilmente c'era ed era vero. Egli sottolinea semplicemente
la possibilità di uscirne fuori, le indica la possibilità di costruirsi una
vita migliore, di essere diversa. Le dice: “Tu puoi. Non è vero che sei così e
che sarai sempre così: non crederci. Tu puoi essere diversa, puoi essere migliore;
insomma tu puoi cambiare: io lo so, ne sono convinto”.
Gesù dunque
non sottolinea l'errore: lei sapeva bene di aver sbagliato! Gesù sottolinea solo
un cambiamento in positivo. Gesù ci insegna che dobbiamo avere fiducia nei
fratelli. Ma la fiducia non si può fingere: dobbiamo crederci per davvero! Quando
dobbiamo aiutare un fratello che è caduto, fare coraggio a qualcuno che è in
difficoltà, dobbiamo essere convinti che lui ce la può veramente fare, che nel
suo cuore egli dispone di altre forze nascoste e impensabili, con le quali egli
può uscirne, egli può rialzarsi e guardare avanti essendo migliore.
Cerchiamo
di guardare nei fratelli sempre il lato positivo. Cerchiamo di dir loro: “Nella
vita tu farai senz’altro qualcosa di grande!” e crediamoci noi per primi. Perché,
fratelli, sentire che qualcuno crede in noi, nelle nostre forze, nelle nostre
possibilità, in ciò che siamo, è in assoluto la cosa più bella, la cosa che
maggiormente ci sprona ad agire.
L'amore
infatti dà fiducia. Perché le persone guariscono facendo certi percorsi? Cos'è
che le fa guarire o cambiare o diventare se stesse? La competenza di chi le
guida? No! Il percorso fatto bene? No! Ciò che le fa guarire è l’aver trovato qualcuno
che crede in loro e che ha fiducia in ciò che possono diventare.
Frasi come:
“Tu puoi; ci riesci di sicuro; ce la farai sicuramente; osa; prova; sperimenta;
dai! ecc.”, dovrebbero far parte nel nostro vocabolario quotidiano.
Ripeto:
l'amore ci conforta e ci sprona; anche se non siamo come gli altri ci vedono, il
loro amore ci fa comunque sentire come dovremmo essere e come potremmo
diventare; dobbiamo solo esserne convinti, noi per primi.
Tu,
Gesù, credi in me; lo capisco, lo sento. Non posso deludere tanta fiducia;
voglio anch’io credere maggiormente in me; voglio darmi fiducia, voglio essere
come tu mi vuoi, voglio risorgere, e amarti sempre più, come meriti. Amen.
«Un uomo aveva due figli. Il
più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi
spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio
più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là
sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (Lc 15,1-3.11-32).
“Un
vangelo nel vangelo”, potremmo definire quello di oggi. Un brano che ci mette
in contatto con l’universo della bontà di Dio: perché è chiaro, la figura del
“padre” è la sua. È la storia di un Dio “padre”, che accoglie a braccia aperte ogni
figlio smarrito. Ma il testo ci offre anche altre chiavi di lettura: quella della
nostra storia personale, la storia dei rapporti umani, la storia di tutti i
figli di questo mondo che, per vivere, devono rompere con la “casa” e con “il
padre”, per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria missione, il
proprio posto nella società: perché per vivere è fondamentale fare esperienza,
capire, percepire la vera portata delle potenzialità che tutti abbiamo, ma di
cui non ce ne rendiamo conto.
È la
storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita, ma è anche
l’avvertimento che non è mai troppo tardi per rimediare. Possiamo anche finire
con i porci, condurre una vita dissoluta, priva di qualunque valore, ma abbiamo
sempre la possibilità di redimerci, recuperando la nostra vita e la nostra
dignità.
È la
storia dell'amore vero, che rimane: l’amore di quel padre di famiglia che ama
al di là di tutto, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del
rifiuto ricevuto dal figlio.
È la
storia del rifiuto “per amore”: il figlio che dice di no, che vuole slegarsi,
che vuole andarsene, lo fa perché ama la vita, perché cerca nuove possibilità
su cui costruire il suo domani: per vivere, infatti, tutti dobbiamo affrontare il
nostro “viaggio” personale; per crescere, per maturare, per responsabilizzarci,
dobbiamo affrancarci dal legame infantile che ci lega ai genitori, e prendere
in mano razionalmente la nostra vita e il nostro domani.
È la
storia di chi ha paura di crescere, di dover cambiare qualcosa nella vita: continua
a starsene nel suo guscio protettivo, con le sue solite idee, con il suo solito
mondo: e non si accorge di essere invece un “morto” in casa, corroso e
paralizzato dalla paura di crescere.
È la
storia di come non sia possibile alcun “ritorno”, se prima non “rientriamo in noi”:
se non ci ascoltiamo, se non ci guardiamo dentro, se continuiamo a vivere
proiettati soltanto all’esterno, all’effimero, facendo dipendere la nostra
felicità esclusivamente dalle cose esteriori (i soldi, i divertimenti); oppure pensando
che “gli altri”, e non noi, debbano darci il senso della vita.
Ecco, fratelli,
queste sono tante altre possibili letture, altri spunti di approfondimento di
questo vangelo.
Un vangelo,
dicevo, che ripropone la nostra crescita umana e spirituale, mediante un
progressivo cambiamento dei nostri rapporti con le persone, col mondo e con le
cose.
Un
brano, quello di oggi, che ci presenta in particolare tre personaggi, ciascuno dei
quali deve fare i conti con le proprie problematiche relazionali: è pertanto il
significato dei loro rapporti reciproci che va approfondito, preso in
considerazione: primariamente quello dei figli col loro padre; un padre che è visto
da entrambi soltanto dal punto di vista egoistico: è colui cioè “che dà”, che “deve
dare”; il suo ruolo è soltanto quello di soddisfare le loro richieste; il
figlio minore infatti gli dice “Dammi la mia parte di eredità”; il maggiore gli
rinfaccia “Non mi hai mai dato un capretto per far festa con gli amici”. A
nessuno dei due figli sta a cuore l’amore paterno; per loro vale soltanto l’utile,
il proprio tornaconto.
C’è poi
il rapporto tra i due fratelli: come si relazionano tra loro? Non si
relazionano! C’è solo indifferenza: non si rivolgono la parola, non si dicono nulla,
non s'incontrano mai! E perché? Semplice: perché volutamente non ne vogliono
sapere; tra loro hanno costruito un muro di incomprensione, di egoismo, di
invidia. Motivo scatenante di tale contrasto? Il comportamento del padre: sì, il
loro conflitto poggia proprio sul comportamento paterno, ritenuto a torto o a
ragione, discriminante, di parte. Il minore percepisce la maggior
considerazione del padre per il primogenito, il prescelto, il primo in tutto; capisce
di essere considerato solo come rincalzo e di non avere alcuna possibilità di
competere alla pari con il fratello; quindi pianta ogni cosa e se ne va di
casa. Vuole staccarsi dal padre; meglio, da quell’immagine di padre che egli si
era auto costruito, un padre carente di imparzialità. Se continuava a stare in
casa, non avrebbe mai potuto cambiare idea. Per farlo ha dovuto allontanarsi, intraprendere
un lungo viaggio, visitare molti paesi, godersi la propria autonomia, la
propria “libertà”; un cammino che finirà poi per portarlo “dentro di sé”: “Rientrò in se stesso”.
Anche
il padre ha dovuto fare un suo viaggio personale: al ritorno del figlio minore
lo troviamo infatti premuroso, fuori di casa, ad aspettarlo. Si è dovuto distaccare
dall’idea classica di un padre, di un genitore, che ha, apertamente o
implicitamente, delle pretese nei confronti del figlio: io ti do qualcosa (la
vita, un nome, sicurezza, benessere) e tu mi devi qualcosa (seguirmi, rispettarmi,
prenderti cura di me, farmi felice, non abbandonarmi, ecc).
Il
terzo personaggio, il figlio maggiore, al contrario non ha fatto nessun viaggio:
per lui suo padre rimarrà sempre quello che “deve dare”, e suo fratello continuerà
ad essere quello “inferiore in tutto”, il depravato, il dissipatore, “con le prostitute”, del patrimonio
familiare. Egli giudica suo fratello
per rabbia: non sopporta che il “minore”, quello meno di lui, sia accolto in
casa dal padre con la stessa dignità riservata a lui, che ha sempre rigato
dritto; che questo sfaccendato sia trattato dal padre allo stesso modo con cui
tratta lui, come se fosse suo pari; per questo egli distrugge la sua immagine, lo
infanga, lo scredita. Non accetta di aver perso la sua superiorità assoluta.
Il suo
problema sta proprio qui: nel fatto che è sempre rimasto in casa; non è mai
uscito.
Quanti
di noi, fratelli, continuano a passare la loro vita “in casa”, con le loro
solite quattro idee, con i soliti pensieri, le solite persone, il solito modo
di pensare, le solite cose da fare.
Non
capiscono che uscire significa conoscere; vuol dire mettersi in discussione, scoprire
cose incredibili, rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più
grandi delle proprie piccole e sclerotizzate convinzioni. Ma uscire fa paura: è
meglio rimanere in casa.
Il figlio
minore, uscendo dalla propria immaturità, pur facendo delle scelte nefaste, ma pagando
a caro prezzo le amare conseguenze, è comunque diventato un uomo, ha trovato la
vita, ha fatto esperienza, si è messo in gioco in prima persona; il maggiore,
al contrario, è rimasto un immaturo, un uomo morto, trincerato nei suoi vecchi
schemi e pregiudizi; il vangelo non ci dice che fine farà, ma l’immagine che ne
esce è quella di un uomo fallito. Se non si deciderà a “uscire” anche lui, a
cambiare, continuerà per sempre a trascinarsi nella sua mediocrità.
Al loro
“ritorno”, invece, sia il figlio minore che il padre, sono diversi. Il padre
non è più quello “che dà”, e il figlio
non è più quello “che prende”. Hanno
fatto entrambi la loro strada, e le loro posizioni si sono invertite: il padre,
che aveva dato, ora riceve; e il figlio che aveva preso, ora dà. Ma cosa dà questo
“prodigo” a suo padre? La paternità: quell'uomo adesso sente che, per il figlio,
lui non è più questione di soldi, di eredità, ma di amore, di affetto, di presenza.
Tutto è stato superato, cambiato, maturato. Rimane un’unica nota stonata, in
questo quadretto familiare: il figlio maggiore, che è ancora lì a discutere di
capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: è il figlio
che non ha ancora capito, che non è
ancora passato, che non ha fatto nessun viaggio, che non ha ancora cambiato nulla.
Nella vita c’è un dato di fatto imprescindibile: i rapporti interpersonali sono destinati a cambiare; e se non cambiano, intristiscono, languiscono, muoiono. Ecco perché noi stessi dobbiamo cambiare, uscire, maturare continuamente, adattarci alle nuove situazioni: nei confronti dei figli, del nostro partner, dei fratelli, di quanti ci circondano. Dobbiamo trovare continuamente nuovi motivi, altre funzioni, nuovi equilibri: quelli di una volta, con il passare del tempo e dell’età, non vanno più bene. Dobbiamo rinnovarci. Dobbiamo abbandonare la nostra “immagine” per trovarne un'altra più vera, rivista e corretta; più coerente con i nostri sentimenti, con la nostra anima, col nostro cuore.
Ecco, fratelli: il Vangelo di oggi ci mette di fronte a questa tremenda alternativa: o uscire da noi stessi, che vuol dire rinascere, vivere, maturare, godere della pienezza dell’amore paterno, rischiando magari di cadere ma trovando la forza di rialzarci immediatamente; oppure rimanere immobili, morire, soffocati dalla paura e dall'indolenza, insoddisfatti della nostra vita e corrosi dall’invidia verso gli altri; sempre pronti a giudicare e a prendersela col mondo intero; oppressi dal rimorso e dall’amarezza di non aver saputo guardare oltre l’orizzonte del nostro io.
Dalla scelta che andremo a fare dipenderà ciò che ciascuno di noi sarà. Amen.
«Credete che quei Galilei
fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi
dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
Nel
vangelo di questa domenica Gesù, nella sua predicazione, fa riferimento a due fatti
di cronaca straordinari avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato
di una moltitudine di giudei che si erano recati a Gerusalemme per offrire i
loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di altre persone coinvolte
nel crollo della “torre di Siloe”. I commenti della gente a tali notizie
rivelano la mentalità predominante di allora, secondo cui le disgrazie, le
malattie, la morte, sarebbero la giusta punizione per delle colpe commesse o
direttamente dai malcapitati oppure dai loro antenati. Ebbene, Gesù sconfessa decisamente
queste convinzioni: “Quelli che sono
morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come
a dire: “Non è vero che quei poveretti sono morti per espiare le loro colpe
personali, né tantomeno quelle dei loro antenati; voi, poi, che state bene e siete
illesi, non crediate di essere così fortunati solo perché pensate di essere più
giusti di loro”. In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i
lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non dipendono
in alcun modo dalla volontà di Dio, come castigo per la nostra condotta morale.
Non è questo che Dio vuole; Dio non ce l’ha in modo particolare con noi, non ci
ha preso di mira, non si comporta come se non ne potesse più di noi. Bestemmiamo
gravemente quando ci lasciamo andare ad esclamazioni del genere: “Ma che male
ho fatto io perché Dio mi castighi in questo modo?”. È una esclamazione sbagliata:
eppure, fratelli, quante volte ci siamo espressi e continuiamo ad esprimerci in
questo modo!
Gesù
oggi ci ricorda che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità.
Non è
più un mistero, per esempio, che le stesse malattie sono legate in qualche modo
al genere di vita che conduciamo, ai nostri vissuti profondi, ai nostri schemi
mentali, ai nostri eccessi: cancro, leucemia, sclerosi, allergie, intolleranze,
malattie della pelle e tanto altro ancora, trovano terreno fertile proprio nel
modo in cui ci poniamo di fronte alla vita sia materiale che morale. Non sono mai
una punizione divina, non sono un “virus” che si prende a caso, un contagio che
“se siamo bravi” non ci tocca. Le disgrazie avvengono sempre per una somma di
concause, di cui il più delle volte siamo noi stessi l’origine scatenante.
Non è Dio
quindi che condiziona la nostra vita. Siamo noi che ce la gestiamo come vogliamo.
Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare certe cose. Egli, nel
suo immenso amore, ci lascia completamente liberi nelle nostre scelte. Di
conseguenza ognuno riceverà, quando sarà ora, il premio o il castigo che ha
meritato. Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in completa
libertà. Dio non sta dietro l’angolo con il pungolo del castigo, pronto ad
intervenire ad ogni nostra mossa negativa. Egli al contrario è il padre amoroso
che ci segue con amore, disponibile a darci una mano solo se noi glielo chiediamo.
Per
cui dell’azione di Dio, ai nostri ragazzi, non dobbiamo inculcare soltanto l’aspetto
negativo “errore = castigo; colpa = punizione”, descrivendo Dio come un arcigno
giudice, attento e vigile per reprimere anche il più piccolo sgarro: dobbiamo
invece preoccuparci di inculcare loro la visione di un Dio che è soprattutto
Amore; perché Lui questo solo ci dimostra; Lui ci ama veramente, e chi ama non si
diverte a punire, a fare del male, a procurare dolori materiali o morali a quanti
ama. Il punto è proprio questo: che noi, al suo amore, dobbiamo rispondere con
altrettanto amore; e se noi ricambiamo veramente il suo amore, ci sarà
impossibile rinnegarlo, umiliarlo, mancargli di rispetto, addolorarlo conducendo
una vita dissoluta.
Con le
parole di oggi Gesù, dunque, annulla definitivamente la visione di un Dio
vendicatore, sterminatore dei peccatori.
“Pensate che quelli [i morti] fossero
più peccatori di voi? No vi dico”.
Immediatamente
dopo tale affermazione, però, Gesù sembra affermare il suo contrario: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo
stesso modo”. Cioè: “se non cambierete vita, farete tutti la stessa fine di
quei Giudei”. Cosa vuol dire Gesù con queste parole? Per caso si rimangia tutto
quello che aveva detto prima? È una frase intimidatoria? Vuol dire che Dio ci
punirà comunque? Assolutamente no: Dio non punisce mai di sua iniziativa. Vuol
semplicemente dire: “Fate attenzione, perché di tutto quello che fate, delle
scelte operate, siete solo voi i responsabili, e solo voi ne dovrete giustamente
sopportare le conseguenze, le ripercussioni; ricordatevi che se fate questo, in
cambio avrete quello! Se vivete nel male e non “cambiate vita”, accadrà anche a
voi una “morte” simile: non è una
condanna la sua; è semplicemente un avvertimento. Vuol ricordarci molto paternamente
che siamo noi gli unici responsabili di noi stessi. La vita è nelle nostre mani
e nelle nostre scelte. Pertanto, se tutto dipende da noi, dobbiamo stare molto
accorti, se abbiamo sbagliato, dobbiamo correre ai ripari. In altre parole
dobbiamo “convertirci”.
“Convertirsi”,
come ho detto all’inizio della quaresima, vuol dire cambiare direzione (shub
in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta): cioè, se stiamo andando
in una direzione, e ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare strada: dobbiamo
convertirci.
Molti
dei nostri comportamenti ci portano decisamente a morire dentro... alla
superficialità... ad allontanarci sempre più dal nostro cuore e da noi stessi.
Il fatto grave è che non ce ne rendiamo conto; e quando poi succede il “colpaccio”,
quando il nostro comportamento ci si ritorce contro, ci meravigliamo, non
accettiamo la situazione: “Com'è possibile? Come mai è successo questo proprio
a me?”. Beh, fratelli, il motivo c’è; solo che noi non l’abbiamo visto o non abbiamo
voluto vederlo. Perché allora rimandare ancora? Convertiamoci finché siamo in
tempo: convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà il giorno in cui
sarà troppo tardi. Non sottovalutiamo i “segni”; non giustifichiamo sempre e
comunque i nostri comportamenti. Non perdiamo la nostra lucidità, non
offuschiamo la nostra sensibilità.
Non
prendiamocela con Dio nei momenti di dolore e di sofferenza: come se Lui non
sapesse fare il suo mestiere di Dio! Convertiamoci piuttosto: perché “convertirsi”
vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi, farsi aiutare,
riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere; un atteggiamento che
all'inizio può riuscirci molto difficile. Ma solo se vediamo, se riconosciamo, se
evitiamo, riusciremo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e
fuori.
“Responsabilità” (da respondeo, rispondere, risposta) vuol dire che noi “rispondiamo” in
prima persona della nostra vita, che non deleghiamo, che non scarichiamo le
colpe della nostra vita sulla società, sugli altri, sul prossimo, sul mondo, che
è “cattivo” e ce l'ha con noi. “Responsabilità”
significa accettare che siamo noi al comando dell'auto della nostra vita; e che
essa va esattamente nella direzione che noi le diamo.
Il
riferimento all’albero del fico infruttuoso,
infine, conferma e completa ciò che Gesù vuole insegnarci. Nei vigneti della
Palestina questi alberi da frutto sono molto comuni: si piantano, si lasciano crescere;
non hanno bisogno di cure particolari; dopo tre anni, iniziano a portare i
primi frutti. Ma l'albero della parabola, che ha già sei anni, non ha ancora portato
alcun frutto. Per questo il vignaiolo chiede al padrone di pazientare, di consentire
quei trattamenti “speciali” che normalmente non si fanno; tenta insomma
un'ultima possibilità.
L’allusione
è chiara: quel fico della parabola siamo noi. Noi possiamo portare frutto; noi
possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci
e realizzarci. Noi possiamo farlo tranquillamente: come il fico possiamo crescere
e portare frutto. Ma al momento siamo una nullità. Nella parabola, il vignaiolo
si prende cura in maniera speciale di questo fico: in questo senso, la vita offre
anche a noi dei “trattamenti” speciali, delle occasioni particolari, ci fa incontrare
situazioni uniche che ci maturano e ci portano ad essere fertili.
È la stessa
vita infatti che in modi diversi, e in certi momenti, offre a tutti la
possibilità di portare il loro frutto. Pensiamoci: tutti noi abbiamo avuto
degli incontri determinanti; tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno
fatto respirare un'altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci
diceva: “Vieni qui; provaci; dai che ce la puoi fare!”. Tutti noi, ad esempio, abbiamo
vissuto esperienze - come la morte di un familiare, di una persona cara; un
momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc. - che
ci hanno ispirato a cambiare stile di vita. Ebbene: noi cos'abbiamo fatto in tali
situazioni? Le abbiamo accolte, oppure come al nostro solito le abbiamo accantonate,
disattese, rimandate? Una cosa, fratelli, dobbiamo una buona volta chiarire in
noi: che a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare,
di abbandonare, di evitare, arriveremo prima o poi al punto di “non ritorno”; verrà
cioè un giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più
nulla: il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato, perché dentro è già morto,
arido, secco. È così, fratelli: se rifiutiamo qualunque “linfa”, qualunque proposta
di Vita, verrà un momento in cui saremo talmente vuoti, talmente interiormente rinsecchiti,
così morti nell'anima, così incapaci di guardarci dentro, che qualunque disperato
tentativo di rianimazione risulterà vano. Nessuna condanna, nessuna vendetta, nessun
castigo da parte di Dio: i responsabili siamo soltanto noi e le nostre scelte:
troppo lente, troppo tardive, assolutamente inefficaci.
Che questa
nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, fratelli miei: in
cui riscoprirci, in cui convertirci, da cui ripartire per raggiungere il Dio di
Gesù. Amen.
«Maestro, è bello per noi
essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc
9,28-36).
I
discepoli non possono assolutamente accettare le parole che Gesù, poco prima
del vangelo di oggi, aveva loro detto: “Amici miei, guardate che mi prenderanno
e mi uccideranno. E a farlo saranno proprio gli scribi, i sommi sacerdoti e gli
anziani. Ma non preoccupatevi perché io, poi, risorgerò”. Non possono
condividere una tale prospettiva, proprio perché le loro aspettative si concentrano
su un Gesù-Messia potente, trionfale, giusto, liberatore.
Preannunciare
la propria morte, significa per loro evocare lo spettro della fine di ogni
aspettativa riposta in lui, decretare il fallimento totale del suo programma.
Di
fronte a tanto smarrimento cosa fa Gesù? Prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li
porta in un luogo appartato, su un alto monte. Gesù non è nuovo a tale
esperienza: “appartato” in un monte alto, c'era già stato nell'episodio delle
tentazioni di domenica scorsa: allora ad isolarlo era stato satana, per tentarlo;
ora invece la tentazione gli viene direttamente dai discepoli, che non lo
capiscono.
Gesù
quindi, volendo smontare qualunque tipo di “tentazione”, approfitta appunto dell’intimità
di un luogo solitario e impervio, per chiarire un po’ le idee a questi suoi
collaboratori più stretti. E qui essi hanno una visione straordinaria: Gesù è in
compagnia di Mosè ed Elia, le due personalità della Scrittura che ogni ebreo di
allora considerava come figure di “riferimento” per il futuro Messia. E come se
non bastasse, discorrendo familiarmente con Gesù, essi dimostrano di smontare
questo loro convincimento, riconoscendo invece a lui importanza e superiorità.
I tre ovviamente
rimangono colpiti, rapiti; al punto che Pietro esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre capanne, una per te,
una per Mosè, una per Elia”. Nella foga dell’entusiasmo, Pietro
inconsciamente ribadisce il suo convincimento: egli infatti pone Mosè e non a Gesù
al centro del trio, posizione riservata di diritto alla figura più importante. Egli
rimane cioè della sua idea: “Gesù, tu devi essere come Mosè, è lui il grande
riferimento”. Ma la voce di Dio scioglie ogni possibilità di dubbio. Gesù non è
il Messia storico, quello tanto atteso da Israele. Gesù non è così: “Questi è
il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”.
È Gesù
che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in confronto
a Lui. È Gesù il criterio di discernimento: Mosè, Elia, Legge e Profeti hanno un
senso solo se passano attraverso Gesù. Tutto ciò che non è in sintonia con il
messaggio del Cristo non ha alcun valore per la vita del credente.
Gesù in
questo modo demolisce le aspettative dei discepoli e della gente: Lui non è
come lo volevano; non è il Messia trionfale e forte; Gesù è sì il Messia, ma sofferente
e debole. Egli non sterminerà gli operatori di iniquità, non ha vendette da
sanare o conquiste da ristabilire; Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta!
Non ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene il costo:
l'impopolarità. Ma il beneficio che egli introduce con questo comportamento è la
conquista di autenticità, l'essere felici di ciò che si è, la forza di vivere la
propria missione dovunque porti, perché questa in definitiva è la nostra
chiamata: è di essere noi stessi, di vivere noi stessi; perché è questo che ci
dà una vitalità e una forza impagabili. È questo il nostro grande compito. Dobbiamo
essere, come Gesù, noi stessi; dobbiamo semplicemente vivere come Lui la nostra
parentesi terrena, la nostra vocazione, la nostra missione.
È
questo l’unico criterio della nostra realizzazione personale: vivere la nostra “originalità”.
Sì,
perché noi siamo unici. È per questo
che esistiamo. Se non fosse così non saremmo a questo mondo, perché in tal caso
il nostro esserci non avrebbe alcun senso. Le fotocopie umane non esistono; Dio
fa nascere solo pezzi unici, il resto non serve.
Purtroppo
però la maggior parte di noi tende a conformarsi agli altri, a fare e a pensare
come tutti. Il pretesto è comprensibile anche se non condivisibile: “Solo se mi
comporto come tutti gli altri sarò rispettato e accettato; in caso contrario
sarò emarginato, estromesso dal gruppo”.
È il
classico comportamento degli insicuri, dei bambini. Un bambino non può
permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia, dalla propria mamma: ne morirebbe.
Quindi non gli rimane che adeguarsi. Ma noi, fratelli,non siamo più bambini. Siamo
grandi, siamo adulti e siamo qui in questo mondo per vivere convintamente il
nostro “mandato”, per compiere la nostra missione e far emergere la nostra
originalità, la nostra unicità: sul modello di Gesù, che fu davvero unico,
diverso da tutti, “fuori” da ogni
schema umano: perché chi segue Dio, non segue nient’altro.
Gesù dunque,
sul monte della trasfigurazione, prende ufficialmente coscienza di avere una
missione grande: più grande di quelle di Mosè e di Elia. Gesù capisce di avere
la forza di Mosè e l'ardore di Elia; sente di non essere come loro, pur avendo qualcosa
in comune come loro.
I
Vangeli pongono tutti la trasfigurazione tra il primo e il secondo annuncio
della passione. Non è un caso. Chiediamoci allora: “Perché Gesù è andato
comunque a Gerusalemme?”. Egli sapeva benissimo cosa lo aspettava lì; se
rimaneva in Galilea, invece, non avrebbe rischiato nulla. Perché “ha dovuto” andare a Gerusalemme? La
risposta è una soltanto: “Era la sua missione. Lui doveva andare a Gerusalemme
perché doveva annunciare proprio lì, nel centro religioso del suo tempo, quel
Dio diverso che Lui viveva dentro di
sé”. Ha seguito la sua Voce, la sua “vocazione”, ed è andato lì dove doveva
andare.
Ora,
di fronte alla lettura e alla meditazione del vangelo di oggi, noi possiamo
porci e reagire in tanti modi. Il primo: “Ma perché a me? Ma cos'ho fatto per
trovarmi coinvolto in questa storia di scelta, di vocazione, di elezione, per
cui devo trasfigurarmi mio malgrado? Mi
rifiuto!”
Oppure:
“Cosa devo imparare da questa pagina? Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, attraverso
la “trasfigurazione” di Gesù?”. Beh, questa volta andiamo meglio, È già una
buona domanda quella che ci facciamo, perché nulla è privo di senso e di
significato: tutto è un messaggio per noi.
Sicuramente
però ci aiuta molto di più, chiederci: “Ma questa prova, questa sfida, questa trasfigurazione che devo affrontare, riferita
alla mia persona, che scopo finale ha? Che cosa pretende Dio da me? per quale
motivo devo scombussolare tanto la tranquillità della mia esistenza? Perché una
cosa è chiara: Egli mi sta in qualche modo “allenando”,
mi sta affinando; le prove della
vita, gli ostacoli quotidiani da superare, non sono altro che “esercizi” che servono a plasmarmi, a
rendermi “unico” davanti a Lui e rispondere
in maniera “unica” alla sua chiamata».
In quest’ottica, allora, la nostra vita, tutto ciò che in essa ci succede, non
è più questione di fortuna o di sfortuna, ma è un modo amoroso con cui Egli cerca
di aiutarmi, con cui mi allena a
tirar fuori le mie capacità, la mia personalità, ciò che realmente sono.
Quando
arriveremo a capire che tutto ciò che è capitato nella nostra vita ci riguarda
in prima persona, che tutto doveva
essere così, e che è bene sia stato
così, e che non poteva essere altrimenti,
allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato, compreso;
perché capiremo finalmente che tutto viene
da Dio: il bene e il male.
Allora
soffrire l'ingiustizia diventa un allenamento
per sviluppare la verità. Soffrire l'oppressione diventa un allenamento per sviluppare la libertà.
Soffrire la maldicenza e il giudizio spietato degli altri, diventa allenamento per sviluppare l'umiltà.
Soffrire di solitudine diventa un allenamento
per sviluppare la comunione e la condivisione. Soffrire infine di paura diventa
un allenamento per sviluppare la fede
in Dio, l'abbandono e la totale fiducia in Lui. Allora tutto ciò che ci succede
acquista un suo significato, un senso per la nostra vita. Tutto ci riguarda,
tutto serve per la nostra missione terrena, in vista della vera
“trasfigurazione” finale, nella contemplazione di Dio faccia a faccia.
Dobbiamo
allora smetterla di lamentarci, fratelli; dobbiamo invece ringraziare Dio per
tutto quello che la sua Provvidenza ci riserva in questa Vita.
Molti
di noi, poi, sono convinti che la felicità sia impossibile in questa vita; alcuni
si sentono addirittura in colpa se capita talvolta di essere felici; altri invece,
senza accorgersene, arrivano perfino a sabotare la propria vita pur di non essere
felici: sono degli eterni scontenti, per definizione; devono trovare sempre e
comunque qualcosa che non va bene, qualche motivo per dolersene. Sbagliano di
grosso, fratelli: perché tutti abbiamo il diritto e il dovere di essere felici.
Si tratta solo di scegliere quale tipologia di felicità. E la trasfigurazione ce
lo insegna: in essa, cioè, Gesù ha la totale e immediata visione di sé: Gesù
vede chiaramente dentro di sé, ha l’esatta percezione della propria missione. Ecco,
la felicità è tutta qui: vedere dentro di noi, vedere la vera faccia di noi
stessi, delle cose, del presente, del futuro; non fermarsi tanto all’involucro
esteriore, all’apparenza, ma a quello che c’è all’interno, all'essenza.
Trasfigurazione è quando riusciamo a percepiamo la presenza di Dio oltre i
limiti e della nostra umana debolezza; quando capiamo finalmente chi siamo e in
cosa consiste la nostra vita. È andare all'essenza, al centro delle cose; è la
visione della realtà. Dobbiamo andare oltre la “nube”, ossia la quotidianità, la forma, la materia, che ci nascondono
l’essenza della vita: dobbiamo insistere, perché prima o poi uno sprazzo di
luce la penetra, e noi finalmente possiamo vederla.
Nella
vita un fiore sbocciato, un tramonto sul mare, uno stormire di fronde, un
battito d’ali, il sorriso di un bimbo, possono non dirci nulla di particolare:
ma se noi guardiamo bene, entriamo
dentro, allora possiamo veramente emozionarci
per ciò che vediamo. Non siamo matti, né infantili o femminucce: è
trasfigurazione. Così, se ci capita di piangere a dirotto, senza parole, perché
qualcuno ci ha detto: “Ti amo!”, oppure: “Mi sposi?”, oppure: “Sono incinta,
aspettiamo un figlio”, tranquilli, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato
di prendere in braccio nostro figlio appena nato e di guardarlo e di chiederci:
“Ma viene proprio da me? L'ho fatto io?” e di essere incredulo e di non volerci
staccare da lui, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di piangere solo
perché eravamo felici e per nessun altro motivo, non meravigliamoci, questa è
trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per
qualcuno, di provare emozioni che ci fanno battere il cuore, questa è
trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la
poesia, per la verità, e vogliamo vivere solo per loro, forse il mondo ci dirà
che siamo “matti, scemi, fuori di testa”, ma anche questa è trasfigurazione.
Se ci
è capitato di essere in mezzo al caos più totale, di non poter far più nulla
per qualcuno che sta morendo, ma di sentirci comunque sereni nelle mani di Dio
e della Vita, questa è trasfigurazione, la felicità del cuore. Se ci è capitato
un fatto che ci ha cambiato la vita, che ci ha salvato, al punto che anche
volendolo, non riusciamo più ad essere quelli di prima, perché intimamente
toccati, ebbene questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati
e di soffrire per ciò che crediamo e per le nostre idee ma di non essere scesi
a compromessi, di non aver patteggiato la nostra autenticità, questa è
trasfigurazione, perché possiamo guardarci allo specchio con la dignità di un uomo
e il coraggio di un guerriero.
Sul
Tabor, il monte della Trasfigurazione, ci viene comunicato l'essenziale; che è:
“L’uomo ha il diritto-dovere di essere felice”; di una felicità che non è avere, ma vivere la luce, vivere la missione, la vita, i carismi: tutte cose
che sono già dentro di noi, ma che aspettano di essere “trasfigurate”. Dobbiamo essere sempre ottimisti; non dobbiamo fare
come il pessimista che si ferma a guardare la storia che passa; noi dobbiamo “costruire”
la storia; non dobbiamo vedere in ogni opportunità offerta, solo le difficoltà;
al contrario dobbiamo vedere nuove opportunità in ogni difficoltà che incontriamo
nella vita. Anche questa è trasfigurazione. Un giorno un ciliegio disse ad un
mandorlo: “Parlami di Dio!”. E il mandorlo immediatamente fiorì! Dio è presente
in tutti noi, fratelli; chiede solo di essere rivelato. Chiede insomma la nostra “trasfigurazione”.
Amen.
«Gesù, pieno di Spirito Santo,
si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per
quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).
Con
il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta
giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché
questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento
di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad
un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40
giorni che precedono la Pasqua, deve essere un sistema, uno stile di vita;
per noi, “quaresima”, è quel tempo
che ci serve per rialzarci, per fortificarci di fronte ad una situazione spirituale
un po’ compromessa; è quel tempo in cui camminiamo, cresciamo, fatichiamo,
piangiamo, lavoriamo; è il tempo di “conversione”,
del ritornare sui nostri passi e del rimetterci nella giusta carreggiata
facendo una inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli,
inadatti, insufficienti, non potendo prescindere da Dio. Noi spesso pecchiamo
di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono
a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti
dobbiamo fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la
nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo
fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo ricongiungerci a Cristo nostra
Pasqua. Ricordiamocelo, fratelli: chi non compie il proprio “esodo”, chi non oltrepassa
il suo Mar Rosso, non potrà neppure incamminarsi verso la libertà; chi non percorre
il deserto della propria quaresima non potrà mai raggiungere la Terra Promessa,
le acque sorgive e limpide della Pasqua.
Anche
Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto. E il vangelo di oggi,
parlando appunto delle tentazioni da Lui subite, ce ne chiarisce le modalità,
le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti
in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù:
Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato
dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora arriva la
tentazione di Satana: subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione.
L’importante è non arrendersi mai, non aver paura; dobbiamo esorcizzarle queste
“tentazioni”, fratelli; dobbiamo guadarle in faccia, cercare di capirne il
contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle a
fronte alta, senza tentennamenti o indolenze. La vita, il mondo in cui viviamo,
la società, è il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona
operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. “Ricordati di tutto il cammino che il
Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per
umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore”
(Dt 8,2). Ecco questo è il punto: quaresima,
deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra
realtà, alla nostra coscienza, all’autentica nostra essenza. Nudi, senza
fronzoli, maschere, infrastrutture di comodo, abbellimenti ad uso esterno.
In
greco “tentare” (peirzein), significa infatti “provare”,
“verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela
impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa abbiamo veramente
dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al
prossimo.
Tutti
i grandi profeti e i grandi personaggi biblici sono stati tentati; come pure tutti
i santi di questo mondo: la tentazione non è quindi un incoraggiamento a fare del male, ma la verifica delle nostre forze, l’autenticazione della nostra vera identità,
della nostra personalità.
Una certa
morale restrittiva del passato ci ordinava: “Attenzione, dovete evitare assolutamente
le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa anche solo se veniva
sfiorata dal pensare ad un'altra donna, se provava qualche naturale impulso cattivo
di odio o di rabbia. “Sono cose gravi che non si devono fare”, ci diceva, “e
guai a chi le fa!”. Ma le tentazioni, fratelli, non dipendono da noi, non le
possiamo evitare. L’importante è non aderirvi. Del resto tutta la vita è una
tentazione: è un banco di prova, un tester, che ci rivela impietosamente la
tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle nostre radici; ci segnala
i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità
e autenticità della nostra fede.
Le
tentazioni pertanto devono tenerci umili, devono fugare tutte quelle velleità
del nostro ego, basate sulla
eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata
superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza,
sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare
il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma
anche quella di chi ci sta vicino. Sono situazioni con cui dobbiamo
confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, dai nostri superiori,
in famiglia? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Immediatamente
una voce ci suggerisce: “A che serve credere, a che serve frequentare questa
comunità, a che serve darsi da fare, essere fedele, se poi chi ci dovrebbe insegnare,
chi dovrebbe guidarci con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarci, confortarci,
capirci, si comporta così male con noi?” Oppure: “Quel prete non ci piace; inutile
andare in quella chiesa; non ci andiamo più e basta! Preferiamo, per un maggior
profitto spirituale, andare in quell’altra Chiesa, frequentare quell’altra
parrocchia; perché lì troviamo tanta pace, c’è un prete veramente in gamba!”. Eccola
la tentazione: è veramente il “profitto
spirituale” che ci fa muovere, o il nostro orgoglio “ferito”? Perché,
fratelli, a monte di tutto, c’è sempre il nostro “ego”: noi valiamo, siamo i più preparati, potremmo fare cose
eccelse, potremmo far resuscitare una comunità “moribonda”, solo se “qualcuno”
ci desse credito! e ci convinciamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno.
Vale la pena allora, nel nostro “deserto”,
domandarci sinceramente: “tutta qui la grande fede in Dio che mi pavoneggio di ostentare
davanti a tutti”? Inganno: è bastata una semplice contrarietà per farci scappare,
un piccolo disappunto per farci abbandonare tutto; è bastato che uno non ci
piacesse, che uno non facesse come noi avremmo voluto, per abbandonare la
nostra vocazione, la nostra missione, piantare tutto. Che fine hanno fatto la
preghiera, la sopportazione, la sofferenza, la carità? Un bagno di umiltà ci
aspetta, fratelli: percorriamo con grande compostezza e obiettività il nostro “deserto”
quaresimale! Dicevamo di avere una solida fede, ma poi si è rivelata una
montatura a beneficio degli altri: non fede profonda, convinta, ma orgoglio travestito
da religiosità. Ecco, fratelli; la “quaresima” della vita, con le sue prove,
con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi:
perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: è necessario
quindi percorrere ancora una volta questo nostro cammino quaresimale. Non
possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire.
Il
vangelo dice che Gesù fu spinto nel deserto e non mangiò in quei 40 giorni: Gesù
dunque è spinto dalla Spirito nel “deserto”. Perché? Perché nel deserto si è soli,
non c'è nessuno e niente altro. Nel deserto siamo solo noi, di fronte a noi
stessi, con la nostra coscienza, con ciò che siamo veramente. Ed è proprio lì
che dobbiamo riprendere la nostra vita in mano, è lì che dobbiamo fortificare la
nostra fede, le nostre decisioni. Come? “Digiunando”.
Purtroppo
oggi non capiamo più il senso profondo del digiuno: per questo non lo
pratichiamo. Pensiamo che digiunare corrisponda solo a limitarci nel cibo. Ma il
digiuno, quello autentico, non consiste tanto nell’astenerci dal mangiare carne
o in alternativa nel sacrificarci per chissà quale iniziativa filantropica, o
nel privarci di qualche soddisfazione materiale. Certo, sono cose buone anche
quelle. Ma “digiunare” vuol dire “fare verità” su noi stessi. Vuol dire
scrutarci dentro, riesumare la nostra autenticità, specchiarci con serenità e
sincerità nella nostra anima, e individuare le vere tentazioni della vita. Noi
abbiamo paura di guardarci dentro: siamo pieni, zeppi di “anestetici” che smorzano
le nostre voci interiori. Come nella vita normale. Se non dormiamo prendiamo i
tranquillanti. Se andiamo facilmente in ansia, assumiamo “alcune gocce” per
calmarci. Se siamo “troppo eccitati”, con dei tranquillanti torniamo a poterci
gestire. Ci droghiamo o eccediamo nell’alcool per eliminare il disagio che proviamo
dentro, pensando in tal modo di calmare le nostre tensioni. Perché la cocaina è
così diffusa e in continuo aumento? Perché aumenta sempre più il numero di quelli
che cercano di dare una parvenza di felicità alla loro esistenza infelice,
disperata. Ci rimpinziamo di cibo per non percepire la fame d'amore che bussa
dentro di noi. Ci buttiamo nel lavoro per dare importanza e senso ad
un'esistenza che altrimenti non avrebbe senso. Abbiamo bisogno ogni giorno di
cambiamenti, di novità, di sesso, di provocazioni, per eccitare una vita
evidentemente sterile e piatta. Abbiamo bisogno di parlare sempre, siamo dei
parolai, dei logorroici, un fiume in piena, che cerca di affogare nelle parole le
urla disperate del nostro cuore.
Cosa
succede quando dobbiamo “digiunare”, fare
silenzio, quando dobbiamo stare soli con noi stessi, senza chiasso, senza rumori,
senza radio né televisione? Succede che tutto quello che cerchiamo
di nascondere, improvvisamente esce fuori! Tutti i mostri che abbiamo dentro escono
allo scoperto e sembrano sbranarci. Ci vediamo finalmente nella nostra più
completa nudità. E questo non ci piace. Non vogliamo vederci così. Niente “deserto”, niente “digiuno”, niente “quaresima”.
Eppure,
fratelli miei, quella è la strada; di là dobbiamo andare; è là che dobbiamo necessariamente
fare i conti con noi stessi. È Dio che lo vuole. Se non affrontiamo i nostri
demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione
di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di
questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto delle mia
vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che
non ci conosciamo! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo
mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi
e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi”,
del non essere come tutti gli altri: ci fa vedere quello che non esiste, ciò che
è irrealizzabile. Ma a noi tutto questo piace, ci piace così tanto da crederlo
vero: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, orientiamo
tutta la nostra vita nella sua direzione. E poi quando ci accorgiamo che è solo
una chimera diabolica, che non esiste nulla di ciò, che con tanto impegno abbiamo
vanamente inseguito, allora ci sentiamo falliti.
Ecco: la
quaresima ci insegna ad evitare proprio questo.
Il
vangelo si conclude infine con l'annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù
per tornare al tempo fissato”. Qual è questo “tempo fissato”? È l’oggi, ovviamente; è il tempo in cui viviamo; la
prova, la tentazione non si è fermata a Gesù; è ritornata, ritorna e ritornerà ancora,
continuamente, finché ci saranno uomini su questa terra. Sarebbe infatti troppo
bello dire: “Abbiamo superato la prova, ora finalmente siamo a posto”. Non lo siamo
proprio per niente: a livelli sempre diversi, con intensità e difficoltà
variabili, per tutta la vita saremo sempre messi alla prova. Ed è bene che sia
così; perché ogni prova, se superata, contribuisce a radicarci sempre più nell’amore
di Dio.
La più
grande tentazione dell’uomo è quella di ignorare la “tentazione”; evita cioè di
misurarsi continuamente con le difficoltà e le avversità della vita, rincorrendo
l’effimero, il superficiale. Potrebbe sembrare una soluzione, ma non lo è. Purtroppo,
fratelli, il deserto è lì davanti a noi e non può essere evitato: dobbiamo attraversarlo,
combattendo e “digiunando” per tutto il tempo che serve.
Un
pensiero deve però consolarci e darci fiducia: nessuna “tentazione” diabolica
in sé può farci male: potrà farci soffrire, questo sì, ma gli unici artefici
del nostro male siamo noi, quando acconsentiamo alle sue lusinghe. Ma “si nobiscum Deus, quis contra nos?” Se
Dio è con noi, chi potrà mai sopraffarci? Radichiamoci dunque nel mistero di
Dio, affidiamoci alla sua onnipotente bontà. E affrontiamo fiduciosi e convinti
la nostra “quaresima”. Amen.
«Quando ebbe finito di parlare,
disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone
rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla;
ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme
di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (Lc 5,1-11).
Dopo
il disprezzo e la rabbia dimostrati con tanta cattiveria contro la sua persona,
dai suoi stessi concittadini, Gesù non si scoraggia e continua la sua opera
evangelizzatrice, predicando e guarendo. E un po' alla volta le persone che lo
seguono, che lo appoggiano, che lo aiutano, che lo ospitano, aumentano a vista
d’occhio. D'altronde è abbastanza ovvio: se Gesù avesse guarito un nostro figlio,
come potremmo non essergli riconoscenti? Se fossimo noi i morti ai quali egli ha
ridato la voglia di vivere: come potremmo non ringraziarlo per tutta la vita? Se
fossimo noi i paralizzati che ha fatto camminare, come potremmo non seguirlo,
lui che ci ha guariti? Se fossimo noi gli indemoniati che ha liberato, come potremmo
non amare chi ci ha ridato la dignità di vivere?
Ad un
certo punto però Gesù decide di fare una scelta: tra tanti, chiama in
particolare un ristretto gruppo di persone, gli apostoli, i Dodici. Ciò che
Gesù fa è qualcosa di nuovo. Egli vuole che questo piccolo gruppo lo segua, osservi,
impari, per poi essere in grado di fare come Lui. Infatti un giorno dirà loro “Andate, predicate e guarite” (Mc 3,14; Lc
10,1-20).
E lo
dice anche a noi. Ecco perché non possiamo rimanere sempre discepoli. Ad un
certo punto dobbiamo diventare maestri, adulti, crescere. Non possiamo spendere
tutta la vita a chiedere ogni cosa a Dio o al prossimo; non possiamo essere
solamente passivi; non possiamo sempre aspettare; non possiamo vivere facendo
finta di non avere doti e capacità; non possiamo rimanere sempre bambini. Un
bel momento Dio ci manda fuori.
Il
vangelo non è un cenacolo chiuso, esclusivo: il vangelo è andare nel mondo per
cambiare il mondo. Il vangelo è missione, portare la vita; è passione, fuoco,
luce, verità; cose che con Lui abbiamo sperimentato dentro e fuori di noi. È una
conseguenza normale: se proviamo una grande gioia, come possiamo tenerla solo
per noi? Se abbiamo trovato un tesoro meraviglioso, come facciamo a lasciarlo
nascosto? Se abbiamo scoperto ciò che fa vivere, sicuramente vogliamo che tutti
vivano, che tutti si appassionino e che si riempiano di questa “meraviglia”!
Il
vangelo è come la scuola: si studia ingegneria non per studiare sempre, ma per diventare
ingegneri, per lavorare! Andiamo alla scuola di Gesù per diventare degli altri
Gesù, non per rimanere eterni bambini, dei piccoli egoisti che pretendono solo di
ricevere e basta. Siamo stati anche noi “segnati”; rientriamo cioè anche noi
tra i “dodici” della prima chiamata, che hanno costituito il “nuovo popolo”, il
popolo di Gesù di allora e di oggi. Nostro compito è quello di assicurare nel
tempo la presenza liberatrice e guaritrice di Gesù. Gesù infatti non vuole più
riunire le dodici tribù di Israele, ma vuole riunire tutti i popoli della terra.
Luca,
nel vangelo di oggi, ci riporta la chiamata dei primi quattro di quei dodici: i
due fratelli Pietro e Andrea, pescatori, e i due fratelli Giacomo e Giovanni,
anch'essi pescatori ma di un livello sociale più elevato (avevano, diciamo, una
“impresa” di pesca).
Il
vangelo in realtà si focalizza e si concentra sulla figura di Pietro. Siamo
presso il lago di Genèsaret. Ora, nei
vangeli, l’idea del “lago” oltre che essere strettamente legata a fenomeni di
cambiamento improvviso, di tempesta, di rovesciamento di situazione, di scombussolamento,
di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), con la sua superficie liscia, immobile,
tranquilla, ci fa pensare anche alla condizione di vita di quei pescatori,
prima dell’incontro con Gesù: monotona, ogni giorno sempre le stesse cose. La
loro è una vita di superficie, piatta come le acque del lago.
Un po’
come la nostra vita spirituale. Non siamo cattivi, non siamo gente di
malaffare, tant'è che permettiamo anche noi a Gesù di usare la nostra “barca”.
Però siamo convinti che stiamo bene così, che la vita è tutta qui. Pensiamo che
questo sia il solo modo di vivere. E invece, fratelli, neppure sappiamo come si
vive “uscendo” con Lui! Sì, abbiamo provato, ma abbiamo combinato ben poco,
anzi proprio nulla!
A
questo punto domandiamoci: Siamo davvero felici? C'è fuoco, c'è passione nel nostro
agire? C'è luce nei nostri occhi? C'è sole nel nostro viso? C'è profondità
nelle nostre parole? “Maestro abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo
preso nulla”. Come a dire: “Facciamo tante cose, corriamo tanto e sempre, ma
dentro “non peschiamo nulla, non ci riempie niente”.
La
realtà, fratelli, è che se continuiamo a vivere in superficie è difficile
combinare qualcosa di buono: lì, a quel livello, è proprio impossibile!
Gli
apostoli stanno lavando le reti, ma mentre le lavano, ascoltano Gesù. Sentono
la vibrazione che li tocca dentro; sentono che quelle parole ridestano emozioni
“morte”, emozioni che fanno vivere; sentono che Egli mostra loro “la vita vera”,
che li spinge ad osare.
Allora
che facciamo? Beh, prima o poi arriva il momento in cui dobbiamo deciderci: la
nave è pronta, l'equipaggio c'è, il comandante c’è, e l'occorrente pure. Adesso
dobbiamo sciogliere gli ormeggi e prendere il largo. O si va o si sta. Non ci
sono vie di mezzo. O ci fidiamo di lui e andiamo, o rimaniamo lì fermi per
sempre. Ad un certo punto dobbiamo rischiare, dobbiamo osare, dobbiamo andare.
Significa semplicemente avere fede: ci fidiamo e andiamo. Non sappiamo dove ma ci
fidiamo di te. “Che ne sarà di noi? Che succederà? Perderemo qualcuno? Soffriremo?
E se poi ci sbagliamo?”: domande legittime, certo. Ma se ascoltiamo la paura
non prenderemo mai il largo.
Gesù
non fa mai tanti discorsi. Infatti seguirlo, non è questione di essere convinti
su quanto ha detto, ma basta amore e fiducia. Non lo seguiamo perché ci ha
convinti, ma perché ci siamo innamorati di Lui, di ciò che con Lui possiamo
essere e vivere.
Le
proposte di Gesù sono sempre incisive, ma di grande respiro, di larghe,
profonde, ampie visioni: ci costringe cioè a scegliere, a metterci in gioco; ci
fa andare là dove mai avremmo pensato di poter andare, e vivere in luoghi che
neppure pensavamo esistessero. Per questo quelli che lo incontravano gli
dicevano: “Tu sei la Vita”; perché Lui li faceva veramente vivere!
La
chiamata si articola in due inviti, semplici, decisi e chiari. Il primo: “Prendi il largo”: non ha bisogno di
molte spiegazioni. Vuol dire: “inoltrati nell'ignoto, esci fuori dai tuoi
soliti schemi, dai tuoi soliti modi di pensare, di fare, e inoltrati nella vita”.
“Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”.
“E se non riesco, se non funziona?”. “Possibile”. Domande lecite, fratelli: dubbi
più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, decidere una buona
volta; altrimenti continueremo a vivere così; però poi non lamentiamoci! Il
treno della vita passa una volta sola: tocca a noi prenderlo. Nessuno può farlo
al posto nostro. O noi, o nessun altro.
Molti
dicono: “Non è per me; sarebbe bello ma non ne sono capace” e ne sono convinti.
In realtà dovrebbero dire: “Ho paura; mi è più comodo così!”.
Fratelli
miei, continuiamo a trastullarci con le solite compagnie, col solito giro di
amici che non ci offre più nulla? “Prendi il largo!”. Frequentiamo colleghi o
amici che parlano solo di donne, di sport, di soldi e lavoro? “Prendi il largo!”.
Frequentiamo sempre quell’ambiente e ci sentiamo oppressi dai soliti giudizi
velenosi, dagli sguardi di traverso, dalle invidie? “Prendi il largo!”. Abbiamo
una sete terribile di verità, di ricerca, di scoprire, di capire; non ci
accontentiamo delle risposte preconfezionate, classiche, ma vogliamo andare al
centro della vita? “Prendi il largo!”.
L'altro
invito è: “Cala le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai a fondo; vai nel mistero
della Vita”. La Vita, Gesù, non si può vivere stando in superficie, fuori; bisogna
immergersi. Non è un caso che “battesimo”, in greco, voglia dire proprio questo.
Siamo
figli di Dio? Oh, certo che sì! Ma cosa vuol dire “si”? Perché è una risposta che
non risolve nessuno dei nostri problemi e non ci cambia la vita; “Entra dentro,
immergiti” e solo allora sentiremo su di noi tutta la forza, la potenza, la
dignità di essere figli suoi.
Abbiamo
una missione da compiere? Ma certo! Ma siamo noi che lo dobbiamo scoprire! Siamo
noi che dobbiamo entrare in noi stessi (introire
secum). E come si fa? Dobbiamo entrare dentro
di noi: punto. Non c'è altra strada.
Quando
Pietro si rende conto di come si può vivere con Gesù (la rete è piena,
stracolma di pesci!), ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol
dire con questo? Prima di tutto non si sente degno: “Non ce la faccio! Non ne
sono capace! Non è possibile!”. La gente ha paura di essere felice. Poi si
sente in colpa per aver sprecato tutto quel tempo. Una delle sensazioni più
amare della vita è il giorno in cui a quarant'anni (o cinquanta o quello che
è!) ci svegliamo, ci rendiamo conto di quanto sia inebriante e meraviglioso
vivere con Lui, e diciamo: “Dio, quanta vita ho perso!”. E ci rendiamo conto di
non aver mai vissuto finora; la chiamavamo “vita” ma era “vegetare”. Fa male
scoprire quanto tempo abbiamo sprecato! Infine si rende conto del suo “peccato”:
ha chiamato “vita” ciò che era superficie, vegetare, “tirare avanti”,
vivacchiare. “Peccato”, in ebraico, significa “freccia che manca il bersaglio”:
viviamo e crediamo che la nostra sia la vita vera; poi ci rendiamo conto che la
vita è tutto un'altra cosa: non abbiamo fatto centro, non era vero: questo è il
vero peccato. Gettandosi in ginocchio Pietro riconosce di aver chiamato “vita”
ciò che era “morte”. Bisogna accettare di aver sbagliato se vogliamo trovare la
strada giusta; perché se ci intestardiamo a proseguire per la strada sbagliata,
non arriveremo mai là dove vogliamo arrivare.
Siamo
umili, fratelli. Quando una cosa è sbagliata, quando non ci offre ciò che ci
dovrebbe dare, diciamo semplicemente: “Ho sbagliato, non vale la pena andare
avanti”. Abbandoniamo la vecchia strada e imbocchiamone una nuova.
Da
pescato a pescatore: oggi Pietro ha toccato, sentito, sperimentato, cosa vuol
dire incontrare il Signore. Capite ora perché lo ha seguito? Capite perché
Andrea, Giacomo e Giovanni hanno fatto altrettanto? Cos'altro avrebbero potuto
fare? Erano morti e sono stati pescati, riportati in vita; cos’altro avrebbero
potuto fare se non i pescatori di Vita?
«Non temere; d’ora in poi sarai
pescatore di uomini».
Sono le parole che Gesù ha detto anche a noi, dopo che lo abbiamo incontrato. La
nostra vita era vuota, come una rete senza pesci: Gesù l'ha riempita al punto da
farla traboccare. Prima chiamavamo “vita” quello che era solo “vegetare”,
sopravvivere: è Lui che ce l’ha fatto capire. Prima eravamo impauriti, ma Egli
ci ha insegnato quanto sia bello prendere il largo e non rimanere fermi al
porto. Prima ci accontentavamo, ma Lui ci ha insegnato a raggiungere il massimo
che possiamo vivere. Prima parlavamo a vanvera; ora, soltanto ora, possiamo invece
trasmettere agli altri ciò che Lui ci ha insegnato. Signore, “Tu hai parole di
vita eterna”: l’ho capito, l’ho provato. Per questo voglio seguirti; voglio lasciare
tutto, voglio mettermi a rischio, voglio osare, voglio vivere per Te. “Sulla
tua parola, getterò le mie reti”. Amen.
«In verità io vi dico: nessun
profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si
mise in cammino» (Lc 4,21-30).
La
pagina del vangelo di oggi è il seguito di quella di domenica scorsa. Siamo
nella sinagoga di Cafarnao. Gesù ha appena ultimato la lettura e la spiegazione
del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”. Nel silenzio
profondo che ne segue, tutti si meravigliano, rimangono stupiti: “Ma come, non
è il figlio di Giuseppe? Eppure dice proprio delle belle parole; parla bene; ci
piace proprio”. Sembrano tutti accoglienti, ben disposti: ma è solo un
comportamento di superficie. Ben presto, infatti, messi di fronte alle parole
chiare ed esplicite di Gesù, si lasciano andare alla rabbia, vengono sopraffatti
dall’ira e da tutta una serie di pregiudizi; improvvisamente innalzano nei suoi
confronti delle barriere, reagiscono con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e
dalla città, e tentano addirittura di ucciderlo; ma è Gesù che, passando in
mezzo a loro, spontaneamente se ne va, riprende la sua strada. È lui che se ne va: anche se lo fa contro voglia; la chiusura dei suoi compaesani è determinante, è come eliminarlo dalla loro comunità, cacciarlo; escluso
perché scomodo, perché va contro la loro mentalità chiusa e rancorosa. Le sue
parole costituiscono per loro un problema. Che altro poteva fare Gesù? La sua è un’amara
constatazione: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua
patria». È triste, ma è proprio così.
Quelli
che lo respingono sono infatti i suoi concittadini, gente conosciuta; sono quelli che
puntualmente si riuniscono tutti i sabati in preghiera nella sinagoga: persone che però hanno sì la
religione nel cuore, ma non hanno Dio. Pregano dentro la “casa di Dio”, ma sono senza Dio;
innalzano preghiere, ma non pregano. Hanno Gesù, ma non ne capiscono il valore e lo buttano fuori dalla loro vita.
Una
constatazione quella di Gesù che, fratelli, deve farci pensare seriamente. Un “ante litteram”
di ciò che succede anche oggi, di ciò che ci vede disinvolti protagonisti ai nostri
giorni.
Anche
noi andiamo in chiesa, ma troppo spesso dimostriamo di essere senza Dio. Andiamo in
chiesa ma siamo contro Dio; non condividiamo la sua Parola. Né più né meno di
come è successo allora, a Nazareth.
Anche
noi vorremmo un Gesù diverso; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo secondo le nostre
idee, i nostri schemi, i nostri parametri: e quando vediamo che Gesù non è così,
lo rifiutiamo. Rifiutiamo in pratica colui che può salvarci, che può guarirci;
rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante
volte vorremmo le persone diverse da quel che sono: vero? Le vorremmo come noi; secondo
le nostre esigenze, fatte tutte su misura per noi, in un certo modo; vorremmo che tutto il mondo
fosse esattamente come noi lo immaginiamo. Ma le persone, al contrario, sono quelle che sono, sono come
sono; questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere
dal presente, dalla vita di ogni giorno, dalla realtà.
Quante
volte, fratelli, noi rifiutiamo a priori situazioni, sollecitazioni, incontri,
esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Solo se
avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, questi input potrebbero
essere la nostra salvezza.
Gesù
viene rifiutato dall'uomo, dal pregiudizio umano, da chi vuole modellarlo
secondo le proprie idee, da chi lo vuole adattare alle proprie esigenze. Noi
infatti, nel nostro egotismo, abbiamo già in testa come dovrebbe essere il nostro Dio; sappiamo già come
dovrebbe comportarsi con noi, quali cose dire, quali miracoli fare. E poiché ciò non può essere,
lo escludiamo dalla nostra vita. Lo accogliamo fino a quando corrisponde alle nostre
idee; ma appena ci accorgiamo che è diverso, che non scenderà mai a compromessi
con noi, con il nostro ego, con la nostra ottusità, automaticamente lo
escludiamo. E non solo con Dio: noi ci comportiamo allo stesso modo anche con
chi ci sta vicino, con i nostri confratelli, con i parenti, con gli amici: non
rientrano nei nostri schemi? Li eliminiamo: “Fuori”, “Via”!
Ma che
amore può avere per gli altri chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di
amore può nutrire chi accetta il prossimo solo quando gli va bene? Che amore è
quello di chi pretende di regolamentare la vita degli altri a modo suo?
È in
questo modo, fratelli, che escludiamo il Dio-Verità dalla nostra vita: è così
che obblighiamo Gesù a lasciarci, ad andarsene; non lo fa di sua iniziativa, siamo
noi che lo buttiamo fuori.
Il
pregiudizio dei compaesani nei confronti di Gesù, è la stessa arma che usiamo anche noi continuamente
contro i nostri fratelli, contro i nostri colleghi: “Ma chi ti credi di essere?
guarda che ti conosco bene; abbassa la cresta”. Dove non possiamo emergere per meriti personali,
ci arriviamo calunniando gli altri: “Lo sai di chi è amico? Lo sai che frequenta
gente di malaffare, che è un poco di buono, un mangione, un beone, un
parassita?”. Vecchia tecnica: facendo terra bruciata intorno a noi, automaticamente saremo i soli ad emergere; per innalzare noi stessi, abbassiamo gli altri.
Purtroppo
le persone che criticano tutti, che hanno da ridire su tutti, che non si fidano
di nessuno, dimostrano di essere dei meschini, di avere un animo piccino e vuoto:
alla fine, quello che dicono degli altri, corrisponde esattamente alla loro
immagine, a quel che provano nel loro cuore avvizzito. È vero: quando sparliamo degli altri, senza saperlo, descriviamo solo noi stessi. Quanto staremmo meglio noi, invece, quanto male gratuito,
quante sofferenze eviteremmo, soltanto se fossimo più aperti, più sensibili, meno
acidi nel criticare, più umili nell’ascoltare gli altri e più cauti nel
sentenziare!
Ma “queste
cose non ci appartengono”, pensiamo convintamente: “noi siamo credenti, mica siamo pagani, non ci abbassiamo a tanto!”. Fratelli mie: Gesù non fu
ucciso dagli atei, dai pagani o dai miscredenti; fu ucciso dai credenti
più credenti di tutti; così credenti, così
pii, così zelanti, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per
nessuno. Gesù per le vie della Palestina annunciava la Buona Nuova (il Vangelo):
fu ucciso non perché non era buona,
ma perché era nuova. Gesù mandava in
frantumi gli schemi, i pregiudizi e le visuali dei “sapienti” dell’epoca, stravolgeva
la loro idea tradizionale di Dio, della Legge, del prossimo. Annunciava un Dio
diverso, e i “fedelissimi” della Legge non gliela perdonarono; annunciava un
Dio amico anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare; annunciava
insomma un Dio della vita: e non era in contraddizione tra ciò che diceva e ciò
che faceva; annunciava un Dio della giustizia, un Dio che condanna le falsità e
le ipocrisie nascoste:e i nobili e i ricchi si sentirono chiamati in causa in
prima persona. Annunciava un Dio che rompeva con una tradizione fatta di
sterili regole: e i rispettosi delle regole si sentirono spiazzati nel loro
orgoglio di fedeli conservatori della Legge.
Per
questo Gesù non venne accolto a casa sua: e dunque, vistosi rifiutato, se ne
va. A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la sua
gente aspettava. Ciò che prima di tutto gli stava a cuore era essere se stesso,
mantenersi fedele al Suo Dio, al Padre, e alla Sua verità: questo era per Lui il
Messia.
Gesù è
rimasto sempre e profondamente se stesso. Gesù non ha mai tradito il suo nome,
la sua vocazione, la sua chiamata e la sua missione. Per questo Egli è un uomo
compiuto. E quando sulla croce dirà: “Tutto
è compiuto”, intende dire che tutto ciò che doveva fare, tutto ciò che
poteva fare, Egli l'ha fatto: ha vissuto la sua vita, compiendo fedelmente la
missione per cui Dio lo aveva mandato in questo mondo.
Gesù
non ha permesso al pregiudizio di limitarlo: anzi, quando poteva, lo attaccava
direttamente sotto qualunque forma gli si presentasse; quando non poteva farci
nulla, se ne andava altrove. Perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Non gli
importava molto cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere
gradito, ammirato, accettato. Era un uomo libero. Per questo poteva permettersi
di dire le cose come stavano; per questo sostava con i poveri e con i ricchi,
per questo era libero di incontrare e abbracciare chiunque, perfino le donne, di
ascoltarle, di toccarle.
Non
c'era pregiudizio nella sua mente e neanche nel suo cuore. Non gli interessava conoscere
cosa la gente pensasse di lui; non gli interessava sapere cosa l'opinione
pubblica pensasse di quelle persone che incontrava: se doveva o voleva
incontrarle, le incontrava, senza curarsi del parere di nessuno. Gesù, a
differenza di noi, in tutta la sua vita terrena fu sempre un uomo autentico, fu
sempre se stesso. Solo chi è libero da qualunque pregiudizio può vivere completamente
e serenamente la propria vita: in caso contrario, non vive la propria vita ma quella
degli altri; vive una vita non sua, un doppione, una fotocopia; una esperienza
alienante, deludente e deprimente. Chi è fedele a se stesso non sarà mai
tradito dalla vita; il male peggiore, infatti, sta proprio nel rinunciare a se
stessi, alla propria anima, alla propria chiamata. Questo è il grande peccato
dell'uomo, e questo è il peccato che egli deve superare e vincere ad ogni costo.
“Passando in mezzo a loro se ne
andò”. Sicuramente
le cattiverie, le insinuazioni dei suoi concittadini, hanno fatto male a Gesù:
bassezze del genere non possono che ferire. Ma lui è passato a testa alta in
mezzo a tanto lordume; niente non lo ha “smontato”, niente lo ha bloccato. Certo
ha sofferto, sì, il suo cuore ne è rimasto amareggiato, ma Lui ha proseguito per
la sua strada. Gesù è rimasto se stesso, è rimasto il Figlio di Dio, ha
continuato imperterrito la sua missione. Impariamo da Lui, fratelli: non lasciamoci
condizionare dal male, non permettiamo alle malelingue di sviarci dai nostri
buoni propositi. Affidiamoci a Lui, e vedrete che nessuno mai potrà fermarci.
Amen.