mercoledì 22 febbraio 2012

26 Febbraio 2012 – I Domenica di Quaresima

«Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana».
È la prima domenica di quaresima. Siamo all’inizio del vangelo di Marco, e Gesù, subito dopo la teofania del battesimo in cui ha sperimentato la vicinanza col Padre, sentendosi amato, accolto e voluto incondizionatamente, deve affrontare un’altra esperienza: quaranta giorni di deserto, di preghiera, di penitenza e solitudine. Quaranta giorni: quaranta, da cui deriva la parola “quaresima” (40 giorni, appunto), è un numero simbolico: 40 sono i giorni che Mosè sta sul monte Sinai; 40 sono i giorni di cammino di Elia; 40 sono gli anni del popolo ebreo nel deserto; a 40 anni Maometto incominciò la sua missione; a 40 anni Buddha divenne un illuminato; a 40 anni Mosè sente la chiamata di Jahweh e fugge nel deserto, scappando dalla reggia del faraone. Questo numero, come anche il tre o il sette, non rappresenta, dunque, un tempo cronologico reale, scandito dalla somma dei giorni. Indica piuttosto una lunga attesa, una lunga prova, un tempo sufficiente per vedere le opere di Dio, un tempo entro il quale occorre decidersi ad assumere le proprie responsabilità senza ulteriori rimandi. È il tempo delle decisioni mature. Verso i 40 anni, infatti, avviene normalmente il grande cambiamento della nostra vita: la prima parte se ne è andata, è già alle spalle. Ci si sente realizzati, compiuti. Ma incominciamo anche a notare le prime avvisaglie dell’inevitabile declino: i tratti del volto si induriscono, le prime rughe fanno da corona agli occhi, la bellezza perde di luminosità, diventa più faticoso realizzare i propri sogni, molti ideali che sembravano il massimo dell’esistenza, si rivelano fatue illusioni e profonde delusioni. La vita ci chiama a puntare e a costruire su altre cose. Dall’esterno (lavoro, studio, casa, carriera, famiglia) si passa all’interno: che senso ha vivere? Perché vivo? Come vivere? La vita cioè ci chiama ad approfondire la nostra esistenza.
Ebbene: la Quaresima è il tempo propizio per questo passaggio; è il tempo nuovo in cui siamo chiamati a crescere, a fare un passo decisivo, a prendere decisioni risolutive, a fermarci e a porci domande profonde: “In cosa debbo crescere? In cosa debbo maturare? Cosa debbo lasciare e cosa di nuovo prendere?”. La quaresima è il tempo in cui si lascia una terra (l’Egitto), terra di schiavitù, per andare verso una terra di libertà (terra promessa). Un passaggio che si attua nel deserto. Sì, perché deserto vuol dire spogliarsi di fronte a se stessi, vedersi per quello che si è realmente. Significa affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne per diventare dei camminatori della vita: superare gli sbarramenti che non ci fanno evolvere, per poter progredire sulla strada che conduce verso noi e verso Dio. Questo è il percorso che ciascuno deve affrontare. Lo ha fatto Gesù, lo dobbiamo fare anche noi. È un’esperienza ineludibile.
È il nostro “esodo” dalla quotidianità, dalla spensieratezza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida quotidianità.
Viviamo soddisfatti, stiamo bene, tutto funziona; ma poi improvvisamente le cose cambiano, poi il meccanismo si inceppa, poi il rapporto si incrina. Capiamo che quel che facciamo non basta, cominciamo a pretendere di più; iniziamo a sentirci soffocati, insoddisfatti; ciò che prima ci andava bene adesso non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide ci si fanno avanti.
Il nostro cammino è giunto ai margini del deserto: dobbiamo affrontarlo; dobbiamo cambiare stile di vita, anche se non sappiamo cosa ci aspetterà; ci sono cose che dobbiamo assolutamente abbandonare, altre da correggere, altre da coltivare e promuovere: e per farlo possiamo contare soltanto su di noi e su Dio. Ogni uomo è chiamato ad uscire verso la sua terra promessa, verso se stesso, la sua anima, verso Dio: ma la strada del suo esodo passa attraverso il deserto, le barriere, gli ostacoli, gli stop della vita: ed è la crisi.
Una parola, “crisi”, che oggi è molto di moda: si va in crisi perché la vita ci chiama ad evolverci e a cambiare, ma noi non ne siamo capaci, non ci adeguiamo, recalcitriamo, stiamo bene come stiamo. E così entriamo in crisi: un momento di dolore, di grande passione, negativo quanto si vuole, ma anche positivo e tonificante. Anche noi, come gli Ebrei, ci ribelliamo: “Basta, io mi fermo! Ma chi me l’ha fatto fare! Stavo così bene prima!”. Ma dopo l’iniziale sgomento, ci scopriamo più profondi, più veri, più trasparenti, più inseriti nel mistero della vita, più capaci di amare, più uomini, più liberi. Ogni crisi ci costringe a tirare fuori nuova energia, più grinta, più voglia di attingere a nuove e impensate risorse.
Dio dice al popolo ebreo: “Ti ho portato nel deserto per vedere quello che avevi nel cuore”; è il deserto infatti che ci mostra immediatamente cosa abbiamo dentro, ci toglie tutte le illusioni che ci siamo costruite negli anni, tutti gli abbagli, ci toglie tutte le maschere, ci spoglia, ci riporta all’essenziale, all’originale innocente nudità.
Tentazione vuol dire: “Stai attento, perché tu questo, hai nel cuore!”. Significa essere messi alla prova, non per vedere se siamo buoni o cattivi, ma perché possiamo renderci conto, in maniera trasparente e chiara, cosa abbiamo dentro.
Il deserto è così, fratelli: è spietato perché ci mostra esattamente quello che siamo, senza fronzoli e ipocrisie. È come essere di fronte ad uno specchio: “Questo sei tu! Guardati! Non scappare! Non nasconderti!”. Per questo lo eviteremmo molto volentieri. Per questo lo consideriamo “pericoloso”. Per questo cerchiamo in tutti i modi di evitarlo.
Il nostro deserto sarà sempre il luogo dei demoni e di tutte le voci demoniache che ci scuotono dentro: “Vedi come sei realmente? Sei un mascalzone; te lo meriti, potevi ascoltarmi; non vali niente; sei un fallito; guarda cos’hai fatto; non sei capace neppure di amare; sei un’incapace; oh, se gli altri sapessero!”. Chi vorrebbe ascoltare queste voci? Chi vorrebbe misurarsi con loro? È molto meglio stordirle con il baccano, con fiumi di chiacchiere e di parole, con i rumori, con vuoti divertimenti, annegarle in mille cose inutili da fare.
Anche Gesù ha dovuto confrontarsi con l’animalesco, il terribile, il demoniaco: in una parola con il male. Non si può compiere nessun serio viaggio cristiano, evangelico, umano, senza questo terribile confronto. È nella nostra natura, ci segue passo passo. Qualche esempio?
Nessuno di noi ha problemi sessuali. Ovvio! È chiaro! Nessuno ha bisogno di confrontarsi con questa sfera, di conoscerla, di comprenderla, di integrarla. Ma allora non si capisce come mai la pornografia sia così diffusa; non si capisce perché certi “spettacoli” tv continuino ad essere proposti di notte; non si capisce perché nel web la mercificazione del nudo femminile e dell’erotismo abbiano così tanti consensi; non si capisce perché una grossa percentuale delle riviste cartacee in commercio, siano a carattere pornografico!
Nessuno di noi ha sentimenti di odio. Ovvio! È chiaro! Ma non si capisce perché talvolta ci si debba scagliare con tanta rabbia e brutalità contro chi sbaglia; perché succedano tante manifestazioni animalesche negli stadi e nei luoghi di divertimento giovanili (eppure sono i nostri giovani, i nostri figli: li abbiamo educati noi, sono venuti nelle nostre scuole, hanno frequentato le nostre chiese!). Violenze, omicidi, soprusi, insolenze, sono cronaca quotidiana: basta guardare come ci comportiamo al lavoro, per strada, in macchina. A volte ci relazioniamo non come persone, ma come “bestie”!
Nessuno di noi è ipocrita. Ovvio! È chiaro! Ma non si capisce perché a volte capita di sorridere del male altrui; siamo contenti che si dica male del nostro collega, che venga infangato; che gli altri siano considerati meno di noi; che sbaglino: “ben gli sta; sono proprio contento; così impara!”. Non mordiamo nessuno, ma siamo contenti se qualcun altro lo fa al posto nostro.
Noi mercoledì scorso ci siamo messi la cenere in testa: non è stato un gioco ma un bagno di umiltà: dobbiamo cioè avere l’umiltà di riconoscere che talvolta anche noi ci comportiamo così. Dobbiamo riconoscere che il male abita in noi forse più che negli altri.
Dopo questo incontro-scontro con i fantasmi e i demoni interiori, intenso e terribile, Gesù ha trovato tutta la forza per andare avanti. Da qui in poi, nessuno potrà più fermarlo.
Soltanto confrontandoci decisamente con il potenziale distruttivo che abbiamo dentro, anche noi potremo convertirlo in forza, vigore, energia, passione, potenza.
Il nostro valore non è dato dall’esterno, né da ciò che gli altri pensano di noi, né da ciò che conquistiamo; ma dalla nostra capacità di confrontarci con ciò che abbiamo dentro, gestendolo senza falsi timori, trasformando i nostri demoni in altrettanti angeli positivi. Niente di ciò che è dentro di noi è pericoloso se lo affrontiamo, lo conosciamo, lo addomestichiamo. Anche ciò che sembra distruttivo, pericoloso o malvagio può trasformarsi e diventare positivo, un angelo, una forza, una luce, una sensibilità, uno spazio d’amore. Diceva giustamente il poeta Rainer Maria Rilke: “Ho paura che se i miei demoni mi lasciano, se ne andranno anche i miei angeli”.
È dunque dopo l’esperienza tremenda del deserto che diventiamo consapevoli della nostra forza. Perché? Perché è il confronto, lo stare con la sofferenza, che ci matura, che ci fortifica, che ci rende potenti.
Le esperienze belle, piacevoli, ci rendono la vita meravigliosa; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci fanno cambiare radicalmente, che ci trasformano. È incontrando e addomesticando i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli; non giustifichiamo la nostra accidia, pensando di avere dentro solo demoni, solo schifezze, solo casini, difficoltà, problemi, confusioni. Non attacchiamoci a questo pretesto, non “tiriamo avanti”, carponi.
Soprattutto perché noi, fratelli, noi dentro abbiamo Dio, non dimentichiamolo. Lui è in noi. Scopriamo dunque il nostro valore! Riprendiamocelo tutto il nostro valore!
Siamo dei privilegiati, in tutto. Anche nella nostra vita normale. Abbiamo delle mani e con le mani possiamo accarezzare, abbracciare, costruire, lavorare, creare, dipingere, suonare, dare la mano, giocare, cullare, scalare, scrivere, unire la nostra mano alla mano di chi amiamo. Ci rendiamo conto di cosa possiamo fare? Ci rendiamo conto del valore delle nostre mani?.
Abbiamo degli occhi e possiamo vedere il sole, la luna e le stelle, il mare, il cielo, il volo degli uccelli, la neve che cade a fiocchi, il sorriso delle persone che amiamo, la luce nei loro occhi. Abbiamo delle orecchie e possiamo sentire la voce di chi ci ama, il pianto di chi soffre, il respiro tremante di chi ha paura, il canto degli uccelli, il rumore della risacca marina, il mormorio del vento, le voci gioiose dei bambini, la passione di chi parla.
Abbiamo poi un cuore e con il cuore possiamo dire: “Ti voglio bene. Lo sai che sei importante per me. Lo sai che ti amo! Nei tuoi momenti bui e difficili, io sarò al tuo fianco. Non ti preoccupare, non me ne andrò. Qui dentro sei a casa tua”. Possiamo accarezzare, abbracciare, baciare ed esprimere l’amore che abbiamo dentro. Possiamo farlo.
Abbiamo infine un’anima che può decidere di vivere, di spendersi per qualcosa di grande, di appassionarsi per la vita e per tutto ciò che vive, che può non accontentarsi del naturale, ma anela di entrare nel mistero dell’esistenza; abbiamo un’anima che può entrare in contatto con Dio, che può cogliere il senso di tutto, che può cogliere il vero senso della vita, che può lottare per grandi valori e ideali, che può cambiare certi destini, che può essere felice e vivere divinamente da liberata e illuminata.
Ci rendiamo conto di cosa abbiamo davanti, di come potremmo vivere? È difficile tutto questo?
Sì e no. Potremo vivere tutto questo solo dopo aver passato il deserto e aver vinto i nostri demoni.
E allora, che ne pensate fratelli? Non vale forse la pena di vivere coraggiosamente il nostro deserto per arrivare a questa beatitudine? Perché accettare di vivere come galline quando siamo fatti per volteggiare in cielo come aquile? Perché avere paura dei “quaranta giorni” di deserto, quando poi abbiamo una vita intera, un’eternità, da vivere nell’amore di Dio? Non dimentichiamo, fratelli, che siamo Figli di Dio; che Dio stesso è in noi e con noi.
Che vogliamo di più? Siamo ricchi, fratelli; possiamo vivere cose intense, grandi, enormi. L’importante è non dimenticare mai a chi apparteniamo; non dimenticare mai da dove proveniamo e dove siamo diretti; non dimenticare mai di quale dignità siamo rivestiti, e a quale dignità siamo chiamati. Soltanto dopo il nostro “deserto”. Buona quaresima, fratelli! Amen.


mercoledì 15 febbraio 2012

19 Febbraio 2012 – VII Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao dopo alcuni giorni. Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone, che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola. Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone...».
Gesù ritorna a Cafarnao, dove continua a predicare e a guarire gli infermi. Questa volta il vangelo ci presenta un paralitico. È immobile. Non fa nulla. Non parla, non dice una parola, non si muove, non interviene, non cammina. Non ha neppure un nome: è un uomo paralizzato nel corpo, nella mente, nel cuore; è sclerotizzato, fossilizzato, totalmente passivo. Il fatto che, disteso su di un lettuccio, sia portato da quattro persone, ci dice appunto che la sua paralisi è totale. Noi ci saremmo aspettati che Gesù, vedendolo, lo toccasse e lo guarisse. Ma non è così: la paralisi del corpo non è il suo vero problema: la sua malattia è molto più grave, è al suo interno, dentro il suo cuore; e Gesù lo sa. È la sua anima che è paralizzata, è bloccata dal peccato, una paralisi invisibile ma reale. Il paralitico vuol guarire da questa sua infermità dell’anima, perché da buon ebreo sa bene che è il peccato la causa dell’infermità corporale. Egli crede in Gesù, ha una fede profonda: è deciso a modificare il suo atteggiamento interiore, e vuole guarire sul serio, da tutto. Non come tanti di noi che vogliono sì guarire, ma senza cambiare nulla del loro comportamento: lamentano mancanza di dialogo e di carità nel loro ambiente; vorrebbero più riconoscimenti, più gioia, più amici, più amore, più rispetto: ma per arrivare a questo, non sono disponibili a cedere in nulla; quelli che devono cambiare sono sempre e solo gli altri. È questo Il vero nostro guaio, fratelli: non accettiamo di essere messi in discussione. Perché non abbiamo fede; andiamo avanti imperterriti per la nostra strada, facciamo tutto ciò che gratifica il nostro ego, non importa se lecito o illecito, morale o immorale; non crediamo in Dio, non rispettiamo il prossimo. È questo il male che ci paralizza, fratelli, è questa la nostra paralisi che ci confina nella immobilità sul nostro lettino.
Il paralitico del vangelo invece ha tanta fede; egli crede, è fermamente convinto di poter guarire. È questo che lo rende diverso dagli altri. È questo che lo salva e lo guarisce. Gesù gli dice: «Figlio, ti sono perdonati i peccati». Nient’altro. La guarigione dalla paralisi del corpo è conseguente al perdono dei peccati. E per dimostrarlo ai suoi soliti denigratori aggiunge: «Alzati e cammina».
Qualunque sia la nostra situazione, qualunque sia il nostro errore, qualunque sia il baratro in cui siamo caduti, qualunque sia la nostra malattia o la nostra disperazione, con la fede, l’amore e la contrizione, tutto si annulla, tutto viene perdonato, tutto viene ricomposto: “Alzati e cammina”. È il comando invitante che Gesù ci dà dopo ogni caduta, nel lungo cammino della nostra vita. “Tirati su, riparti, vai! Prova di nuovo e vedrai che ci riuscirai. Non piegarti alle tue sconfitte, non rassegnarti e non abbandonarti ad esse: ma “alzati e cammina”.
Ascoltiamo riconoscenti e con gioia questa voce di Gesù, fratelli: invece quanti non ascoltano, quanti si stancano, si arrendono, si abbandonano sfiduciati lungo la strada, nonostante i compagni di viaggio cerchino di sorreggerli; quanti addirittura, senza voler far nulla, pretendendo che siano gli altri a farsi carico dei loro problemi! Non pensiamo di essere sempre e solo noi le vittime; smettiamola di fare sceneggiate ad ogni contrarietà; soprattutto smettiamola di comportarci come dei bambini viziati. Troppe volte ci offendiamo e ci isoliamo per delle sciocchezze, facciamo tragedie per delle stupidaggini, e rispondiamo a piccoli screzi insignificanti con autentico odio: dovremmo vergognarci; finiamola di auto commiserarci; prendiamo in mano il nostro giaciglio, alziamoci in piedi, e camminiamo.
Il lettuccio del paralitico rappresenta la malattia con le umane debolezze. Gesù non dice: “Butta via il lettuccio. Liberatene, Lascia perdere tutto”. Ma: “Prendilo e cammina”. Ci dice: “Prendi il tuo lettino, il tuo giaciglio: prendi in mano la tua vita, le tue paralisi, i tuoi problemi, le tue paure, le tue sconfitte, i tuoi complessi! Non vergognarti davanti agli altri dei tuoi limiti, accetta apertamente le tue debolezze e fattene carico tu, personalmente”. Certo, noi tutti vorremmo essere felici, liberi senza costrizioni,forti e decisi. Purtroppo non siamo così; è la vita a non essere così. Noi prima vorremmo essere sicuri, forti, perfettamente in forma, e poi affrontare il mondo e gli altri. Ma non funziona così. Dobbiamo invece alzarci, prendere umilmente il nostro lettuccio sotto braccio, e andare, affrontare la vita così come siamo, con le nostre meschinità, con le nostre debolezze, con le nostre insicurezze: ma con tanta fede in Lui.
Il vangelo ci dice poi che accanto e intorno al paralitico, nella casa di Cafarnao, c’è tutta una serie di personaggi, che bene o male influiscono su si lui.
C’è la folla. La folla è l’indifferenza; quando arriva il paralitico, nessuno se ne accorge. La casa è piena, stipata di gente: sono tutti presi dalle parole di Gesù; sono talmente impegnati che non si accorgono di nulla. Non si rendono conto che sono proprio loro, la “folla”, ad impedire ai barellieri e a quest’uomo di affrontare la guarigione, la libertà, la Verità, la Vita. Noi, spesso siamo così. Non siamo cattivi, ma la nostra indifferenza, la nostra pigrizia, la nostra svogliatezza, senza soluzioni di sorta, il nostro cuore ottuso, senza luce, senza amore, ci impediscono l’incontro con la Via, con la Verità, con la Vita, con l’autentica Carità.
Accanto a noi ci sono persone poi che non credono, che non hanno fede, che non immaginano neppure la possibilità di una nostra guarigione, di diventare migliori, diversi, uscendo dalle nostre malattie immobilizzanti per vivere in maniera più ampia, più estesa, più solare. Non ci pensano e neppure vogliono questo per noi: sono come gli scribi, non ci amano. Ci dicono: “Che vuoi di più? Di che ti lamenti? Hai tutto!”; e per "tutto” intendono vestiti, casa, soldi, piaceri, auto, cibo a volontà, benessere. Non immaginano neppure che esistano altre cose, altri valori nella vita; come: felicità, senso, verità, autenticità, libertà, amore vero.
Poi ci sono i barellieri. I barellieri del paralitico hanno anch’essi una grande fiducia in Gesù. Loro lo portano fin lì, ma non sono loro che lo mettono in piedi, guarito: è il paralitico che si rialza da solo, è lui che lo vuole e sarà lui che, obbedendo all’ordine di Gesù, otterrà la guarigione completa. Non sono ovviamente loro i guaritori, ma se non avessero avuto fede, se non l’avessero portato davanti a Gesù, forse quel poveretto avrebbe perso la sua grande occasione e sarebbe rimasto paralizzato per tutta la vita. Sono stati i suoi angeli. Gli stessi numerosissimi angeli che anche noi abbiamo nella nostra vita: sono tutte quelle persone che ci amano e credono in noi. Talvolta ci crediamo dei falliti, degli incapaci, ma c’è sempre qualcuno che ci sorregge, ci fa rialzare, ci fa credere nuovamente in noi. Quando pensiamo di non farcela più, di non riuscire a superare certe crisi, improvvisamente arriva qualcuno che ci affianca, ci accompagna da qualche Gesù per farci parlare, aprirci, esprimere il nostro tormento, ritrovare luce, ritrovare noi stessi.
Tutte queste persone sono i nostri angeli, sono delle benedizioni, delle visioni che ci aiutano a incontrare e a rivedere il Volto luminoso di Dio. Ringraziamo Dio, fratelli, per queste persone, per questi angeli autentici della nostra vita.
E poi c’è Gesù. Gesù che gli dice: “Figliolo ti sono rimessi i tuoi peccati”. Parole che lasciano un po’ tutti nello sconcerto; ma come, in quattro fanno una faticaccia, innalzano il paralitico fin sul tetto della casa, praticano un’apertura e lo calano giù glielo mettono davanti, completamente paralizzato, immobilizzato, e Gesù, il grande guaritore, che fa? gli annuncia candidamente che i suoi peccati sono rimessi. Tutti ovviamente si aspettavano che Gesù stendesse la mano e guarisse al suo tocco, come succedeva normalmente. Ma questa volta nulla di ciò: Gesù intuisce qual è la vera infermità di quel poveretto. Non è il corpo che soffre; è il suo animo, è nel suo profondo che egli è paralizzato, è dal peccato che egli è immobilizzato. È il peccato la sua vera malattia. Rimosso dall’anima il peccato, la guarigione del corpo è assicurata. Poi gli basta una parola: «alzati e cammina».
Ebbene fratelli, anche noi a volte sentiamo il peso delle nostre infermità, delle nostre paure, dei nostri egoismi, dei nostri peccati: un peso, un macigno che paralizza la nostra vita spirituale. Non ignoriamo questo segnale di Dio, scuotiamo la nostra fede intorpidita, rivolgiamo fiduciosi il nostro sguardo a Gesù: egli ci aspetta, ci guarda amorevolmente e ci capisce. Egli vede la paralisi del nostro cuore, egli vede la nostra sincera volontà di risorgere, di liberarcene, di confessare i nostri errori, di farla finita con i nostri compromessi. E sorridendo ci dice: “Prendi il tuo giaciglio, alzati e cammina”. Allora, fratelli, non tentenniamo oltre, non fermiamoci a pensare. Alziamoci di slancio, riprendiamo in mano la nostra vita, buttiamo alle spalle il nostro passato, e incamminiamoci fiduciosi, rinnovati nella fede e nell’amore, dritto davanti a noi: e accettiamo di stringere, nella nostra, la mano che Egli, con tanta tenerezza e sollecitudine, quotidianamente ci tende. Amen.


mercoledì 8 febbraio 2012

12 Febbraio 2012 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”».
Oggi Marco ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso e la sua guarigione. Tranquilli, la malattia della lebbra è stata ormai quasi completamente debellata; non dovremmo quindi temere più di “toccare”, di “comunicare” con gli altri (la lebbra a quei tempi impediva qualunque tentativo di avvicinamento, di socializzazione). Purtroppo però oggi dobbiamo fare i conti con un’altra malattia epidemica, altrettanto invalidante: l’incomunicabilità, l’indifferenza, l’ermetismo, la chiusura totale verso gli altri. In questo senso tutti noi continuiamo ad essere dei lebbrosi; e ciascuno di noi può immedesimarsi in quel poveretto. Sì, perché la nostra vita è infestata di questa nuova lebbra, con tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: c’è la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta il proprio fisico, il proprio carattere, la propria vita; e non si sopporta perché, quando si guarda dentro, non trova niente per cui valga la pena di impegnarsi. C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra della vergogna: di quando si viene additati; di quando ci viene continuamente rinfacciato il nostro errore; la lebbra di chi non si perdona, di chi confessa sempre la stessa colpa da anni, di chi si sente sempre colpevole; la lebbra della vergogna di sentirsi inferiore agli altri, per non aver studiato, per non essere brillante, per non essere fisicamente bello e attraente; c’è la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ebbene, fratelli, chi di noi non si è sentito discriminato, etichettato, evitato, come il lebbroso del vangelo? Ma ci sono anche altre lebbre che fanno terra bruciata intorno a noi, essendo gli altri a farne le spese, a pagarne le dirette conseguenze: alludo alla lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria… ; sono tutte lebbre deformanti, che di fronte ai nostri fratelli ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi esente da queste forme di lebbra? Penso proprio ben pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Facciamo anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Riviviamo per un attimo la scena: il poveretto si butta in ginocchio e supplica Gesù: “Se vuoi puoi guarirmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si crede malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Per questo il lebbroso si abbandona, e chiede a Gesù di fare tutto lui: “Se vuoi puoi guarirmi”.
E Gesù interviene. Egli prova nei confronti di tanta arrendevolezza qualcosa di forte ed intenso: è “mosso a compassione”. Il termine greco, oltre che compassione, indica addirittura un “amore materno”, un amore che tocca dentro, un amore viscerale. Un amore che compendia i sentimenti umani più vulnerabili: la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, ha una vitale necessità di questo amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di poter sentire che c’è qualcuno che lo accoglie, che lo apprezza, che non lo evita. Perché questo è un amore che salva.
Gesù guarda questo relitto umano con occhi diversi da quelli degli altri: “Io ti conosco, credo in te; so che sotto questo tuo aspetto disgustoso, sopravvive ancora un germoglio stupendo, un qualcosa di grande e prezioso. Sei così, perché sei stato deformato dal dolore della vita; ma io vedo la tua bellezza, le tue potenzialità. E voglio che torni a risplendere”.
E l’amore “materno” di Gesù, da sentimento, diventa azione: “Stese la mano”. Il verbo “ekteino” vuol dire proprio “distendere”, un allungare le mani, protenderle: Gesù lo ama e il suo amore si fa azione, si protende verso di lui e lo tocca. Immaginiamolo quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga, tutti dicono: “Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai speranze”; mentre Gesù, il maestro - sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro – si “distende”, gli va incontro, allunga la mano e lo “tocca”; il verbo greco “apto” oltre che “toccare” indica “afferrare”: un significato che rende l’azione di Gesù ancora più amorevole: si dirige decisamente con le braccia protese verso di lui, ma l’uomo, consapevole della sua deformità, istintivamente si ritrae, tenta di scappare; ma Gesù lo “afferra”, lo trattiene con forza (“lo voglio”), e aggiunge “guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti liberi del rancore, dell’amarezza, della vergogna, dei rifiuti che ti hanno deturpato, riacquisterai la tua luce primordiale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire “guarire”: ritornare ad essere se stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea che Dio, la Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni umane hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire “sii ciò che eri; ritorna ad essere esattamente quello stesso che Dio aveva in testa quando ti ha pensato”.
Perché c’è tanto scontento sulla terra, tanta infelicità? Perché le persone non vivono quello che sono: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere continuamente “altro”. Non si riconoscono in chi sono, e cercano affannosamente di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare esattamente ciò per cui siamo stati creati. Se vogliamo altre cose, primo, non riusciremo mai a farle e, secondo, la nostra vita sarà sempre incompleta, vana, non realizzata, inutile. Se uno non vive la propria “forma” si sforma, si deforma.
 Ci chiediamo continuamente: “Che devo fare?”. Domanda più che lecita. Ma non ci accorgiamo che intorno a noi troppe persone fasulle sono pronte a darci le “loro” risposte; e ci costringono a vivere vite non nostre, vite di altri. In realtà, la domanda che tutti dobbiamo porci, è un’altra: “Chi sono io?”. E solo Lui, sommessamente, può suggerirci la risposta. “Sii te stesso e saprai chi sei; con il mio “contatto” guarirai dalla tua lebbra e vivrai ammirandomi nella tua immagine”. Questo vivere è la sorgente della vita, della felicità, del nostro esserci.
La risposta di Gesù al lebbroso: “Lo voglio, guarisci”, stupenda, rassicurante, entusiasmante nella sua essenzialità, merita bene qualche altra considerazione.
Prima di tutto Gesù non teme di sporcarsi le mani, di contagiarsi, e tocca quel poveretto devastato dalla lebbra. Egli crede in lui. Lo conosce da sempre, lo ama; si sporca le mani, si lascia coinvolgere da lui, proprio perché lo ama: e subito l’altro inizia a guarire. Potenza dell’amore.
Un giorno una suora disse a Madre Teresa: “Madre perché i miei ammalati non trovano la pace come qui da te?”. “Perché io non lavoro per portar loro la pace; io la trovo qui con loro”. Sporcarsi le mani vuol dire condividere: “Mi metto in gioco con te e ti accompagno nella tua strada”. Questo è l’amore vero, fratelli, l’amore autentico; un amore fiducioso e lungimirante che dice: “In te c’è una sorgente pura; io la valorizzerò”.
Può succedere che anche noi, poveri lebbrosi, perdiamo il senso della nostra origine e del nostro essere; però se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di calarci completamente nella nostra anima, scopriremo sicuramente una piccola radice, una minuscola parte di noi che non è deformata, che non è corrotta, distrutta. È la nostra sorgente di luce interiore, che può anche essere spenta, offuscata, coperta, ma non cancellata. È come entrare in una stanza completamente buia: non si vede nulla, ma la luce c’è, basta girare l’interruttore, aprire le tapparelle. Con il soffio della vita, tutti abbiamo ricevuto questo dono di luce: ripeto, può capitare che in qualcuno non sia accesa, non risplenda, ma c’è (e continuerà ad esserci).
Ecco perché, fratelli, ogni uomo merita rispetto, onore, accoglienza. Non per quello che fa, ma per quello che è, per la sua essenza. Possiamo certamente condannare quello che fa, possiamo rifiutarlo o non accettarlo; ma dobbiamo sempre ricordare che nel suo profondo vive e sgorga la stessa nostra Sorgente Pura. È per questo che, davanti a Lui, siamo tutti uguali; è per questo che ogni uomo è mio fratello: e in questo tempo di decadimento dei valori morali, di chiusura alla religione e a Dio, di mancanza di validi riferimenti, dobbiamo riscoprire questa realtà e dare nuovo vigore alla nostra spiritualità: “Tu sei mio fratello. Non temere, camminiamo insieme, corriamo al Suo passaggio sulle strade della nostra vita, e chiediamogli a gran voce: Se vuoi, puoi purificarmi!”.
“Io lo voglio!” risponde Gesù al lebbroso; “Io lo voglio!” è sempre pronto a rispondere anche a noi. Ma noi, lo vogliamo veramente? vogliamo che Gesù ci guarisca? È importante chiederselo, perché Dio non può niente se noi non lo vogliamo. Dio può tutto, ma solo se noi lo vogliamo.
Verrebbe da dire: “Esiste forse un ammalato che non vuole guarire? Tutti lo vogliono!”. Eppure non è così, fratelli. Perché “guarire” vuol dire “rendere puro, luminoso”, portare luce nel nostro buio, ridare forza al nostro fisico stremato, fare pulizia, eliminare le impurità della nostra lebbra. Tutte cose che ci coinvolgono in prima persona, che costano fatica. Tutti vogliamo guarire, ma non tutti siamo disposti a faticare, a collaborare, a metterci del nostro, ad accettare le conseguenze della guarigione. Non possiamo guarire senza trasformarci radicalmente. Non siamo più noi, non siamo più l’originale; e dobbiamo essere noi a voler “guarire”, ad abbandonare questa nostra falsa e deformante identità per ritornare alla purezza originale. Tutti vorremmo guarire senza far nulla; senza cambiare idee; senza cambiare le nostre certezze, i nostri pensieri, il nostro modo di vivere. Ma guarire così è impensabile! Se il nostro modo di vivere e di pensare non ci guarisce, vuol dire che dobbiamo cambiare mentalità e modo di vivere: insistere sulle nostre posizioni significa ammalarsi sempre più gravemente. “Io lo voglio” continua a ripeterci Gesù. E noi che aspettiamo ancora? Affrettiamoci, “tocchiamolo”. Amen.


mercoledì 1 febbraio 2012

5 Febbraio 2012 – V Domenica del Tempo Ordinario

«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva».
Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù ha fissato la sua provvisoria dimora; e qui passava i suoi giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa, in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre a casa di Simone e guarire la sua parente. Un normale fatto di vita quotidiana che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per un particolare che mi ha incuriosito e che mi ha spinto ad andare oltre: la “malattia” della suocera.
Marco parla di “febbre”: una febbre così alta da costringerla a letto. Ora, leggendo il testo, penso che sarà successo anche a voi di domandarvi quale fosse in realtà la vera causa di questa “febbre”. La risposta è facilmente intuibile: se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva piantato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, arrivando addirittura a togliere materialmente, a lei e a sua figlia, il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti. “Ma che sta facendo questo scriteriato di Simone? È diventato matto? Come facciamo noi ora? Non siamo mica ricche noi! Non può certo permettersi una cosa del genere! Come camperemo? Sarà per caso questo Gesù che ci darà da vivere? Non si rende conto che si sta esponendo alle critiche della gente e della sinagoga? Questo Gesù per il quale lui stravede, si è già messo contro la sinagoga, e molti dicono che fa cose “pericolose”; dicono addirittura che guarisca i malati in nome del “demonio”. Possibile che quel credulone di mio genero si lasci abbindolare da un tizio come questo? Io mi vergogno perfino ad uscire di casa! Qui le cose si mettono veramente male!”. E questa poveraccia, angustiata continuamente da tali preoccupazioni, peraltro giustificabilissime, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera una testa calda, un credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante di tale situazione.
La sua “febbre” non è altro che un segnale della sua lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è un cartello che dice chiaramente “qui c’è guerra; state attenti!”; è il segno esteriore di quella sofferenza interiore che gli sconquassa l’anima e che ancora non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Seti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” Mt 5,23s). E questo è esattamente il comportamento coerente di Gesù: egli corre e va subito da lei.
Primo insegnamento: nutriamo rabbia, risentimento, odio, nei confronti di qualcuno? Non perdiamo tempo; andiamo noi da questo qualcuno, chiariamoci, confrontiamoci con lui. Perché, fratelli miei, l’odio genera altro odio e il fuoco della rabbia dissecca il cuore e acceca l’anima.
Gesù, ci dice il vangelo, «si accostò, la sollevò e la prese per mano».
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era distanza, ma Gesù si fa vicino, riduce la distanza, prende lui l’iniziativa e la incontra. “La sollevò” (egheiro, “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”): la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le sta vicino, finché la donna gli dà ascolto e “si solleva” dalla sua paura che la domina e dalla preoccupazione per ciò che sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è lui, che possa “farne esperienza” di persona, che lo possa “conoscere”, “impadronirsi” di lui. Da questo verbo deriva anche la parola “cratere”: la donna è un cratere pieno di fuoco e nella sua debolezza potrebbe esplodere; Gesù, invece, è un cratere di energia, la sua “lava” è vitale, non rimane dentro covando odio, ma si espande benefica, trasformandosi in amore, in tenerezza, in attenzione per l’altro; riducendo, annullando, la distanza che esiste con lui. A questo punto cosa accade tra Gesù e la suocera di Simone? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo capiamo che Gesù, sentito il risentimento della donna, ha preso l’iniziativa è andato da lei, piano piano le si è avvicinato, le ha parlato; finché la donna ha capito che quell’uomo non è né un pazzo, né un fuori di testa. E lo ha accolto. Anzi, come sottolinea il vangelo, si è subito alzata ed ha iniziato a “servirli”.
Tutta la sua rabbia, il suo astio, improvvisamente sono scomparsi. Appena incontra Gesù, in lei avviene una trasformazione radicale: il suo è un passaggio simultaneo dall’ignorare Gesù, al mettersi a suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto per quest’uomo; dal volergli stare il più lontano possibile, al volergli stare sempre vicino; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo come un amico, uno affidabile,uno su cui può contare, che è sempre con te e per te.
Secondo insegnamento: finché la donna combatte Gesù, non può guarire. Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, la sua febbre e il suo odio, scompaiono.
A volte noi proviamo rancore verso i nostri fratelli, perché siamo concentrati unicamente su noi stessi: non ci mettiamo nei panni degli altri, non vogliamo ascoltarli, non vogliamo sentire le loro ragioni. Vediamo solo noi stessi e sentiamo solo il nostro dolore. Ma se riusciamo a comunicare il nostro dolore, le nostre ragioni, la nostra parte (e se loro si lasciano toccare da ciò), allora stabiliamo con loro un contatto e sarà possibile incontrarsi; e tutte le ragioni del nostro odio finalmente cadranno.
Anche quando qualcuno ce l’ha con noi, cosa possiamo fare? Come dobbiamo comportarci quando qualcuno è arrabbiato con noi? Beh, la prima reazione, quella naturale, è di stargli più alla larga possibile. Ma questo crea altra diffidenza, ingigantisce la distanza.
Impariamo invece da Gesù. Egli fa due cose.
La prima: prende lui l’iniziativa e va di persona. Spesso noi rimaniamo nella nostra rabbia, facciamo gli offesi e diciamo: “Deve venire lui da me! Con quello che mi hai fatto è il minimo che possa fare!”. Quando si è feriti è normale chiudersi: ma se rimaniamo chiusi nel risentimento non c’è possibilità di incontro; se ci chiudiamo nel silenzio e ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo nulla.
La seconda: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: sa che è arrabbiata perché non lo conosce; perché lui ha un suo modo di vivere che non è “come quello di tutti”; perché Simone ha fatto una scelta radicale e difficile, contraria al buon senso, che lei non arriva ancora a capire.
Ebbene fratelli: nel mondo c’è tanta rabbia e tanto dolore: è una prerogativa della umana esistenza. Quando una persona è arrabbiata, vuol dire che nel suo intimo è ferita; e con una persona ferita, dobbiamo avere tanta comprensione, tanta delicatezza, tanta cura: altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo nel piano della rabbia, ci facciamo solo la guerra; se invece ci incontreremo nell’amore, allora ci capiremo, allora non saremo più indifferenti gli uni con gli altri.
Così faceva Gesù per le strade della Palestina. Tutti i giorni, per tutto il giorno.
Ma da dove prendeva tanta forza, il Signore, per riuscire ad accogliere tutti, ad ascoltarli, a guarirli? Da dove prendeva tanta energia per fare della sua vita un “annuncio” costante?
Dalla preghiera, fratelli. Da una preghiera lunga e attenta, che gli permetteva di capire la volontà del padre. Una preghiera che stupisce e affascina tutti, i discepoli e noi. Una preghiera che non è la lista della spesa da presentare a Dio, quando le cose non funzionano, ma il dialogo intimo e intenso di chi si lascia plasmare. E poiché la giornata è frenetica anche per Lui, Gesù prega di notte.
Così faceva Gesù; così dobbiamo fare anche noi, se vogliamo seguirlo come Simone e i discepoli. Rubiamogli questo suo grande “segreto”: poniamoci anche noi umilmente in un costante, intimo colloquio col Padre, che ci permetta di fare sempre della nostra vita un dono agli altri. Amen.


martedì 24 gennaio 2012

29 Gennaio 2012 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafarnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».
È sabato. Giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, con al seguito lo sparuto gruppetto di discepoli appena chiamati, entra nella sinagoga di Cafarnao e si mette senza tanti preamboli ad insegnare; e che succede? Le persone presenti si rendono subito conto che egli, pur non essendo scriba, pur non essendo preposto all'annuncio della Parola di Dio, è decisamente su un altro livello rispetto agli scribi; si rendono immediatamente conto che, a differenza degli scribi, egli viene direttamente da Dio. Sentono le sue parole scendere in profondità nel loro cuore; sentono che sono parole cariche di umanità, di vita, di liberazione. E tra di loro sussurrano, stupiti, meravigliati: “Finalmente! Si sente che è in collegamento diretto con Dio!”.
Non è uno scriba! Ma chi erano dunque questi scribi? Originariamente erano tecnici esperti nella trascrizione dei testi sacri (scriba, sôphêr (in ebraico), significa appunto scrivano, amanuense). Progressivamente però hanno assunto una smisurata autorità nella comunità ebraica, superiore a quella del sommo sacerdote, superiore persino a quella della stessa Torah, di cui erano i custodi, gli infallibili interpreti, gli unici ad essere autorizzati a commentarla.
Ebbene: quel sabato, alla presenza di questi signori, Gesù prende in mano il rotolo e con grande serenità impartisce loro una magistrale lezione di stile e di vita, una di quelle che avrà modo di ripetere più volte anche in seguito. Siamo nella sinagoga, praticamente in casa loro: per cui se non fosse stato per il popolo presente che, “meravigliato”, si è schierato immediatamente a fianco di questo sconosciuto dalla grande “autorità”, questo gesto di Gesù si sarebbe sicuramente risolto con una dura reprimenda nei suoi confronti. Ma tant’è; anche se a malincuore, gli scribi devono fare buon viso a cattivo gioco.
Anzi il vangelo prosegue annotando ironicamente che in questa “loro” sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito immondo: una annotazione curiosa, che mi ha colpito e che mi suggerisce una domanda: perché questo poveraccio, nelle precedenti riunioni tenute dagli scribi nella “loro” sinagoga, non si era mai “ribellato”? Tento una spiegazione: perché con loro egli stava bene, si sentiva al sicuro, a suo agio. Del resto erano stati loro, con le loro dottrine, a inoculare in lui il veleno dello “spirito immondo”. Egli ha dato loro piena fiducia, ha sempre creduto e continua a credere a quanto gli hanno insegnato; non si è mai chiesto se ciò corrispondesse alla verità, se la realtà fosse questa o un’altra. Non aveva mai avuto dubbi, non si era mai fatto domande e mai si era sognato di considerare le cose da altri punti di vista. Si diceva: “Questo mi hanno insegnato, questo credevano i miei padri, questa è la verità”. Una verità che fino ad allora gli aveva sempre dato sicurezza, stabilità. È quando arriva Gesù che nascono i problemi, che tutto gli si rovescia addosso: percepisce che chi gli sta di fronte ha ben altra "autorità" rispetto agli scribi; sente che Gesù ha la sapienza, la forza e la potenza di Dio («Io so chi tu sei: il santo di Dio!»), ma egli non può accettarlo come Dio, perché ha già in cuor suo il suo Dio. E quando Gesù semplicemente guardandolo sembra dirgli: “Guarda che non è come credi tu! Guarda che Dio non è come te l'hanno insegnato!”, quando cioè si rende conto che Gesù gli sta smantellando le sue certezze, che sta demolendo le fondamenta su cui ha costruito la sua vita, si sente improvvisamente minacciato, e reagisce con violenza, affrontandolo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Perché non ci lasci in pace? Perché non te ne torni da dove sei venuto?
Parla al plurale, il malcapitato, perché in realtà sono in due: lui e il suo demone! 
Ebbene fratelli: quante volte anche noi abbiamo dato spazio al nostro demone, attribuendo a Dio la colpa dei nostri insuccessi, delle nostre sconfitte, dei nostri dolori, delle nostre malattie, dei nostri lutti. Non è colpa di Dio, fratelli; non è Dio che li vuole: sono purtroppo i disagi della vita, le inevitabili zavorre dell'umanità, il pesante bagaglio del nostro terreno peregrinare. Dio non c’entra! Etichettare tutto come “volontà di Dio” è molto pericoloso. Perché con l’etichetta “Dio”, individuiamo immediatamente il responsabile di tutto, e ci dispensiamo dall’andare alla radice del problema, della questione, del suo vero perché. Prendersela con Dio ci offre la giustificazione per non fare passi in avanti, per non crescere, per non cambiare, per non impegnarci, per non soffrire, per non evolvere. Questa etichettatura religiosa, fratelli, è la più forte resistenza che noi opponiamo a Dio, per giustificare la nostra mediocrità.
Inoltre, quanti di noi abbiamo fatto di un gruppo, di una setta, di un movimento religioso, il nostro Dio: il nostro bisogno di avere un “padre”, di essere cioè riconosciuti e amati da qualcuno (sia esso guru, prete, santone, maestro, non importa), di appartenere a qualcuno (gruppo, setta, associazione, movimento) è talmente forte (carenza affettiva dell’infanzia) da arrivare a “sacrificare” la nostra libertà personale, la nostra testa, pur di aderirvi. Il bisogno di appartenenza diventa talmente importante, da uccidere il bisogno di unicità, il bisogno di essere noi stessi, di fare la nostra strada.
Siamo un po’ come l’indemoniato nella sinagoga: ce ne stiamo buoni buoni. Ma quando Gesù ci smaschera, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, allora reagiamo con una forza inaudita e gli urliamo: Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci? “Non vogliamo avere nulla a che fare con te!”. Parole in cui c’è tutto il nostro rifiuto, il “no” a Gesù e alla verità. “Sei venuto a rovinarci?”. Ebbene: “Sì!”. Dio viene, e quando serve manda in frantumi le nostre impalcature, i nostri alibi, le nostre scuse, le nostre sicurezze. Dio è la rovina, la distruzione, l’uragano, il vento che spazza via tutto quanto credevamo vero, e non lo era.
Ma ascoltiamo attentamente le parole velenose dell'invasato della sinagoga: “Che c’entri con noi?”. Perché usa il plurale, se è il solo che parla? Chi sarebbero questi “noi”? È chiaro: l’uomo è posseduto dal demonio; ma qui parla anche a nome degli scribi, gli artefici di questo demone: le parole di Gesù li minacciano, li destabilizzano, mandano in rovina la loro autorità, il loro prestigio, le loro liturgie: “Invano mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti di uomini, annullando così la Parola di Dio(Mc 7,7.13).
“Loro”, gli scribi, (il testo dice: la lorosinagoga”) sono i detentori della verità, “loro” organizzano le liturgie, “loro” custodiscono la Scrittura dei padri, “loro” sanno cosa è puro e cosa è impuro, cosa è giusto e cosa non è giusto, chi può essere ammesso e chi non può essere ammesso. Lo dice la Bibbia, lo dicono i profeti, lo dicono tutti! Per questo “loro” possono giudicare e sentenziare sulla vita degli altri. Sono “loro” che dicono: “Questa è la fede, questo è Dio”.
Insomma sono “loro”, sempre “loro”. Ma non vi pare che oggi in quel “loro” ci siamo un po’ anche noi? Questo vangelo ci provoca parecchio, fratelli. Noi ci definiamo cristiani, cattolici e parliamo di Dio agli altri. Ma dobbiamo stare molto accorti, perché anche noi, nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, potremmo trasformarci facilmente in altrettanti scribi.
Eh sì, fratelli miei: non capita forse anche a “noi”, oggi, di sentirci l’unica chiesa autentica, gli unici fedeli, i veri cattolici, quelli che possono tranquillamente sostituire i preti, quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno frequentato corsi di spiritualità, università cattoliche, specializzazioni liturgico teologiche, quelli che organizzano la carità, quelli che sono convinti di sapere già tutto, quelli che non ascoltano più alcuna direttiva pastorale perché tanto, sono convinti di aver sempre ragione loro? Credo proprio di sì: senza che ce ne rendessimo conto, siamo diventati anche noi come “loro”, come i capi della sinagoga di Cafarnao. E del suo indemoniato. Siamo purtroppo tutti infermi, siamo, un pò tutti, in preda ai nostri demoni; quei demoni che non vogliamo vedere, di cui neghiamo l'esistenza, che non vogliamo prendere in considerazione: siamo “ciechi”, ma pretendiamo di essere “guide” per gli altri, rischiando di portare anche loro nelle tenebre.
Ascoltiamo a questo proposito le parole di Gesù: “Può un demonio aprire gli occhi di un cieco?” (Gv 10,21). “Quando un cieco guida un altro cieco tutti e due cadranno in un fosso!” (Mt 15,14). “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete il doppio di voi figlio della Geenna” (Mt 23,15). Parole dure, fratelli, parole dure che ci devono scuotere nell’intimo; parole che ci devono far pensare seriamente.
 «Taci! Esci da lui!» sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: soltanto le sue Parole, fratelli, possono liberarci dai nostri demoni, possono strappare dal nostro cuore, dalla nostra mente, quegli spiriti immondi che ci possiedono, e guarirci.
Guarire è meraviglioso, fratelli; ci fa sentire liberi e leggeri, ci fa recuperare la nostra identità, la nostra dignità, la nostra vita.
Ma guarire “fa male”, a volte “tanto male”, è doloroso; perché è staccarsi da ciò che chiamavamo certezza (spirito) e che invece si rivela malvagio, condizionante, imprigionante (impuro). È una esperienza dura, una esperienza che richiede molto sacrificio. Guarire “fa male”, perché va ad aprire delle porte chiuse a chiave, che non vogliamo aprire perché sappiamo che lì dentro c’è qualcosa che ci fa vergognare, qualcosa di doloroso e di terribile. Per questo tentiamo con tutte le forze di evitarlo e di scappare. Per guarire però, per cauterizzare a fondo le nostre ferite, è necessario talvolta scendere nell’inferno del dolore. 
Il vangelo dice “straziandolo e gridando forte” (Mc 1,26). Ebbene: il verbo “straziare” (sparassein, tirare fuori, strappare, dilaniare, torturare) rende molto bene l’idea di questo difficile percorso, di questo drammatico distacco dal maligno: è una lacerazione interiore che però ci affranca, ci ridona la guarigione, la felicità, l’Amore, la Vita.
Non aspettiamo, fratelli, che il “nemico” ci immobilizzi; lui è sempre pronto, è il suo mestiere: “adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret; il vostro nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente cercando qualcuno da divorare. Resistiamogli saldi nella fede” (1Pt 5,8). Questo deve essere il nostro proposito. E con Pietro vi assicuro che: “Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avremo un poco sofferto, ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà…” (Ib.).
A lui la potenza e la gloria nei secoli. Amen!


mercoledì 18 gennaio 2012

22 Gennaio 2012 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono».
Anche oggi parliamo di “chiamata”, di vocazione. Gesù passa e guarda. E vede Simone e Andrea. Due pescatori che gettavano le reti. Ma cosa avrà mai visto Gesù di tanto interessante in quei due, da poter dire: “Questi due possono essere miei discepoli?”. In fondo stavano facendo soltanto il loro lavoro, un lavoro umile e ordinario, che nulla aveva a che vedere con quanto avrebbero poi dovuto fare. Ma Gesù ha capito al volo chi erano veramente, proprio da come preparavano il loro lavoro, da come riassettavano le reti, da come si preparavano alla pesca. Lo ha capito dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Perché è proprio da come viviamo l’ordinario, fratelli, che gli altri possono capire chi siamo. Lo possono capire da come parliamo con chi ci sta vicino, da come trattiamo il prossimo, da come gesticoliamo, da come ci muoviamo: sono questi piccoli e insignificanti particolari che rivelano subito agli altri se siamo soddisfatti oppure no, se siamo arrabbiati con noi stessi e con la vita, oppure se viviamo “dentro” la nostra vita. È dall’ordinario del nostro vivere che appare chiaramente se siamo disponibili a seguire il Signore: dalla passione che mettiamo nel fare le cose umili, dai particolari del nostro comportamento, dalle reazioni spontanee, non studiate, incontrollate, istintive; dalla gioia e dalla serenità che naturalmente riusciamo a trasmettere.
Sì, perché la nostra felicità, la nostra gioia, non dipende tanto dal numero di cose che possediamo, dalla quantità delle nostre ricchezze, dall’opulenza, dal lusso sfrenato, quanto dal saper apprezzare quel poco che abbiamo, dal saperlo gustare, dal condividerlo con i fratelli, dal saperci accontentare sempre, dal capire che possiamo essere felici anche senza niente.
Del resto, come uno si comporta nel poco, così si comporterà anche nel molto; chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto, perché l’uomo che affronta le piccole cose quotidiane, è lo stesso che affronterà le grandi cose della vita; la stessa forza, la stessa passione, la stessa energia, lo stesso desiderio e amore che mette nelle cose piccole, li metterà anche nelle grandi.
Gesù dunque ha osservato questi uomini nella loro quotidianità, nelle piccole cose di tutti i giorni, ed è qui che ha visto la loro grandezza. Perché non è mai ciò che facciamo che ci rende grandi, ma è la cura, l’amore che ci mettiamo nel farlo, che rende grandi e importanti noi e ciò che facciamo. Gesù non aveva bisogno di chiedere a chi incontrava per la strada dei curricula studiorum o degli attestati di frequenza alle scuole rabbiniche del tempo. Nulla. A Gesù è bastato vedere queste persone nella vita di tutti i giorni per capire benissimo chi erano anche nel cuore, nell’anima. “Voi – dice Gesù – pescate con passione, pescate con amore i pesci: se lo fate con loro, sicuramente lo farete anche con gli uomini”. E fa loro a bruciapelo una proposta sconvolgente: da pescatori di pesci, diventare pescatori di uomini. Un cambiamento radicale, totale. E loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Eppure, continuando a leggere il vangelo, li ritroviamo più avanti a fare lo stesso lavoro alle reti, vediamo ancora, e più volte, che continuano tranquillamente a pescare (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), a condurre esattamente la vita di prima, ad avere ancora rapporti con le loro case, con i loro familiari (Mc 1,29-31, ecc). Ma allora viene spontaneo chiederci: “Dov’è la differenza? In che cosa sono cambiati? Cos’è che hanno abbandonato?”
Ecco, fratelli: è la loro vecchia mentalità che essi hanno abbandonato; è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: è cambiato completamente il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non dal lavoro, non dalla casa!
Una barca non ci può amare. Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro o in campagna, ma non ci può amare. Ci può ospitare, accogliere, ma non amare. E allora, fratelli, perché continuiamo a sognare case e ville sontuose, perché continuiamo a condizionare la nostra felicità al possesso di una siffatta casa, al possesso di vetture lussuose, di beni incalcolabili? La casa, le vetture, i beni, non ci possono amare e non c’è felicità senza amore! Il lavoro stesso non ci può amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per campare, ci garantisce una certa stabilità, un qualche prestigio sociale. Ma non ci può amare. E perché allora continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione al di sopra di tutto e di tutti? Molti vivono solo per lavorare, come se non ci fosse nient’altro: non è una battuta, fratelli, è la pura verità: c’è chi è convinto che il lavoro sia l’unico scopo della loro vita; salvo poi a pentirsene quando è troppo tardi e si scoprono vecchi, depressi, tristi, ansiosi, arrabbiati; non hanno saputo mai aver tempo per Dio, per loro stessi e per gli altri!
Ecco, questo è il nostro cambiamento, fratelli; in questo consiste la grande conversione della nostra vita. Se noi crediamo che tutto quello che facciamo o abbiamo, ci renda felici, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone. Abbiamo mai provato ad accarezzare i nostri soldi? Forse ci comunicano amore? Eppure la nostra società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, in cui ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto; paroloni che si rincorrono incessantemente, sempre gli stessi, con frequenza e precisione maniacale: lavoro, produzione, orari senza fine, tutti i giorni della settimana, tempi ristretti, carriera, soldi, concorrenza, libero mercato, globalizzazione.
Leggiamo il vangelo, fratelli: c’è mai scritto che Gesù lavorasse senza sosta, che fosse ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che perdesse la calma per non aver raggiunto qualche “target”? No, fratelli; lo troviamo invece spesso a dare e ricevere amicizia, usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza, contatto a uomini e donne. Sicuramente Gesù non era ricco: ma di certo come uomo era felice e tanto amato.
Non si può essere autentici discepoli di Cristo, se non si è “liberi”. “Ecclesia” vuol dire letteralmente “i convocati fuori”. La chiesa quindi dovrebbe essere non un gruppo di persone che agiscono per piacere agli altri, per avere la loro approvazione; ma un gruppo di persone, “libere” da pressioni interiori, che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello per cui sono chiamate, con amore e generosità, spinte non dalle sete di consensi, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
I primi discepoli hanno accolto l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di lasciare le barche, di lasciare la loro casa, di convertirsi, cioè di cambiare vita, di cambiare modo di vedere, era proprio il loro “adesso”. Non si poteva rimandare, non si poteva far finta di nulla: e loro hanno seguito Gesù, per costruire il regno di Dio.
Quando si parla del regno di Dio, le persone sono disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. C’è chi pensa al paradiso, all’altra vita, chi pensa a chissà cosa. Niente di tutto questo fratelli: il regno di Dio è la Vita Vera, quella reale, quella che dobbiamo vivere oggi seguendo fedelmente gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che noi facciamo per vivere questa Vita vera, serve per realizzare il regno di Dio in noi. Ecco perché è importante scegliere adesso, perché non possiamo rimandare: perché è la scelta che cambia decisamente la nostra quotidianità. La scelta realizza, concretizza, trasforma in vita vissuta ciò che è mera possibilità.
Il Regno di Dio è agire adesso, subito: mettiamo finalmente ordine al nostro disordine interno. I discepoli hanno ricevuto una proposta: era ardita, rischiosa, provocante e fuori dai loro schemi; era controcorrente. Ma le parole di Gesù riempirono la loro anima. Sentirono i loro cuori incendiarsi di amore per Lui.
E noi che facciamo? Dio aspetta una nostra risposta,il tempo a nostra disposizione ormai sta per esaurirsi; ecco perché è importante agire adesso. Altrimenti il Regno di Dio rimane nei libri, il nostro voler ritornare ad essere “sua immagine” rimane un pio desiderio, un progetto mentale, ipotetico, mai realizzato.
Anche i primi discepoli si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi?”; “Cosa abbiamo di speciale noi?”. Niente! Assolutamente niente. E noi come loro. Dio non ha mai scelto uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o super-dotati. Ha scelto sempre persone umili, disponibili, persone pronte a farsi coinvolgere, a mettersi in gioco. Gesù non ha mai chiesto ai suoi discepoli di essere perfetti, ma disponibili, aperti: Pietro dubitò e lo rinnegò più volte; era chiamato “roccia” anche per via della sua testa dura. Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, ed erano chiamati “figli del tuono”, proprio perché “peperini”, suscettibili, carrieristi, al punto da litigare tra loro per il posto da occupare nel futuro “regno”. Tommaso era sospettoso, dubbioso e diffidente: se non toccava, se non c’era e non vedeva, lui non ci credeva. Giuda era attaccato ai soldi e, addirittura, lo tradì. Ecco fratelli: tutte queste miserie ci confermano che Dio lavora con quel poco che ha a disposizione, e non con quello che vorrebbe. Uomini comuni, pieni di difetti, pieni di limiti e a volte immaturi; uomini, però, che si misero completamente in gioco. Il vangelo dice che “lasciarono”: lasciarono le loro idee, i loro pregiudizi, le loro fissità e lo seguirono.
Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo una cosa: di lasciare le nostre barche, la nostra sponda, la nostra casa, di fidarci di lui e seguirlo.
Se noi non siamo convinti di poter lasciare ciò che già siamo, ciò che sappiamo, ciò che costituisce la nostra sicurezza, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, allora, fratelli miei, noi non siamo ancora pronti per seguire Gesù.
La nostra vita, in realtà, è purtroppo un aggrapparci a tutto. Ci attacchiamo a tutto quello che ci capita a tiro - lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee - pur di non schiodare dalle nostre posizioni. Cerchiamo ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni, vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani: ma questo è semplicemente assurdo.
Se ci fermiamo a pensare a quello che potrebbe succederci, è la fine; perché potrebbe succederci veramente di tutto. Se ci fissiamo a pensare al domani, al futuro, a cosa accadrà o non accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, beh, allora fratelli, lo ripeto, è davvero la fine! Il segreto della vita è invece abbandonarsi, fidarsi, smettere di pianificare tutto. Smettiamola di preoccuparci, fratelli; comportiamoci come i discepoli del vangelo di oggi: si sono donati alla Vita (l’hanno seguita) e la Vita li ha portati dove mai si sarebbero sognati di andare da soli. La Vita ha compiuto con loro un’opera meravigliosa, perché non hanno voluto essere loro a pianificare la loro vita. Anzi, l’hanno donata alla Vita: hanno cioè smesso di decidere loro, lasciando che la Vita decidesse per loro. Non si appartenevano più: nulla era cambiato, ma tutto era cambiato.
Ecco fratelli: questo è donarsi a Dio; questo è abbandonarsi a Dio; questo è seguirlo: lasciare che sia Lui a portarci là dove ci deve portare. Donarsi a Dio, seguirlo, non è realizzarci in qualcosa o diventare qualcosa; è semplicemente lasciarsi portare, lasciarsi cambiare, ricostruire, plasmare da Lui.
Dobbiamo infine convincerci, fratelli, che quel “vieni e seguimi” è una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, una offerta di enorme valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una imitazione, ad una “sequela”: preghiamo allora con tutte le nostre forze per avere il coraggio di “andare”, di non rinunciare mai a vivere e ad essere come lui ci chiede, di non resistergli; preghiamo per avere il coraggio, come i discepoli, di lasciare tutto per diventare anche noi pescatori di uomini. Non temiamo: facciamo pure le nostre considerazioni su questa chiamata; valutiamone le paure, le responsabilità, ma anche la bellezza e la sua attrazione. Ma muoviamoci, non perdiamo tempo. Egli ci ha già chiamato, fratelli: e la risposta è ora solo nelle nostre mani. Amen.


mercoledì 11 gennaio 2012

15 Gennaio 2012 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».
Tema della Parola di oggi è “la chiamata”. La chiamata è l’irruzione di Dio nella storia di una persona. Avviene per ogni uomo ma accade solo quando una persona è disponibile, aperta, pronta ad accoglierla e soprattutto quando si lascia coinvolgere. Normalmente, quando parliamo di “chiamata” di “vocazione”, pensiamo immediatamente a preti, frati e suore. E invece no, fratelli, perché tutti siamo chiamati a seguire Cristo. Nessuno escluso. Essere preti, frati, suore, sposati, padri o madri, è solo il mezzo, il veicolo, la via che ci serve per arrivare alla meta; è la strada che ci porta a compiere ciò che dobbiamo compiere, ciò che dobbiamo diventare, ciò che dobbiamo raggiungere: testimoniare e vivere questa nostra esistenza conformandoci al nostro Maestro. Ed è importante, fratelli miei, non confondere la meta, il punto di arrivo, Cristo, con il mezzo utilizzato per raggiungerlo; sarebbe come chiamare “sinfonia” gli strumenti musicali che concorrono a suonarla.
La chiamata inoltre è individuale, personale: ma è anche in qualche modo contagiosa; si trasmette cioè da una persona all’altra per emulazione, per “mediazione”: così il Battista è una mediazione per Andrea; Andrea è una mediazione per Simon Pietro; nei versetti successivi (1,43-51) Filippo, che aveva incontrato Gesù, diventerà mediazione per Natanaele; Simon Pietro, poi, sarà una mediazione per tanti altri uomini che, a loro volta, lo sono stati, lo sono e lo saranno per i cristiani di ieri, di oggi e di domani.
Anche la fede si trasmette per “mediazione”: è cioè un virus, un passaggio, una trasmissione, un contagio. Se viviamo una cosa che ci inebria, che ci coinvolge, che ci attira, è naturale, ovvio, che ne parliamo, la comunichiamo. Come facciamo a tenerla per noi? Come facciamo a non dirla, se ci appassiona? Non ci limitiamo a dare una semplice informazione ma comunichiamo qualcosa che per noi è vitale, qualcosa che ci ha cambiato la vita. E questa, fratelli, è la testimonianza, questa è la missione. La fede non la si comunica per indottrinamento, per imposizione, inculcando e pressando dentro la testa delle persone dei concetti e delle verità, ma per contagio. “A me ha cambiato la vita. Vuoi provarci anche tu?”. “Io non sono più lo stesso, sono un altro, sono cambiato, sono felice. Questo mi è successo da quando l’ho incontrato. Vuoi provare?”. Quante esperienze, fratelli miei, abbiamo cominciato come nel vangelo, per semplice curiosità. C’è uno che dice: “Lo sai che quell’incontro è proprio bello? Sai che quell’esperienza è stata veramente bella? Sapessi quanto è brava quella persona!”. E l’altro, un po’ per amicizia, un po’ per curiosità, si fida e va. E poi non smette più di andarci.
Bisogna però essere almeno curiosi. Bisogna almeno fidarsi. Bisogna almeno provarci. Bisogna almeno lasciarsi contagiare. Bisogna, cioè, torniamo a dirlo, lasciarsi coinvolgere. La fede, come la vita, come l’amore, come tutto ciò che è intenso, è coinvolgente. Se abbiamo paura di cambiare, di metterci in gioco, di soffrire, di star male, di sentire le emozioni, non possiamo seguire il Signore. Dio è coinvolgimento totale, per questo è difficile seguirlo! Dio è coinvolgimento totale, per questo, seguirlo, è affascinante, inebriante, vitale!
Molti credono che la “chiamata” sia una telefonata speciale di Dio. Una mattina ci suona il telefono, rispondiamo, e una voce perentoria: “Sono Dio, devi seguirmi!”. E così per tutta la vita aspettiamo chissà cosa o chissà chi che ci dica come e quando; aspettiamo chissà quale fatto straordinario, che ci faccia finalmente partire. Ma in realtà il nostro è solo un pretesto per rimanere come siamo. Non ci sarà mai niente di ufficiale e di solenne, fratelli; Dio passa e ci suggerisce, attraverso un amico, una persona, una casualità, un evento fortuito, una situazione, una intuizione: “Vieni; provaci; fallo anche tu!; segui il tuo cuore”. E noi lo facciamo; perché la fede, cari fratelli, anche se debole, comporta proprio questo: fidarsi e andare (“Vieni e seguimi”). Sì, la fede è fiducia.
Pietro si fida di Andrea: è suo fratello, è pieno di entusiasmo per quest’uomo; e pensa: “Beh, perché non provarci? Perché non andare? Andiamo a vedere!”. Pensate: se Pietro non si fosse lasciato coinvolgere dall’entusiasmo di suo fratello, se non si fosse fidato, non sarebbe diventato il primo degli Apostoli, il primo Papa della Chiesa cristiana. Dio passava in quel momento e gli chiedeva di cogliere l’attimo, l’occasione, di fidarsi di suo fratello e di lasciarsi coinvolgere. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo dopo. Ma si è fidato.
La fede è la cosa più personale che ci sia: soltanto noi, singolarmente, possiamo sentire la chiamata, cogliere l’occasione al volo e dire di sì. La responsabilità della risposta è tutta e solo nostra. La fede è la cosa più facile che ci sia, basta dire: “Sì”. Però dobbiamo scegliere. La fede è la cosa più entusiasmante che ci sia, perché ci coinvolge personalmente, vuole noi e non altri. Ma la fede è anche la cosa più difficile che ci sia, perché dobbiamo fidarci ciecamente.
In questo brano del vangelo c’è poi un bellissimo gioco di sguardi e una insistenza sul verbo “guardare”. Prima Giovanni Battista fissa lo sguardo su Gesù (1,36); poi è Gesù che fissa lo sguardo su Pietro (1,42), quindi sempre Gesù si volta e vede che lo seguono (1,38), e dice: “Venite e vedrete” (1,39). E i due discepoli, come conseguenza, “andarono e videro” (1,39).
Gli occhi dicono di una persona molto di più che tutte le sue parole. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e, fratelli, non è solo un modo di dire: gli occhi, veramente, proiettano un raggio che viene da dentro; quello che siamo, quello che abbiamo, quello che viviamo, nella nostra anima, viene visualizzato, viene rivelato dagli occhi, dallo sguardo. Se guardiamo negli occhi di una persona, possiamo vedere la sua anima. Per questo quasi mai ci guardiamo negli occhi; temiamo delle intrusioni, abbiamo quasi paura ed è come se ci dicessimo: “Io non guardo dentro di te, e tu non guardare dentro di me”.
Alcune persone hanno occhi ostili, che ci giudicano, che ci condannano; occhi magnetici, da cui siamo, come dire, presi, ingabbiati, posseduti: occhi mortiferi, occhi negativi, perché è l’anima di queste persone ad essere così. Ma ci sono anche persone con uno sguardo dolce, che salva, che ci guarisce, che ci libera, che ci fa sentire amati e riconosciuti. Occhi che sono una rugiada per le nostre paure, per le nostre debolezze, per la nostra vergogna. Sono gli occhi dell’amore perché l’anima di queste persone è piena d’amore. E noi abbiamo bisogno di essere riconosciuti. Noi tutti abbiamo bisogno di essere visti, considerati, apprezzati, amati.
Giovanni Battista “fissa lo sguardo” su Gesù e Gesù “fissa lo sguardo” su Pietro. Non è uno sguardo veloce, il loro; non un guardare fugace, soprapensiero, distratto. È un guardare penetrante, di quelli che ti scavano dentro, di quelli che ti fanno rabbrividire ed emozionare perché non guardano la pelle del viso o il colore degli occhi, ma scrutano, dentro, l’anima e il cuore.
Molti sono convinti di conoscere una persona prima ancora di vederla, di fissarla negli occhi, di conoscerla, e si fermano a questa prima impressione per emettere giudizi e sentenze. Niente di più sbagliato: per conoscere a fondo una persona, abbiamo bisogno di fissarla negli occhi, non di fissarci sulle nostre idee, sulle nostre impressioni; abbiamo bisogno di guardarla, di guardarla soprattutto dentro, di guardarla attentamente; perché le persone sono molto più rivelatrici ed esaurienti di qualsiasi nostra idea, di qualsiasi nostra teoria psicologica.
E poi abbiamo bisogno che qualcuno guardi dentro anche a noi. Abbiamo bisogno che qualcuno ci fissi, come Gesù ha fatto con Pietro; che veda ciò che abbiamo dentro e che non abbia paura (almeno lui, visto che noi a volte ne abbiamo tanta) di quello che vede, che non si vergogni di noi, ma che anzi sappia “vedere” il nostro vero volto, la nostra vera identità.
Visto all’esterno, Simon Pietro era un pescatore, uno fra i tanti, niente di speciale. Ma Gesù gli ha visto dentro: “Tu sei di più, Simon Pietro. Io credo in te. Io ho visto ciò che hai dentro. Io vedo la tua passione, il tuo fuoco, la tua sensibilità. Vedo anche la tua durezza, la tua cocciutaggine, ma vedo tutta la tua ricchezza, la tua generosità. Tu puoi essere diverso. Puoi essere un altro. Tu non sei una pietra qualunque ma una roccia”.
L’amore è così: uno entra dentro di noi e vede ciò che noi non vediamo.
Ci sono poi due domande da sottolineare: “Che cercate?” e “Dove abiti?” (1,38) e una risposta: “Venite e vedrete” (1,39). Domande e risposta che costituiscono il centro della nostra fede: Vuoi sapere chi sono? “Seguimi!”.
Gesù non ha dato una risposta, non ha fornito una soluzione, pronta e impacchettata; non ha dato un ordine secco, e non ha neppure detto cosa fare o cosa non fare. Gesù ci invita a percorrere una strada, un cammino, una via: “Venite e vedrete”. Chi vuole, lo segua. Gesù non fa una lezione di catechesi, un discorso, una bella conferenza; dice semplicemente: “Venite e vedrete”. Cioè: “State al mio fianco e voi stessi ve ne farete un’idea; venite a casa mia, ascoltate quello che dico, guardate quello che faccio”.
Gesù non ha mai costretto nessuno. Il suo è un invito, una proposta. “Seguimi”, solo se lo vuoi, se ti va. E molti, infatti, non lo seguirono allora (ricordate il giovane ricco?) e non lo seguono ora. La fede vive di libertà, così come tutto ciò che è importante (l’amore, i rapporti tra le persone). La fede cristiana non è una teoria o una serie di pratiche ma è una esperienza, un rapporto, una relazione, una comunione. È vita, perché è esperienza, rapporto con Qualcosa di Vivo.
Quanti di noi che si ritengono religiosi (e ne sono fieri!), in realtà non vivono questa fede. La loro, fratelli miei, è una fede “morta”. Perché? Perché non sanno provare misericordia per il prossimo; sono incapaci di provare la gioia dell’amore gratuito; sono impassibili, di ghiaccio, nei confronti di chi sbaglia: con loro non c’è alcuna possibilità di comunione. Non si entusiasmano, non sanno abbandonarsi a slanci di gioia, disdegnano l’immenso e la vastità della carità; non sanno commuoversi di fronte alle nuove nascite né al progressivo crescere dei bambini; sono duri, insensibili, non sanno piangere quando il loro cuore è affranto e piegato dal dolore; non c’è poesia in loro, non c’é canto, né lode, né contemplazione nella loro fede; ma solo tristezza, sentimenti tetri e funerei.
Quando invece, il “vieni e seguimi” di Gesù è completamente all’opposto. Gesù ha predicato là dove c’era vita: c’erano sì il dolore, la malattia, lo sconcerto e l’abbandono: ma erano vita! Gesù è andato proprio là dove c’erano le catene, e le ha rotte, ha portato liberazione. È andato là dove c’era dolore e sfiducia e ha portato luce. È andato dove c’era sordità e indifferenza, e ha portato la musica del cuore e dell’anima. È andato là dove le persone non camminavano, schiacciate dalle contrarietà della vita, le ha risollevate e ha dato loro dignità. È andato dove nessuno voleva andare, perché per Lui non esistono luoghi dannati, in cui un raggio della sua luce non possa arrivare. I suoi discepoli li portava tra la gente: in mezzo al dolore, alla malattia, alla disperazione, alla morte; ma anche in mezzo alla gioia, alla festa, in mezzo alla gente che si divertiva e che era viva dentro: insomma li portava ovunque c’era vita: quella vera, però, quella che spera sempre, quella che si entusiasma, quella che soffre e che si lascia anche andare, ma che è sempre pronta a rialzarsi e ripartire. Gesù non lo troviamo mai nei palazzi dei nobili, alla corte dei ricchi, nei luoghi del potere civile e religioso, dove la vita è mortificata, fissata, cristallizzata, pianificata, stabilita. Lo troviamo solo là dove la vita scorre, fluisce, diviene. Perché lui è la Vita che guarisce la vita.
Dio infatti non guariva le persone sradicandole dalla loro vita, trasferendole in altre realtà: Egli le guariva mettendole a contatto con le loro situazioni concrete, con le loro malattie, le metteva di fronte alle loro infermità, alle loro miserie, a tutto ciò che esse non volevano vedere e toccare. Questo perché, fratelli, è solo “toccando”, solo rendendoci conto delle nostre infermità, del nostro malessere, che si può guarire. Seguire quindi Gesù vuol dire prendere, toccare, mangiare, in una parola vuol dire impossessarci della nostra vita, così com’è.
Dio non lo incontriamo solo in chiesa: anzi lo incontriamo soprattutto fuori, nella vita; dentro, semmai, lo possiamo incontrare solo se la Chiesa è veramente vita, comunione, carità, e non formalità, un accavallarsi di riti e parole vuote, senza senso. È entrando nella vita, con tutte le sue variabili, le sue difficoltà, i suoi alti e bassi, le sue salite e discese, le sue ripartenze e i suoi fallimenti, le sue sfide e le sue conquiste, che noi certamente incontreremo il Dio di Gesù Cristo. È solo entrando nella nostra vita e prendendola sul serio come un dono ricevuto dalle mani di Dio, come avuta da Lui, senza esimerci, senza sottrarci, senza sfuggirla, che lo incontreremo. Purtroppo la vita (e scusate se insisto su questo) non è una strada in discesa, come piacerebbe a noi! La vita è contorta, strana, oscura, misteriosa; a volte è crudele e a volte è meravigliosa. A volte la capiamo, altre no. Dio lo sa questo; e quando ci chiama, non ci sottrae alle contraddizioni della nostra vita, ai nostri lati oscuri, alle zone di mistero, ai conflitti inevitabili o ai dubbi che ci tormentano. Dio anzi ci butta dentro tutto ciò. Ci sommerge. Gesù non ci tira mai fuori dalla nostra esistenza; Egli ci chiama a diventare suoi discepoli così come siamo.
Dio è una realtà così coinvolgente e trascinante, da farci vivere completamente con Lui e per Lui. Però, fratelli miei, se noi continuiamo ad aver paura di lasciarci andare, se non siamo pronti a buttarci tutto alle spalle, se temiamo di provare questo brivido, anche se solo dubitiamo dell’infinita ricchezza di questa vita, allora, fratelli, non saremo mai in grado di poterlo seguire. Ripeto, mai; e qualunque Sua chiamata cadrebbe puntualmente nel vuoto. Perché? perché non siamo disponibili a vivere il suo “brivido”, non abbiamo il coraggio di buttarci. Dio invece ci offre di vivere solo ad alta quota; di camminare sempre a tutta velocità, a tavoletta; di tuffarci continuamente dentro le cose con crescente entusiasmo. Egli ci prende, ci appassiona, ci attira: è irresistibile. Lo abbiamo visto con i chiamati della prima ora, gli apostoli: dopo aver accolto la Sua chiamata, non poterono più tirarsi indietro. Furono sedotti, conquistati. Per loro Dio fu letteralmente un colpo di fulmine, un blitz, una luce abbagliante, una illuminazione totale, un innamoramento senza precedenti. Ecco, questo è il punto. Questa è la realtà, fratelli: e finché Dio non sarà anche per noi fuoco, amore, luce, vita, è inutile che ci illudiamo pensando di essere suoi discepoli; non lo siamo e non lo saremo mai; se il nostro cuore non vive in Dio e per Dio, davanti alla gente possiamo anche sembrare degli ottimi cristiani, ma non arriveremo mai a conoscerlo, a viverlo così come Egli è. Quindi, fratelli, niente scuse, niente giustificazioni, né scorciatoie. È questo il nostro compito e dobbiamo assumercelo: andare e seguirlo. Come Lui ci ha insegnato. Come hanno fatto gli apostoli. Nient’altro. Amen.