martedì 3 gennaio 2012

8 Gennaio 2012 – Battesimo del Signore

«Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni».
Con la festa del Battesimo di Gesù, concludiamo il Tempo liturgico del Natale. Da domenica prossima entreremo nella prima parte del Tempo Ordinario, che terminerà con l’inizio della Quaresima.
Oggi, il vangelo ci ripropone la figura del Battista che parla di un battesimo d’acqua, preannunciando un battesimo in Spirito Santo per mano di uno “più forte di me”, che “verrà dopo di me”.
Gesù si fa dunque battezzare da Giovanni Battista con un battesimo d’acqua. Un rito con cui Egli simbolicamente ri-nasce: non a caso, infatti, il suo immergersi nel Giordano (yared, battezzare, in ebraico significa immergere) viene messo come inizio della sua vita pubblica.
Anche per noi, il battesimo d’acqua segna l’inizio della vita, la nostra nascita alla fede, ma sarà poi il battesimo di fuoco che ci renderà veri credenti. Ciò che siamo chiamati a fare è pertanto di uscire dall’anonimato, dall’essere come tutti (che equivale ad essere nessuno) e di darci un “nome”, un carattere, una fisionomia adulta; dobbiamo cioè testimoniare esattamente chi siamo: e questo è il nostro battesimo di fuoco.
Con il battesimo d’acqua semplicemente “nasciamo”, con il battesimo di fuoco diventiamo chi dobbiamo diventare: ossia dei cristiani pronti a testimoniare con la vita quanto credono e come credono; quanto siano fedeli a ciò in cui credono e che li appassiona dentro.
La chiamata (battesimo d’acqua) dei grandi personaggi della Bibbia, quella vera, quella di Dio, è sempre accompagnata da cammini, prove, viaggi difficili, duri, faticosi, durante i quali Dio forgia e purifica il suo prediletto: Noè deve costruire l’arca tra la derisione di tutti; Abramo deve partire senza conoscerne il motivo; Mosè deve attraversare il Mar Rosso e il deserto; Giobbe e Tobia compiono dei viaggi difficili e pericolosi. Sono le premesse che portano necessariamente alla purificazione, al fuoco.
La radice ebraica di “fuoco” (a-sc) è presente sia nella parola uomo (a-i-sc) che donna (a-sc-ha). Quindi, per diventare noi stessi, non importa se uomini o donne, per realizzare la nostra missione di credenti, dobbiamo necessariamente passare attraverso il fuoco.
Gesù stesso dirà: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso! Ho un battesimo da ricevere (il battesimo di fuoco), e grande è la mia angoscia finché non l’avrò ricevuto. Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione…” (Lc 12,49-51).
Il vero battesimo, pertanto, sta nella nostra vita concreta, consiste nel nostro forgiarci, nel nostro costruirci, nel nostro andare verso noi stessi e gli altri.
Allora, fratelli, dobbiamo smetterla di pensare o di credere che essere cristiani voglia dire essere semplicemente battezzati. Quando fanno le inchieste e ci dicono che il 95% degli italiani sono cristiani, è falso. Il 95% saranno quelli battezzati con l’acqua; ma “essere” cristiani è un’altra cosa, vuol dire passare attraverso il battesimo del fuoco.
La gente crede ancora che “seguire Gesù” sia qualcosa di comodo, di tranquillo, di indolore; che sia sufficiente qualche pratica, andare a messa ogni tanto o dire qualche preghiera.
Nossignori, seguire Gesù è fuoco. È passione che brucia dentro; che non ci permette di rimanere indifferenti di fronte alle ingiustizie che vediamo, di fronte ad una società che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori scriteriati che trattano i propri figli come se fossero delle belle marionette o dei burattini.
Seguire Gesù è passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti. Potremmo tranquillamente starcene in disparte e farci gli affari nostri, e invece no; dobbiamo metterci in gioco, rischiando in prima persona.
Seguire Gesù è fuoco purificatore che brucia tutto ciò che di impuro c’è dentro di noi. Allora ci accorgiamo che siamo noi, e non gli altri, gli invidiosi; siamo noi quelli in continua competizione, siamo noi i gelosi. Che siamo noi, e non gli altri, a non amare i fratelli; che siamo sempre noi a voler possedere, gestire, manipolare. Infine, che noi, e non gli altri, abbiamo bisogno di umiltà per cambiare, per crescere, per modificarci.
Purtroppo non è facile cambiare, fratelli miei. Non è piacevole scoprire certe meschinità dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un lavoro continuo. Nessuno mai ha detto che sarebbe stato facile! Però che sarebbe stato entusiasmante, passionale, eccitante, caldo, che ci avrebbe dato la sensazione di vivere in profondità, che la nostra vita avrebbe avuto finalmente un senso, sì, questo sì ci è stato detto e dimostrato, da uno stuolo di santi.
Dostoevskij scriveva: “Senza la sofferenza non potremmo mai capire la felicità. Un ideale passa sempre per la sofferenza, come l’oro per il fuoco. Solo con lo sforzo, con il fuoco, si può raggiungere il regno dei cieli”.
È il fuoco della prova, fratelli. Gesù ci saggia, ci purifica con il fuoco, ci fa passare per incroci pericolosi ed esigenti. Gesù ci toglie in questo modo tante nostre illusioni, tanti nostri miraggi e le bugie che ci raccontiamo. Un amico vescovo, rievocando un giorno la comune infanzia, mi disse di un nostro compagno, allontanatosi poi dalla fede: “Pensavo che il suo essere buono, allegro e propositivo dipendesse da una fede forte; invece, evidentemente, godeva solo di ottima salute!”. Facciamo allora in modo, fratelli, di non far dipendere il nostro credo dai bioritmi, da oroscopi idioti, dai falsi richiami, dai falsi entusiasmi, dai falsi stati d’animo, che poi finiscono sempre per rivelarsi frutto di autentiche paranoie! Il battesimo e la fede sono cose serie!
Abbiamo detto che la parola greca baptizein (yared in ebraico) vuol dire immergersi, entrare dentro: in questo senso, possiamo ricavarne un doppio significato, un doppio insegnamento, un doppio comportamento: uno ad extra, l'altro ad intra.
Nel primo caso “immergersi” significa “entrare dentro la vita degli altri”, non sottrarsi alle esigenze e alle chiamate di vita del nostro prossimo. Con il battesimo di fuoco dobbiamo dare forma alla nostra energia interiore, dobbiamo far uscire la passione che ci anima dentro, farci travolgere dallo zelo, e riversarlo sugli altri. Significa essere aperti. Quanti di noi invece, fratelli miei, non hanno più fuoco, non hanno più anima, non hanno più nulla, dentro di loro, da spendere per gli altri; niente di niente. Sono spinti in avanti solo dall’inerzia di una vita inutile, che si trascina stancamente giorno dopo giorno, nella routine delle solite cose. Immergersi nella vita di chi ci sta intorno, significa al contrario immergersi nella solidarietà, calarsi nelle singole situazioni. Quando succede un fatto, molti dicono in cuor loro: “Non è affare mio, si arrangino. È un problema che non mi riguarda”. Ebbene, questo non è “immergersi”, fratelli; immergersi vuol dire: “Ciò che è toccato a te, mi riguarda eccome, mi interpella direttamente; non posso rimanere indifferente, non posso chiudere gli occhi e far finta di niente”. Essere “solidali” comporta un nostro preciso atteggiamento: “Io ci sono. Io ti aiuto. Io sono dalla tua parte; perché ho un cuore che brucia, che batte prepotentemente, che ama, che si appassiona”.
Il cristiano, il battezzato, non può rimanere indifferente. Deve anzi scendere con decisione dalle sue sicurezze, dal suo io, dal suo egoismo; e darsi da fare!
Nel secondo caso, l'immersione battesimale sta per “entrare dentro la nostra anima”, scendere in profondità, nell'intimo del nostro cuore, individuare i nostri demoni, conoscerli, guardarli bene in faccia, confrontarsi con loro.
Non a caso anche Gesù, subito dopo il battesimo e prima dell’attività pubblica, ha dovuto affrontare le tentazioni. Anzi Marco ci dice che fu lo stesso Spirito del battesimo a spingere Gesù nel deserto (Mc 1,12), nella solitudine, perché si immergesse nei suoi demoni e potesse confrontarsi duramente con loro.
E noi, siamo forse speciali? No fratelli, anche noi dobbiamo saggiare le nostre forze, anche noi dobbiamo fare i conti con le nostre deformità, con le nostre inclinazioni malvagie, con le nostre debolezze; dobbiamo conoscerle bene, dobbiamo capire perfettamente quante e quali sono, per poterle combattere strategicamente e uscirne vittoriosi. È questo che ci richiede il nostro vero battesimo, quello di fuoco.
Del resto tutti abbiamo i nostri demoni più o meno nascosti (io ho i miei, e vi assicuro che a volte ne esco con le ossa rotte, con tremende batoste). Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo una seconda facciata: quella segreta, privata, nascosta, quella che non vorremmo che gli altri vedessero mai, quella di cui molto spesso ci vergogniamo. È proprio su questa che dobbiamo lavorare sodo. È in questa che dobbiamo immergerci, per scavare, setacciare, lavare, purificare.
Lo so, è duro, fratelli, è difficile; è come passare attraverso le fiamme. Ma è da lì che dobbiamo passare. È lì, nel nostro Giordano, che dobbiamo immergerci; è lì, nel nostro deserto, che dobbiamo batterci con i demoni infidi. Perché fintanto che non li avremo individuati, affrontati e soggiogati, saranno sempre loro ad averla vinta, a dominarci; saranno loro, in definitiva, a cantare vittoria. Ripeto: non sarà affatto piacevole, anzi sarà come scendere all’inferno, ma quella è l’unica nostra possibilità.
Oggi dobbiamo dunque ri-attizzare il nostro battesimo di fuoco: dobbiamo ridargli forza e ossigeno, perché è solo così che, con la forza di Dio, dopo anche lunghe battaglie, ne usciremo sicuramente vittoriosi. Non solo vittoriosi ma completamente trasformati, grandi.
Perché, nell’ottica divina, essere “grandi” non significa essere perfetti, ma dimostrare di conoscere bene i propri demoni, il proprio niente. Essere “grande”, non significa non sbagliare mai, ma avere l’umiltà di riconoscere i propri errori. Non è andare avanti, sempre uguali, tanto per andare avanti, ma avere il coraggio di cambiarci. Dio non ci ama perché siamo perfetti, no; Dio ci ama per quello che siamo: deboli, a volte spazzatura, ma combattivi, reattivi. Gente umile ma tosta, che non si arrende mai, che ricomincia sempre daccapo, che pur di crescere in Dio, non teme il fuoco della purificazione, come l’oro nel crogiolo!
«Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Il punto centrale del battesimo di Gesù non è come per l’uomo la liberazione dal peccato originale, chiaramente incompatibile con la sua natura divina, quanto l’esperienza della Voce del Padre: una esperienza che è stata decisiva per la vita di Gesù, ne ha causato la svolta: l’essersi cioè percepito Figlio del Padre, Figlio amato, prediletto, unico.
Voce e parole che Gesù risentirà identiche nella Trasfigurazione, altra esperienza forte di Dio nella sua vita umana. E per questo, rivolgendosi al Padre, Egli lo faceva dicendogli: “Padre, Abbà, papà mio”.
Gesù aveva un rapporto confidenziale con Dio, perché si sentiva amato da lui. Non lo sentiva come un superiore, come uno da temere e a cui tenere nascoste certe cose o fargli vedere solo la faccia bella, quella buona. Era suo padre e Gesù si sentiva amato e al sicuro con Lui.
Bene, fratelli: quello che qui è detto per Gesù vale per noi.
Tutti siamo infatti figli di Dio, i prediletti. Tutti, indistintamente, siamo i figli amati: 
“Tu sei amato…; tu ai miei occhi sei grande…; tu sei mio figlio prediletto…; non ti lascerò…; tu sei importante per me…; ho dato la mia vita per te…; non ti abbandonerò…; non sfuggirai dalla mia mano…; nessuno ti porterà via da me…; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio…; tu non sei come nessun altro: tu sei unico per me…; qualunque cosa ti succeda, non aver mai paura, perché io sono tuo Padre…”.
Ricordate? Sono parole sue: ora, se credessimo veramente a queste parole, fratelli, niente e nessuno potrebbe mai farci paura: chi dovremmo mai temere?
L’amore umano, anche il più grande, pone sempre delle condizioni. Quello di Dio no. Il suo non è mai condizionato o condizionante. Dio non è come l’uomo. Perché Dio ci ami, noi non dobbiamo diventare chissà cosa o chissà chi; per andare bene a Dio, non dobbiamo avere successo e ricchezze, né dobbiamo diventare qualcosa di diverso da noi stessi. Non dobbiamo comportarci bene davanti agli uomini, perché Dio ci ami; non dobbiamo rinunciare alla serenità e alla felicità, perché Dio ci ami; lui ci ama comunque, per quello che siamo, nonostante tutto, così come siamo. Punto.
Dio è nostro Padre e nostra Madre: a Lui possiamo raccontare tutto; anche ciò di cui più ci vergogniamo, anche ciò che più ci fa male, ci ripugna, ci fa schifo. Lui ci ama lo stesso. Anzi ci ama di più; un po’ come quella madre che ama tutti i suoi figli, ma riserva più affetto e più cure a chi è ammalato.
È difficile per noi, fratelli miei, credere e capire che Dio ci ami così, al di là di tutto, proprio di tutto! Certo, noi vorremmo che Lui ci amasse, ma non vorremmo scoprirci, non vorremmo fargli vedere i nostri lati deboli, le nostre miserie: le cose di cui ci vergogniamo… gli errori del passato… le infedeltà… i peccati… l’odio che coviamo per molte persone… la rabbia furiosa che ci cova dentro… le nostre piccolezze o meschinità… il nostro rifiuto nei suoi confronti….
Ci rendiamo conto che il problema non è Lui, con il suo amore comunque assicurato; siamo noi, che siamo restii a farci amare. Non è lui che non ci accetta, ma siamo noi che, conoscendoci, non ci sentiamo a nostro agio, ci vergogniamo di tanta bontà. Insomma, ci rendiamo conto che anche lasciarci amare da Dio, per noi è difficile; perché è difficile, nel nostro niente, nella nostra mentalità contorta, credere ad un amore incondizionato, disinteressato, ad un amore fedele per sempre, ad un amore in cui noi non dobbiamo fare nulla, ad un amore granitico che non ci tradirà e non ci abbandonerà mai. È proprio così, fratelli! Siamo noi il problema. Allora fidiamoci, chiudiamo gli occhi e abbandoniamoci, completamente; ascoltiamo con Gesù la voce suadente del Padre che ci dice: Tu sei il mio figlio prediletto. Sì, fratelli, Dio è nostro Padre; e noi siamo tutti figli suoi! Amen.


venerdì 23 dicembre 2011

1 Gennaio 2012 – Maria SS. Madre di Dio

«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore».
Il vangelo di oggi ci presenta Maria che “medita” su quello che le sta accadendo: giornate molto intense le sue; un figlio straordinario da accudire, e tanta gente inaspettata e impensabile che si accalca per vederlo; Maria medita sul come Dio ha agito e continua ad agire con lei, su ciò che Dio sta facendo con lei. Lei conosce bene tutti i risvolti di questa storia: perché Dio ha scelto proprio lei, una donna bambina totalmente insignificante? Nessuno mai l’avrebbe scelta, nessuno mai le avrebbe dato credito. Ma i criteri di Dio sono altri dai nostri. L’uomo guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore!
Così anche per i pastori: «I pastori andarono senza indugio». Gente ignorante, rozza, che ascoltano immediatamente l'invito dell'angelo. Che fine hanno fatto i capi religiosi? Perché Gerusalemme non c’è? Perché gli amanti e gli eruditi della Legge non vanno a far visita a Maria e a Giuseppe? Perché ci vanno solo i pastori e i maghi, tutta gente che per quel tempo era di malaffare? Perché da sempre Dio non agisce secondo la nostra logica, i nostri criteri. Lo ha fatto ieri, lo fa oggi, lo farà domani, sempre.
È stato così per Maria, è stato così per i pastori, è stato così per i Magi. E sarà così anche per noi. Dio utilizza sempre lo stesso metodo: per le sue imprese sceglie sempre gli “scarti”, ciò che gli uomini mai sceglierebbero per le loro.
Dio ha in mente per loro, come per ciascuno di noi, un viaggio strepitoso, incredibile, eccezionale. Ma non può farlo, non può realizzarlo, se noi non ci stiamo, se noi non ci fidiamo di Lui, se noi gli resistiamo, se noi continuiamo ad opporci, a voler fare di testa nostra, a voler dirigere noi da soli la nostra vita, ad essere noi gli unici a stabilire cosa va bene per noi.
Dio invece sceglie soltanto chi è disponibile, agisce solo in chi si fida di Lui, solo in chi può dire, come Maria: “Va bene, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Sia ciò che deve essere e andiamo! Dirigi tu la mia vita e io ti seguirò”.
Maria, Giuseppe, i pastori, i Magi, i profeti, tutti i grandi personaggi dello spirito, furono persone che si fidarono, che si misero nelle mani di Dio e si lasciarono portare, si lasciarono plasmare come morbida creta.
E non è meraviglioso riuscire a far così? “Signore, portami dove tu vuoi ed io ti seguirò”: sì, meraviglioso, perché questa è fede autentica, fratelli. Non chiacchiere.
Iniziando questo anno nuovo la liturgia ci dice di imitare Maria, di dedicare del tempo al “dentro”, di accorgerci di Dio. Purtroppo nella nostra vita spesso manca un dentro, ci lasciamo stravolgere dal vissuto, le cose insignificanti diventano fondamentali.
Siamo come bucato ammucchiato nella bacinella: ci serve un filo a cui appendere tutte le cose ad asciugare. Il nostro centro unificatore, il nostro filo, è la fede: un centro prezioso, essenziale, indispensabile.
E allora, fratelli, in questo anno che inizia, assumiamo seriamente l’impegno di ripartire nuovamente da Dio, di mettere l’ascolto della Parola, e la sua meditazione, al centro della nostra giornata. Guardiamo a Maria, viviamo ogni giorno come lei, ripetiamo continuamente con lei: “Signore, io mi fido di te; Tu conducimi e io ti seguirò, dovunque mi porterai. Smetterò di importunarti, di assillarti continuamente con le mie domande risentite sul perché certe cose succedono, sul perché succedono proprio a me, che in fin dei conti non ho fatto nulla di male; smetterò di mettere ostacoli al tuo volere, di tirarmi sempre indietro. Qualunque cosa mi accada, so che Tu vuoi così, vuoi farmi passare proprio di là. Tu hai sempre un motivo ben preciso nelle cose, ed io cercherò di capirlo, adeguandomi; e se non lo capirò, pazienza; perché comunque io mi fido di Te. So che se l’hai permesso è per il mio bene, perché devo imparare qualcosa; ed io cercherò di impararlo con tutte le mie forze. Mi lascerò trasportare da Te: Tu guidami e io ti seguirò; tu davanti e io dietro. Sempre. Promesso”.
Potessimo, fratelli miei, vivere con questa disposizione d'animo tutti giorni di questo nuovo anno! Tutte le nostre ansie svanirebbero d’incanto, e troveremmo dentro di noi una forza irresistibile, quella della fede, e una pace infinita, quella del sentirci amati.
Dio ha potuto fare con Maria tutto quello che ha fatto, perché lei è stata disponibile.
Ma Dio non ha scelto solo Maria; Dio sceglie anche tutti noi. Dio sceglie me e sceglie te.
E noi dobbiamo soltanto dirgli: “Sì”. E poi lasciarci andare, abbandonarci, lasciarci portare da Lui. Certo, nessuno mai ci garantirà che tale viaggio sarà facile; anzi sappiamo già fin d'ora che sarà un viaggio duro, intenso, senza soste; ma sarà un viaggio che ci realizzerà, che ci farà raggiungere un traguardo, che mai avremmo pensato di raggiungere da soli.
Viviamo sull’esempio di Maria. Celebrare Maria “donna del sì”, ad inizio anno, vuol dire dunque adeguarci a Lei, voler imparare tutto da lei. Vuol dire riporre nel suo cuore di mamma, tutte le nostre insicurezze; vuol dire pronunciare con lei il nostro “Sì” al Padre.
Fratelli miei, questo vuol dire fare nostra la vera pace; vuol dire raggiungere quella felicità che non tramonta mai. Perché solo così capiremo che Dio ci ama; solo così cadranno le tenebre che oscuravano i nostri occhi, e potremo finalmente specchiarci nel volto splendente di Dio.
Ed è proprio questo l'augurio che intendo formulare per ciascuno di voi oggi; me lo suggerisce la Scrittura: «Vi benedica il Signore e vi custodisca. Il Signore faccia risplendere per voi il suo volto e vi dia grazia. Il Signore rivolga a voi il suo volto e vi conceda pace» (Nm 6,24-26). “Faccia risplendere il suo volto”: uno splendido semitismo per significare il “sorriso di Dio”, la sua completa apertura nei nostri confronti, la sua più totale disponibilità e “cordialità”: immaginate? Dio ci guarda, ci sorride, e il suo volto si illumina di amore. Come un Padre amoroso, sopraffatto dall'emozione per aver finalmente ritrovato i suoi figli tanto amati, ancorché ombrosi, sospettosi, feriti, incerti, indifesi. Ecco, è questo che vi auguro cordialmente, fratelli, per i prossimi mesi: possiate sempre cogliere in tutti gli eventi della vostra vita il volto sorridente di Dio. Qualunque sia l'evento, triste o gioioso. Sì, fratelli: perché Dio ci sorride sempre; e ci sorride perché ci ama.
Ebbene, questo volto di Dio sorridente, lo abbiamo sotto i nostri occhi proprio in questi giorni, nel neonato Gesù. Dalla sua culla, il Dio bambino ci sorride; non è imbronciato, non è impenetrabile, non é scostante, né innervosito. Egli ci sorride e ci invita, ci chiama, semplicemente. Egli non deve essere mai un problema per noi. Perché non lo è. Assolutamente. Il problema, semmai, siamo noi, cari fratelli. Siamo noi, troppo spesso imbronciati, impenetrabili, nervosi; noi che nei momenti di contrarietà, di fatica e di dolore, smettiamo di guardarlo fiduciosi in volto, e ci lasciamo travolgere dallo sconforto; noi che allora non vogliamo più saperne di lui, noi che allora non scorgiamo più in Lui alcun sorriso, ma solo una “ingiusta” severità.
Ma, fratelli miei, ci rendiamo conto di quanto siamo incoerenti, di quanto siamo scorretti? Come possiamo pretendere che Dio risolva sempre, in ogni caso, i nostri problemi? Che ci appiani continuamente la strada, che ci renda la vita facile facile, senza alcuna difficoltà o avversità? La vita è un mistero, fratelli, e come tale dobbiamo accoglierla e rispettarla. E se poi la Parola ci dice che Dio ci sorride - e Dio ci sorride sempre, garantito! - ci sarà pure un motivo, non vi pare? Ci sarà pure una ragione, che magari ignoriamo, non vediamo, o  non vogliamo capire? Ma ripeto: non importa quello che pensiamo noi; quello che conta veramente è che Dio continua a sorriderci. In paziente e amorosa attesa. E questo ci deve bastare. Dobbiamo semplicemente fidarci! Come Maria. E vedrete, non ce ne pentiremo. Amen.


venerdì 16 dicembre 2011

25 Dicembre 2011 – Natale di nostro Signore Gesù Cristo

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
Gesù è la più grande dimostrazione d'amore che il Padre ci abbia mai donato. Il Natale è la festa dell'amore puro, profondo, sincero e gratuito. Il Natale è la più bella notizia che si possa ancora raccontare a tutti gli uomini tristi e frastornati di questo mondo. Ce ne rendiamo conto? Un’idea simile dovrebbe commuoverci, intenerirci, farci sentire inondati di gioia! Dio, l'infinito, si è fatto vicino e si è legato in maniera irreversibile a noi per puro amore, per una sua irresistibile esplosione di bontà: questo deve farci amare la vita e deve ricolmarci di ottimismo.
In questa notte santa è impossibile non avvertire che qualcosa di grande è accaduto nel mondo. Siamo illuminati da una stella che è penetrata nel nostro buio e l'ha rischiarato per sempre. Accorgiamoci di Gesù: accogliamolo nella nostra vita e lasciamo continuare in noi quella novità e quella santità che con Lui è sbocciata a Betlemme. Dio si è fatto uomo! L'Infinito, l'Eterno, l'Onnipotente si preoccupa di noi, ha cura di noi, ha misericordia di noi. Dio l'infinto ci ama: è questa la vera, grande notizia del Natale. Ci ama al punto da mandare suo Figlio in questa storia così dura, ingrata, sterile. Dio non ha avuto paura: ha gettato il Figlio in mezzo a noi che non eravamo più figli; e continua a farlo ogni anno, perché ci ama; perché vuole caparbiamente darci un cuore nuovo, innamorato, di figli autentici.
Fratelli miei, quanta pena nei cuori degli uomini. Quanta ricerca di felicità; quante amarezze e quante sofferenze. Ebbene: noi tutti oggi sappiamo che la felicità esiste ed ha un suo recapito: Betlemme, Gesù, l'Emanuele.
Occorre uscire dalla prigione del nostro egoismo, dalla freddezza dell'indifferenza. Facciamoci piccoli e umili: andiamo a Betlemme, cioè a Cristo, apriamo il cuore ai fratelli, tendiamo la mano a chi ci sta accanto, rendiamo ospitale la nostra casa, il nostro ambiente, il nostro lavoro, il nostro paese, la nostra città, il nostro mondo. È soltanto nella via dell'amore che potremo fare esperienza di Dio. Ed è soltanto in Dio che troveremo la pace che ci manca.
Sono quattro le parole che puntualmente riecheggiano in tutti i brani che la liturgia ci propone nelle messe di Natale e del periodo natalizio: luce, gioia, bontà, pace.
Esse riassumono le caratteristiche di Gesù, il dono di Dio unico e irripetibile. Esse sintetizzano ciò che noi tutti, uomini e donne, desideriamo.
Si dice che il Natale è bello come un sogno. È vero. Perché ogni uomo e ogni donna sognano luce, gioia, bontà, pace. Un clima “da sogno” che questa festa riesce ogni anno a creare in noi con le luci, i presepi, gli alberi, le strade e le vetrine illuminate, le musiche semplici e ingenue, lo scambio di doni e di auguri, la riscoperta della famiglia, degli amici, dei lontani, di chi si trova in situazioni di angoscia e di dolore...
Lasciamoci prendere, fratelli, da questo sogno! È Dio che in Gesù vuole farci sognare una vita piena di luce, di gioia, di bontà, di pace. Come lui l'ha pensata e come noi la desideriamo. Lasciamoci penetrare da questo sogno, sempre più in profondità, in modo che diventi desiderio, progetto, impegno concreto, realtà.
Come? Lo dice Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Avete ricevuto da Dio luce, gioia, bontà, pace? Date il più possibile luce, gioia, bontà, pace.
Nostro compito non è il lamento, ma la testimonianza di una vita carica di questi doni. Sentiamo dire spesso: “Non ci sono più i valori di una volta! Non c'è più cristianesimo”. Ebbene, fratelli, che aspettiamo? Mettiamoceli noi questi valori! Mettiamocelo noi il cristianesimo! Questo è il nostro compito. Questo è la nostra festa di Natale.
Il Natale è bello perché riesce a far emergere il meglio di noi stessi. Impariamo allora a proiettare in tutti i giorni dell'anno questa bellezza del Natale.
Sì, fratelli: viviamo ogni giorno il Natale. Incontriamo quotidianamente Gesù, il Signore bambino, il nostro Salvatore.
Noi come lo incontriamo? dove lo troviamo oggi nella nostra vita concreta? Come possiamo accoglierlo perché sia realmente luce, pace, forza, salvezza della nostra vita e della vita del mondo e della nostra società?
Dio è con noi sempre, fratelli: anche oggi, anche domani. Noi lo possiamo incontrare nella vita della Chiesa, nella Parola di Dio, nei Sacramenti, negli uomini, nostri fratelli.
La Chiesa continua la presenza e l'opera di Gesù. Quando ascolto o leggo la Bibbia, il vangelo, è Cristo che parla al mio cuore e al cuore della Chiesa. Così quando ci accostiamo ai Sacramenti, quando ci confessiamo, quando ci comunichiamo, quando incontriamo il prossimo, è Gesù che noi incontriamo, è a Gesù che noi chiediamo perdono, è Gesù che si offre a noi in cibo, in nutrimento, in sostegno e forza.
Dio è sempre con noi, veramente: e noi possiamo essere sempre con Lui, possiamo vivere per Lui, accogliere e rendere viva la sua grazia in tutte le nostre azioni.

Dipende solo da noi: perché siamo noi che possiamo portare in ogni giornata della nostra vita, la luce e la grazia del Natale. Auguri, fratelli: buon Natale. Amen!




Ecco Dio, voi che lo aspettate fiduciosi.
Ecco Dio, voi che pensate di non averne bisogno.
Ecco Dio, voi professionisti del sacro, che l’abitudine
vi ha reso indifferenti.
Eccolo: inatteso,
sconvolgente, stordente, folle.

Un Dio che si annuncia a tutti,
anche a chi non se lo merita,
a chi non lo prega,
a chi maledice la vita.
Un Dio umile, che si fa riconoscere
dalle piccole cose,
umili compagne del nostro quotidiano.
Un Dio che ci cambia la vita;
una vita che – pur rimanendo la stessa -
assume comunque una luce diversa.

Ecco Dio, discepoli del Nazareno,
voi che in questa società dissacrata,
ancora non vi stancate di essere cristiani
di seguirlo, di pregarlo.
Ecco Dio,
anche se diverso da come noi lo vorremmo:
perché è un Dio bambino, che non risolve
magicamente i problemi,
ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non condanna i malvagi,
ma che dai malvagi di sempre
è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge ai poveri,
ai perdenti, agli inquieti, Lui per primo,
povero, perdente, inquieto per amore.

È Natale.
È il suo Natale. È il mio Natale.
Oggi, è per me, un giorno tutto nuovo:
perché Gesù vuol viverlo in me.
Lui non si è mai isolato dagli uomini:
ha camminato sempre al loro fianco.
Ma è con me,
che vuol camminare, da oggi,
tra gli uomini miei fratelli.
Incontrerà ciascuno, di quelli
che entreranno nella mia casa;
ciascuno, di quelli che incrocerò per la strada:
altri ricchi come quelli del suo tempo,
altri poveri, altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi, altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti, sono quelli che è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
Da oggi lo vuol fare con me.
A coloro che mi parleranno, "noi" avremo qualcosa di speciale da dire.
A coloro che mi oltraggeranno, "noi" avremo amore da restituire.
Ciascuno, esisterà per "noi", come se fosse l’unico.
Nel rumore alienante, troveremo nell’anima il silenzio da vivere.
Nel tumulto violento, porteremo col cuore la pace e l’amore.

Oggi, Natale, Egli esige il mio sì.
E nessuno al mondo,
di quel mondo in cui mi lascia per vivere con Lui,
può impedire la mia scelta di unirmi indissolubilmente a Lui.
Come un bimbo portato sulle braccia della madre,
io camminerò con Lui tra la folla:
Lui, vita della mia vita, luce dei miei occhi, sostegno dei miei passi.
Lui, l’inviato di Dio agli uomini di ogni tempo,
l’inviato agli uomini di questo tempo,
della mia città, del mio mondo.
Da questi fratelli miei più vicini,
che Lui mi farà servire, amare, salvare,
le onde della carità e dell'amore
raggiungeranno gli estremi della terra,
la fine dei tempi.

È Natale.
Giorno dell’amore di Dio.
Giorno indimenticabile,
perché è con me e in me,
che Gesù vuole viverlo ancora!

AUGURI!


mercoledì 14 dicembre 2011

18 Dicembre 2011 – IV Domenica di Avvento - B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
Esattamente ad una settimana dal Natale, rileggiamo ancora una volta (l’abbiamo appena letto il giorno dell’Immacolata, ricordate?) l’incontro tra l’arcangelo Michele, uno dei principi degli angeli, e Maria, una inesperta ragazzina di Nazareth. Un incontro semplice, silenzioso, nascosto, che ha comunque ispirato, durante i secoli, l’arte di migliaia di pittori, scultori,poeti e scrittori, e che noi invece – noi gli evoluti del ventunesimo secolo - rischiamo di leggere con la nostra consueta superficialità, come se si trattasse di una innocente favoletta.
E, invece, no, fratelli: il vangelo di oggi ci racconta ciò che è realmente accaduto! Con tutti i particolari. Dalle poche ma magistrali pennellate di contorno, delicatamente incisive com’è nello stile di Luca, emerge prepotentemente la grandezza del pensiero di Dio. In un paesino incollato ad un pendio roccioso, lontano dalle grandi strade commerciali, in una misera ma dignitosa casupola, ricavata nella roccia, avviene l’assurdo di Dio, l’inizio di una storia diversa, una storia di salvezza. Dio, stanco di essere incompreso, decide di venire a raccontarsi. La lunghissima storia di amicizia e di amore col popolo di Israele non è stata sufficiente per farsi capire e Dio, alla fine, sceglie di farsi uomo, di diventare uno di noi: ma per farlo gli serve un corpo, ha bisogno di una madre.
E Dio non sceglie la moglie dell’imperatore, non una scienziata o un premio Nobel, non una dinamica imprenditrice dei nostri giorni; ma una piccola adolescente, Mariam (la bella). È a lei che Dio chiede di diventare la sua porta d’ingresso nel mondo. Contro ogni buon senso, Maria accetta, ci sta; ci crede immediatamente, e noi, i saggi, non sappiamo se ridere o scuotere la testa davanti a tanta meravigliosa incoscienza; restiamo senza parole davanti alla sconcertante semplicità di questo dialogo, davanti al coraggio di questa ragazza ancora acerba, che parla alla pari con l’Assoluto, che gli chiede spiegazioni e chiarimenti.
Ma Dio non guarda con i nostri occhi, non ragiona con la nostra mente. Per calarsi nella storia, Egli sceglie un umile paesino sconosciuto, Nazareth; e a Nazareth, come madre, sceglie una altrettanto umile e sconosciuta bambina, Maria.
E nel silenzio, senza pubblicità, si consuma il grande mistero della divina umanità. Nessun satellite, nessuna diretta televisiva, nessun network è riuscito a riportarci l’accaduto.
Solo un assordante silenzio ci parla ancora oggi; e ci indica le illogiche scelte di Dio. A noi che cerchiamo sempre il consenso e la notorietà, l’efficienza e la produttività, Dio propone una logica nuova, diversa, la logica del “dentro”, basata sull’essenziale, sul mistero, sulla profezia, sulla verità di sé, sui risultati imprevisti e sconcertanti.
Siamo dunque alla fine dell’Avvento: dopo la figura di Isaia, il profeta dell’annuncio del Messia, dopo il Battista, il precursore che addita il Messia già adulto, oggi è d’obbligo fermarci a meditare sulla terza grande figura dell’avvento: la figura centrale, di colei cioè che offre il suo grembo per il divino concepimento del Messia uomo.
E che messaggio ci lancia Maria? “Accogliete il Signore!”. Non soltanto in occasione dell’imminente natale, ma durante tutta la nostra vita.
Sì, fratelli: accogliamo il Signore! Perché sarebbe perfettamente inutile avergli preparato la strada, per poi alla fine non accoglierlo.
Ma cosa significa “accogliere il Signore”?
Significa fare come ha fatto Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare da Lui, fidarsi di Lui. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione. Sempre. Significa accettare di diventare la sua casa, significa accogliere questo ospite unico, infinito, nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
“Non temere, Maria”. Certo, non è stato sicuramente facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha certamente risparmiato le enormi difficoltà di questa scelta, perché la sua doveva essere una scelta libera, da innamorata. Una risposta generosa, franca, consapevole, dettata dall’amore, capite? Non come le nostre risposte: stanche sul nascere, legate alle circostanze, succubi del rispetto umano, condizionate dai nostri calcoli e dal nostro tornaconto. Avete ancora presente il momento in cui abbiamo detto il nostro “si” a Dio? Quanti tentennamenti, quante indecisioni, quanti ripensamenti, fratelli miei. Altro che risposta libera e gioiosa: la nostra adesione è tutto un programma. Eppure dovremmo avere sempre in mente che “hilarem datorem diligit Deus: Dio ama colui che gli dà con gioia” (2Cor 9,7). Una risposta ragionata, calcolata, per Dio non è una risposta. L’adesione a Dio deve essere un contratto irrevocabile, un concordato irrinunciabile, un investimento perpetuo senza alcuna pretesa di interessi.
Certo, è sicuramente lecito avere dei dubbi. Li ha avuti anche Maria: “Come è possibile questo?”. Ma i dubbi sono a monte, precedono la risposta; devono semmai essere l’occasione per dare una risposta ancor più vincolante e cosciente, più consapevole e autonoma.
Del resto i dubbi accrescono la fede. E avere fede significa porre la propria certezza in Dio, sempre, in qualunque situazione della nostra vita, bella o triste che sia.
La fede quindi fortifica la nostra risposta, la rende ferma e immutabile, le toglie qualunque velleità di ripensamenti; fede è totale fiducia in Dio, perché “niente è impossibile a Lui”.
Anzi, come amava ripetere un vecchio maestro, “tutto è possibile a chi crede”.
"Eccomi, sono la serva del Signore"; con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui, ha messo la sua vita a completa disposizione di Dio. Questa è la fede, fratelli miei; questo significa credere veramente. Questo è l’esempio che dobbiamo seguire, il modo con cui anche noi dobbiamo rispondere alla nostra chiamata. La fede di Maria non è stata tanto nel credere a un certo numero di verità, quanto nell’essersi fidata ciecamente di Dio, nell’essersi completamente abbandonata a Lui.
Maria ha accolto Dio nella sua vita. Ha creduto che “nulla è impossibile a Dio”. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi, in maniera totale e gioiosa. Ha concepito Cristo, come dice S. Agostino, prima nel cuore che nel corpo.
È questo l’esempio luminoso che ci viene proposto oggi da Maria. Imitiamola dunque, fratelli, imitiamola con fede, “concepiamo” anche noi Gesù nel nostro cuore. Diventiamo partecipi di questa sua sublime vocazione. Del resto, come hanno scritto Origene e S. Bernardo, “che beneficio avrei, se Gesù fosse nato soltanto una volta a Betlemme, e non continuasse a nascere per fede nel mio cuore?”
Sì, fratelli: dobbiamo far nascere Gesù in noi; dobbiamo accoglierlo nella nostra vita con tanta fede, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo, così come Lui stesso ci ha insegnato durante la sua vita terrena.
E allora, fratelli miei, coraggio, animo! Proprio quando pensiamo di avere sbagliato tutto nella nostra vita, quando non siamo soddisfatti dei risultati ottenuti o ci sentiamo attratti dall’assordante richiamo del mondo, guardiamo a Nazareth, guardiamo al silenzio di Maria, alla sua umile dedizione, al suo composto modo di fare, e lasciamoci sbalordire, lasciamoci incantare da tanta semplicità e fedeltà. Anche noi, sul suo esempio, non abbandoniamo, non rinunciamo, non molliamo mai; per nessuna ragione.
Tra una settimana è Natale. Presentiamoci anche noi a Betlemme, umilmente, senza pretese, così come siamo: ascoltiamo anche noi la voce del Signore che silenziosamente dice al nostro cuore: “lasciati amare; non preoccuparti di come hai preparato il tuo avvento, sono io che ti vengo incontro!”. Capite? Che vogliamo di più da Dio, fratelli? Egli è così: noi dobbiamo solo aspettare; dobbiamo chiudere gli occhi, e lasciarci finalmente incontrare! Amen.
 
AUGURI!
Buona preparazione all’incontro col Signore!


mercoledì 30 novembre 2011

11 Dicembre 2011 – III Domenica di Avvento

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce…».
Anche questa domenica il vangelo si concentra sulla figura del Battista. Ma oggi Giovanni non è l’asceta duro di domenica scorsa, non è il profeta austero, intransigente, l’annunciatore di catastrofi nel caso gli uomini non si convertano.
Oggi ci viene dipinto da Giovanni, suo omonimo l'evangelista, come un “testimone”, un “indicatore”; noi moderni diremmo come un “navigatore satellitare”, un cartello segnalatore che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me; dovete guardare verso la direzione che io vi indico”.
Qui il Battista è enigmatico, non spiega, non dice chi verrà e come verrà. Dice soltanto: “Preparate la via… verrà uno che non conoscete… e io di fronte a lui sono niente”.
Bene, fratelli: è proprio questa l’essenza dell’avvento. Giovanni “sente” che qualcosa deve succedere, che qualcosa deve avvenire; e attende, aspetta. Sente che sta per arrivare qualcuno, ma non sa chi.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Dobbiamo conservare la sorpresa, l'imprevisto, il poter essere “sorpresi”, perché se conosciamo già tutto, se abbiamo già provato e scritto tutto, che Natale è? Che Avvento è?
Prepararsi pertanto vuol dire: “Acconsenti che ti succeda qualcosa di cui non puoi disporre, che non puoi controllare, che non puoi gestire. Permetti che la vita ti faccia delle sorprese”.
Noi tendiamo a controllare tutto. Pianifichiamo tutto. Gestiamo tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il “più in là”. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia rendendoci svegli, dandoci conto di certe cose, non è Dio.
Dio lo troviamo molto di più negli imprevisti che non in tutto ciò che pre-vediamo. Lasciamo allora, fratelli, che la vita ci sorprenda! Permettiamo alla vita di manifestare tutta la sua ampiezza e ricchezza. Ricordiamoci che la Vita lavora sempre con noi e mai contro di voi; se la ostacoliamo, ostacoliamo noi stessi.
Nel vangelo viene posta a Giovanni Battista una domanda che dovrebbe farci molto riflettere: “Chi sei tu?”. Già: “Chi siamo noi?”. “Sono un uomo, una donna, un marito, una mamma, un bravo cristiano…”. Sì, d'accordo, è tutto vero, ma non è tutto. Semmai questo è il nostro “ruolo”, è il vestito che indossiamo, ma dentro… chi siamo?
Il ruolo, quello visibile, quello che tutti vedono, è limitato, è limitante: ci permette di vivere una parte, ma solo una parte della vita. Molti di noi si sono investiti in un ruolo e continuano a vivere sempre e solo quello. Del resto vivere interpretando sempre lo stesso personaggio ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile; lo conosciamo bene, ma ci limita. Il ruolo ci ingabbia; ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone si è smarrita la persona ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, al suo interno non troveremmo niente.
Ma la domanda rimane: “Al di là di tutti i ruoli, di tutti i vestiti, chi siamo noi?”. Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimità dell’anima? Questa è la grande domanda. Cos’è, cioè, che ci fa originali, irripetibili, esclusivi rispetto agli altri? Cos’è che ci rende diversi da tutti? Cos’è che ci rende insostituibili, unici davanti a Dio? Perché se non troviamo questo elemento distintivo, vuol dire che siamo uguali agli altri, che noi e altri siamo la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che uguali a noi ce ne sono a migliaia; vuol dire che invece dell'originale, siamo una fotocopia, un doppione, uno sbaglio: come se la vita, qualunque vita, si riducesse ad essere una semplice fotocopia! Impossibile: e se per assurdo fossimo uguali agli altri, allora vorrebbe dire che non stiamo vivendo la nostra vita, che abbiamo fallito tutto, che la nostra vita non ha alcun senso.
«Tu, chi sei? Egli confessò e non negò...». Il Battista inizia a dire prima di tutto cosa non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”. È importante, fratelli, rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci incollano; è importante ribellarsi e dire agli altri: “No, non sono uguale a voi, non sono come voi! Io sono io; non sono te e nessun altro. Io ho il mio nome. Non vi piaccio come sono? Non soddisfo le vostre aspettative? Non rientro nei vostri schemi? Pazienza!”. È l’inizio della libertà, fratelli. Della nostra libertà. Perché noi siamo “altri”!
Il primo passo da fare sulla strada della vera vita è quindi liberarsi da ciò che non si è.
La prima grande scelta, come quella del Battista, è non voler essere come gli altri: “No, io non sono questo! Io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere di non essere ciò che gli altri vorrebbero, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative, le incrostazioni che gli altri ci hanno imposto, è un’operazione molto impegnativa, difficile, spesso anche dolorosa. Ma se coraggiosamente ci togliamo di dosso ciò che non è nostro, ciò che deturpa la nostra unicità, pian piano emergerà chi siamo, ciò che ci rende immagine e somiglianza di Dio. E ne varrà sicuramente la pena, fratelli!
“Io sono voce di uno che grida: Preparate la strada”. Giovanni è dunque un profeta; è questo il suo ruolo: ma oltre a ciò, egli ha trovato chi è veramente, la sua vera identità, ha capito qual è esattamente la sua missione: “Essere voce”. Egli ha trovato il vero motivo per cui vivere, la ragione per cui è stato creato, ciò che dà senso e valore alla sua vita. Lui è la “voce” che deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate; il Signore vi passerà vicino, non lasciatevelo scappare! Dio c’è, ma se voi insistete a tenere gli occhi chiusi, non lo vedrete mai”.
Il Battista dà, presta la voce, ma le parole sono di un Altro.
È testimone della luce, illumina anche, ma non è la Luce. È come la luna che riflette una luce non sua; non è lei la fonte della luce: la sua “luce” viene dal sole. Come il Battista, anche noi dobbiamo essere“voce”; dobbiamo essere strumento, mezzo, veicolo di Qualcun altro. Dobbiamo cioè essere l’altoparlante di Colui che sussurra al microfono del nostro cuore. È questo, fratelli, il nostro primo compito: dar voce all’Infinito, al Dio, all’Oltre; dare voce alla Forza, allo Spirito che ci scuote dentro, ma che non ci appartiene. L’uomo è chiamato a testimoniare l’invisibile, il di più che si porta dentro. Questo è appunto il nostro servizio che dobbiamo a Dio: dare voce a ciò che abbiamo dentro!
Certo però, che se non lo ascoltiamo mai, è piuttosto difficile avere qualcosa "dentro"! Anzi impossibile.
Essere “strumenti” di Dio vuol dire permettere che sia Dio a scegliere, che sia Lui a utilizzarci come meglio crede; che sia Lui a farci la chiamata che ritiene più consona per noi. Sì, fratelli, perché noi viviamo in Lui e per Lui. La vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Siamo un verbo, ma non siamo il soggetto che lo coniuga. Il soggetto è sempre e solo Dio. È Lui che parla, è Lui che ispira, è Lui che chiama.
Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Sentirle sue, quando non lo sono affatto. L’uomo è soltanto un amministratore, è semplicemente voce.
Nel vangelo c’è poi una sfumatura che merita di essere colta: “In mezzo a voi sta uno che non conoscete”. Una frase che detta così non è particolarmente incisiva; ma, se tradotta bene dal greco, diventa molto forte. Dice infatti: “In mezzo a voi ci sta uno che voi non volete conoscere”; non semplicemente, come suona il testo italiano, “uno che non conoscete”; la differenza sostanziale introduce una nuova situazione, ossia la scelta di “non conoscere” volutamente, di proposito. Di norma infatti, il verbo “conoscere”, in greco, viene espresso con gignèskw. Qui, invece, Giovanni usa un altro verbo: o‡date, che indica il “voler sapere, il conoscere con cognizione di causa, il conoscere senza dubbi, il vedere con i propri occhi. Quindi il verbo “non conoscete acquista una coloritura volutamente negativa, come a dire: in mezzo a voi c’è uno che voi “non conoscete perché non avete voglia di conoscerlo, non lo volete conoscere perché non lo vedete con i vostri occhi, e quindi non ammettete ripensamenti su di lui. In altre parole, si vuole evidenziare il fatto che i Giudei e i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, di non avere nulla a che spartire con “Colui che viene”. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui successivamente faccia o dica – e la storia lo confermerà – non riuscirà in alcun modo a cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista può urlare, scuotere, gridare, strattonare: ma non servirà. Se nella nostra testa abbiamo deciso a priori che una cosa non ci interessa, niente e nessuno potrà mai farci cambiare idea. Se abbiamo deciso che l'idea di Dio è ininfluente per la nostra vita, un accessorio senza alcuna importanza, nessuna predicazione ci potrà convertire, nessun grido profetico potrà mai scalfirci. Se abbiamo deciso di non metterci in gioco, non impareremo mai nulla dalla vita, perché una vita così non avrà mai nulla da insegnarci. Una situazione che è stata determinante soprattutto nel calo verticale subito dalla religiosità dei cristiani di oggi. Molti osservatori non condividono tale analisi; anzi la contestano, e fanno notare come, per esempio, la notte e il giorno di Natale le chiese siano sempre piene.
Non facciamoci illusioni, fratelli: le chiese saranno anche piene a Natale, ma in tutte le altre occasioni? Se potessimo leggere nel cuore di tanti di questi fedeli "occasionali", se potessimo fotografare il segreto del loro cuore, rimarremmo molto delusi: “Ma che ci sto a fare qui? Speriamo finisca presto; è tempo perso, non mi interessa; mi son lasciato coinvolgere dai figli, dalla moglie, giusto per farli contenti, ma a me questa storiella sdolcinata del Dio bambino, mi fa solo sorridere; e poi, io non so cosa farmene di Dio; a cosa mi servirebbe? Forse viene Lui a risolvere i miei problemi per arrivare a fine mese?”.
Fratelli miei, se l'uomo si ostina a non credere, a non volersi convertire, a non voler cambiare, statene certi, non lo farebbe neppure se Dio decidesse di tornare ancora lui su questa terra! Non crederebbe neppure se vedesse Dio faccia a faccia; neppure se Dio facesse chissà quali e quanti miracoli! Purtroppo, chi ha deciso di non credere, di non conoscere Dio, non crederà e non lo conoscerà. Non c’è niente da fare.
Voi mi direte che arrivare a tali conclusioni è semplicemente frutto di una mente pessimistica, contorta, maliziosa. Sono casi limite, inverosimili. E invece no, fratelli: sono anzi situazioni molto frequenti, tant'è che il Vangelo le chiama peccato contro lo Spirito Santo; l’unico peccato umano imperdonabile, perché è una strafottente e insensata negazione dell'amore di Dio.
Ecco, fratelli miei: quest’anno preghiamo per questi nostri fratelli, tanti o pochi che siano; la Luce del Natale rischiari finalmente le fitte tenebre del loro cuore.
E noi? Anche quest’anno Dio busserà al nostro cuore. Vuole ancora una volta ri-nascere dentro di noi. Gli apriremo il nostro cuore? Lo riconosceremo? Gli crederemo?
Fermiamoci un istante per tempo, e pensiamoci. Seriamente. Amen.


4 Dicembre 2011 – II Domenica di Avvento – Anno B

«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati».
Oggi il vangelo si concentra sulla figura di Giovanni Battista, il cui compito è quello di preparare la strada alla venuta del Signore. Marco ci offre un Giovanni Battista singolare, vestito secondo l’usanza di quei profeti che esercitavano la loro missione ai margini delle città, predicando conversione e penitenza. Il suo vestito, come quello di Elia, è fatto di peli di cammello, con una cintura ai fianchi: una tenuta in netto contrasto con le prescrizioni giudaiche di purezza.
Il Battista non dà alcun valore al suo aspetto esteriore perché è coerente con se stesso: non ha bisogno né di vestiti, né di maschere sotto cui nascondersi. Certo, vestirsi bene è bello, vestirsi bene è segno di decoro e anche di amore per sé stessi, ma quando il vestirsi bene è più importante della persona o il vestirsi bene serve a nascondere ciò che siamo dentro, allora è schiavitù. Quegli uomini che sono sempre e solo vestiti bene, a puntino, “perfetti”, in genere sono uomini che si nascondono dietro il vestito. Valorizzano il contenente a discapito del contenuto. Mia nonna diceva sempre: “Ricordati che un asino vestito da re rimane sempre un asino”. Possiamo quindi metterci addosso tutto quello che vogliamo, ma il vestito non cambia in alcun modo quello che siamo dentro.
Giovanni Battista è consapevole di ciò: fa quello che deve fare e non guarda in faccia nessuno. È un uomo che non si lascia né condizionare né intimorire. Un uomo autonomo. Non segue nessuno e non gli interessa avere seguaci. Ha un modo diverso di concepire le cose: “Convertitevi e fatevi battezzare”. Questo è quello che conta. Punto.
Non si limita semplicemente a dire: “Fai questa cosa, comportati così, osserva questi precetti esteriori e poi sarai a posto (come facevano i farisei); ma ha una visione più ampia delle cose e del comportamento umano. Dice: “Se l’uomo non cambia dentro, nel suo intimo, nella sua anima, tutto il resto è inutile”.
Quando c’è un problema, l’importante non è trovare “una” risposta, ma “la” risposta; ciò che conta è avere la visione d’insieme del problema e affrontarlo alla radice.
Noi - soprattutto oggi - abbiamo bisogno di visioni d’insieme, di grandi visioni. Abbiamo bisogno di uomini che sappiano capire con il cuore, oltre che con la mente, qual è il bene vero per l’umanità. Abbiamo bisogno di uomini che ci insegnino a cercare, a perseguire e a lottare non solo per i nostri diritti ma per i diritti di tutti; non solo per il nostro bene ma per il bene di tutti. Difendere solo i propri diritti si chiama interesse; difendere i diritti di tutti si chiama giustizia; cercare solo il proprio bene si chiama narcisismo, egocentrismo; cercare il bene di tutti si chiama amore.
Oggi però la società ci insegna: “Trovati un bel lavoro e una bella posizione, pensa a te stesso, e gli altri si arrangino”. È pressoché impossibile sentirsi dire: “Ama tutti gli uomini, lotta per la giustizia, non pensare solo a te stesso. Non vedi quante ingiustizie ci sono nel mondo? Fa’ qualcosa”.
Tantissimi giovani non sanno cosa voglia dire battersi per qualcosa di grande, per dei valori universali, per qualcosa di trascendentale. Sanno sì lottare – quando hanno voglia di lottare - ma solo per la loro carriera, per le loro comodità, per il loro benessere, per il loro status symbol. Sono semplicemente degli “idioti”: dove, in greco, il termine “idiota” indica colui che è soltanto concentrato su di sé, che non sa vedere oltre il proprio tornaconto, oltre il proprio interesse, oltre il “se stesso”.
Oggi la quasi totalità delle persone vivono solo per il denaro, per il sesso, per la gloria, per il successo; è difficile trovare chi vive per la verità, chi vive per seguire la voce di Dio; persone insomma che facciano le cose in nome della propria coscienza, perché sono convinte che è giusto fare così, fedeli a se stesse e a Dio.
“Convertitevi e fatevi battezzare” ci grida Giovanni. “Convertirsi” vuol dire uscire appunto dal proprio egocentrismo, dal proprio infantilismo. Sì, perché siamo peggio dei bambini: avete presente? Il bambino rivendica tutto per sé; dice di ogni cosa: “È mio”. Tutto il mondo deve girare intorno a lui. Non esiste nient’altro che lui. I giocattoli sono tutti suoi. Il cibo è tutto suo. Tutti devono vivere in funzione sua.
Ecco: “convertirsi” significa diventare adulti, rendersi conto cioè che c’è un mondo più grande, più ampio, più vasto, che va oltre il nostro ridottissimo orizzonte. È accorgersi che non ci siamo solo noi al mondo. “Convertirsi” vuol dire appunto aprirsi a questo mondo, perché noi non siamo il mondo, ne facciamo solo parte; vuol dire anche combattere contro questo mondo, quando vuole imporsi con le sue discriminazioni. È capire che dobbiamo concorrere attivamente ad aiutare gli altri abitanti di questo mondo, perché sono nostri fratelli, anch'essi affamati di amore e di libertà.
Giovanni è l’icona della libertà, dell’uomo libero; non ha paura di stare da solo, di essere rifiutato, di non essere accettato. È un uomo autentico, vero, autonomo, uno che ha una strada davanti a sé e la percorre, senza esitazioni. Non gli interessa cosa diranno gli altri o se si attirerà le ire dei potenti (come Erode). Lui è portatore di un messaggio; ha un compito ben preciso: quello di essere “voce di uno che grida nel deserto”.
Egli sa bene che, nonostante siano in molti (tra cui Gesù) quelli che si fanno battezzare, la sua predicazione non avrà molto seguito, sarà disattesa, trascurata dai più; egli sa perfettamente di predicare “nel deserto”: e chi lo sente nel deserto? Chi può aderire al suo invito? Nessuno! Ciò nonostante egli non ha l’ansia dei risultati: “La gente non viene più in chiesa! Nessuno ascolta più! Ognuno si fa i fattacci suoi! Non è più come una volta! Che sto a fare qui? Perdo il mio tempo; non c’è più nessuno che voglia saperne di Dio!”.
Egli conosce i suoi limiti, che per lui non sono un problema. A lui importa svolgere a puntino, nel migliore dei modi, quello che è il suo compito, la sua missione, la sua “chiamata”: i frutti non dipendono da Lui: sarà un Altro che raccoglierà.
Anche per questo non ha molti riguardi: egli è un padre che sferza, che va giù dritto sapendo di far bene, un padre che lascia il segno, che ferisce in profondità:
“Raddrizzate i vostri sentieri, convertitevi, fatevi battezzare”. Cioè: “Svegliatevi una buona volta, non vedete che vi state prendendo in giro da soli? Vi state ingannando, state mentendo a voi stessi; siete degli “idioti”, state vivendo una vita completamente falsa! Cambiate, rinnovatevi!”.
Parole dure le sue, parole che scuotono gli ascoltatori di sempre: è un po’ come mollare loro dei sonori ceffoni. Ma ciò non significa che Giovanni Battista non ami i suoi discepoli: egli li “ama in maniera dura”: li provoca, li ferisce, mette ciascuno davanti alla propria verità; li costringe a prendersi le loro responsabilità; li avvisa che se non vogliono crescere, se non vogliono capire, si tagliano fuori da soli, rimangono lì, sono fuori.
Esattamente il contrario di quanto fa il mondo di oggi; la nostra società è falsamente buonista. È permissiva. È ipocrita, ingannatrice. Noi oggi abbiamo bisogno più che mai di tanti Giovanni Battista, di padri veri che ci mettano, senza tanti fronzoli, di fronte alle nostre responsabilità e che ci costringano a scegliere, a crescere, ad accettare le conseguenze del nostro vivere.
Sì, fratelli, perché la vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Smettiamola dunque di fare le vittime, gli incompresi, gli offesi! Diventiamo finalmente responsabili di noi stessi. “Raddrizza la tua vita e convertiti”: che vuol dire: “Rischia una buona volta!”. Rischia questa tua vita insignificante; osala, giocala, insegui un sogno, persegui un ideale, credi con tutto il cuore a qualcosa di grande. Rischiare vuol dire “trascendersi”, andare oltre noi stessi, non accettare di essere solo “quel che siamo”, sapendo bene che possiamo essere di più. Molto di più. “Convertirsi”, allora, vuol dire anche “rischiare”: Vuol dire lasciare qualcosa di certo, di acquisito, qualcosa che conosciamo, per andare verso qualcosa di nuovo, che non conosciamo, che va oltre la nostra esperienza. A noi invece piace vivere in una botte di ferro! Ci piace non correre rischi. Non avere imprevisti. La nostra società moderna si regge su grandi dispensatori di certezze: sullo stipendio fisso, sulla pensione, sulla previdenza, sulle assicurazioni, sugli allarmi che ci proteggono, sulle droghe e sui psicofarmaci che ci danno la felicità. Istituzioni, partiti, associazioni, media, tutti tentano di venderci sicurezze, garanzie, certezze. Ma la vita non è così; quantomeno la vita dell’anima. La “nostra” vita, quella che Dio ci ha dato in gestione, è ben altra cosa: dobbiamo perciò rompere con questa mentalità, dobbiamo fare un taglio netto.
Se il bambino non avesse il coraggio di lasciare le sue sicurezze di bambino, non diventerebbe un adolescente; e se l’adolescente non avesse a sua volta il coraggio di lasciare le sue sicurezze, non diventerebbe mai un adulto. Così, se noi non tronchiamo con le ideologie del mondo, del perenne “bambino”, se non abbandoniamo le sue idee, le sue convinzioni, le sue fissazioni, non capiremo mai chi siamo realmente, non diventeremo mai noi stessi, non potremo realizzare mai la nostra vita “divina”.
Rischiare tutto per Gesù, pertanto, è crearci nuove possibilità, è diventare più forti, diversi, diventare nuovi: è ri-nascere. Allora rischiare vuol dire affrontare i problemi che contano; vuol dire mettersi in discussione e vedere i punti di vista del fratello, dell’altro; vuol dire fare una cosa che non abbiamo mai fatta; una che abbiamo paura di fare; prendere noi l’iniziativa, correre il pericolo di essere ridicolizzati dal mondo, di essere rifiutati o esclusi. Noi dobbiamo credere: credere in Lui, anche se nessuno ci crede. Tutto questo è rischiare; è andare con fiducia verso la Luce; è andare senza esitazioni verso Colui che sappiamo essere la vera Sapienza, la Fiducia, l’Amore, Dio. Rischiare è provare a vivere senza farsi condizionare e imprigionare dalla paura del mondo. Perché questa paura uccide. Dio invece è Vita, è Spirito purificatore. Giovanni l’aveva capito molto bene allora, e questo continua a ripeterci oggi.
«Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
È il battesimo del fuoco dell’Amore. Vivere senza lasciarsi dominare dal mondo, impedire che la sua paura ci domini, ci uccida, impostare la nostra esistenza su altri parametri, ecco, questo è il battesimo del fuoco.
Il battesimo d’acqua è rendersi conto, prendere consapevolezza di essere figli di Dio. È il sentirsi amati da Lui, è il percepire la nostra dignità, le nostre potenzialità: “Io sono figlio dell’Altissimo”. Il battesimo d’acqua è sapere ciò che Dio ha fatto per noi, spontaneamente, senza alcun nostro coinvolgimento. È un dono gratuito. E tutti siamo stati battezzati nell’acqua.
Ma il vero battesimo, fratelli, è quello di fuoco; è, cioè, il modo con cui noi sviluppiamo il battesimo d’acqua, è il modo in cui noi viviamo concretamente la nostra vita, se, per dirla secondo il vangelo, ci lasciamo guidare e penetrare dallo Spirito.
Il battesimo di fuoco, è il battesimo dello Spirito, è diventare “altri”, è far crescere in noi quel progetto iniziale con cui la bontà di Dio ci ha segnati con il battesimo d’acqua. Dobbiamo diventare noi quel progetto, dobbiamo svilupparlo, completarlo, meritarlo. Non un dono, ma un guadagno sudato. È la nostra trasformazione. È raggiungere l’Amore, purificarci con il suo fuoco, toglierci le impurità (pur, in greco = fuoco); è partorirci tra fatiche, pianti, lotte e dolore; è insomma diventare a tutti gli effetti, meritatamente, quelli che eravamo già, figli di Dio; ma questa volta diventandolo di nostro, volendolo a tutti i costi, contro tutto e contro tutti.
Anche Gesù, dopo il suo battesimo d’acqua, avrà il suo battesimo di fuoco, nel deserto. Dovrà confrontarsi anch’Egli con il demonio, con la possibilità di rinunciare alla sua missione, di abdicare a ciò che era: il Figlio di Dio. Ed è proprio per diventare se stesso, che dovette diventare fino in fondo ciò che era: il Figlio di Dio.
Battesimo di fuoco è dunque far crescere in noi il Figlio dell’Uomo, è dare spazio (convertirsi, diventare nuovi) al Dio che è già in noi. È di fuoco, questo battesimo, perché “ci brucia”, ci saggia, ci prova, ci purifica, ci riscalda, ci illumina, ci appassiona, ci prende l’anima. È di fuoco perché è l’incontro con Dio, sono le nozze con Lui, è la percezione della nostra missione, è il lasciarsi condurre e trasformare da Lui: “Fidati di me e lasciati condurre dove io ti mostrerò. Lascia che io cresca e divenga in te”.
Questo è Natale, fratelli: far nascere, far crescere il Figlio di Dio dentro di noi. Dio nasce; la sua parte la fa sempre; continuamente e puntualmente. Ma noi, noi i suoi prescelti, gli permettiamo di crescere? Noi, la facciamo la nostra parte? Dio, di suo, nasce in tutti. Nasce, per esempio, in Erode ma non trova in lui possibilità di crescita perché è un uomo schiavo del potere e del piacere. Dio nasce in Giuda Iscariota, ma anche qui non ha spazio per svilupparsi, per crescere, perché Giuda è imprigionato dalla paura, e dall’avidità. Dio nasce in Pilato ma anche in lui non può crescere perché stritolato dalle sue manie di grandezza e di potere. Dio nasce nel giovane ricco, senza trovare neppure in lui possibilità di crescita, perché questa gli avrebbe comportato un radicale cambiamento di vita, lasciare le amicizie, i modi di pensare, di agire. Dio nasce nel fariseo ma anche in lui non può svilupparsi perché troppo preoccupato di non perdere la faccia davanti agli altri, di fare brutta figura, di non risultare gradito o di essere escluso.
Dio nasce proprio in tutti: ma sono pochi quelli che sono disposti a riceverlo e a consentirgli di crescere.
Ebbene fratelli: anche quest’anno Dio continua a nascere nel nostro cuore. Puntualmente come sempre. Gli faremo anche noi problema per svilupparsi? Lo soffocheremo ancora con la nostra indifferenza? Lo abortiremo con il nostro egoismo? Oppure in questo Natale, riusciremo finalmente a cambiare qualcosa di essenziale nella nostra vita? Coraggio, fratelli, guardiamoci bene dentro il cuore, dentro l’anima: sicuramente abbiamo ancora spazio per Gesù, per quello che di nuovo egli intende portarci. Non occupiamolo questo spazio, non sprechiamolo anche questa volta, non soffochiamolo, caricandolo di superfluo, di indifferenza, di ingratitudine. Prepariamoci dunque con grande cura e per tempo a questo importantissimo evento. Anzi, pensiamoci già da oggi. Da subito. Amen.