mercoledì 15 giugno 2011

19 Giugno 2011 – SS. Trinità

«Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Un mistero, quello trinitario, che è costantemente al centro della vita cristiana; noi lo ricordiamo infatti ogni volta che facciamo il segno della croce: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Un gesto però che ormai ripetiamo automaticamente, senza pensare a quello che facciamo o diciamo, soprattutto a come lo facciamo. C’è anche da dire che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur rimanendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi non interessa più nessuno; anzi, insistere a spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a discutere sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene interpretato da molti come un tentativo di sviare l’attenzione da problematiche ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, del resto, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea stessa di Dio viene sempre più estromessa dalla vita personale e reale non solo degli uomini in genere, ma anche degli stessi cristiani.
La festa di oggi ci pone pertanto davanti a questo problema: perché il Dio della teologia non si lega, non si rapporta pienamente con il Dio della vita pratica? Problemi di comprensione? Di impenetrabilità di concetti? Suvvia: la Trinità divina almeno a livello di “intuizione” non ha bisogno di uno “sforzo speculativo”, di equilibrismo intellettuale, per essere afferrata dalla nostra mente. La Trinità, lasciatemelo dire, è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; è in pratica l'esperienza di Dio, quella stessa esperienza vissuta e capita direttamente dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio: e nella realtà si comportava proprio così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un infinito mondo d'amore, di comunione, una vita così grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare incommensurabile. E collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla: l’idea di famiglia, composta da un padre, un figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unico” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è la nostra origine, il nostro “utero”, il Dio che noi chiamiamo “Padre e Madre”; poi un Dio che sta “con” noi, che si fa compagno del nostro cammino, il Dio che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati, e che si chiama Figlio; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come entusiasmo (entusiasmo letteralmente vuol dire proprio avere un “Dio dentro”), come creatività, forza, passione, energia: il Dio che ci ha fatti “chiesa” e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare, come abbiamo detto, la famiglia stessa, prima cellula sociale, è eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte, nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco, elemento “altro” di fusione unitaria, generano un’altra persona, un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale funzionalità di questo “amore” come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare così evidente. Come evidente è la percezione quotidiana di un nostro ruolo “trinitario”. Nel mondo tutto è diverso ma tutto è intimamente e solidamente unito. Ricordate? Quando eravamo bambini abbiamo fatto esperienza di un “unum” indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, eravamo completamente fusi con lei, eravamo nel grembo della vita. Ci sembrava che fuori di noi non ci fosse nulla; ci sembrava di essere noi il tutto. Poi col tempo ci siamo accorti che non c'eravamo solo noi, ma che c'erano anche tante altre persone. Ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri: eravamo unici, ma eravamo anche in tanti… e abbiamo scoperto che qualcosa ci univa: un qualcosa ci legava, un qualcosa che si intesseva con le nostre vite: un qualcosa che, maturando, abbiamo riconosciuto come sentimento, amicizia, rispetto, amore.
Ci sono molti però che non sono riusciti a maturare, che sono rimasti allo stadio infantile, della non relazione: sono le persone narcisiste. Pensano di essere le uniche al mondo, che il mondo debba ruotare attorno a loro. Sono onnipotenti, si credono ancora Dio; non sono ancora nate. Non hanno ancora fatto l'esperienza trinitaria, l’esperienza dell’alterità, dell’altro. Con queste persone non si può proprio parlare: sanno tutto loro! “Io ho fatto così... io so... io capisco...”, e ti raccontano tutte le loro imprese e tutte le loro smisurate conoscenze. Esistono solo loro. Gli esempi abbondano: molti superiori, molti genitori, molti capi, gestiscono i loro confratelli, le loro consorelle, i loro figli, i loro dipendenti, come se fossero delle marionette: muovono, spostano, non chiedono niente, comandano, decidono loro, perché tanto chi sta sotto deve accettare tutto, non ha un cuore suo, non ha alcun diritto di esprimersi. Credono che tutto il mondo e tutte le persone siano in funzione loro.
Venire al mondo, nascere, è la cosa più bella, è il senso della vita, ma è anche una cosa che fa paura perché in quello stesso momento si diventa “altri”, perché ognuno poi se la dovrà vedere da solo, senza che qualcuno gli “copra le spalle”, dovrà necessariamente “altrificarsi”.
Così per molte persone essere diverse (di-versus vuol dire che ognuno ha la sua strada, il suo verso, il suo carattere, la sua corsia, la sua “chiamata”) è assai faticoso, perché le costringe ad esporsi, a mettersi in gioco, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode.
Dal lato opposto, vi sono tante altre persone che vivono la diversità non come elemento di fusione, ma come una competizione, come un continuo confronto: “Io sono meglio di te; io so più di te; tu sei più bello di me; tu sei più riuscito di me”. “Competere” significa per loro rifiutare la diversità; vuol dire dimostrare che esse valgono più degli altri. Vuol dire affrontarsi e farsi guerra; sentire l'altro come un nemico, un pericolo. Il mondo familiare, il mondo del lavoro e a volte anche le nostre comunità cristiane sono piene di persone che (di nascosto, soprattutto nelle comunità religiose!) si combattono. Sentiamo l'altro come un nemico e tentiamo di ucciderlo, di zittirlo, di eliminarlo: siccome non lo possiamo fare fisicamente lo facciamo con le parole, con i giudizi taglienti. Lo stesso vale quando ci arrabbiamo o ci indispettiamo perché gli altri non la pensano come noi, non fanno come noi o come noi vorremmo. Giudicare (kr°nw in greco vuol dire “dividere”, “separare”) è tentare di stabilire una superiorità tra me e te (naturalmente io sono superiore!). Chi giudica non ama e non si ama. Chi giudica non accetta gli altri perché non accetta in realtà neppure se stesso. Sminuisce gli altri solo per farsi più grande (devo tirare giù l'altro in modo che diventi più piccolo di me; che fare? Sparlo, emetto giudizi velenosi, creo maldicenza intorno a lui; gli creo intorno una fossa entro cui non potrà evitare di cadere: la sua caduta mi renderà automaticamente superiore a lui). Chi giudica, pretende di essere superiore. Quanto dobbiamo ancora crescere, fratelli!
Dobbiamo soprattutto vivere l'esperienza trinitaria. Io sono io e tu sei tu, ma c'è l’amore che ci unisce. Se io sviluppo e vivo trinitariamente la mia “alterità”, sono felice, mi sento realizzato, sono contento di me per come sono, e degli altri per come sono. Allora posso accettare anche altre strade e non ho motivo di essere invidioso di chi opera in maniera diversa. Io percorro la mia via e sono felice. Tu fai la tua e sei felice; e sono felice anche per te, perché capisco che questa è la tua via. Le cose a questo mondo si possono fare in tante maniere. Noi spesso definiamo “sbagliato” ciò che è soltanto diverso. Ci sono tanti modi di pregare; ci sono tanti modi di vivere la famiglia; ci sono tanti modi di amarsi; ci sono tanti modi di pensare; ci sono tante possibilità: il tanto riflette l'immensa grandezza di Dio, la sua varietà, la sua creatività. Pretendere l’unicità, significa essere malati: in realtà noi non amiamo gli altri, ma solo noi stessi: amiamo l’altro soltanto perché è la nostra identica immagine speculare: attraverso lui, ammiriamo e amiamo noi! E non appena la nostra diversità diventerà palese, lo rinnegheremo: “Non sei più come una volta. Sei cambiato. Non mi vai più bene”. Non capiamo che se Dio ci ha creati diversi, unici, amare in questo modo vuol dire rifiutare Dio. Il nostro incontro con l’altro è falso, perché io voglio incontrare soltanto me stesso. Qui non c'è crescita, non c'è novità, non c’è vita. Diversità è incontrare qualcosa che non sono io.
L'amore maturo, l’amore vero, l’amore offerta, oblazione, servizio, è invece quello di chi realizza l'unione non perché si è uguali, ma proprio perché si è diversi. “Ti amo perché tu sei tu, perché non sei me. Amo te perché sei altro da me”. È questa l'unione vera; è questo l'amore vero; è questo il legame che deve unirci; è questo lo Spirito che incontriamo al di là di ciò che facciamo o di ciò che pensiamo; insomma è l'unione, l'incontro delle anime. Amare non è pensare le stesse cose o avere le stesse idee. Amare non è neppure fare le stesse cose. Amare è incontrarsi nello Spirito, nel profondo, nell'anima. È nella “alterità” che si costruisce la propria identità, è nella “diversità” dell’unione, che Dio si manifesta e si rende visibile. Perché Dio è amore, e la Trinità è l’essenza di questo amore.
Ecco, tutto questo, fratelli, mi suggerisce oggi la festa della Trinità, e tutto questo, anche se confusamente, ho cercato di trasmettervi.
E concludo con un’ultima considerazione: noi cristiani di oggi più che chiederci se “crediamo o non crediamo”, dovremmo chiederci invece “in quale Dio crediamo”! C’è infatti una bella differenza tra credere in un Dio giusto sì, ma severo e inflessibile giudice, la cui ira e la sua irritazione si possono placare soltanto mediante preghiere, suppliche, digiuni e penitenza, e credere al contrario in un Dio Padre amoroso e misericordioso, talmente innamorato del mondo e di ciascuno di noi in particolare, “da dare suo Figlio unigenito”! Lo so: questo è un argomento ricorrente nelle mie riflessioni, ma penso che educare la nostra fede sia una delle priorità assolute nel tempo in cui viviamo. E la festa della Trinità, la festa dell’amore trinitario, ci offre appunto l’occasione per cancellare definitivamente queste false immagini di un Dio arcigno e vendicativo, ancora conservate in qualche angolo della nostra mente.
Inondati dal dono dello Spirito, lasciamoci dunque convertire al Dio Trinitario, al Dio che Gesù ci ha rivelato. Al Dio Trinità che, lo ripeto, è amore, festa, incontro, relazione, amicizia, comunione, famiglia... Ricordiamoci che questo Dio ci ha creati espressamente a sua immagine e somiglianza: ha impresso cioè dentro di noi un DNA trinitario, per cui anche noi come Lui siamo fatti per la relazione, per l'amore, per la comunione, per la fraternità.
Festeggiare la Trinità significa pertanto riscoprire le scelte e le priorità che rendono veramente bella e sana la vita. Proviamo a chiedercelo, fratelli miei: chiediamoci, con un po' di onestà, quali sono le nostre priorità fondamentali, quelle su cui stiamo costruendo la nostra vita; chiediamoci se nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali è chiaramente visibile il nostro DNA trinitario; chiediamoci con quale stile gestiamo le relazioni che quotidianamente siamo chiamati a vivere; quanto tempo regaliamo alle persone che ci vogliono bene e quanto ne investiamo a nostra volta per costruire relazioni sane e positive. Lo so, sono domande piuttosto antipatiche. Ma prima di rispondere facciamo un bel respiro e invochiamo lo Spirito perché ci aiuti a scavare nel profondo del nostro cuore e a dirci la verità. Amen!

  

domenica 5 giugno 2011

12 Giugno 2011 – Pentecoste

«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi».
Pentecoste: sono passati cinquanta giorni dalla Pasqua. Per gli antichi il numero cinquanta era il simbolo del completamento di un certo periodo, un tempo che si concludeva: a cinquanta anni a Roma, per esempio, si era dispensati dal servizio militare; per gli ebrei il cinquantesimo anno era l'anno del giubileo, della riflessione, dove uno si fermava per riflettere su quanto c'era stato di corretto e di scorretto nella propria vita. Che la Pentecoste venga cinquanta giorni dopo la Pasqua, indica dunque che un tempo è finito, che un ciclo si è concluso: è il tempo del Gesù terreno e delle sue immediate apparizioni dopo la Pasqua.
Da oggi si apre un nuovo tempo, il tempo dell'uomo, della Chiesa, il tempo dello Spirito. Ma vediamo come sono andate le cose. Cosa è successo in particolare?
Gli apostoli, dopo la morte di Gesù, stanno attraversando un periodo di grave stato emotivo: sono presi dallo sconforto, dalla paura e dalla delusione, e si sono rifugiati tutti insieme nel cenacolo, il rifugio che ricordava loro ancora la presenza di Gesù: si sono rinchiusi all'interno, perché hanno una paura folle.
Gesù lo sa. E allora, prima di ogni altra cosa, deve tranquillizzarli, deve sgomberare il campo dalla paura.
«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi». Cioè: non abbiate paura, state tranquilli! Sono io, sono ancora qui, come prima, più di prima.
Hanno bisogno di stare insieme, gli Apostoli; sono ancora terrorizzati. Immagini strazianti sono ancora impresse nella loro mente: hanno visto cosa è accaduto a Gesù e soprattutto come è accaduto, come è stato ucciso. In una società come la loro, in cui l'individuo ha valore soltanto se appartiene ad un gruppo, ad un popolo, ad un'etnia, la paura di ritrovarsi isolati, soli, fuori dal gruppo, rifiutati, esclusi, è quanto di peggio possa loro capitare (è la morte civile). Ma come se non bastasse, hanno il terrore della sofferenza fisica; hanno paura di fare la stessa fine di Gesù; ed essi hanno ben visto che fine gli è toccata: torturato, flagellato senza pietà, crocifisso, morto lentamente sulla croce. Sono immagini che tolgono la tranquillità a persne semplici come loro. E qui, beh, obiettivamente, la gran paura ci sta proprio tutta!
Non dimentichiamo infatti che la paura è una caratteristica umana, una nostra prerogativa; per tutti c'è il momento della paura; anzi ci sono casi in cui la paura di perdere la vita, la paura di morire, arriva addirittura ad annullare nell'uomo il piacere stesso di vivere, può portare a perdere la gioia della vita, a farlo rinchiudere in se stesso; ecco perché, per vivere serenamente, dobbiamo accettare l’idea che la vita prima o poi finirà, inesorabilmente: con o senza tutte le nostre cautele, con o senza tutte le nostre precauzioni. Anzi, dobbiamo imparare a fraternizzare con “sorella nostra morte”, dobbiamo imparare a conviverci, fratelli miei; altrimenti questa nostra vita non sarà mai una vera vita. Sarebbe come morire già da subito. 
Tutto può accadere nella nostra vita: ma il futuro è nelle mani di Dio; e questo mi sembra di poter cogliere dalle parole di Gesù, quando dice: «Pace a voi». State calmi, siate sereni, non temete, non piangete inutilmente! Dovete essere più forti, dovete essere i vincitori della paura; affrontate il mondo: sono io che vi mando: sono io che vi dico «Andate»; «come il Padre ha mandato me, così io mando voi». Anche se avete tanta paura; non ce n’è motivo, andate; andate; non rimanete rinchiusi qui dentro. Uscite fuori, combattete e vincete il mondo!
Ecco, questo ha detto Gesù ai discepoli di allora; e questo Gesù ripete oggi a tutti i suoi discepoli, a tutti coloro che egli continua a mandare per le strade del mondo. Anche a noi, fratelli, Gesù ripete queste parole; perciò ascoltiamolo, diamogli credito; andiamo anche noi, senza esitazioni, nel nostro mondo contemporaneo per vivere e annunciare il suo Vangelo: certo, anche noi abbiamo paura, anche noi siamo trattenuti da mille condizionamenti; ma nulla ci può e ci deve bloccare: non la paura del rifiuto, non la previsione di sconfitte, non il rispetto umano, non il giudizio degli altri; nulla ci deve bloccare, nulla deve congelare il nostro entusiasmo di vivere la vita di Cristo, davanti e a dispetto del mondo.
Del resto, Gesù ci ha dato l’esempio, e questo ci deve confortare e sorreggere; anch’Egli nella sua vita terrena ebbe paura: in certi momenti scappò, in altri si sottrasse alle persone o si muoveva di nascosto o di notte per non farsi vedere. Negli ultimi giorni provò una paura e un'angoscia tali, da “piangere sangue”. Ma andò avanti per la sua strada, nonostante tutto. Non permise alla paura di ciò che gli sarebbe accaduto, al futuro, di bloccarlo. Continuò imperterrito (a “muso duro” dice il vangelo) nel suo viaggio, e arrivò fino in fondo.
Come già gli apostoli nel cenacolo, anche noi abbiamo un luogo in cui sentirci al sicuro; sono le nostre chiese; esse rappresentano per noi un grembo materno che ci protegge: lì ci sentiamo nel nostro ambiente, al sicuro, lì rimaniamo nascosti; ma attenzione, fino a quando rimarremo chiusi lì dentro, non potremo “vedere la luce”, non potremo mai “nascere”, la nostra vita non potrà svilupparsi, non saremo mai adulti, non potremo mai vivere autonomamente il messaggio di Gesù.
«Andate». Animo dunque. Non dobbiamo farci bloccare dalla paura, fratelli. Pentecoste è fidarsi di Gesù, è ascoltare la sua voce che ci dice: “Voi ora uscite perché avete la forza per farlo. Io sono con voi, il mio Spirito è con Voi, è dentro di voi; e con la sua forza ora voi andate fuori nel mondo e fate ciò che dovete fare”.
Ecco, fratelli, è matematico: ogni volta che confidiamo in Dio, che ci fidiamo di Lui, che accettiamo il fatto che Lui è presente nella nostra vita, che è dentro il nostro cuore, noi troveremo sempre la forza di uscire allo scoperto e di vincere tutte le paure, tutte le nostre battaglie.
«Detto questo soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo». Gesù, alitò su di loro. Alitare su qualcuno significa trasmettergli la vita, donargli ciò che abbiamo di più intimo. Il verbo “alitare” (in greco ™mfus£w) è lo stesso usato nella Genesi per indicare l'atto creativo di Dio. Dio ci dona la sua forza, la forza con la quale egli ha agito ed ha amato: la sua forza creatrice. Un gesto meraviglioso, che si presta a due considerazioni.
La prima è che noi abbiamo la stessa forza di Gesù. Quindi prendiamo coscienza di questa forza che ci abita dentro, rendiamoci conto della nostra energia, rendiamoci conto della potenza (lo Spirito) che si è sviluppata in noi e che ci appartiene. Smettiamola di dire: “Siamo peccatori”, “siamo incapaci, sbagliamo...”, e trovare così la scusa  per non far niente. Nossignori, noi siamo potenti perché siamo un tutt’uno con lo Spirito di Dio.  Dire che non possiamo, equivale a negare la potenza di Dio; dire che siamo deboli, fragili, incapaci, significa rifiutare l’azione di Dio, preferendo quella di satana.
Certo, ammettere che abbiamo a disposizione la potenza divina, ci crea un sacco di responsabilità. Forse per questo a volte preferiamo ignorarlo; è meglio far finta di non saperlo. Perché sapere di poter cambiare la propria vita, di poter dire “no” o poter dire “sì” quando serve, di poter agire e influire sull'ambiente che ci circonda, vivere in una parola da altrettanti profeti, beh, è decisamente responsabilizzante.
La seconda considerazione è che tutto ciò che abbiamo dentro di noi in forma germinale, come seme, si risveglia e si produce, come già nella creazione, grazie allo Spirito che lo feconda. C'è infatti tutta una ricchezza, un mondo, una creazione intera che si deve sviluppare in noi. Tutto è in noi come un seme: accettare l'azione dello Spirito, vuol dire essere pronti a prenderci cura dei suoi doni, ossia delle nostre doti, delle nostre qualità, delle nostre risorse, dei nostri carismi. Gli uomini sono pieni di ricchezze ma non le sviluppano. Noi dobbiamo avere nei confronti dei doni dello Spirito le stesse attenzioni che abbiamo nei confronti dei figli: vanno curati, sviluppati, amati, ascoltati; bisogna dar loro spazio, bisogna investire tempo prezioso. Se noi facciamo così, non solo saremo felici ma ci sentiremo ricchi perché noi siamo le nostre ricchezze. Se le amiamo, amiamo noi stessi. Noi dobbiamo essere, come nella Bibbia, la “Genesi” (Gn 1-2), ossia la "creazione" di un mondo che si deve formare, sviluppare; non rimaniamo caos, non declassiamoci a un ammasso indefinito e informe. Noi conteniamo la vita.
Perché l’uomo di oggi è infelice? Perché si preoccupa di milioni di cose, ma non di se stesso. Non gli interessa; è completamente impegnato a produrre ricchezza, a sviluppare l'immagine di sé, il suo apparire, ad accrescere il suo conto in banca. Crea, ma non si crea. Sviluppa, ma non si sviluppa. Fuori è ricco, ma dentro è nella miseria più nera.
E arriviamo al versetto finale: Gesù a questo punto rende consapevoli i discepoli dell'enorme potere che hanno: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Qui Giovanni usa due verbi: il primo è f°jmi, perdonare, mandare via, scacciare, rimettere. Il secondo, krto, è trattenere, tenere in pugno, impossessarsi, dominare, avere dominio, spadroneggiare. In altre parole: Voi avete due possibilità: o mandate via o trattenete; o lasciate andare o tenete in pugno. Decidete voi cosa fare.
Conseguenza: il perdono deve entrare nel nostro stile di vita, fratelli; dobbiamo praticarlo sempre, anche nelle piccole situazioni di ogni giorno; e di ferite ne soffriamo a migliaia: uno sgarbo, una battuta irriguardosa, un giudizio negativo, spietato...
Dobbiamo perdonare: sempre; semmai, se lo riteniamo opportuno, possiamo esprimere con calma il nostro disappunto, possiamo far notare educatamente che abbiamo ricevuto un torto senza motivo, ma poi dobbiamo perdonare. Lasciamo che l'amarezza passi, continuiamo a vivere, buttiamoci tutto alle spalle, guardiamo avanti.
Se non perdoniamo, continuiamo a vivere immersi nel passato. Continuiamo a macerarci la mente e il cuore su ciò che doveva essere, ma che non è stato. Accettiamo la realtà, perdoniamo e continuiamo a vivere. Abbiamo questo grande potere, fratelli: non siamo in grado di prevedere ed evitare le ferite della vita, ma possiamo sempre perdonare chi ce le ha causate, perché in quel momento siamo noi che decidiamo cosa fare: se tenere o lasciare andare, se rimanere offesi o perdonare. Possiamo decidere di essere feriti una sola volta, dagli altri, se perdoniamo; ma possiamo decidere di ferirci continuamente da noi stessi, se non perdoniamo. Perdoniamo non per essere bravi ma per essere liberi. Non c'è niente di bravo in chi perdona, perché perdonare è accettare di essere feriti. Ogni ferita è un sasso che ci colpisce. Un sasso ci ha colpito e ci ha fatto male; abbiamo tra le mani questo sasso: che vogliamo farne? Vogliamo vendicarci scagliandolo al mittente? Questo non cambierà la nostra situazione, non ci toglierà la ferita ma ne provocherà una nuova nel nostro fratello.
Vogliamo utilizzare quel sasso per trasformare ogni nostro contatto, ogni nostra carezza, in una sassata per tutti? O vogliamo perdonare? Deponiamo il sasso, fratelli: lasciamolo cadere, lasciamolo rotolare per la sua strada. Se non facciamo così, ci troveremo ogni mattina ad alzarci e a guardare quel sasso. E senza che noi ce ne accorgiamo quel sasso ci penetrerà, entrerà dentro di noi, ci trasformerà, il nostro cuore diventerà come quel sasso; invece di lanciare gesti d'amore, continueremo a lanciare sassate, poiché quel sasso ha dilaniato il nostro cuore, lo ha pietrificato.
La violenza genera violenza. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza questo automatismo. Il domenicano Henri Lacordaire diceva: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”.
Allora, buona Pentecoste, fratelli: lo Spirito riempia il nostro cuore. Quando siamo tentati di non perdonare, invochiamo lo Spirito. Quando sentiamo di non essere abbastanza presi dalla Parola, invochiamo lo Spirito. Quando in parrocchia, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, non riusciamo a legare con nessuno, anzi finiamo col litigare con tutti per delle immense sciocchezze, invochiamo lo Spirito. Quando gli eventi della vita ci fanno letteralmente perdere la luce e tutto sembra piombare nelle tenebre più fitte, invochiamo lo Spirito. Quando siamo stanchi delle solite nostre scuse, dei soliti luoghi comuni; quando ci accorgiamo che la nostra fede e la nostra carità languono e si defilano; quando l'incendio del Vangelo si è ridotto nel nostro cuore alla brace della consuetudine, invochiamo lo Spirito. Spalanchiamo i nostri cuori e le nostre menti: che lo Spirito entri in noi, fratelli miei, che ci faccia violenza, che scardini tutte le nostre porte ancora chiuse a doppia mandata. Che mandi in frantumi le nostre finte difese, il nostro stupido schermirci; e soprattutto che risvegli nuovamente in noi l'ardore e il desiderio di amare! Amen.

  

mercoledì 1 giugno 2011

5 Giugno 2011 – Ascensione di nostro Signore

«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Oggi la chiesa celebra la festa dell'Ascensione. Gesù lascia questa terra e sale al Padre; si ricongiunge con Lui. Un addio? Neppure per idea: «Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo», ci rassicura; per cui oggi possiamo celebrare, oltre l’Ascensione in cielo, proprio la festa di questa “Promessa di Gesù”.
I pochi versetti della pericope di oggi, concludono il vangelo di Matteo. Costituiscono la sua sintesi dottrinale: per capire bene Gesù dobbiamo partire proprio da qui, dalla conclusione della sua vita terrena. Gesù, a causa della sua crocifissione e morte, sembrava un uomo finito, uno che aveva fallito in pieno la sua missione. E invece è proprio da qui che incomincia il suo nuovo modo di esistere su questa terra. Gesù non c'è più ma ci sono gli apostoli. Gesù non c'è più, ma c'è la Chiesa. La Chiesa infatti è la presenza di Gesù nel mondo: Lui “ascende” al cielo, se ne ritorna lassù da dove era venuto, e lascia noi qui in terra, noi, i “nuovi Gesù”.
In questo passo Matteo, in verità, non fa alcun cenno all'Ascensione. Non la nomina neppure. A differenza di Luca, che nel suo Vangelo e negli Atti ne parla ampiamente, non spende una parola per questo evento importantissimo. Si limita a scrivere che Gesù (risorto ovviamente) appare agli undici e dice loro alcune cose prima di andarsene. È una scena di congedo: Gesù se ne va e lascia le sue ultime raccomandazioni, le più importanti, un po' come quando uno muore e lascia il suo testamento spirituale, le sue parole più preziose, che sintetizzano i comportamenti e gli insegnamenti di una vita intera.
Matteo apre dunque il racconto dell’incontro dei discepoli con Gesù in Galilea, sottolineando un loro doppio stato d’animo, un comportamento quanto meno contrastante: dapprima “si prostrano” per adorarlo, ma subito dopo “dubitano” di lui: sembra casuale, ma in effetti è una annotazione magistrale, perché rappresenta esattamente i due volti della Chiesa, il duplice modo di rapportarsi dei cristiani della Chiesa di allora, di oggi, di ogni tempo, nei confronti di Dio: ci sono persone che lo sentono vicino, vivo, presente e dentro la loro vita; ci sono invece altre che dubitano, che sono scettiche, che non si lasciano coinvolgere; interesse e disinteresse: sono due stati d’animo comuni all’uomo. Per questo la chiesa, fatta di uomini, non potrà mai essere l'unione di persone che credono in Dio, tutte allo stesso modo e allo stesso grado. Anni e anni di storia ce l’hanno dimostrato. Noi stessi abbiamo degli alti e bassi: in certi giorni siamo all’apice della fede, crediamo in maniera forte e convinta, in certi altri l'esperienza di Dio si affievolisce, diventa tiepida e vacillante. In certi giorni diciamo: “Dio c'è, lo sento, lo vedo, è vero!” E in altri dubitiamo: “Ma, dove sei? Perché mi fai questo? Che ti ho fatto di male? Perché non rispondi? Perché mi abbandoni?”. La chiesa non sarà mai pertanto una organizzazione perfetta: è un gruppo in cammino, composto da persone deboli, instabili, che provano seriamente, anche se con risultati alterni, di vivere già in questa vita il regno di Dio.
«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra». Gesù mette poi in chiaro le sue credenziali: chi è e che poteri ha. Egli è il Signore della storia, ed ha un potere assoluto su ogni cosa, su tutti gli eventi e su ogni uomo. Egli è la salvezza per tutti gli uomini, nessuno escluso. Dio è di tutti, Dio è per tutti. Nessun movimento, nessuna chiesa, nessun gruppo può avere in esclusiva la salvezza di Dio. Gli Ebrei stessi ne erano convinti; come pure i farisei che riconoscevano apertamente “noi abbiamo Dio per padre”; salvo poi a macchiarsi di parricidio, di deicidio, uccidendo Dio senza troppi scrupoli.
Ma qui, secondo me, Gesù voleva dire anche un'altra cosa: nelle grandi absidi delle chiese bizantine c'è sempre una grande icona chiamata “Pantocrator”; è Gesù, il Signore di tutte le cose, che governa, che regge, che ordina, giudica, salva il mondo; Egli è seduto in trono, con la mano destra benedicente, e con la sinistra sorregge la Bibbia: il Libro della sua Parola che interroga il mondo e la storia; che interroga ciascuno di noi e che noi stessi possiamo interrogare a nostra volta, per esaminarci e vedere se siamo degni della misericordia divina. “Pantocrator”: un Dio misericordia, ma anche un Dio giusto giudice che castiga. Verrà un giorno in cui saremo messi di fronte a Lui, davanti al suo trono, e ogni cosa che ci riguarda, anche la più segreta e nascosta, verrà resa pubblica: in quel giorno il nostro animo, la nostra coscienza, il nostro cuore, la nostra vita, verranno completamente denudate, svelate, manifestate a tutti. Allora noi ci vedremo, e saremo visti da tutti, per quello che realmente siamo. Ogni nostro bluff miseramente cadrà. Ogni nostra ombra, ogni ingiustizia, ogni menzogna sarà svelata ai quattro venti, ogni bugia scoperta, ogni inganno rivelato, ogni buio sarà messo in luce. Non solo sarà evidente ciò che abbiamo fatto, ma saranno svelati anche i motivi  segreti per cui lo abbiamo fatto. Tutto avrà un nome, tutto una sua fisionomia. Scopriremo allora che dietro a molte “cose buone” c'era solo falsità, ottusità, malevolenza; viceversa, dietro a molte “cose cattive”, scopriremo invece che si celava bontà, altruismo, preghiera, l’ascolto della Parola di Dio. Avremo tante sorprese, fratelli, in quel giorno. Garantito! Ecco perché è tanto importante, già da subito servire Dio, come merita: irrobustendo la nostra fede, vivendo la carità,  ascoltando la voce dello Spirito, accogliendo la presenza di Gesù in noi; Egli c’è: l’ha detto ed è di parola; ci sta sempre accanto, sta sempre nel nostro cuore: dobbiamo semplicemente ascoltare la sua voce. Non illudiamoci, non perdiamo tempo, fratelli, perché di tanta Grazia un giorno dovremo rendergli conto.
Gesù dunque sale al cielo e lascia gli Apostoli sulla terra. Prima era Gesù il responsabile, l'incaricato dell’ annuncio; ora lui non c'è più; ma c'è la Chiesa, fratelli, ci siamo noi, ci sei tu, ci sono io. Siamo noi i nuovi responsabili. Per questo dobbiamo esserne sempre all’altezza, dobbiamo chiederci continuamente: “Ma io… faccio vedere il Cristo? Lo annuncio? I miei comportamenti, i miei gesti parlano di Lui?”.  Capite l’importanza di questo passaggio di ruoli?
Da questo momento in poi, nulla si puà più lasciare al caso; la nostra vita non può essere più la stessa di sempre: essere “spirituali” a tutto campo, infatti, vuol dire anche essere concretamente “materiali”: cioè non possiamo rifugiarci soltanto nello spirituale, nella meditazione, nel colloquio estatico con Dio, ma dobbiamo prenderci cura di questo mondo, calarci in questo mondo, percorrerlo in lungo e largo annunciando il suo messaggio. Lui ce l’ha ordinato!
Sicuramente il mondo sarebbe molto più contento se noi ce ne stessimo per conto nostro, rinchiusi nelle nostre Chiese, impegnati nelle nostre preghiere, nelle nostre liturgie. Per lui l’importante è che noi ce ne stiamo lì, buoni. L’importante è che non usciamo dalle chiese, che non pretendiamo di immischiarci nei “suoi” problemi, di avere voce sul suo squilibrio, vorrebbe che stessimo muti di fronte alle sue conquiste genetiche, che non ci impicciassimo di politiche sociali, di famiglia, di unioni omosessuali e quant’altro; che stessimo zitti di fronte a lavoro nero e sfruttamento minorile. Solo in questo modo potremo essere accettati dai potenti della terra e solo in questo modo, come contropartita, forse interverranno alle nostre feste e parteciperanno alle nostre liturgie.
Ma questo non è il comportamento di Gesù: noi infatti dobbiamo continuamente chiederci: “Cosa farebbe Gesù qui ed ora?” E questo, siamone certi, è l'unico criterio di guida valido in ogni nostra iniziativa, in ogni situazione, di fronte ad ogni persona. Perché noi, fratelli,  siamo il Gesù di questo tempo: non dobbiamo dimenticarlo mai! Lui non c'è più, è vero, ma ci siamo noi per Lui, in Lui e con Lui. E se questa realtà non ci sta bene, beh, allora smettiamola di definirci “discepoli del Maestro”: smettiamola di ingannare noi e gli altri, perché in tal caso non siamo proprio nessuno.
C'è poi il grande invito: “Andate”. “Apritevi”. Una fede chiusa, circoscritta, è una fede morta. La vera fede invece è aperta, dinamica, va sempre avanti. La fede non può sopravvivere guardando solo al passato, fagocitata dalla storia, dal vissuto: il vangelo, la tradizione e il magistero ne costituiscono la base, i presupposti, è vero; ma devono essere anche la molla che la spinge in avanti, verso il domani, verso il futuro, per aprirsi verso il prossimo, espandersi verso gli altri. Solo così la fede produce i suoi frutti.
Pensate ad un padre o ad una madre. Un buon padre, una buona madre, amano sempre il proprio figlio ma in maniera diversa, a seconda dell'età e delle esigenze dei suoi anni. Ad un anno lo coccolano, lo baciano, sono tutti lì per lui. Ma a quindici anni lo devono amare in maniera diversa: concedendogli un po' di libertà, discutendo con lui, entrando magari in conflitto con lui, ma passandogli gradualmente libertà e autonomia. Guai se il padre e la madre amassero sempre nello stesso modo i loro figli, a quindici anni come a cinque. Padre e madre sono sempre padre e madre, ma non possono rimanere nei confronti dei figli sempre gli stessi, con la stessa mentalità, con gli stessi metodi. Sarebbe assurdo, antieducativo, non vi pare? Così marito e moglie sono sempre gli stessi, ma guai se si amassero sempre alla stessa maniera. Quando sono fidanzati si amano in un modo; quando sono sposati in un altro. L'amore è sempre lo stesso amore, ma sono le sue dimostrazioni che cambiano. Anche noi siamo sempre gli stessi, eppure cambiamo con gli anni. Hai voglia!
Tutto ciò che vive cambia, si evolve, va, diviene. Nulla resta immobile nella vita. Meglio: tutto può sembrare sempre uguale, ma nulla mai resta uguale. Anche nei nostri rapporti con Dio avviene così: Dio, è sempre Dio: ma la nostra risposta alla sua chiamata d’amore cambia in funzione dell’età, della sensibilità, della disponibilità. La nostra risposta è proporzionale alla nostra fede: per questo dobbiamo accrescerla, espanderla, approfondirla. Se la nostra fede non cresce, non si matura, non trova nuovi impulsi vitali, muore. Se la chiesa non si evolve, non cresce, non cambia rispetto ai tempi che mutano, muore. Ogni tempo ha le sue sfide. La chiesa statica, che non cambia, che non si accorge dei cambiamenti, delle pressanti necessità dei fedeli di ogni epoca, diventa insensibile, insignificante.
Guardate per esempio l'Europa: la nostra è una fede invecchiata, una fede che si è lasciata accantonare senza reagire, una fede che si trascina stancamente, sulle grucce: ha perso il suo smalto di entusiasmo che la rendeva raggiante, entusiasmante, non ha saputo rinnovarsi nei giovani, ha perso la grande occasione. Qui da noi, inutile ignorarlo, il cristianesimo sta passando, sta morendo, si sta annacquando, perché la fede non si è rinnovata, non è andata, non ha camminato. Per colpa di chi? Anche nostra, fratelli, anche nostra: perché anche noi non abbiamo saputo trasmetterla a sufficienza.
Ma torniamo al testo del vangelo. Cerchiamo di rivedere la scena: Gesù ha davanti i suoi: sono dodici, anzi undici perché uno lo ha tradito; uomini semplici, impreparati, timidi, gente che dubitava. Eppure Egli si è fidato pienamente di questo gruppo di poveri uomini. Un fatto peraltro che ha già avuto diversi precedenti nella storia del popolo di Dio. Un fatto che ci deve far sussultare di gioia, fratelli: sì, perché Dio oggi si fida anche di noi, si fida di discepoli poveracci come noi, si fida di me, di te. Forse prima non ci avevamo mai pensato bene: noi forse non ci conosciamo completamente, ma Lui che ci conosce a fondo, si fida di noi, così come siamo. Del resto è Lui che ci ha creati, e Lui sa perfettamente cosa ha creato. Per questo ci invita a non farci da parte, a non tirarci indietro, vuole che, fidandoci di ciò che Lui ha creato, riconosciamo la nostra dignità di cristiani battezzati. Se noi dicessimo: “Non valgo niente... che vuole da me questo Dio?... non ce la farò mai...”, noi nel nostro cuore bestemmieremmo. È come se dicessimo: “Se sono fatto così, è stato per errore. Dio quella volta era distratto, ha creato una nullità, un incapace”. Non vi sembra che manchiamo di rispetto a Dio? Possiamo noi dare a Dio dell’ingenuo? Se Egli ci ha creati così come siamo, come possiamo pensare che si sia sbagliato? Fratelli, c’è un termine di paragone che è sempre valido: “se crediamo di più in noi stessi, crediamo di più in Dio”. Se ci fidiamo di noi, ci fidiamo di Dio. I discepoli si sono fidati di Dio quando Lui li ha mandati: hanno fatto il salto nella fede, e sono diventati grandi.
«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». È l’assicurazione sulla vita. È la promessa che conclude il vangelo di Matteo. In altre parole Gesù ci dice: “Nutritevi di me!” Pensiamo per un attimo al creato: tutti i giorni per crescere ha bisogno di alimentarsi, ha bisogno di aria, di sole, di cibo, di acqua. Anche l'amore ha bisogno tutti i giorni di cibarsi, di nutrirsi. L'amore di ieri, oggi non serve più. Oggi è un altro giorno. Il cibo di ieri è servito per ieri. Oggi serve quello per oggi. La fede vive in noi e si rigenera se tutti i giorni noi alimentiamo e nutriamo questo rapporto. Quante volte sentiamo la gente fare domande del tipo: “Ma perché andare in chiesa tutte le domeniche? Perché trovare tempo e spazio per pregare? Perché fare silenzio?”. È come chiedersi: “Perché parlarsi tra marito e moglie, tra genitori e i figli? Perché intrattenere rapporti di carità fraterna e di educazione con il prossimo, con i propri confratelli o consorelle, con chi incontriamo? Perché mangiare ogni giorno?” Ma perché questa è la quotidianità, fratelli miei! Quotidianità significa alimentarsi ogni giorno. Se non ci nutriamo, moriamo. Se non parliamo con chi ci sta vicino, diventiamo degli estranei. Se non ci rapportiamo con i nostri figli, cresceranno senza il nostro amore. Se non concediamo al nostro cuore tempi, spazi e incontri, muore; è inutile lamentarsi, poi. Se non lo nutriamo, il nostro cuore muore. Così, non è Dio che si arrabbia se noi non lo preghiamo, se non ci cibiamo spesso del suo corpo; è il nostro cuore, la nostra anima, la nostra fede che, facendo così, pian piano deperisce e dopo un po' muore. Tutto qui.  
Se noi guardiamo la Bibbia Abramo, Mosè, Giacobbe, Geremia, Isaia, erano uomini che avevano fatto una profonda esperienza di Dio. Avevano un rapporto con Lui profondo, quotidiano, un filo diretto. Gli antichi asceti, amavano ripetere ai loro discepoli che il peccato più grosso dell'uomo è quello di dimenticarsi di Dio: è la superficialità.
La gente fa un sacco di sacrifici per vestirsi, per le vacanze, per l'auto, la casa, il giardino; ma troppo spesso non fa niente per il cuore e l'anima. È come costruire una casa sulla sabbia: non serve a nulla, ricordate? Prima o poi cade. Prima o poi tutti nodi arrivano al pettine. A che serve allora essersi dimenticati di Dio?
Cerchiamo, fratelli miei, di avere ogni giorno un rapporto vitale, forte, con il Signore e vedrete che anche tutto il resto arriverà. Preoccupiamoci del nostro cuore, del nostro amore per gli altri, e il resto verrà da sé.
Dio è con noi ogni giorno, fratelli: nutriamoci. Lui è alla nostra porta, accogliamolo; Lui è nella nostra casa, stiamogli vicino; Lui è nel nostro cammino, incontriamolo; Lui è la nostra guida, il nostro riferimento, seguiamolo; Lui è fuori di noi, perché lo possiamo vedere, è dentro di noi perché lo possiamo sentire; Lui è con noi nel buio, per essere la nostra Luce; è con noi quando siamo soli nel dolore, per essere la nostra Consolazione; Lui è con noi nella gioia, per essere nostro compagno e amico; Lui è con noi negli entusiasmi, nelle passioni e nelle avventure, per essere nostro complice, nostro eroe. Lui era con noi ieri, lo è oggi, lo sarà domani.
Amiamo dunque Gesù: amiamo il nostro Tutto: amiamolo quando lo sentiamo presente, e anche quando non lo sentiamo, perché Lui è sempre vicino, presente dentro di noi; anche quando ci sembra lontano migliaia di chilometri, anche quando lui non si fa vedere né sentire! Amiamolo, preghiamolo, interpelliamolo sempre: perché ─ come ci ha assicurato ─ Lui è sempre con noi, “tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Amen.

  

giovedì 26 maggio 2011

29 Maggio 2011 – VI Domenica di Pasqua

«Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore».
Il messaggio che possiamo ricavare immediatamente, leggendo il Vangelo di oggi, è che dobbiamo “entrare nello Spirito”: dobbiamo cioè incontrare Gesù, entrare in Lui, vivere di Lui. Parole semplici, facili da capire, ma non altrettanto semplici e facili da mettere in pratica; anche se le occasioni per poter incontrare Gesù in qualsiasi momento della nostra vita, delle nostre giornate, sono numerosissime: basta aprire bene gli occhi. E indossare gli occhiali. Cioè? Dobbiamo indossare gli occhiali della nostra fede, della nostra interiorità, dobbiamo calarci in quella dimensione del nostro io che è lo Spirito: una dimensione che corriamo il rischio di mortificare in continuazione, riducendo il vissuto del nostro cristianesimo a una delirante religione di facciata. Dobbiamo ritrovarlo, lo Spirito, e tenercelo stretto: è infatti troppo facile perdere per strada il suo linguaggio e la sua immagine. Bene: è per questo che Gesù ci promette oggi “un altro protettore”, un altro avvocato, un altro “chiarificatore”. Uno con cui potremo fare fino in fondo la nostra esperienza di discepoli, quella cioè di fare “esperienza di Dio”. Ma andiamo con ordine.
Siamo ancora nel cenacolo. Gesù continua il discorso di addio iniziato domenica scorsa. I punti da precisare sono ancora molti e importanti e devono essere capiti bene dai discepoli.
Domenica scorsa, Gesù annunciava la sua partenza per un'altra vita, per un altro luogo, dove non c'è più da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, che è suo, unico e insostituibile. Oggi Gesù ci conferma che Lui se ne va e che qui non vedremo mai più il suo volto: Egli però rimane con noi sotto un'altra forma, in un altro modo, in maniera diversa: mediante lo Spirito, lo Spirito Santo. È sempre il tema del distacco che caratterizza nel Vangelo di oggi, come già in quello di domenica scorsa, il senso di tristezza dei discepoli, del loro sentirsi soli, orfani, pieni di paura (“Non sia turbato il vostro cuore”, Gv 14,1): si sentono improvvisamente smarriti, senza guida e senza riferimento. Il leader, il capofamiglia, il carismatico, se ne va e loro si chiedono se da soli ce la faranno.
Come non capirli? Tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di leggi, di regole chiare e precise. Ma ─ e Gesù lo sa bene ─ lo scopo di un buon maestro è quello di fare dei suoi discepoli altrettanti maestri. Li vuole crescere, vuol farli adulti, indipendenti, maturi, anche se questo potrebbe comportare il rischio di perderli. Il desiderio di un padre è vedere che i propri figli diventano adulti; è questo che lui vuole ardentemente: perché se li mantenesse sempre bambini, se li costringesse ad avere sempre bisogno di lui, a dover pendere sempre dalle sue labbra, dimostrerebbe di non amare i propri figli, sarebbe come se li usasse, li manipolasse.
Non è possibile rimanere sempre studenti; ciascuno ad un certo punto deve diventare maestro della propria vita. Nessuno può continuare a dire: “Mi hanno insegnato così! Ho fatto quello che mi hanno detto, ho eseguito gli ordini!”. Ma se Dio avesse voluto che non ragionassimo, che non fossimo responsabili, non ci avrebbe dotati di cervello. Gesù anzi ci dice: hai le gambe: cammina; hai gli occhi: osserva; hai le orecchie: ascolta; hai il cervello: usalo.
Di fronte a Lui dobbiamo essere completi e autonomi, non mezze calzette, dei piagnucoloni. La Chiesa deve formare uomini liberi, veri, dalla grande personalità, uomini forti, integerrimi (non come quegli esseri spregevoli, anche tra i preti, di questi ultimi tempi); uomini che sappiano vedere, interpretare la storia, prevederla; uomini alternativi, come lo è stato Cristo Gesù; devono volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in aria autonomamente, senza alcun sostegno. Dobbiamo guardare la luna, fratelli, non il dito che la indica. Siamo noi gli “illuminati”; non abbiamo bisogno di seguire acriticamente quelli che si autodefiniscono tali! Siamo noi che dobbiamo diventare i veri maestri, i veri pastori: Gesù diceva sempre: “Non guardate me, guardate chi sta dietro a me”. E noi, che lo seguiamo, dobbiamo guardare avanti. E vedrete che se non chiudiamo gli occhi, ci vedremo, eccome; se non ci tureremo le orecchie, ci sentiremo molto bene, ascolteremo attenti; se non sclerotizzeremo la nostra mente, capiremo sicuramente la Verità. E se non isoleremo il nostro cuore, vivremo entusiasti l'Amore.
Molti pensano che essere guidati dallo Spirito sia come avere una stazione radio in testa. Basta accenderla e immediatamente ci fa sentire quello che ci serve. Basta premere un pulsante e sapremo subito cosa fare; tutto viene di conseguenza: siccome nel matrimonio c’è la presenza dello Spirito, allora automaticamente tutti gli sposati sanno cos'è l'Amore; siccome nell’ordinazione di un prete c’è lo Spirito, allora tutti i preti conoscono perfettamente Dio; siccome quando preghiamo, lo Spirito è al nostro fianco, allora tutti sappiamo sempre cosa fare. No fratelli, non funziona così!
La stessa Chiesa sbaglia se pensa di dare ai fedeli un Dio già pronto, un Dio già bello e confezionato, un Dio soltanto da credere, pregare, temere, amare; non è così, la Chiesa deve solo insegnarci a scoprirlo Dio, a cercarlo, a trovarlo, ad amarlo; perché solo chi cerca Dio, il vero Dio, quando lo trova non lo lascia più.
Il Cristianesimo infatti non ci offre un Dio in confezione regalo, ma ci insegna a cercarlo tra mille difficoltà: per questo delude molti. Il Cristianesimo non ci dà regole di vita, da tenere incorniciate sotto vetro, ma ci invita a viverle! Non ci dà la vita tout court, ma ci dice di vivere la Vita, scoprendo noi stessi, scoprendo la realtà che ci circonda, e ad incontrare Dio.
Oggi la gente è innamorata delle “guide”: maghi, indovini, santoni, guru; è innamorata di chi ci dice sempre in anticipo cosa fare, come comportarci, quello che è giusto o non è giusto per noi. La gente ha rinunciato all’autonomia intellettuale: preferisce essere condotta per mano come un bimbo, avere degli idoli già pronti, dei miti da seguire, da imitare, da copiare (basti pensare a quei poveri cretini che si esibiscono quotidianamente sui media con desolanti parodie del sacro!); ha bisogno di qualcuno cui affittare il proprio cervello e la propria vita. È così che prolificano i falsi profeti, i buffoni e i clown che pretendono di essere altrettanti Dio, di essere dei santi carismatici, con poteri soprannaturali di decisione sulla fede, sulla testa e sulla vita degli altri; controfigure che dicono con voce suadente: “Fai così. Fai come ti dico io, perché io so”.
Ecco dunque perché Gesù ci ha assicurato lo Spirito Santo: proprio perché diventassimo noi dei maestri, noi i responsabili della nostra vita. Dio è già dentro di noi con lo Spirito, Egli è il nostro Maestro; è Lui la nostra guida. Nessun altro! Che dobbiamo fare allora? Impariamo, ascoltiamo, assimiliamo, stimiamo e apprezziamo le persone, curiamo la nostra formazione; ma poi cresciamo, diventiamo responsabili della nostra vita. Dobbiamo saper rispondere e “dare ragione” a tutti, di ciò che diciamo, di ciò che facciamo, di ciò che crediamo: come ci raccomanda Pietro nella seconda lettura. Non basta infatti vivere la propria fede e chiarirla a noi stessi; occorre essere in grado di chiarirla anche agli altri, agli increduli, ai diversi, a chiunque ce ne chiede ragione. Perché chiunque ha il diritto di chiederci in chi crediamo, il motivo del nostro credere; a tutti dobbiamo dimostrare che il nostro messaggio è valido, possibile da realizzare, e che offre una risposta esauriente agli interrogativi della vita; dobbiamo testimoniare con i fatti le parole della nostra fede e della nostra speranza. Quindi non basta vivere, ma bisogna saper vivere, saper dire, saper giustificare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che viviamo e a come lo viviamo. Questo è il motivo per cui il nostro comportamento, il nostro stile di vita, quando è radicalmente fedele allo Spirito, è un comportamento di rottura, un comportamento sempre contro corrente, in disaccordo con gli schemi del “mondo”: perché il “mondo”, come dice Gesù, non può relazionarsi con lo Spirito, in quanto «non lo vede e non lo conosce».  Ma cos’è questo “mondo”? Il “mondo” è per Giovanni, come la “carne” per Paolo, la vita vissuta dall’uomo-carne (in contrapposizione con l’uomo-spirito), che non sente in sé la presenza di Gesù; è la vita dell’uomo che pretende di vivere autonomamente illudendosi della e nella propria autosufficienza. È il vivere “senza Dio” come se Cristo non esistesse e non fosse mai esistito. Dio invece, anche se oggi non è più "visibile", vive e continua a vivere in noi, attraverso di noi, con il suo Spirito. Per questo una grande responsabilità ci attende, fratelli: perché noi, lo Spirito di Dio, possiamo rianimarlo o lasciarlo morire.
«Fra un poco non mi vedrete più». Cioè: “sto per morire, mi stanno venendo a prendere per uccidere”. E aggiunge: «Ma voi mi vedrete perché io vivo, vivo in voi e voi vivrete». Gesù, sentiva che gli apostoli gli volevano bene. Anche se erano uomini pieni di paura, gretti, a volte duri a capire; però gli volevano bene, e questo bastava. Gesù sentiva  che le sue parole facevano breccia nel loro cuore, che la sua vita li affascinava, che erano innamorati, anche se impauriti, del suo messaggio. Gesù sentiva che quello che i suoi dodici amici avevano visto, fatto, sentito, provato con lui, era entrato dentro al loro cuore, era parte di loro e non avrebbero potuto dimenticarlo mai. Non avrebbero potuto più perderlo.
La stessa cosa deve succedere anche a noi, fratelli: perché quel Gesù che ci ha amato per davvero, sarà sempre con noi, vivrà in noi; quel Gesù che ci ha guarito dalle nostre catene, rimarrà per sempre con noi; quel Gesù che ci ha aperto gli occhi, chi ci ha fatto vedere la verità, che ci ha appassionato il cuore, rimarrà perennemente con noi, in noi.
In che modo però possiamo dimostrare di tenere tanto a Lui? Osservando i suoi comandamenti: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama», dice Gesù.
Giovanni parla di comandamenti: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci comandamenti” del catechismo; ma a pensarci bene, Gesù ci ha lasciato un solo comandamento, ammesso che si possa chiamare così anche questo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Un “comandamento” improprio, infatti: perché in realtà l'amore non si può comandare, non si può ordinare a nessuno di amare: l'amore nasce spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: “Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo. L'amore vive solo là dove c'è libertà. Gesù quindi non ha “comandato” di amare, non l’ha mai “ordinato”; lo ha semmai consigliato. L’unico comandamento vincolante per chi vuole seguirlo è infatti quello di “vivere come Lui”, di “seguirlo”, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio. Essere in una parola “genuini”: perché ci possono comandare di essere onesti nella vita, nel lavoro, ma se non viviamo l'onestà per rispetto di noi stessi, non sarà una vera onestà; sarà magari frutto di paura (di essere scoperti!) ma non frutto di amore. Possono ordinarci di andare a Messa tutte le domeniche, ma se non sentiamo dentro di noi che questo ci fa bene, che nutre la nostra anima, che ci rende più cristiani e più maturi, noi continueremo si ad andare, ma per evitare le chiacchiere e le critiche degli altri, non per amore; andremo per obbedire ad un precetto, ma non per libera scelta; andremo per essere cristiani in regola, ma non discepoli di Gesù. Così pure possono comandarci di andare agli incontri sul Vangelo, alle Lectio divine, agli incontri di formazione e di carità, ma se non sentiamo dentro di noi la bellezza, la verità, la ricchezza di queste esperienze, se non le cerchiamo noi spontaneamente, ci andremo certamente, ma tutto ci scivolerà addosso, non ci passerà nulla, ci stancheremo subito e condiremo il tutto con ricchi sbadigli. Se lo facciamo su comando, lo facciamo per “paura”. Se lo facciamo per amore, vivremo di Amore. Del resto possono ben dirci di rischiare, di osare, di puntare più in alto nella nostra vita, di essere aquile, ma se abbiamo paura di volare, se non sentiamo alcun richiamo delle altezze, della bellezza del volo, ci sforzeremo anche, ma non arriveremo mai a niente. Perché non potremo mai fare di una gallina un'aquila.
Fare dunque le cose per forza, perché qualcuno ce l'ha ordinato, non ci fa crescere, anzi ci rende solo più impauriti, più legati e dipendenti. Noi possiamo crescere solo se facciamo le cose per amore: magari faticando, soffrendo e sudando; ma solo facendole per amore, sentiamo che ci fanno bene e ci riempiono il cuore. Se vogliamo fare di un uomo un buon suddito, diamogli delle regole e facciamo in modo che obbedisca. Ma se vogliamo farne un uomo libero, un uomo onesto, un cristiano, amiamolo!
Gesù ci ha promesso lo Spirito: «Il Padre vi darà un altro Paraclito». Ora, in greco “Paraclito” significa “Avvocato”, colui che è chiamato in causa per difenderci, che sta con noi quando siamo soli; ma vuol dire anche “Consolatore”, colui che ci aiuta, che ci protegge, che ci sta vicino, che non ci lascia soli. Quante volte, fratelli miei, siamo convinti di essere completamente soli, persi, in balia di un “mondo” che vive cose totalmente diverse dalle nostre, in balia dei nostri dubbi, oppressi dalle nostre insicurezze! È proprio allora che il Consolatore ci dice di aver fiducia, di non disperare, ci assicura che metterà sulla nostra strada un qualcuno che ci capirà, che ha la nostra stessa sensibilità; qualcuno che ci aiuterà, ci difenderà, ci proteggerà; qualcuno che entrerà nel nostro mondo, lo comprenderà, e consolerà il nostro cuore. È sempre stato così, fratelli: i Santi ce lo insegnano. Dio non ci ha abbandonati, ci ha lasciato il suo Spirito. Se noi ci fidiamo di Lui, sarà impossibile sentirci soli.
Concludo sottolineando ancora la forza e la gioia del messaggio di oggi: essere certi che al nostro fianco abbiamo un “altro Paraclito”, un Consigliere che coinvolge Gesù nella nostra vita, un Consolatore che lo fa entrare dentro di noi e che ci fa vedere la nostra vita e il prossimo che ci circonda con i suoi occhi; un Avvocato che fa di Cristo lo scopo, il progetto e il criterio della nostra esistenza. Bene. Consapevoli di ciò, accogliamolo allora, fratelli, questo Paraclito; accogliamolo dentro di noi, apriamogli le braccia e il cuore, accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando, fratelli miei. Semplicemete amando. Perché lo Spirito è Amore. La nostra fede è protesta all'Amore: lo suscita, lo presuppone, lo incarna in noi. È lo Spirito Amore che tiene unita la nostra vita, con le sue contraddizioni, con i suoi fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva e la indirizza. È lo Spirito Amore che si realizza in noi quando amiamo i nostri fratelli. Tutto questo è lo Spirito Amore. E questa, fratelli, è la buona notizia di oggi. Amen.


giovedì 19 maggio 2011

22 Maggio 2011 – V Domenica di Pasqua

«Io sono la via, la verità e la vita».
Il vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: egli sta per andarsene, e lascia ai suoi il suo testamento spirituale, dice le cose più intime, le cose più profonde e care. Giuda è già uscito per tradirlo, e quindi tra non molto le guardie verranno ad arrestarlo; il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale. Il fantasma della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del Golgota. Gesù dunque ha ancora molte cose da dire ai suoi: soprattutto vuol far capire bene la portata della sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e indissolubile che esiste tra lui e il Padre. I concetti sono piuttosto difficili; i discepoli annaspano, non capiscono, come appare evidente dai loro interventi: Pietro ha appena finito di dire “Darò la mia vita per te” che Gesù lo raggela predicendogli il suo ripetuto tradimento. Tommaso vorrebbe maggiore chiarezza: “Ma Signore se non sappiamo dove vai, come facciamo a conoscere la strada per raggiungerti?”. Filippo, dal canto suo gli dice: “Signore mostraci il Padre e questo ci basta”. Poveri discepoli! Sono pieni di confusione, di paura. Hanno capito che qualcosa di molto grave sta per accadere, sentono il pericolo; la paura per la vita di Gesù, e per la loro, è ormai palpabile. Un tumulto di domande assilla il loro cuore: “Che ne sarà di noi? Cosa ci accadrà? Dove andremo a finire? Finirà tutto? Ci siamo sbagliati a credere in Gesù?”. Domande più che giustificabili, per le quali si aspettano risposte chiare, rassicuranti: vogliono certezze: “Indicaci la strada; dicci come fare; dacci regole chiare su dove andare, come fare, cosa essere, e noi lo faremo”. Sono proprio spaventati. Il verbo greco tarassw (turbare), indica una profonda agitazione, sono sconvolti: “Gesù tu eri tutto, avevamo messo tutto in te, ci avevi appassionato il cuore... e adesso?”
Dobbiamo capire questi poveri uomini. Non è giusto infierire su di essi, come fa qualcuno, interpretando le loro parole come mancanza di fede, come volontà di prendere le distanze da Gesù, di disconoscerlo, di mettere in discussione gli anni passati insieme con lui. Lo Spirito che illuminerà le loro menti è ancora lontano, e quindi si comportano come possono. Gesù li tranquillizza: “Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma tranquilli: vado a prepararvi un posto. Non scappo. Ci rivedremo. Vado e poi torno a prendervi”. In altre parole: “Avete paura perché tutto sembra finire. Sembra: ma non è così. Dietro al buio si nasconde una luce più grande”.
Ecco fratelli miei: questo in sostanza dice Gesù ai suoi, e questo continua a dire a noi ogni giorno. Capite quanto sono importanti per noi queste parole? I pericoli sono tanti, le contrarietà, le sconfitte, il dolore, la paura, sono le nostre compagne di viaggio. Purtroppo non possiamo sottrarci alla paura; non possiamo evitare il dolore. Possiamo però affrontarlo confidando nelle parole di Gesù, perché ogni paura nasconde nel suo profondo una certezza più grande e ogni dolore una gioia più abbondante.
Le parole di Gesù devono rappresentare per noi la nostra ancora di salvezza: in ogni momento difficile della nostra vita, dobbiamo ricordarci chi siamo e chi è nostro Padre. Così, quando non siamo capiti e ci sentiamo attaccati da tutte le parti, facciamoci coraggio e diciamoci: “Niente paura, Lui sa”. Anche se gli altri non ci comprendono, Lui ci comprende, sempre: e questa è una certezza. Quando ci guardiamo allo specchio della nostra anima, e ci succede di vergognarci per quello che siamo o per quello che abbiamo fatto, diciamoci: “Non temere, sei figlio di Dio”. E capiremo che, per quanto in basso siamo caduti, non dobbiamo perdere la speranza del riscatto: possiamo e dobbiamo ripartire, dobbiamo ricominciare, nella certezza del suo amore paterno e materno.
Quando c'è tempesta nel nostro cuore e non sappiamo dove andare o cosa fare, rassicuriamoci: “Non aver paura, c'è Lui”. E con Lui raggiungeremo il porto sicuro. Quando dobbiamo affrontare il giudizio di un superiore, di un capo, di una autorità, che può modificare in parte o anche completamente la nostra vita, dobbiamo ripeterci: “Sei figlio di Dio: egli ti ama, nessuno può farti del male, abbi fiducia in Lui, egli è tuo Padre, ti aiuterà comunque”. E avremo nel cuore una grande pace.
Tutto questo, credetemi, funzionerà! Perché in certi momenti particolarmente forti e difficili abbiamo bisogno anche noi di certezze: dobbiamo allora gridare non una, ma due, dieci, cento volte la nostra fiducia in Dio, di metterci nelle sue mani: a volte lo faremo piangendo, a volte cantando o al ritmo del respiro. E questo, fratelli, è preghiera, questo significa pregare.
Certo la preghiera non è una “bacchetta magica” che ci risolve tutti i problemi: i problemi, sicuramente rimangono, ma in compenso ci dà la certezza che se anche tutto dovesse crollare, anche se dovessimo sbagliare tutto, Lui c'è sempre; e di Lui, di Dio, noi ci fidiamo.
“Nella casa del Padre ci sono molte dimore” dice Gesù; c’è posto per tutti. Ognuno ha il suo posto: un posto personalissimo che non è uguale a quello di nessun altro. Spesso molti si sentono soddisfatti, si sentono nel giusto, in perfetta regola, solo perché fanno quello che fanno gli altri. Dovrebbero invece sentirsi male: perché Dio non crea nessun doppione, nessun duplicato; non esiste un comportamento standard, uguale per tutti. Ogni fotocopia di vita è una vita sbagliata, non realizzata in proprio, non osata. Dio, in ciascuno di noi, è diverso da chiunque altro. Certo dare il buon esempio è importante: abbiamo sicuramente bisogno di vedere e di guardare gli altri per imparare, per capire; ma il Dio che si fa vedere da noi, che si manifesta in noi, che nasce in noi, è altro. Sì, è vero: Egli ci ha creati tutti a sua immagine e somiglianza; l'immagine, un marchio di fabbrica identico per tutti; ma è la “somiglianza a lui”, quella che ciascuno deve costruire in sé, che è per tutti diversa da chiunque altro. È qualcosa di unico, di originale, di personalissimo, un qualcosa mai scoperto prima. Sbagliano quindi quelli che ritengono una “divisione” una “separazione”, il cammino alternativo, diverso dal proprio, per raggiungere la stessa meta; sono cammini che rispondono a chiamate diverse. Come pure sbagliano quelle persone che per “comunione” intendono una assoluta uniformità, un totale appiattimento gli uni gli altri; questa è solo omologazione.
Lo slogan di Dio è: “Ognuno al suo posto perché ognuno ha il suo posto”. Ciascuno ha il suo compito. Ciascuno ha la sua strada: ogni cammino, ogni esperienza, ogni vita, sono unici, è l'originale: non possiamo confrontarli. Viviamo ciò che siamo e troviamo il nostro posto, unico, in questo mondo, perché ognuno è “unico” agli occhi di Dio.
Le vie dunque per arrivare a Dio sono molteplici: c'è chi arriva a Dio attraverso una vita consacrata, monastica e religiosa, e chi arriva attraverso la vita laicale; chi arriva attraverso il lavoro di una diocesi, di una parrocchia, di un monastero, di un istituto e chi arriva attraverso il lavoro di una famiglia; c'è chi arriva attraverso la conoscenza di sé in una vita contemplativa spesa a servizio di Dio, e c'è chi arriva attraverso la dedizione di sé in una vita attiva spesa a servizio degli uomini. C'è chi arriva rinunciando all’amore terreno, amando e unendosi unicamente Dio, e c'è chi arriva amando e unendosi a un altro essere umano, con la benedizione di Dio. E infine c'è anche chi non sceglie nessuna strada, perché non gli interessa arrivare a Dio, non ne ha voglia, pensa di farne a meno: beh, tranquilli: perché in questo caso è Dio che arriva a lui! È lui, il Pastore, che va a riprendersi la sua pecora smarrita.
Evitiamo, fratelli miei, di fare confronti antipatici, quando si tratta di vita di preghiera e di esperienze di fede. Dio non guarda mai la forma, ma il contenuto del cuore.
Se giudichiamo e disprezziamo gli altri per la strada che percorrono, convinti che è la nostra quella giusta, già siamo sulla strada sbagliata, ci siamo messi su una strada che non porta sicuramente a Dio.
Gesù dice: “Io sono la via... la verità... la vita!”; osserviamo l’ordine con cui le nomina, perché non è casuale: Gesù è la via che conduce alla verità, perché solo nella verità una vita è piena, sensata, realizzata, e merita di essere vissuta.
Gesù non dice: “Io ho la strada buona”; dice solo: “Io sono la strada”. Gesù non ha bisogno di darci altre regole, codici, indicazioni stradali da seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui. Gesù è tutto, è il cammino, l'unico, che ciascuno deve percorrere.
A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, cosa fare per essere felici, cosa fare per andare al Padre, Gesù a tutti ha sempre detto: “Seguimi”. E questo compendia tutto.
Gesù non dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la verità”. “Io”, soltanto Io.
Ci sono invece molte chiese, molte religioni (o pseudo tali), molti santoni o guru (sul tipo del recentemente scomparso Sai Baba) che si arrogano il diritto di dire: “Io ho la verità, io sono Dio, seguimi e ti farò “avatar” (incarnazione) di Dio”. Siamo seri, non indulgiamo alle stupidaggini! La verità non la si può possedere: la si può soltanto vivere. Non si può mai “avere” la verità; si può al massimo essere veri. La verità per queste persone equivale ad un pacco di conoscenze da applicare a proposito e a sproposito. Per Gesù invece, Verità (lÐqeia, togliere il velo) è scoprire quello che si è, è scoprire la propria realtà intima così com'è.
Gesù non dice: “Io ho la vita”, dice: “Io sono la vita”. Gesù non è una assicurazione stipulata per campare tranquillamente, senza sbalzi o problemi. Gesù è la Vita che dobbiamo vivere, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere? Vivi!”. Ma non c'è altra possibilità per godere una vita piena, che buttarsi dentro Dio e viverla in Lui.
Sbaglia chi confonde la “vita” con il fare molte cose, con l'avere un sacco di esperienze, con il viaggiare molto: “vivere”, per il Vangelo, non è buttarsi allo sbaraglio, dove capita: ma è sentire, percepire, sperimentare la “Vita” che vive in noi.
E concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”. Facciamo nostra questa preghiera, fratelli. Facciamo nostro questo accorato invito perché Gesù ci renda partecipi della abbondanza di bene e di amore che il Padre rappresenta. Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per soddisfare il nostro egoismo. Smettiamola, fratelli, di credere in un Dio qualunque, in un Dio imprecisato e vago, in quel Dio addomesticato, di cui tutti più o meno ci siamo fatti un'idea: dobbiamo credere unicamente nel Dio di Gesù. Non facciamo come quelli che sono convinti di credere nel Dio di Gesù, e invece continuano a credere in divinità misteriose e inquietanti, costruite su misura. Il Dio di Gesù è un Dio adulto che ci tratta da adulti; un Dio che non ci allaccia le scarpe, né ci risolve i problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: ci spiega anche che molti dei nostri problemi non sono poi così fondamentali da doverli superare ad ogni costo, che la vita ha comunque dei tesori nascosti che siamo chiamati a scoprire. Il Dio di Gesù è un Dio vittorioso nella risurrezione, che ha un piano per la salvezza dell'umanità; che ha un sogno, la Chiesa, i suoi discepoli, che sono chiamati non a salvare il mondo, ma a vivere da salvati, costruendo quel Regno che lui è venuto ad inaugurare; un Regno di giustizia e di pace, di amore e di luce, di sguardo verso l'altrove e verso l’altro che ci vive accanto. Un Dio che continua a venire là dove la sua Chiesa si raduna, un Dio che si rende presente nei Sacramenti e nell'amore che i discepoli si scambiano. Un Dio adulto, dunque, splendido, affascinante, lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero, che svela a ciascuno in particolare, nel profondo, chi siamo e qual è la nostra Via, cos'è la Verità, cos'è la Vita. Ecco, fratelli: cerchiamo di conoscere il Dio che ci ha conosciuti, che ci ha amati da sempre, singolarmente; cerchiamo di non sfuggirgli, di essere attenti quanto più possibile, alle sottili sfumature del suo Spirito, ai sussulti che ci trasmette nell'anima, all'essenziale della nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola del Maestro Gesù, chiediamogli se il Dio in cui crediamo, il Dio che professiamo, che celebriamo,  è veramente il Dio vivificante che Egli ci ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, fratelli: misuriamoci con essa; e che essa ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.


venerdì 13 maggio 2011

15 Maggio 2011 – IV Domenica di Pasqua

«Io sono la porta delle pecore».
Gesù, per spiegare le grandi verità di Dio, usa le semplici immagini del suo tempo. Il recinto era una specie di muretto che circondava uno spazio utilizzato da più pastori. Alla sera ognuno vi conduceva le pecore, che di notte erano guardate da un unico custode. Al mattino il pastore tornava, chiamava le proprie pecore per nome e queste, riconoscendone la voce, lo seguivano fuori dal recinto. Ecco il perché del buon pastore e delle pecore: era quello che succedeva ogni giorno e che tutti conoscevano. Le pecore conoscevano la voce del loro pastore perché tutto il giorno stavano con lui: lui le proteggeva, lui le difendeva, lui le portava al pascolo. Si creava tra di loro un rapporto di conoscenza e di relazione. Oggi a noi, figli della civiltà industrializzata, questa immagine del pastore dice poco: ma a quel tempo riproponeva una situazione molto comune, chiara e comprensibile.
Le parole di Gesù del vangelo di oggi, inoltre, a noi sembrano dolci, tranquille, rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un buon pastore molto patinato, con barba curatissima e capelli fluenti, un grazioso agnellino sulle spalle, il bastone in mano, che precede, con sguardo sognante, un numero sparuto di pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue sono parole dure, critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di particolare tensione, in un clima di feroce avversione nei suoi confronti: una situazione molto difficile che, tuttavia, non riesce a condizionarlo; Gesù non si lascia intimidire, non usa guanti di velluto, non parla per mezzi termini, non ha esitazioni, ma colpisce giù, dritto nel segno.
Siamo in prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle pecore”; un particolare che sicuramente ha offerto a Gesù lo spunto per parlare di greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, sentendosi nel proprio ambiente, in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, gli ultras della fede, i puri e duri.
E Gesù, con voce tonante, in sostanza dice loro: Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente, la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più, parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione.
Questo dice Gesù: consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, dette con passione, dette con la forza della verità. Le sue parole, appunto. La gente vuole ascoltare il suo messaggio, il suo “Vangelo”. E cosa dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le pecore dal recinto in cui sono rinchiuse e portarle al Padre. Perché egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è “
é poimÑn é kalçv
”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello”, quello integro, quello capace di amare da adulto, di servire l'umanità, di prendere sul serio il proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo. Gesù è il pastore che conduce verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è colui che difende, che protegge dagli attacchi esterni, che aiuta nei momenti di difficoltà; è il riferimento per sapere dove andare e quale strada percorrere.
Gesù è il pastore che chiama le pecore una ad una; immagine bellissima: il suo essere pastore passa attraverso l'intimità del nome di ciascuno di noi. Sembra quasi dirci che per Lui non contano i numeri, i grandi numeri; per Lui contano i nomi, i singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma significano anonimato, estraneità. Gesù conosce ognuno di noi per nome; ognuno viene chiamato individualmente, ognuno si sente conosciuto per nome, amato, convocato, curato, affidato. Ognuno di noi entra nella sua intimità e conosce la sua voce: una intimità così profonda da individuare la sua voce tra migliaia di altre voci.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la relazione con lui, conta il riconoscere la sua “voce”. Attenzione: per una volta l'evangelista Giovanni non dice qui “Verbo”, “Parola”, per indicare il Signore, ma semplicemente “Voce”; forse perché si è reso conto che una terminologia più impegnativa poteva confonderci; egli sa perfettamente ciò di cui abbiamo bisogno; l’uomo ha l’assoluto bisogno di sentire la vicinanza costante di Gesù, ha bisogno della sua presenza: e non c'è altro modo che testimoni di più questa presenza, che udirne la sua “voce”.
Per questo, fratelli miei, è così importante l'incontro personale, il conoscere la voce, il dare del “tu” al Signore: per questo dobbiamo recuperare l'importanza della nostra dimensione spirituale, la dimensione affettiva nel nostro cammino di fede: dobbiamo risentire il nostro cuore ardere d’amore, un cuore che, come abbiamo visto domenica scorsa per i due di Emmaus, può riscaldarsi e bruciare soltanto in un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia, di amore.
Gesù dunque è venuto a chiamarci per nome, per condurci al Padre. Egli è la porta: e noi dobbiamo passare attraverso di lui, dobbiamo attraversare Gesù per entrare e uscire. Notate bene: egli non dice di essere la “porta dell'ovile”, ma la “porta delle pecore”. Gesù si presenta come colui che noi pecore possiamo incontrare, attraversare, come colui che ci dona accesso ad un mondo “altro”, ad un modo di vedere noi stessi e gli altri completamente diverso. Gesù chiama le pecore per nome e le pecore riconoscono la sua voce, perché è una voce che parla direttamente al cuore, che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta, che porta a verità, alla Verità tutta intera.
“Attraversare” Gesù, significa passare per una porta stretta, lo sappiamo; per farlo, dobbiamo essere autentici, essere indifesi come agnelli, essere nudi ma fiduciosi in lui.
Gesù ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti, di fuggire la piccineria, fosse anche santa e devota; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello allora che questo Pastore ci conduca fuori. Gesù non è uno che chiude la porta, non è uno che rinchiude dentro, che imprigiona; è il Pastore che fa entrare ma anche uscire. Quante volte, fratelli miei, Gesù ci chiama per nome per farci uscire da quelle situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra “chiusura ermeticamente protettiva”, per aprirci agli altri, per guardare all'altro come a un fratello, a una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per gli altri e un po' meno per noi.
Ma dobbiamo stare in guardia; è Gesù che ci mette in guardia dai ladri e dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore. Molti dicono di venire per il tuo bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”.
È questo l’avvertimento del buon pastore, il principio che deve essere fondamentale per la nostra vita: “Chi tenta di rubarci l'anima è un ladro. Chi tenta di rubarci ciò che abbiamo dentro è un brigante. Chi ci imprigiona è un impostore. Non facciamolo entrare! Difendiamoci, se possiamo, oppure scappiamo”. Il vero pastore (genitore, coniuge, prete, confratello, consorella, o amico che sia) entra in noi solo per darci vita, entra perché possiamo crescere, fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo è un ladro: viene per prendere, per sottrarci, per legarci a sé. Il pastore ci invita, ma non ci impone mai nulla, non usa mai la forza; ed è sempre presente nel momento del bisogno; non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza, colpevolizza, ci lega a sé e ci ruba la vita che abbiamo dentro. Il pastore ci conduce alla nostra verità, alla Verità; il ladro ci porta alla sua verità, facendoci credere falso ciò che è vero e vero ciò è falso.
Chi non pratica la carità e la bontà, è un brigante; se qualcuno ci fa sentire cattivi, sporchi, sbagliati, è un brigante; se ci fa sentire idioti, cretini, stupidi, è un brigante; se ci usa per il suo piacere fisico o per i suoi interessi, è un brigante; se ci ruba la gioia di vivere, la nostra personalità e la nostra vitalità, è un ladro.
La vita deve vivere. La vita vuole espandersi. La vita vuole dilatarsi. Noi siamo fatti per crescere sempre più, per realizzarci sempre più, per divenire sempre più ciò che Lui ha pensato per noi. Il pastore è appunto colui che fa rifiorire questa nostra vita; vuole che la nostra vita si espanda, cresca, si realizzi, fiorisca: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, che non ci proteggiamo, che non lottiamo per noi stessi, che non combattiamo per la nostra vita, che permettiamo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore, come se fossimo una nullità, un oggetto che tutti possono manipolare a loro piacimento.
In certi momenti invece bisogna alzare la voce, farsi forza e lottare con tutte le nostre forze. Dobbiamo difenderci da ladri e briganti, soprattutto se camuffati da pastori.
È un classico: se non lo custodiamo per bene, il nostro tesoro ci verrà inevitabilmente rubato. Ladri e briganti entreranno dentro di noi e calpesteranno tutto ciò che di bello trovano. Guardiamoci intorno, fratelli miei: quanti derubati ci sono nella nostra società; persone che hanno permesso al proprio partner, all’amico, a colui che esse ritenevano un pastore, un fratello, di rubare la loro anima, la loro vita soprannaturale, la loro vitalità, il loro slancio, la gioia di amare Gesù e di essere da lui riamati, il dono preziosissimo della loro vocazione, a cui un tempo erano così tanto legati!
È quindi soltanto su Gesù che dobbiamo contare: è di Lui solo che dobbiamo fidarci, perché è lui l’unica porta del nostro cuore, la porta che dobbiamo oltrepassare per entrare dentro noi stessi e per uscire incontro ai fratelli: perché chi è in contatto con sé stesso è in contatto anche con i fratelli, e chi incontra Gesù, incontra se stesso e gli altri.
Gesù è la porta per entrare in lui, per incontrarlo; ma nel momento stesso in cui lo incontro, egli mi manda fuori, mi fa diverso, mi trasforma, mi cambia, mi manda là dove c’è bisogno della mia presenza; mi apre porte di me che non conoscevo; mi spalanca tutte le stanze della mia anima e del mio cuore, mi apre orizzonti e incontri che prima neppure sognavo.
C’è un metodo per vedere se uno ha incontrato veramente Cristo? Sicuro: se uno rimane sempre lo stesso, insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non ha incontrato Cristo. Se uno è di vedute ristrette, egoistiche, e non va mai oltre se stesso, non ha incontrato Cristo. Se uno va regolarmente a Messa, segue attentamente la liturgia, si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è capace di perdonare al coniuge, ai figli, al confratello, alla consorella, agli amici, non ha incontrato Cristo. Quelli che si comportano in questo modo sono persone che vogliono entrare nell'ovile da un'altra porta che non è quella di Gesù e di questi il Signore dice: “Sono ladri e briganti; anche se sono Pastori emeriti, Dottori della legge, Teologi, Preti, Frati, Suore, Laici impegnati, sono tutti ladri e briganti!”.
Gesù dunque è la porta: e allora approfittane, esci passando attraverso di Lui, vai, apriti, incontra, impara, non fermarti, non temere, grida, annuncia la sua Parola: Vangelo vuol dire “buona nuova”. È buona proprio perché è sempre “nuova”, non è mai la stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio buono, ma perché portò un messaggio nuovo. Il nuovo ci terrorizza, ci fa paura? Il nuovo ci toglie le sicurezze che avevamo prima? Vuol dire che non passiamo attraverso Cristo. Se uno non diventa nuovo, non si rinnova, è già vecchio in partenza, ha già smesso di vivere. Il Qohèlet dice: «Tutto invecchia». O ti rinnovi o muori. La gioventù non è un'età della vita, ma è una dimensione dell'animo. Ci sono giovani già vecchi e ci sono vecchi sempre giovani. Chi non si rinnova invecchia
[...impara, Mario!]
. Anche una Chiesa, anche una parrocchia, anche una comunità religiosa, possono diventare vecchie. Come? Se i loro componenti sono “vecchi”: se predicano cose che non interessano a nessuno, se non toccano l’anima delle persone, se non parlano al loro cuore, se danno soltanto risposte inutili a domande che nessuno pone, se non sanno rinnovarsi, se non sanno lasciarsi sollecitare dal presente; ecco, fratelli miei: allora abbiamo una chiesa, una parrocchia, una comunità religiosa vecchia, destinata ad estinguersi.
Bisogna lasciarsi interrogare dai tempi, dialogare, confrontarsi, saper cogliere i veri problemi, i veri bisogni del nostro tempo. Lo ha fatto Gesù, lo hanno fatto i Santi, dobbiamo farlo anche noi, con il loro stesso spirito, sempre e comunque passando per la famosa “porta”.
Dobbiamo metterci continuamente in gioco, fratelli miei, senza presunzione; dobbiamo avere il coraggio di far vivere in noi ciò che deve vivere, di far nascere ciò che deve nascere, ciò che è nuovo, con tutta la fatica e il travaglio che comporta. E dobbiamo avere il coraggio di far morire ciò che deve morire, di porre fine a ciò che è finito, di dichiarare concluso ciò che non ha più senso di esistere, ciò che rischia di frapporsi tra noi e il buon pastore, occludendo il passaggio attraverso la “Porta”. Ci vuole molto coraggio per entrare nella porta del tempo presente! Ma se entriamo attraverso di Lui, attraverso Cristo nostra Porta, allora tutto diventerà più semplice.
E saremo felici, fratelli: sì, perché allora ci sentiremo non pecoroni, non beoti, non rassegnati, non storditi dal delirio della contemporaneità, ma amati e chiamati per nome, portati a salvezza e libertà dall'Unico che ci conosce! Perché allora ci sentiremo veramente Chiesa di Dio, sogno del risorto, passione dell'incarnato, tormento dei discepoli! Ci sentiremo Chiesa, capace di Dio, chiamata a vegliare con sincero amore il gregge dell'umanità, guardiana non mercenaria, ansiosa di indicare il Cristo a chi cerca la vita in abbondanza!
In questa domenica siamo chiamati anche a pregare per i nostri pastori: il papa, i vescovi, i sacerdoti: perché possano essere sempre di più a servizio della Chiesa, avendo come modello Gesù che ha dato la sua vita per tutti. Stiamo loro vicini con il nostro affetto, con la nostra preghiera, sapendo che, come noi, anche loro sono persone in cammino. Preghiamo poi in particolare per le vocazioni di speciale consacrazione a Dio: il Signore tocchi i cuori dei giovani perché sappiano ascoltare e rispondere con generosità alla Sua chiamata. Amen.