venerdì 14 maggio 2010

16 Maggio 2010 - Ascensione del Signore

Celebriamo l'ascensione del Signore Gesù al cielo.
Riprendiamo le espressioni della Parola di Dio che descrive così: "Condusse i suoi verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Essi dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia, lodando sempre Dio". (vangelo) "Fu elevato in alto sotto i loro occhi mentre se ne andava e una nube lo sottrasse al loro sguardo... Questo Gesù che è stato assunto fino a cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo". (Atti)
Cristo è il Vivente nei cieli, Figlio di Dio, Dio Lui stesso, unito al Padre e allo Spirito Santo.
possiamo pensare e adorare Gesù il Signore nella gloria, nella gioia, nella pienezza di vita che è il Paradiso. "Sempre pronto ad intercedere per noi". "E' entrato in questo santuario, per presentarsi al cospetto di Dio in nostro favore... per annullare ogni peccato attraverso il sacrificio di se stesso". Ha vissuto la sua vita di Redentore sulla terra, ha svolto la sua missione, e ora porta a compimento pieno e definitivo la salvezza dell'umanità. Per i suoi meriti, là dove è Lui, giungeremo anche noi, partecipi della salvezza, della grazia di figli di Dio. "Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso".
Con l'Ascensione si conclude la vita e la missione di Gesù sulla terra, ma inizia contemporaneamente, per volere di Gesù la missione degli apostoli, dei discepoli, della Chiesa, chiamati a continuare l'opera di Gesù, a portare ovunque nel mondo e lungo la storia, il vangelo e la grazia di salvezza del Signore.
"Saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati. Di questo voi siete testimoni".(Vangelo) " "Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea, la Samaria e fino agli estremi confini della terra".
Ma gli apostoli, che pure sono stati con Gesù per lungo tempo, sono deboli, paurosi, di poco conto di fronte al mondo. Gesù promette e darà loro il suo stesso Spirito: lo Spirito Santo che è Dio. "Attendete la promessa del Padre. Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni". "Manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso. Restate in città finché non siete rivestiti di potenza dall'alto". "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni..."
Anche noi, chiamati a vivere la missione della Chiesa, a continuare l'annuncio e l'opera di Gesù, invochiamo lo Spirito Santo perché ci rivesta di potenza, ci cambi il cuore, ci dia la Sua forza. Così vogliamo vivere questi prossimi giorni della novena della Pentecoste con questo impegno di profonda e continua preghiera di implorazione dello Spirito Santo, con questa consapevolezza della missione di Cristo, messa nelle nostre mani, da svolgere con fervore, con fedeltà, con testimonianza, col martirio.
Avremo modo di continuare nelle prossime celebrazioni la meditazione sullo Spirito Santo e sarà il nostro impegno di ogni giorno la missione della Chiesa.
Ora torniamo alla realtà e al mistero dell'Ascensione.
Dice S. Agostino: "Oggi nostro Signore Gesù Cristo è asceso al cielo. Con Lui salga pure il nostro cuore". E continua spiegando che come Cristo, asceso al cielo, continua a vivere la sua vita e la sua passione in noi, così noi possiamo, pur nella vita terrena, già vivere spiritualmente uniti a Lui, in Lui, perché è il Capo di quel suo corpo che è la Chiesa.
Dice: Ascoltiamo l'apostolo Paolo che proclama: "Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di Lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra del Padre. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra". "Come Egli è asceso al cielo e non si è allontanato da noi, così anche noi già siamo lassù con Lui, benché nel nostro corpo non si sia ancora avverato ciò che è promesso.
Ispirarsi al cielo è sentirsi attirati da ciò che sta in alto, è avere degli interessi sublimi. E questo non impedisce la concretezza dei problemi umani. Esempio ne è Gesù, oggi asceso al cielo, esperto in umanità, presente attivamente in ogni situazione difficile, inserito nel contesto umano, operatore del bene fino alle ultime frontiere.
Ispirarsi al cielo serve per vedere con più realismo e meno angoscia le cose della terra.
Abbiamo bisogno di cielo che ci ispiri, in cui immergerci per sublimarci, da cui essere attirati.
Il cielo non è il luogo della fuga, dell'evasione. E' ciò che ognuno può gratuitamente contemplare, è l'ispiratore di ogni buon pensiero, è la fonte della speranza, è il grande spazio dove tutti gli sguardi si incontrano, davvero è il simbolo della contemplazione.
Siamo fatti per il cielo, dopo essere ben maturati sulla terra. Il cielo non lo guadagniamo per insoddisfazione, per stanchezza, per evasione dalla terra, ma con l'amore alla vita, scoprendo che ogni cosa su cui gli occhi si posano "porta di Te significazione, o Signore", come cantava San Francesco.

giovedì 6 maggio 2010

9 Maggio 2010 - VI Domenica di Pasqua

Gesù pronunzia queste parole nell'ultima cena, l'ultimo momento di intimità coi discepoli prima di patire e tornare al Padre.
Possiamo dividere la lettura in tre parti: nella prima Gesù risponde ad una domanda di Giuda; nella seconda parla della missione dello Spirito; nella terza del dono della pace. Ci soffermiamo sulla prima parte.
L'apostolo Giuda ha appena rivolto una domanda al Signore: "perché stai per manifestarti a noi e non al mondo?". Egli chiede cioè perché Gesù non venga accolto su vasta scala, non riceva ampia accoglienza, ma rimanga spesso sconosciuto o addirittura rifiutato. Per questa sua domanda l'apostolo prende lo spunto dal discorso del maestro, che aveva appena detto che il mondo non può conoscere né Gesù stesso né il suo Spirito.
Gesù gli risponde con le parole che aveva appena pronunziate, quasi a dire: "Non hai capito, ripetiamo"...
E che cosa risponde? Che non si può manifestare a chi non custodisce la sua Parola perché non lo ama. Si manifesta invece, e con lui il Padre e lo Spirito, a chi lo ama e custodisce la sua Parola.
Con ciò è delineata la sostanza della vita cristiana. L'amore ti porta a uscire da te stesso per guardare verso Dio, ammirarlo, meditare la sua Parola, senza lasciarti assorbire totalmente dall'immediato.
Questo poi si traduce in vita: dall'amore nasce l'obbedienza. Amare Gesù significa desiderare insieme a lui quello che lui desidera. Il segno dell'amore è l'opera. Se l'amore di Dio non ti spinge a fare scelte concrete, significa che è difettoso.
Ma attenzione: il segno dell'amore non è l'amore. Non di rado si vogliono fare le opere dell'amore senza avere l'amore. Succede con Dio quello che succede con le persone: dedichiamo loro poco tempo e attenzione, magari dicendoci che siamo indaffarati per loro, è proprio l'amore per loro a portarci a trascurarli... Ma quando l'amore è dato per scontato e non è coltivato corre pericolo. Così accade anche con Dio.
Si possono osservare i comandamenti, nel senso di regole particolari, e non amare. È la situazione del fratello maggiore nella parabola del "figliol prodigo": "Non ho mai trasgredito un tuo comando", eppure non ama, non capisce il Padre.
Si possono anche fare tante cose per Gesù e la Chiesa, e non amare. Il rimprovero di Gesù: "Non chiunque mi dice: 'Signore, Signore', entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre" (Mt 7,21-22) è rivolto proprio a persone che hanno "predicato", "fatto miracoli" e altre opere potenti nel suo nome. Eppure essi non hanno "fatto la volontà del Padre".
Si possono fare i gesti della carità senza averla. Ricordiamo le famose parole di S. Paolo: "Quando dessi tutte le mie sostanze per i poveri, se non ho carità, non mi serve a niente" (1Cor 13,3).
Dunque, qualsiasi cosa buona facciamo, possiamo farla senza amare, senza essere in sintonia con Dio. In altre parole, possiamo farla senza avere lo Spirito di Dio, lo Spirito dell'amore.
La vita cristiana invece è comunione con ognuna delle Persone divine, senza in alcun modo separarle: comunione col Padre, in rapporto con Cristo, animati dallo Spirito Santo. Questo è il dono scaturito per noi dalla Pasqua di Gesù.
Signore, donaci il tuo Spirito, lo Spirito dell'amore che ci faccia ascoltare e vivere la tua Parola.

giovedì 29 aprile 2010

2 Maggio 2010 - V Domenica di Pasqua

La parola che ritorna spesso nelle letture bibliche di questa domenica e che costituisce la nota dominante: è l'aggettivo "nuovo". Giovanni dice: "Vidi un nuovo cielo e una nuova terra... vidi la nuova Gerusalemme; e ancora la voce di Dio che dice: Ecco io faccio nuove tutte le cose; infine Gesù nel vangelo dice: Vi do un comandamento nuovo.
Questo annuncio ci viene dato nel contesto della pasqua, per dirci che è dalla Pasqua di Cristo che è sbocciata ogni novità; la Pasqua è questo fatto nuovo che permette a tutte le cose di rinnovarsi: Cristo è risorto da morte... perciò anche noi camminiamo in una vita nuova. I Padri della Chiesa dicevano che la Pasqua è la rinnovazione del mondo, un passaggio dalla vecchiaia alla giovinezza, che non è una giovinezza di età, ma del cuore. "eravamo cadenti per la vecchiaia del peccato, ma per la risurrezione di Cristo siamo stati rinnovati nell'innocenza dei bambini" (S. Massimo)
Che cos'è questa novità?
Gesù dice:Ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento novo: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amato. La novità è l'amore!
Ma perché Gesù chiama «nuovo» un comandamento che era noto fin dall'Antico Testamento e perché lo chiama il«suo» comandamento? La risposta è: perché solo ora, con lui, questo comandamento diventava possibile. In passato si amano le persone perché erano parenti, alleati, amici, perché appartenevano allo stesso clan o allo stesso popolo: si amavano per qualcosa che li legava tra di loro, distinguendoli da tutti gli altri. Ora bisogna andare al di là: amare chi ci perseguita, amare i nemici, quelli che non ci salutano e non ci amano. Amare, cioè, il fratello per se stesso e non per ciò che di utile può venirne a me. È la parola «prossimo» che ha cambiato contenuto; essa si è dilatata fino a comprendere non solo chi ti è vicino, ma anche ogni uomo al quale tu puoi «farti vicino», come insegna la parabola del samaritano.
Il comandamento di Cristo è nuovo per il suo contenuto, ma più ancora per la sua possibilità. Solo ora è possibile amarsi come fra¬telli e questo perché Lui ci ha amati. Il Figlio di Dio ha portato questo seme nuovo che era scomparso dalla faccia della terra con il peccato, e cioè l'amore. Dio ha tanto amato il mondo..., per questo anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri..
Gesù ha vissuto questo amore fino alle ultime conseguenze: fino ad amarci cosi come siamo, fino a perdonarci e a morire per noi. Aman¬doci così, Gesù ci ha redenti; ci ha fatti figli dello stesso Padre e fratelli, per cui dobbiamo e possiamo amarci.. C'è un motivo per cui ogni uomo, qualunque sia la sua situazione, può e deve essere amato: il motivo è che egli è ama¬to da Dio e che Dio lo vuole salvare. Il motivo non è dun¬que l'apparenza; non è la bellezza, la simpatia, la giovinezza, ma la realtà «nuova» creata da Cristo. Ecco per¬ché tale amore nuovo avrà la sua manifestazione più ge¬nuina non nel salutare chi ci saluta, nell'invitare chi ci invita, ma nell'amare chi ha meno motivi naturali per essere amato: il povero, l'infelice, l'anziano; al limite, il nemico, proprio perché, in questo caso, è chiaro che non si ama il fratello per quello che ha o che può dare, ma solo per quello che è agli occhi della fede.
Il comandamento di Cristo è «nuovo» anche per un altro motivo: perché rinnova! Esso è tale da poter cam¬biare la faccia della terra, da trasformare i rapporti umani, come quel lievito di cui parla Gesti, che, inserito nella massa, la fa fermentare tutta, sollevandola dalla sua pe¬santezza. «Cristo ci ha dato un comandamento nuovo: di amarci gli uni gli altri, come egli ci ha amati. È questo amore che ci rinnova, rendendoci uomini nuovi... È questo amore che adesso rinnova le genti e raccoglie tutto il ge¬nere umano, sparso ovunque sulla terra, per fame un po¬polo nuovo, la grande famiglia dei figli di Dio" (S.Agostino).
Il mondo ha bisogno di questo amore, ne ha bisogno la Chiesa, ne ha bisogno ciascuno di noi.
Nei tormentati problemi della nostra storia è istintivo lamentarsi, puntare il dito su ogni forma di odio, di violenza, di cattiveria. Ma questo non serve a niente. Credo che ciascuno di noi può vivere e offrire a questo nostro mondo un po' di amore, scelte e gesti di amore, di giustizia, di verità, di pace: se il bene lo facciamo, quello c'è; e se ci uniamo a tanti altri possiamo contribuire alla trasformazione di tante cose.
Noi sappiamo che il Signore Gesù, non solo ci ha dato l'amore come comandamento, ma ci ha dato il suo Spirito, che è l'Amore stesso di Dio, potenza di Dio nella nostra debolezza.
Possiamo lasciare lo Spirito di Dio che ami in noi e attraverso noi. Questa è la novità ultima: è Dio che ama in noi, il suo Spirito di mitezza e di forza, di perdono e di pace.

venerdì 23 aprile 2010

25 Aprile 2010 - IV Domenica di Pasqua

Con la sua morte e risurrezione Gesù ha stretto con i suoi un legame forte, confermato e approfondito ad ogni eucaristia. Il vangelo odierno lo descrive.
Da un lato Gesù conosce le sue pecore e dà loro la vita eterna. Dall'altro le pecore lo ascoltano e lo seguono.
Gesù ci conosce non come massa ma uno ad uno, come persona. Abbiamo bisogno di questo: non essere trattati come gente anonima, numeri, intercambiabili con altri; ma riconosciuti nella nostra unicità (caratteristiche, qualità, storie, ferite, punti deboli). Quando questo avviene (anche al livello umano) scatta qualcosa di fondamentale che ci fa crescere e senza il quale moriamo: non avere nessuno che ti chiama per nome, che ti conosce e ti apprezza come persona, è una morte grande.
Gesù ci offre dunque un rapporto personale con lui. Per questo però è indispensabile saper cogliere la sua voce. Col battesimo e col suo Spirito il Padre ci ha dato la capacità di riconoscere la voce del pastore Gesù: un istinto, un fiuto spirituale che ci consente di cogliere quella voce dovunque egli ci parla, anche laddove la sua presenza è più nascosta sotto apparenze contrarie.
Questo istinto ci dice anche che di lui possiamo sempre fidarci perché è un pastore che tiene alla nostra vita ancora più che alla sua, ha dato la sua vita, non agisce nei nostri confronti per interesse proprio, ma solo per darci la vita. La conseguenza è che cerchiamo di fare quello che lui dice, di seguirlo.
E' questo il segno che siamo sue pecore: se ascoltiamo la sua voce e lo seguiamo. Come Maria, che ascolta l'annunzio e concepisce il Figlio.
Ognuno deve domandarselo: sono in ascolto del Signore? Questo non significa certo sentire voci misteriose o altre cose strane. Il primo mezzo attraverso il quale il Signore mi parla è il Vangelo e tutta la Scrittura. Poi, illuminata dalla Parola, tutta la realtà farà arrivare la voce del Signore: la propria interiorità, i fatti, le situazioni, le persone, la natura. A condizione però che prima venga l'ascolto della Parola, altrimenti tutto questo rimarrà muto, oppure farà arrivare altri messaggi, e le voci di altri falsi pastori.
Devo poi domandarmi se cerco di seguire il pastore, di vivere quello che sono riuscito a cogliere dalla sua voce. Questo non significa affatto essere perfetti. Ma l'ascolto da solo non basta anzi, senza l'impegno a vivere la Parola, diventa distruttivo: "Chi ascolta le mie parole e non le mette in pratica è simile ad un uomo stolto, che costruì la casa sulla sabbia". Se ascoltiamo e basta, tutto crollerà.
Invece chi ascolta Gesù e lo segue non ha da temere proprio nulla: dalla sua mano, dalla sua protezione, niente e nessuno potrà strapparlo. Nessuna potenza di nessun tipo sarà più forte della mano del Pastore, perché è la mano stessa del Padre.
Signore, aiutaci a stabilire un rapporto personale con te, a saper cogliere la tua voce e a seguirti con la vita.

venerdì 16 aprile 2010

18 aprile 2010 - III Domenica di Pasqua

La Parola di oggi si apre riportandoci i discorsi e la testimonianza coraggiosa degli apostoli e in particolare di Pietro davanti al sommo sacerdote e al sinedrio. "Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo ad una croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra, facendolo capo e salvatore per dare a tutti la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui". Qui si dimostra la chiarezza dell'annuncio della fede, il coraggio della testimonianza, il superamento di ogni paura, addirittura la gioia del sacrificio per il Signore: "se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù".
Questo è Pietro, il capo dei dodici. Che storia particolare quella di Pietro!
Fu chiamato da Gesù sulle rive del lago, mentre era intento alla pesca. "Vi farò pescatori di uomini." Seguì Gesù in tutta la missione operata nella vita pubblica. Momenti di fervore e di entusiasmo, momenti di debolezza. Momenti di adesione profonda a Dio, altri di mentalità umana, addirittura di tentazione, di rinnegamento.
Ricordiamo quando disse a nome di tutti: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente", "Da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna". E Gesù a lui: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa". Ricordiamo anche quando protestava perché non voleva che Gesù parlasse della passione. E Gesù: "Allontanati da me, satana, perché tu pensi non secondo Dio, ma secondo gli uomini". Ma quando comprende di aver bisogno di purificazione si affida e dice: "Lavami non solo i piedi, ma anche il capo e tutto il corpo". Ricordiamo quando nel suo fervore e forse nella sua autosufficienza affermava: "Anche se tutti ti abbandonassero, io non lo farò mai". E Gesù: "Prima che il gallo canti, tu Pietro mi rinnegherai tre volte".
Difatti Pietro farà tutta l'esperienza della sua debolezza, della paura (non aveva ancora ricevuto la forza dello Spirito), della tentazione e della fragilità umana. Davanti ad una semplice donna, per tre volte protesterà: "Io non conosco quell'uomo (Gesù, col quale aveva vissuto per tre anni!). Gesù volle incontrario mentre lo conducevano al supplizio e lo guardò. Pietro sentì tutta la potenza di quello sguardo misericordioso e pianse il suo peccato.
Ed eccoci al vangelo di oggi. Gesù è risorto, lo hanno visto, ma ancora non sanno cosa fare. Ritornano alla vita e al lavoro normale, vanno a pescare. Ma sono ancora nella notte, con le loro forze umane non prendono nulla. Appare Gesù, arriva l'alba e la luce, li invita a pescare e con la sua grazia compiono una pesca grandiosa. Gesù si fa conoscere nella sua vita di risorto ma nella concretezza della sua persona: non è un fantasma, è il "Signore" e mangia con loro.
Poi c'è il dialogo intenso e commovente con Pietro, un capolavoro di grazia e di misericordia da parte di Gesù, un capolavoro di fervore, di umiltà, di fiducia, di abbandono, di affetto e amore sincero da parte di Pietro.
Per tre volte lo aveva rinnegato, per tre volte farà la sua professione di amore. Non solo professione di fede, ma di amore!
"Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?" "Certo, Signore, tu sai che io ti amo!"
Una seconda volta, una terza volta: "Mi ami tu?". Pietro, rattristato per la domanda fatta per la terza volta, si lascia andare all'umiltà e alla sincerità più grandi: "Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo!" E Gesù lo conferma nel suo compito di pascere il gregge, di guidare la Chiesa, di confermare i fratelli nella fede: "Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle".
Questa è la misericordia del Signore, questa è la sua grazia. Dio non si ferma davanti al peccato di Pietro, non si ferma davanti al nostro peccato. Dio chiede amore. "Molto ti è perdonato, perché molto hai amato", dirà un giorno. Dio non toglie la sua fiducia, anzi rinnova ancora di più questa sua fiducia e autorizza alla missione più grande. Pietro vivrà il suo ministero nell'amore e nell'umiltà, sarà il capo della Chiesa e saprà compatire e incoraggiare, perché lui stesso sa di essere un peccatore.
Gesù si comporta così anche con noi. Anche a noi chiede: "Mi ami tu". Vogliamo rispondere: "Signore, sì, tu sai tutto, tu sai che io ti amo (nonostante le mie debolezze)". Ognuno di noi, nella nostra vocazione e nella nostra missione di cristiani ha tutta la fiducia del Signore, ognuno di noi è ricolmato di misericordia e di grazia. Dobbiamo essere umili e misericordiosi perché abbiamo tante volte fatto l'esperienza del peccato, ma dobbiamo essere ferventi e generosi per esprimere tutto il nostro amore al Signore e il nostro impegno nell'annuncio e nella testimonianza, perché Gesù ha dato anche a noi lo Spirito Santo e la sua forza. E la nostra vita trova la sua piena realizzazione nell'amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come noi stessi.

giovedì 8 aprile 2010

11 aprile 2010 - II Domenica di Pasqua

La Pasqua di Cristo è l’atto supremo e insuperabile della potenza di Dio. È un evento assolutamente straordinario, il frutto più bello e maturo del "mistero di Dio". È così straordinario, da risultare inenarrabile in quelle sue dimensioni che sfuggono alla nostra umana capacità di conoscenza e di indagine. E, tuttavia, esso è anche un fatto "storico", reale, testimoniato e documentato. È l’avvenimento che fonda tutta la nostra fede. È il contenuto centrale nel quale crediamo e il motivo principale per cui crediamo.
La buona notizia della Pasqua, dunque, richiede l’opera di testimoni entusiasti e coraggiosi. Ogni discepolo di Cristo, anche ciascuno di noi, è chiamato ad essere testimone. È questo il preciso, impegnativo ed esaltante mandato del Signore risorto. La "notizia" della vita nuova in Cristo deve risplendere nella vita del cristiano, deve essere viva e operante - in chi la reca, realmente capace di cambiare il cuore, l’intera esistenza. Essa è viva innanzitutto perché Cristo stesso ne è l’anima vivente e vivificante. Ce lo ricorda san Marco alla fine del suo Vangelo, dove scrive che gli Apostoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (Mc 16,20).

La vicenda degli Apostoli è anche la nostra e quella di ogni credente, di ogni discepolo che si fa "annunciatore". Anche noi, infatti, siamo certi che il Signore, oggi come ieri, opera insieme ai suoi testimoni.
La celebrazione del Mistero pasquale, la contemplazione gioiosa della Risurrezione di Cristo, che vince il peccato e la morte con la forza dell’Amore di Dio è occasione propizia per riscoprire e professare con più convinzione la nostra fiducia nel Signore risorto, il quale accompagna i testimoni della sua parola operando prodigi insieme con loro. Saremo davvero e fino in fondo testimoni di Gesù risorto quando lasceremo trasparire in noi il prodigio del suo amore; quando nelle nostre parole e, più ancora, nei nostri gesti, in piena coerenza con il Vangelo, si potrà riconoscere la voce e la mano di Gesù stesso.

Dappertutto, dunque, il Signore ci manda come suoi testimoni. Ma possiamo essere tali solo a partire e in riferimento continuo all’esperienza pasquale, quella che Maria di Magdala esprime annunciando agli altri discepoli: «Ho visto il Signore» (Gv 20,18). In questo incontro personale con il Risorto stanno il fondamento incrollabile e il contenuto centrale della nostra fede, la sorgente fresca e inesauribile della nostra speranza, il dinamismo ardente della nostra carità. Così la nostra stessa vita cristiana coinciderà appieno con l’annuncio: «Cristo Signore è veramente risorto». Lasciamoci, perciò conquistare dal fascino della Risurrezione di Cristo.

giovedì 1 aprile 2010

4 Aprile 2010 - Pasqua di Risurrezione di nostro Signore

Gesù è risorto, alleluia! La notte di Pasqua ci siamo trovati, abbiamo acceso un fuoco all'aperto, ad esso abbiamo attinto la fiamma per accendere il cero Pasquale e le nostre candele battesimali e abbiamo letto il Vangelo della Resurrezione. Sì, Gesù è vivo e da qui parte ogni fede, ogni gioia, ogni riflessione. Abituati a fissare lo sguardo sul dolore del crocifisso, siamo ora invitati a compiere un gesto molto più difficile: credere nella Resurrezione. Se è relativamente semplice credere in un Dio che con noi condivide il dolore, è molto più difficile condividere con lui la gioia: la gioia ci obbliga a guardare oltre, ad alzare lo sguardo, a non restare chiusi su noi stessi. Abbiamo tutti motivi per soffrire, ma per gioire occorre superare la nostra natura, saper vedere le cose con gli occhi di Dio.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro, le donne li hanno avvisati: Gesù è scomparso. Corrono lasciando alle proprie spalle il proprio sordo dolore, il senso di colpa di Pietro per avere rinnegato l'amico, per avere oltraggiato il Maestro. Ma ora che importa? Tutto è superato, tutto è oltre, tutto è al di là. Giovanni e Pietro trovano delle bende: non un segno esplicito, non una manifestazione sfolgorante, non un gesto evidente, eclatante: la fede obbliga a sbilanciarsi, non s'impone, Gesù chiede di schierarsi, di cogliere i segni talora impalpabili, con cui si rende presente.
Gesù è vivo: non rianimato, né tantomeno reincarnato (la reincarnazione contrasta il modo assoluto con la visione cristiana della resurrezione) ma vivo in modo nuovo. E' lui: mangia, sorride, parla. E' diverso: non si riconosce subito, appare all'improvviso, consola e dona lo Spirito. No, gli apostoli non si aspettavano questo. Se Gesù è risorto, la loro consapevolezza su di lui cambia radicalmente: Gesù non è solo un grande Rabbì di Israele, né solo un Profeta, né il Messia tanto atteso. E' di più: è l'impronta di Dio, il suo volto luminoso, è Dio diventato noi perché noi diventassimo lui. Da quella tomba vuota inizia il cristianesimo, alla luce di quella tomba vuota noi rileggiamo la vita di Gesù, le sue parole. Per questa ragione san Paolo afferma che negare la resurrezione significa negare la fede stessa. Se Gesù non è risorto è solo uno dei tanti bravi personaggi della storia spazzati via dalla ferocia degli uomini. Se Gesù non è risorto è solo un grande saggio che ha portato avanti con coraggio una bella idea. Se Gesù non è risorto siamo qui a celebrare un rito, a pensare ad un cadavere...
Gesù è vivo, amici. Che ci creda o no, che me ne accorga o meno, è risorto, vivo, straordinariamente vivo e presente, ora, qui, accanto me, accanto a te, se lo vuoi. La tomba vuota restituita a Giuseppe di Arimatea è il cuore delle fede. I cristiani l'hanno conservata con cura nei secoli e nei secoli l'ira dei non credenti si è scagliata contro quel luogo: Adriano fece costruire sopra la cava di pietra del Golgota un tempio pagano sulla ricostruita Gerusalemme diventata Aelia Capitolina. Dopo avere ridato splendore al sepolcro grazie a Costantino, imperatore cristiano, la Basilica dovette sfidare la dominazione musulmana, non sempre illuminata, per giungere fino a noi con le tracce della devozione popolare di duemila anni. Entrare al sepolcro è sempre un tuffo al cuore, toccare con mano quella tomba vuota, quella pietra nascosta da pacchiani marmi moderni è sempre una conferma: la morte non è riuscita a imprigionare Dio.
Gesù è risorto, e noi? Siamo come le donne, intenti ad imbalsamare un crocifisso? Ascolteremo l'angelo che ci dice: "perché cercate tra i morti uno che è vivo?" Perché la nostra fede, le nostre parrocchie, le nostre messe troppe volte celebrano un morto e non un vivente? Avremo cinquanta giorni (10 in più della quaresima!) per vedere come Gesù – ora - è raggiungibile, attraverso quali segni si rende presente. Apriamo il cuore alla fede: Gesù è davvero risorto!

giovedì 25 marzo 2010

28 marzo 2010 - Domenica delle Palme

La liturgia oggi ci aiuta a celebrare due avvenimenti: l'ingresso di Gesù in Gerusalemme, accolto dai ragazzi e dal popolo che lo acclamano con fede e con gioia e l'inizio dellla Settimana Santa, nella quale Gesù opera la salvezza del mondo con il suo amore e il suo sacrificio della Croce. Ecco perché abbiamo letto il racconto commovente, dettagliato e profondo della Passione di Gesù. Entrando in Gerusalemme Gesù viene accolto e acclamato dai bambini e dalla folla come Messia, "Benedetto Colui che viene nel nome del Siugnore"! E' l'espressione gioiosa della nostra fede. La nostra fede è sempre luce, vita, forza, gioia. I ragazzi e il popolo, attratti da Cristo, forse ispirati e portatori della vera fede dell'umanità che attende il Messia, vanno incontro a Gesù, gli fanno festa, lo acclamano con rami di palme. Gesù gradisce questa accoglienza e questa fede: Egli è davvero il Salvatore, il Figlio di Dio venuto nel mondo per portare l'amore e la misericordia del Padre a tutti. Anche noi vogliamo vivere questa giornata rinnovando tutta la nostra fede, il fervore, l'attaccamento a Gesù Signore. Ma è anche il momento dei contrasti. Gesù gradisce l'accoglienza, ma sa che la sua gloria non avverrà in maniera umana, ma sulla croce: la sua grandezza è il suo amore infinito, che lo porta a donare la vita per tutti. Mentre il popolo lo acclama, i nemici si preparano a catturarlo per condannarlo a morte. Gesù sa che va incontro alla sua ora; è venuto per questo, anche se umanamente sente tutta l'angoscia dell'orto degli ulivi, sa invocare e compiere la volontà del Padre, che è il vero bene per Lui e per tutti. Nella messa, che apre la settimana santa, opportunamente viene letto il racconto della passione e morte del Signore. Qui si racchiude tutto il mistero dell'amore di Dio, del peccato dell'uomo, della salvezza che Gesù ci ha meritato. Il testo della Passione del Signore non avrebbe bisogno di commenti: è il racconto dei fatti attraverso i quali è giunta a noi la Redenzione. Tutto il male, che si compie sulla terra, in qualche modo si è condensato in quella scena, in quei fatti: la violenza, la sete di potere, l'invidia, il tradimento degli amici, la viltà, l'adulazione dei potenti, la malizia, lo sfregio della dignità umana, le insinuazioni, la menzogna e quant'altro di male gli uomini fanno, tutto sembra essere presente nella passione di Gesù.
A Dio è presente tutto il male del mondo, il male morale e anche il male fisico. Il paradosso è che proprio questo dolore, questa sofferenza è stata accettata e questo male è stato ribaltato, è diventato in mano a Dio lo strumento attraverso il quale Egli ci ha salvato. L'amore di Dio ha vinto questo male e lo h fatto diventare redenzione. Mettere insieme, come fa la celebrazione di oggi, i due atteggiamenti della folla che prima lo acclama e poi lo condanna, ci fa capire come è facile dimenticare l'amore di Dio, lasciarsi andare al peccato, rinnegare il Signore. Questo nella gente, ma anche in Pietro e negli altri apostoli. Viene dato particolare rilievo al tradimento di Pietro, quando Gesù lo annuncia durante la cena e quando Pietro lo rinnega per tre volte davanti alla serva. Viene riportata nella predicazione primitiva questa confessione pubblica di Pietro, nella gioia del perdono che Gesù poi gli ha dato. Se confrontiamo il tradimento di Pietro e quello di Giuda vediamo che Pietro, uscito fuori, scoppiò a piangere, Giuda uscito fuori andò ad impiccarsi. Pietro ha fiducia nella misericordia di Dio, Giuda no, e si lascia andare alla disperazione. Anche ciascuno di noi, tante volte, cade nella tentazione, nella paura, nell'egoismo, nel peccato, come Pietro e come Giuda. Si tratta di credere a Dio, al suo amore infinito, alla sua misericordia senza limiti. L'amore di Dio, espresso sulla croce è la nostra piena, continua, eterna salvezza! Anche quando ci capitasse il peccato più grave (e ci dispiace, perché il peccato è sempre il nostro male) Dio è più grande di ogni nostro peccato, ed è venuto proprio per togliere i nostri peccati, per darci la gioia e i frutti del suo amore. Questo ci aiuta a celebrare con profonda fede i sacramenti pasquali, a vivere la settimana santa in unione con la passione di Cristo, facendo nostri i suoi sentimenti ("abbiate in voi i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù"), ed implorando la grazia e la forza della sua morte e resurrezione, per noi, per la Chiesa, per l'umanità.

giovedì 18 marzo 2010

21 marzo 2010 - V Domenica di Quaresima

Abbiamo ancora nella mente e nel cuore la commovente pagina del Figliol prodigo della liturgia di domenica scorsa: una parabola con cui il Signore ci esortava a credere nella infinita misericordia del Padre celeste e a lasciarci riconciliare con Lui per vivere nella pace vera dell'anima.
Nell'episodio della peccatrice adultera notiamo il tranello che i farisei e gli scribi tendono a Gesù, ricordando la chiarezza della legge. La legge è chiara, non i sono dubbi. Una donna che va con un altro uomo non merita pietà. Quello che ha fatto è grave: ha tradito la sua famiglia, suo marito, i suoi figli. Il male che ha commesso deve essere tolto di mezzo. Per questo viene lapidata: perché davanti al male non ci possono essere mezze misure. Gli scribi e i farisei conoscono bene la legge e chiedono a Gesù di applicarla. Senza mezzi termini. Del resto ci troviamo non in un luogo qualsiasi, ma sulla spianata del tempio, in un luogo sacro. Gesù si sentirà di andare contro la "legge di Dio" proprio mentre si trova nella sua casa? Della donna e del male che ha commesso, a questa gente non importa nulla; per loro è solo un pretesto, per mettere Gesù in difficoltà. Dapprima si mette a scrivere, col dito, per terra. Cosa abbia scritto il vangelo non lo dice. Poi lancia il suo avvertimento: "Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, per ucciderla". Almeno ora diventano onesti e sono coerenti: uno alla volta se ne vanno tutti, cominciando dai più anziani. Ora resta solo la donna e Gesù; dice S. Agostino: la "misera" e la "misericordia". Ma Gesù non vuole affatto condannare, non è venuto per questo. E' venuto a portare misericordia, a guarire i malati per questo lascia libera la donna. "Nessuno ti ha condannata?" "Neppure io ti condanno!". Ma deve togliere il male, lottare contro il male. Per questo le dice: "Và e non peccare più". Sono le parole più belle e più grandi che il cuore di Dio a chi sente tutta la sofferenza dei propri peccati. Gesù dice a ciascuno: Io non ti condanno. Gesù non è venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo; non è venuto per i giusti, ma per i peccatori... Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù mettendoci al posto della peccatrice.
Non dobbiamo avere paura di incontrare Gesù quando abbiamo sbagliato, quando siamo nel peccato, nella debolezza, nella tentazione. Ci ama sempre...
E' proprio l'unica cosa necessaria che ci possa capitare e che noi dobbiamo cercare: l'incontro con Gesù che prende le nostre difese, ci capisce, ci perdona e ci salva. La fiducia nella misericordia del Signore deve diventare la luce e la forza di ogni giorno della nostra vita. Sentiamo anche tutta la profondità dell'invito di Gesù: Và e non peccare più.
Su certi peccati ce la dobbiamo fare e ce la faremo a essere decisi, a tagliare ciò che va tagliato. "Ciò che è male in te, taglialo". Dobbiamo chiedere e credere a tutta la forza del Signore. Su altri può darsi che facciamo ancora fatica e che ci capiti di sbagliare ancora: anche qui vogliamo chiedere tanta forza al Signore, per tornare sempre a lui, implorare il suo perdono, ricominciare ogni volta con buona volontà: ma siamo certi, con il Signore vinceremo e Lui ci salverà. Vogliamo imparare tutto l'insegnamento di Gesù, mettendoci al posto dei farisei e degli scribi.
Gesù ci aiuta a esaminare la nostra coscienza, a essere onesti e sinceri, a riconoscere che anche noi tante volte facciamo i peccati che denunciamo negli altri e che anzi possiamo essere certe volte noi stessi causa di quei peccati.
Si tratta di depositare i sassi. Facciamo degli esempi: la violenza. Noi puntiamo il dito contro la violenza, ma molte volte noi stessi forse coltiviamo le cause della violenza, il disagio sociale, l'ingiustizia, la cattiva educazione.
L'immoralità: noi puntiamo il dito contro l'immoralità nei giovani, nelle famiglie, nelle relazioni sociali. Ma forse siamo in parte noi stessi causa di tutto questo, quando sin permette una cultura che banalizza e strumentalizza la sessualità, che scardina la fedeltà, la famiglia, l'impegno e il sacrificio.
La politica: si punta il dito contro tanti errori e inadempienze o contro un modo di fare politica che afferma il bene della gente solo a parole ma in fondo non è altro che un cercare interessi personali e di parte. Ma ciascuno di noi deve esaminarsi se ha capito e se coltiva nel cuore quello che Gesù ha detto: Chi vuol essere il primo si faccia servo di tutti, Io non sono venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita.
La religiosità. Puntiamo il dito sulla scarsa religiosità e la scarsa frequenza alla chiesa. O ci scandalizziamo di fronte a tante forme di magia e di satanismo. Ma come presentiamo la religione, come coltiviamo l'educazione religiosa nelle famiglie, come siamo accanto ai ragazzi e ai giovani nella loro crescita, viviamo la fede noi adulti?
Immigrazione: spesso diciamo contro gli stranieri e condanniamo certi fenomeni negativi del loro comportamento. Ma in fondo se possiamo sfruttarli lo facciamo volentieri: affitti, lavori,...
Di questi esempi ciascuno ne può trovare tanti altri. Si tratta di deporre davanti a Cristo questi sassi che vorremmo scagliare, si tratta di esaminare e convertire il nostro cuore per non essere più gente che giudica, ma gente che prende coscienza dei propri peccati e responsabilità e prende su di sé, sull'esempio di Cristo, i peccati dell'umanità, per vincerli e portare la salvezza, la grazia, la vita vera. Chiediamo di essere capaci di imitare un poco almeno il Signore Gesù, il quale non è venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo. E lo ha fatto non facendola pagare agli altri, ma pagando lui con la sua passione.

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giovedì 11 marzo 2010

14 marzo 2010 - IV Domenica di Quaresina

"Perduto e ritrovato": sono le parole del padre che chiudono la parabola. "Bisogna far festa e rallegrarsi, perché questo figlio era morto ed è tornato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato".
Perduto quel figlio lo era davvero. Perduto perché in casa non si trovava bene. E al momento opportuno aveva chiesto la sua parte di soldi e se ne era andato. Magari aveva anche sbattuto la porta, per far capire che ora si sentiva finalmente libero; perduto a causa delle cattive compagnie, che lo facevano sentire grande: aveva soldi da buttare e non si era trovato senza compagni finché aveva avuto soldi in abbondanza: perduto, perché aveva toccato il fondo dell'umiliazione: per un ebreo, di famiglia ricca per di più, fare il guardiano dei maiali era la cosa peggiore che si potesse immaginare.
Per gli ebrei il maiale era un animale impuro e quindi stare con i maiali tutta la giornata significava essere "impuro", un lontano da Dio. E poi Lui, il figlio del padrone, alle dipendenze di uno straniero. Pieno di fame al punto di rubare le carrube ai porci! Era veramente perduto, quel figlio.
Perduto, ma non dimenticato, anzi sempre amato. Così quando aveva fatto ritorno alla casa di suo padre, pieno di fame, sporco, scalzo, coi vestiti laceri e con il discorsetto preparato a memoria... le reazioni di suo padre non erano state quelle che si aspettava. Il vestito bello, i sandali, l'anello al dito e la festa: ecco cosa aveva fatto il padre per lui.
Troppo buono: al punto che l'altro figlio non capisce e si arrabbia: Ma cosa c'è da capire? Quando si ritrova qualcuno che si pensava perduto, "bisogna" far festa. Almeno... Dio ragiona così quando noi torniamo alla sua casa. Dio ci accoglie così anche se arriviamo dopo aver buttato via il suo tesoro.
L'aspetto più difficile di tutto l'annuncio cristiano a volte non sono i misteri, ma l'affermazione della bontà di Dio. Ognuno di noi vorrebbe aggiustare o interpretare la bontà di Dio. Invece la bontà di Dio si rivela sempre superiore e diversa dalle nostre attese. E questo avviene soprattutto di fronte alle persone che hanno peccato ma che hanno fiducia nella misericordia. Gesù nel vangelo sorprende tutti: va a mangiare coi peccatori, difende una donna adultera, chiama tra gli apostoli un pubblicano, entra nella casa di Zaccheo, benedice e conforta un ladrone sulla croce.
Gesù racconta questa grande e commovente parabola che fa percepire la grandezza del cuore di Dio, che fa capire come Dio si è comportato e si comporta con noi. "Gli corse incontro, lo baciò, lo strinse forte a sé". Quante volte il Signore ha fatto così con noi e quante volte ancora lo farà, finché non ci porta al sicuro della sua salvezza!
La parabola ha un centro: il padre; attorno al padre si muovono le due vicende: i due figli. I due figli sono due tentazioni della vita e noi talvolta assomigliamo al primo, talvolta al secondo, talvolta facciamo convivere la cattiveria di tutti e due.
Il primo figlio: costui esige e il padre non si oppone; il figlio fugge di casa e il padre, con cuore straziato, permette che si allontani; il figlio va a divertirsi in modo banale e insulso e il padre permette che dissipi il frutto di tanto sudore, fatica, amore. Il padre resta sullo sfondo della vicenda: appare debole, invece è buono; sembra sconfitto, invece si muove con grande dignità.
Dio non ferma l'uomo perché l'amore non può imporre; Dio non viola la libertà; Dio non si vendica mai.
Quel figlio perde tutto, arriva al fondo dell'abisso. Che può fare? Può ostinarsi nella sua situazione, rifiutare il ritorno, rifiutare il perdono: ma questo è l'inferno. Oppure, può ritornare: se il figlio muove il passo verso la casa del padre... allora accade l'imprevedibile, accade qualcosa che per noi è difficile capire: accade la gioia di Dio, che Gesù chiama "festa in cielo per un peccatore che si pente".
Gesù vuol dire con la sua parabola: sappiate che Dio è così e io sono la prova della bontà di Dio che diventa Betlemme, Nazareth, Cenacolo, orto degli ulivi, Calvario, Eucarestia, Chiesa...
La parabola pertanto è un invito: Se hai peccato, ritorna. Se hai offeso fino al limite più infame: sappi che Dio è pronto a ricominciare tutto da capo. Quanta speranza in questo: Dio non mi respingerà mai! Dio fino all'ultimo mi cercherà e non sarà facile sfuggire al suo amore.
C'è anche il secondo figlio. E' il figlio scandalizzato per la bontà del padre. Sembra che abbia ragione, invece il suo comportamento è offensivo nei confronti del padre. Anche se non è fuggito da casa, il suo cuore non è mai stato in casa, perché non pensa e non ama come suo padre. Questo figlio è ribelle come il primo: questo figlio è un problema per il padre, una spina nel cuore del padre. Per questo figlio sarà più difficile tornare a casa, perché il suo peccato è nascosto dalla presunzione. E la parabola finisce così: Figlio, ritorna anche tu!
Questa parabola ci fa contemplare l'infinito amore di Dio, ci aiuta nei nostri esami di coscienza, ci invita a chiedere sempre il perdono del Signore, ci insegna la strada della riconciliazione e della confessione, come ci esorta S. Paolo: "Fratelli lasciatevi riconciliare con Dio, con fiducia, perché Cristo ci ha riconciliati!".

giovedì 4 marzo 2010

7 marzo 2010 - III Domenica di Quaresima

Mentre Gesù sta parlando, qualcuno lo mette al corrente di una notizia sconvolgente: un gruppo di Galilei, probabilmente rivoluzionari, sono stati massacrati dal sanguinario procuratore romano Ponzio Pilato, mentre stavano compiendo un sacrificio di culto. Alla mente dei presenti si affaccia il ricordo ancora vivo di un'altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano per il tempio, furono seppelliti sotto il crollo di una torre. Fatti di sangue, racconti di morte, grandi domande: dov'era Dio? È Dio che ha guidato la spada di Pilato? È Dio che aveva fatto franare il terreno sotto la torre del Tempio?
Seguendo la concezione corrente della retribuzione temporale, gli ascoltatori di Gesù hanno interpretato quei tragici avvenimenti con la mentalità del tempo: se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati; se sono stati castigati, è segno che erano peccatori. E il fatto di essere stati personalmente risparmiati rassicura quegli stessi ascoltatori sulla loro giustizia.
Gesù rifiuta questa visione semplicistica e prende le difese sia di Dio sia degli uccisi: non è Dio che arma la mano di Pilato; non è Dio che aggiunge sangue a sangue, che abbatte torri e grattacieli; non ci sono colpe segrete da punire. Quegli uomini non erano peggiori degli altri. Quelle disgrazie sono un avvertimento indirizzato a tutti: tutti sono peccatori; il giudizio di Dio non è per qualcuno, ma per tutti; non è per gli altri, ma per noi. O ci convertiamo o ci perdiamo.
Ma da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo forse della brava gente, non siamo forse cattolici credenti e praticanti? Ci soccorre ancora una volta D. Bonhoeffer: "Il contrario della fede non è l'incredulità; è l'idolatria". Già s. Paolo parlava della conversione dei pagani come un "allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero" (1Ts 1,9). Ecco: ma che cos'è l'idolatria? Nell'opinione comune, mentre la vera fede adora un solo Dio, l'idolatria adora molti dèi. Ma nella Bibbia l'idolatria è qualcosa di più sottile e di più subdolo: non è tanto piegare il ginocchio davanti a una statuetta d‘oro o di legno; non è neanche adorare il vitello d'oro; è piuttosto ergere il proprio Io al posto di Dio. Al fondo di ogni idolatria, c'è l'autolatria, "l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio" (s. Agostino). Poi questa idolatria si concretizzerà nel mettere al posto di Dio - o a fianco di Dio - il Dio danaro, il Dio piacere, la dea immagine, la dea efficienza, il Dio successo... Di qui il "correre, combattere, sconfiggere".
E il "contemplare"? No, fratello, sorella: prima della contemplazione, viene la conversione. Perché se contemplare è vedere Dio, dobbiamo ricordare che solo i puri di cuore vedranno Dio. Noi vediamo o diciamo di vedere; noi crediamo o crediamo di credere. Ma cosa ne stiamo facendo del dono della fede?
Stanno venendo tempi - e sono già venuti - in cui essere cristiani è sinonimo di missionari. Oggi diventa sempre meno concepibile un cristiano che non viva in uno stato di missione.
Non si è cristiani per soddisfare i propri bisogni religiosi, per trovare un senso alla propria vita, per dare una direzione alla propria esistenza. Si è cristiani perché si è stati scelti per essere "luce delle genti", per "annunciare le grandezze di Dio", per dire agli uomini le meraviglie che Dio continua ad operare in mezzo a noi, per portare agli altri l'amore di cui si è amati, per farli godere della propria sorte, per amarli "come se stessi", per donarsi a loro. La missione non è solo l'annuncio di un dono, ma un dono che si fa annuncio.
Oggi Gesù insiste: Se non vi convertirete, tutti allo stesso modo perirete. Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
Così è avvenuto per Mosè (1ª lettura): era fuggito dall'Egitto, braccato dagli aguzzini del faraone e deluso dei suoi connazionali, perché in precedenza si era illuso che avrebbero finalmente capito che "Dio dava loro salvezza per mezzo suo" (At 7,25). Nel deserto di Madian Mosè si era ridotto a vita privata, adattandosi al ritmo tranquillo di un pastore agiato e soddisfatto, con tanto di moglie e figli. Adesso, a quarant'anni suonati, sta per scoccare l'ora della sua missione: dovrà lasciare il deserto e tornare nuovamente in Egitto proprio lui, "quel Mosè che i suoi connazionali avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?" (At 7,35). Questa è la conversione di Mosè: una vera "inversione a U", dal deserto di Madian all'Egitto, dove pendeva una condanna sul suo capo. Ma prima ancora Mosè deve "convertirsi" al Dio unico, vivo e vero.
E cosa aggiunge il Nuovo Testamento alla rivelazione di Dio, già presente nell'Antico? Aggiunge un massimo vertiginoso, del tutto inimmaginabile: un volto d'uomo e un cuore di carne, il volto e il cuore di Gesù. Nessun ebreo prima di Gesù, neanche l'ardente Osea o il dolcissimo Deutero-Isaia, poteva sospettare fino a che punto Dio avrebbe spinto il suo amore per il mondo: "Dio ha tanto amato il mondo fino al punto da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) e questo Figlio "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). A questo volto santo di Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso - siamo chiamati a prestare i lineamenti del nostro volto. Altrimenti facciamo bestemmiare il suo santo Nome (cfr. Rm 2,24), quando con il nostro comportamento finiamo per "velare più che svelare il genuino volto di Dio" (GS 19).
Noi finiamo per velare il volto del Dio fedele e affidabile quando non ci fidiamo di lui e siamo come i pagani, sempre in affanno per il nostro domani. Deformiamo il volto dell'Amore gratuito quando mettiamo al di sopra di tutti e di tutto i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente, quando con il pretesto che perdonare si deve ma dimenticare non si può, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male subito. Gli altri allora potrebbero dirci: "Dov'è il vostro Dio? Se non ce lo fate vedere in voi, non ci crediamo e non ci crederemo mai!".

giovedì 25 febbraio 2010

28 Febbraio 2010 - II Domenica di Quaresima

All'inizio del cammino che ci porterà alla Pasqua, siamo invitati a celebrare quell'anticipo della Resurrezione che è la Trasfigurazione di Gesù. E' un appuntamento che ritempra i cuori: sappiamo che anche per noi, come per gli apostoli, ci sarà l'annuncio della passione e morte di Gesù Cristo, ma questo evento sul monte sembra volerci preparare ad aver fede in Colui che non sarà solo il disprezzato, l'escluso, ma anche il Figlio prediletto di Dio, Colui che vincerà il male e la morte.
"Gesù prese con è Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare".
Quanto è bella e profonda questa espressione e come è significativo il comportamento di Gesù che si ritira spesso sul monte a pregare e coinvolge i suoi amici! L'incontro con Dio nella preghiera è sempre una cosa santa, ma questa volta avviene quella manifestazione particolare che chiamiamo trasfigurazione, perché il suo volto cambiò di aspetto e le sue vesti divennero candide e sfolgoranti. Si fece vedere nello splendore della sua gloria di Figlio di Dio, assieme a Mosè ed Elia che rappresentano tutta la Bibbia che dà testimonianza a Gesù, il Messia. E soprattutto si rende presente il Padre che proclama: "Questo è il mio Figlio, ascoltatelo!"
Sulla strada che porta verso Gerusalemme e quindi verso la passione e la croce, Gesù viene trasfigurato. Ma cosa è accaduto ai tre discepoli che sono con Lui? Luca usa questa espressione molto breve per farci capire: "Pietro e i suoi compagni videro la sua gloria". Ma che cosa vuol dire questa frase?
La vita di Gesù era quella di un uomo del suo tempo, anche se egli pronunciava delle parole che andavano dritte al cuore e compiva dei segni di amore che destavano meraviglia e riconoscenza. Ma non era possibile, a prima vista, riconoscere in lui il Figlio di Dio. A Pietro, Giacomo e Giovanni viene offerta la possibilità di "vedere" quello che a molti potrebbe sfuggire, la possibilità di percepire la vicinanza di Dio, la sua bellezza, la sua bontà infinita. Ma "vedere" non basta: anzi ci si potrebbe fare un'idea sbagliata su Gesù: E' necessario "ascoltare": è questo l'invito che il Padre fa a tutti noi.
È interessante notare che i tre apostoli del monte della trasfigurazione saranno gli stessi tre del monte degli ulivi. Qui provano gioia, stupore, desiderio che quel momento magico non finisca più: "È bello per noi stare qui". Potessimo anche noi sperimentare questa gioia e questo desiderio quando siamo nella preghiera, quando siamo con il Signore: "È bello per noi stare qui!".
Ma Gesù invita presto a tornare alla vita ordinaria. La preghiera porta alla vita, ma in maniera nuova, diversa. E nella vita ordinaria siamo chiamati a portare la luce, la grazia, la forza dell'incontro che abbiamo avuto con il Signore. Verranno anche momenti difficili, tentazioni, sofferenze: quello che conta è ricordare "nei momenti delle tenebre ciò che abbiamo visto nei momenti di luce" (come dice uno scrittore). L'importante è sapere che Gesù non ha rifiutato la sofferenza e la passione, ma l'ha santificata e l'ha fatta diventare la cosa più sacra, la prova più grande del suo amore, l'ha fatta diventare grazia e salvezza per tutti. Anche noi possiamo santificare le prove e le sofferenze (non è facile, ma Gesù ci dà questa forza) e unirle a quelle di Cristo, per la salvezza dei fratelli.
Dobbiamo anche sapere con certezza che il Signore è sempre presente accanto a noi, anche quando ci sembra di vivere i momenti più bui e che la sofferenza e la morte non sono "l'ultima parola", ma la penultima, perché l'ultima parola di tutto è la risurrezione, la vita, l'opera meravigliosa che sempre il Signore costruisce.
Mentre nella sua vita si vanno accumulando i segni della tragedia che appare prossima, Gesù si rivolge ancora al Padre: "salì sulla montagna a pregare". La sua manifestazione luminosa nasce nella preghiera. È spontaneo chiedersi quale esperienza di dialogo con il Padre viviamo noi. Nella preghiera si approfondisce la comunione con il Signore riconoscendosi davanti a Lui come figli bisognosi. Prega chi ha riposto la sua fiducia nel Signore, chi ha occhi capaci di contemplare lo splendore del suo volto. È dunque la preghiera il contesto in cui si riceve la luce. La Parola di Dio chiama anche oggi ad una verifica personale e comunitaria, da cui possano scaturire energie e propositi nuovi tesi a rinnovare la propria vita cristiana. La trasfigurazione offre al discepolo un criterio di lettura della vicenda di Gesù: il Messia che si incammina, sofferente e apparentemente sconfitto, verso Gerusalemme è il Messia che è nella gloria. Essa allora indica al discepolo che è la vita della croce che porta alla risurrezione. Al discepolo che segue il Maestro deve essere sufficiente un anticipo di gloria, un lampo che lo confermi nel cammino.

giovedì 18 febbraio 2010

21 Febbraio 2010 - I Domenica di Quaresima

Al centro della liturgia di oggi, per antichissima tradizione, c'è l'episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto: Gesù si è fatto in tutto simile a noi: ha affrontato le prove e le tentazioni più grandi. Ha vissuto questo momento di sofferenza e di solitudine. Ma ha vinto il maligno: lo ha vinto con la Parola di Dio e con la sua fiducia piena nel Padre dei cieli. E' interessante notare che ad ogni tentazione del maligno Gesù risponde con una frase chiara della Bibbia, della parola di Dio. Nella parola di Dio c'è sempre la chiarezza, la decisione, la luce e la forza per vincere la tentazione e il male.
Anche noi siamo tentati, tante volte e in tante situazioni della nostra esistenza. Anche noi possiamo vincere le tentazioni con la luce e la forza della Parola di Dio. Sarebbe molto bello e sarebbe la nostra salvezza se nelle tentazioni e nei problemi che incontriamo potessimo ricordare una frase, una parola di Dio e su quella costruire il nostro lavoro interiore, il nostro impegno e di conseguenza, la nostra vittoria, la nostra maturazione. Infatti è normale che ci siano tentazioni e prove; non ci devono spaventare troppo; ci sono date perché abbiamo ad affrontarle e vincerle. La tentazione può diventare occasione di maturazione, di libertà, di maggiore amore a Dio e al prossimo. Ecco perché la Bibbia dice: "Chi desidera seguire il Signore, si prepari alla prova". Il vangelo delle tentazioni e tutto l'itinerario quaresimale simboleggia il cammino della vita, che è fatto di prove e di vittorie, di fatiche e di serenità, di peccati e di perdono, della nostra fatica nella fede e della bontà di Dio che sempre ci viene incontro, di chiusura egoistica in noi stessi e di apertura all'amore sincero del prossimo.
Nella quaresima possiamo trovare la verità profonda della vita di Dio e della nostra vita, della nostra debolezza e della nostra salvezza: la quaresima infatti sfocerà nella morte e resurrezione di Gesù, nostro unico salvatore.
Ripercorriamo un po' le tre tentazioni di Cristo:
1) « Se sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pane»; «Non di solo pane vive l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
È la tentazione del materialismo, del consumismo, della illusione della felicità da trovarsi nelle cose materiali. Per i problemi della nostra vita, per i problemi della società e i drammi dell'umanità ci vuole ben altro: valori importanti, il senso della vita, la sapienza del cuore. Basterebbe guardare di che cosa c'è soprattutto bisogno nel cuore dei giovani, nella vita delle nostre famiglie!
2) «Ti darò tutti questi regni se prostrato, mi adorerai». « A Lui solo ti prostrerai e a lui solo adorerai».
È la tentazione dell'orgoglio, del contrapporsi a Dio, del voler vivere senza di Lui, illudendoci di essere noi stessi i padroni della nostra vita. Basterebbe pensare quanto poco facciamo riferimento a Dio nella nostra giornata o lo sentiamo poco importante nella nostra vita. Addirittura possiamo pensare che Lui ci voglia togliere la gioia, la possibilità di vivere e agire come ci piace. Ma Dio non è il concorrente dell'uomo, è la piena realizzazione dell'uomo!
3) «Buttati giù, sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te». «Non tentare il Signore Dio tuo!»
Il maligno propone a Cristo l'uso spettacolare del miracolo. Questa tentazione ritornerà più volte nella vita di Gesù, quando gli chiedono un segno, quando è davanti a Erode e fin sulla croce: «Se sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce».
È la tentazione della vita facile, anziché ricordare che la strada è erta e scoscesa; del fuggire dalla propria fatica, anziché credere al valore grande del sacrificio e del dono di sé; dell'imporsi, anziché farsi servi e fratelli degli uomini. Se Cristo avesse rifiutato la croce, non avrebbe salvato il mondo, secondo la vera sapienza di Dio.
Il mondo sperimenta anche oggi molto spesso queste tentazioni e si lascia andare a tanti mali.
Si tratta di fare nostra la preghiera: «Non ci indurre in tentazione»: cioè non permettere che cadiamo in quelle tentazioni che sono il nostro male.
Si tratta ancora di attuare quel digiuno quaresimale che i primi cristiani chiamavano "digiunare dal mondo". Esso consiste nel non conformarsi alla mentalità del mondo, nell'astenersi non solo dalle cose peccaminose, ma anche da quelle inutili, superflue che appesantiscono lo spirito e legano l'anima e il corpo alla terra.
Si tratta di aprirsi sempre più ai valori dello spirito, alla presenza operosa del Signore, alle realtà che hanno già il loro valore sulla terra e che dureranno per l'eternità.
Il Signore ci è vicino per darci la forza di vincere le tentazioni e camminare alla sua presenza con amore e con il cuore solidale verso i fratelli.

venerdì 12 febbraio 2010

14 Febbraio 2010 - VI Domenica del Tempo Ordinario

Gesù ha scelto e chiamato per nome i suoi dodici apostoli. Mentre discende con loro dal monte, viene circondato da una grande folla, tra cui molti malati. Appena essi riescono a toccare Gesù, una forza misteriosa li guarisce. La folla è piena di ammirazione per Gesù: se egli guarisce con tanta facilità i malati, vuoi dire che Dio è con lui. E attende che parli, perché ognuno porta nel cuore delle sofferenze che non sono fisiche, e che solo la parola di un grande profeta di Dio può guarire. Attende che Gesù indichi la strada della felicità tra le tante miserie della vita.
E Gesù inizia a parlare. Fa un discorso che noi leggeremo per tre domeniche consecutive. Rovesciando la comune maniera di pensare (che vede nelle ricchezze la fonte della felicità), Gesù inizia le sue parole proclamando beati (noi diremmo oggi fortunati) i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati perché cercano di vivere nell'onestà. Beati, fortunati perché? Perché possiedono le caratteristiche per entrare in possesso del regno di Dio. Gesù sa che i poveri, quelli che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati, conoscono la fragilità della vita, confidano in Dio più che in se stessi, sentono il bisogno di essere salvati dal peccato, dalla morte, sono disposti ad aiutarsi a vicenda, e aspettano l'aiuto e la salvezza di Dio. Sono quindi nella condizione giusta, nella corretta apertura a Dio per accettare il suo regno. La Scrittura presenta la beatitudine nell'ascolto e nella scelta di camminare nella legge di Dio. La beatitudine sta nella vicinanza a Dio.
Tutte le beatitudini presentate dall'evangelista Luca si condensano in realtà nella prima che innalza i poveri. La povertà di cui parla Gesù è la scelta per il Regno, la decisione di
porsi dietro i passi di Gesù con un cuore disponibile a lasciarsi rinnovare da Dio.
Poi Gesù pronuncia quattro severi «guai»: contro i ricchi, quelli che sono sazi, quelli che ridono e sono contenti di come vanno le cose del mondo, quelli che vengono lodati e approvati da tutti. Essi infatti non sentono il bisogno di Dio, non attendono né sperano nulla da lui: non avvertono la necessità che Dio li aiuti e li salvi. Non entreranno quindi nel regno di Dio, ma rimarranno chiusi nel loro egoismo. Gesù li considera dei falliti in questa vita, perché non sentiranno mai la gioia di essere figli di Dio, di vivere come fratelli, di sacrificarsi per gli altri. Le parole di Gesù rovesciano la mentalità corrente, quella che stima beati i ricchi e i potenti. E' la nuova mentalità dei cristiani, che farà di loro il popolo nuovo della Terra: un popolo attento agli umili, ai miseri, agli emarginati; un popolo che vede Gesù nei sofferenti, e spezza con loro il pane.
«La beatitudine promessa da Gesù - dice il Catechismo della Chiesa Cattolica - ci insegna che la vera felicità non si trova nelle ricchezze o nel benessere... ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore. Ci invita a purificare il cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio sopra di tutto. [Purtroppo però] alla ricchezza tutta la massa degli uomini tributa un omaggio istintivo. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo» (n. 1723).
Una domanda brucia sulle labbra di chi legge le beatitudini di Gesù: il regno di Dio si realizzerà solo dopo questa vita, nella casa del Padre, o avrà inizio in questo mondo di terra e di sangue?
Leggendo il Vangelo possiamo rispondere che Gesù previde la realizzazione piena del Regno e delle beatitudini nella casa del Padre; ma affidò anche ai cristiani e alle persone di buona volontà l'inizio della loro realizzazione in questa vita, per dare speranza al mondo, per dare gioia a chi è afflitto e nutrimento a chi soffre la fame.
L'Abbé Pierre, una lucida coscienza cristiana del nostro tempo, ha dichiarato: «Questa società, la società occidentale almeno, è satanizzata dal consumismo e dall'idolatria del denaro. E una società condannata. Lo scandalo della disuguaglianza emerge in tutta la sua crudezza da una parte all'altra del pianeta.
Il rimedio? E' ritrovare lo spirito delle beatitudini, ancorarsi ai valori che esse proclamano, ispirare ad esse i nostri comportamenti. Ecco, io direi che le beatitudini bisogna farle diventare la nostra guida morale. Il regno di Dio è qui in terra, basta cercarlo».
Si tratta di accogliere con fede le parole di Dio e di assaporare la verità profonda che esse contengono. "Maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nelle cose materiali il suo sostegno e allontana dal Signore il suo cuore... Benedetto l'uomo che confida nel Signore... egli è come un albero piantato lungo l'acqua, non teme pericoli, non smette di produrre frutti" (Geremia). "Beato l'uomo che pone la speranza nel Signore... la via degli empi andrà in rovina" (Salmo 1).
Gesù dice nel vangelo: "Beati voi poveri, perché vostro è il regno... Rallegratevi perché la vostra ricompensa è grande nei cieli".
La Madonna a Lourdes ha scelto una ragazza povera, le ha chiesto di pregare e di sacrificarsi per la conversione dei peccatori e le ha detto: "Non ti prometto di farti felice in questa vita, ma nell'altra". È quello che conta!

giovedì 4 febbraio 2010

7 Febbraio 2010 - V Domenica del Tempo Ordinario

Nello scenario grandioso del tempio di Gerusalemme, Isaia riceve la rivelazione della grandezza di Dio e accetta l'invito a diventare suo profeta. Pur nel riconoscimento del suo peccato, egli è sollecito nella risposta a Dio.
L'evangelista Luca narra la chiamata dei primi apostoli da parte di Gesù.
Sul lago egli aveva predicato dalla barca di Pietro poi aveva operato il miracolo della pesca prodigiosa. I quattro pescatori rimasero stupiti davanti alla sua manifestazione di potenza e Gesù li chiamò a seguirlo per diventare "pescatori di uomini", partecipi dell'azione di salvezza nel mondo.
Le letture di oggi parlano di vocazione, ma in verità tutta la bibbia è libro di vocazioni, perché ogni vita umana è una vocazione.
Siamo chiamati oggi a meditare sul mistero della chiamata di Dio. Noi sappiamo che ogni vita è vocazione e che ad ogni vocazione è legata una particolare missione da compiere. Fin dall'inizio della storia della salvezza Dio ha chiesto agli uomini la loro collaborazione per realizzare il suo progetto di salvezza a beneficio dell'umanità. Nell'Antico Testamento sono stati chiamati i patriarchi e i profeti, nel Nuovo testamento lo stesso Gesù e gli apostoli.
Ma Dio continua ancora oggi a chiamare uomini e donne perché collaborino alla costruzione del suo regno nel mondo e facciano conoscere a tutte le genti che sono sulla faccia della terra il suo messaggio di amore e di pace.
Dalle letture emerge la chiamata divina innanzitutto come un manifestarsi di Dio all'uomo. Prima di inviare, di affidare una missione, Dio si fa conoscere nella sua grandezza e bontà. L'uomo è posto davanti alla verità di Dio che illumina e gli fa comprendere la sua verità di creatura debole, fragile, limitata, peccatrice. Eppure è proprio dell'uomo che Dio si serve per diffondere il messaggio di salvezza. Questa è la dimensione missionaria iscritta nella natura stessa della Chiesa, mandata nel mondo ad annunciare ciò che per prima sperimenta e che è dono gratuito ed inesauribile del Padre. È un impegno che quotidianamente si scontra anche con le nostre "labbra impure", con la limitatezza del nostro dire che può deformare o inquinare la limpidezza della Parola di Dio, con il dramma di sconfessare con fatti e scelte concrete, ciò che professiamo a parole o, perfino (come è accaduto anche all'apostolo Paolo), di ostacolare il piano divino... E' interessante notale le esperienze, le sensazioni, la paura per la consapevolezza della propria indegnità e infine la risposta generosa sia di Isaia, sia di Pietro e degli apostoli. Isaia, davanti alla manifestazione di Dio sente tutto il suo peccato e il peccato del suo popolo, ma si apre alla fiducia: "Eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore delle schiere celesti". Si lascia purificare e Dio gli dà questa certezza: "E' scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato". E alla voce del Signore che chiede: "Chi manderò, chi andrà per me", Isaia risponde con una generosità unica: "Ecco, manda me!"
Così Pietro: nel racconto del vangelo Gesù dice a Pietro: "prendi il largo e cala le reti..." Maestro abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso niente. Ma sulla tua parola getterò le reti". Nella fede Gesù compie per Pietro e i suoi compagni il miracolo della pesca abbondante. Pietro, davanti a Gesù, riconosce tutta la sua debolezza e i suoi peccati: "Allontanati da me che sono un peccatore." Ma Gesù lo chiama con una vocazione grande: "Non temere, d'ora in poi sari pescatore di uomini". E viene sottolineata ancora la generosità della risposta: "Lasciarono tutto e lo seguirono", perché avevano trovato Gesù e Gesù è tutto e fa loro la grazia di renderli partecipi e continuatori della sua missione.
Questa liturgia ci porta a pensare alla grande vocazione dei consacrati, i sacerdoti, le suore, i religiosi, i missionari: preghiamo intensamente per la loro fedeltà, la perseveranza, la loro santificazione e vogliamo pregare intensamente, come Gesù ci raccomanda, per chiedere sempre nuove vocazioni generose e gioiose.
Poi ciascuno di noi deve pensare come vive la propria vocazione, nella famiglia, nel lavoro o nello studio, nella sofferenza, nelle varie situazioni in cui si trova.
Tutti possiamo vivere la vita come vocazione; vocazione a continuare l'opera e la missione di Gesù, con la generosità del cuore: "Ecco, manda me!".

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giovedì 28 gennaio 2010

31 gennaio 2010 - IV Domenica del Tempo Ordinario

La sorgente dell'ethos cristiano è Gesù Cristo. È' Lui il compimento delle Scritture e da Lui Parola, logos, scaturisce per l'umanità il senso, la ragione di tutte le cose, quell'etica che è da scoprire come sapienza al fondo di ogni scienza perché non si rivolti contro l'uomo, al di dentro di ogni scelta per non cadere sull'istinto bestiale, al termine di ogni percorso perché il potere, la sopraffazione non diventi il movimento, la finalità dell'agire umano.
Eppure, il risalire a questa sorgente, Cristo, non è agevole, oggi come ieri. Ce lo dice la pagina del Vangelo. Nonostante che al di fuori di Cristo l'uomo cada nel pessimismo o nell'esaltazione della ragione, il tentativo di ridurre Cristo alle nostre piccole attese anziché aprirsi ai suoi orizzonti; esigere la "ragione" di quanto dice o fa', sulla sua provenienza o sulla strada scelta per salvare, anziché renderci conto come quanto ci sia necessario; il tentativo di cacciarlo fuori dalla religione, dalla politica, dall'istituzione, dalla sofferenza: "gettarlo giù dal precipizio", anziché accoglierlo come ragion d'essere di tutto quello che siamo e facciamo, 'etica', ragione, ragione necessaria, risposta al nostro essere domanda... è fin dall'inizio.
E' la condizione posta nell'intimo del nostro essere uomini di essere salvati o di condannarci, a partire dalla nostra stessa libertà di accogliere o rifiutare la nostra stessa salvezza, aprirci a Cristo riconoscendo che in vista di Lui siamo stati creati e nulla di ciò che esiste è stato fatto senza di Lui o assolutizzare il nostro ristretto ragionare alla ragione del tutto. "Ma Egli passando in mezzo a loro se ne andò". E' il rischio odierno: che Cristo passi in mezzo alle scelte dell'esser giovani, alle fatiche del rinnovare la famiglia, di equilibrare giustizia e costruzione sociale, in mezzo alle scienze per rivelarsi sapienza...E sia destinato ad andarsene.
Essere cristiani è essere in mezzo alla società, alla cultura avvertimento alla ragione umana di difenderne l'importanza e tenendola distante dalla presunzione di essere sufficiente a se stessa. "Ora, dice Paolo, vediamo come in uno specchio" che non è dunque la verità, ma rimanda continuamente alla necessità di aprirsi alla verità, alla realtà, al 'faccia a faccia' con il Logos, ragione di ogni cosa.
Ancora. Accettare, come cristiani, questo compito comporta ad ogni livello, a prescindere dall'istruzione, dalle mode o imposizioni del sapere, dai valori delle priorità, di essere forti,di non aver paura dell'andar contro corrente, di sentirsi "fortezza", muro di bronzo, se è necessario, contro quei “poteri” che non servono il bene comune, ma badano soltanto a loro stessi; comporta talvolta di essere in minoranza, in solitudine, perché la verità non va a "maggioranza".
"Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti".
E salvare anche coloro che ci giudicano come nemici della ragione, del buon senso!

giovedì 21 gennaio 2010

24 gennaio 2010 - III Domenica del Tempo Ordinario

Il Vangelo di Luca è forse quello che più consapevolmente intraprende il suo progetto; sicuramente è quello che più apertamente lo dichiara al lettore. Lo scopo del Vangelo è "scrivere un resoconto ordinato", perché ci si possa "rendere conto della solidità degli insegnamenti ricevuti". E mentre rileggiamo il prologo, viene spontanea una riflessione sul modo in cui Gesù si rivela a noi.
Certamente, si è rivelato in forma visibile, tanto che alcuni ne divengono "testimoni" (il termine greco è più preciso: "testimoni oculari", coloro che hanno visto di persona. Ma questa forma di rivelazione è per noi oggi inaccessibile: non possiamo più "vederlo", come lo hanno visto gli apostoli. Gesù oggi si fa presente in forma indiretta, appunto attraverso la "testimonianza" di coloro che hanno visto, e divengono "ministri della parola". La parola sostituisce l'esperienza diretta di Gesù che parla, che opera miracoli, che muore e che risorge. Ma anche questa realtà è per noi oggi inaccessibile: non possiamo ascoltare la viva voce di chi è vissuto con Gesù. Tuttavia le loro parole sono state scritte: Luca asserisce che "molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi". Potremmo chiederci quanti fossero questi "molti". Gli studiosi discutono di quanti "vangeli" o fonti similari esistessero agli inizi del cristianesimo. Qualcuno cerca di ritrovare o ricostruire i primissimi documenti, che dovrebbero essere addirittura precedenti ai quattro vangeli. La ricerca è difficile, e non ha dato i risultati sperati. Non sappiamo quali ricerche abbia fatto Luca, né quali documenti avesse per mano: in mano a noi resta solo il suo Vangelo.
Gesù si rivela dunque a noi attraverso un libro. E qui il dubbio ci assale: non è troppo poco? Certamente, il libro da solo non basta: il libro viene letto nella Chiesa, nella comunità di coloro che si dicono discepoli di Gesù, e viene spiegato da preti e vescovi che si dicono eredi della testimonianza degli apostoli. Ma anche qui sorge un dubbio: non è troppo poco?
E d'altra parte, la testimonianza non si limita a trasmettere un libro, una serie di dogmi, a spiegare una serie di buoni comportamenti: ma dice che quel Gesù è vivo, è presente nella sua Chiesa, si lascia incontrare da coloro che lo cercano. La vita dei santi mostra come può essere l'uomo trasformato dall'incontro con Gesù. Vediamo dunque una serie di passaggi, che da Gesù arriva fino a noi (la sua vita, i testimoni, il libro, la Chiesa) e una serie di passaggi che da noi arriva a Gesù (la Chiesa, il libro, la testimonianza e l'esperienza della sua persona). Quello che ci viene chiesto è fidarci di questa catena di trasmissione. E sorge a volte il dubbio: non è troppo poco? troppo difficile la nostra fede?
Luca conosce bene questa difficoltà: era la difficoltà anche dei suoi lettori, che non avevano conosciuto Gesù di persona, ma attraverso un insegnamento. Anche per noi si ripropone il problema: non abbiamo visto Gesù, ma ci è stato insegnato. L'unica differenza è il tempo che separa l'ascoltatore dall'evento: tra la Risurrezione e Teofilo passa qualche decennio; per noi sono secoli. Per questo l'evangelista pone come primo episodio rilevante del ministero di Gesù la predicazione nella sinagoga di Nazareth. Gesù è presentato come maestro, come annunciatore, come profeta. In questo Vangelo Gesù è colui che apre il libro e lo commenta, anzi, colui che lo adempie: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udita con i vostri orecchi". Gesù fa capire - indirettamente - ai suoi compaesani che è lui il consacrato, colui che annuncia il lieto messaggio ai poveri, che proclama la libertà ai prigionieri, la liberazione agli oppressi... E anche per i nazaretani si ripropone il problema: non è troppo poco?
Come si può credere in costui? Non c'è differenza - quanto a difficoltà di credere - tra noi uomini del duemila, e i Nazaretani, che parlavano faccia a faccia con Gesù. E la sfida a noi lanciata dal Vangelo di Luca, che leggeremo in quest'anno giubilare della Diocesi, sarà proprio quella di "consoilidare" la nostra fede, renderci conto che quello di cui disponiamo, e che sembra troppo poco, è sufficiente per credere, per guidare la nostra vita, per spenderla e donarla totalmente.

venerdì 15 gennaio 2010

17 gennaio 2010 - II Domenica del Tempo Ordinario

In ogni tempo e in ogni luogo la celebrazione delle nozze è fonte di gioia. Gioia, per coloro che pubblicamente chiedono la benedizione di Dio sul loro amore; gioia, per i parenti e per gli amici che vedono realizzarsi i sogni dei loro congiunti; ma gioia anche per i semplici conoscenti, che avvertono tutto il fascino di una nuova famiglia che con tante speranze prende il suo avvio. Per questo, in tale occasione, ognuno si sente sollecitato a prestare la massima cura a che non accadano imprevisti e che nulla possa disturbare la gioia di quel giorno tanto atteso e finalmente giunto. Chi di noi, infatti, non conosce quanti preparativi, quante attenzioni, quante premure richieda la celebrazione di un matrimonio? Molte ansie, molte premure e accorgimenti sorgono perché la gioia delle nozze sia davvero unica e speciale.
Proprio a un tale tipo di gioia vera, autentica e unica legata alla celebrazione dell'amore sponsale ci invita a pensare il vangelo di oggi: una gioia per poco minacciata dal fatto che il vino si era esaurito e che invece grazie all'attenzione di Maria viene salvata. È Maria infatti che sollecita Gesù a compiere il primo miracolo - a trasformare l'acqua in vino - scongiurando così un infelice epilogo della festa nuziale, cui loro insieme ai discepoli erano stati invitati.
Siamo a Cana, durante una celebrazione di nozze e la presenza provvidenziale di Maria e di Gesù scongiura, come già accennato, una precoce e penosa conclusione della festa e della gioia. Maria chiede con forza, infatti, a Gesù di porre rimedio all'imprevista mancanza del vino. In tal modo, sottolinea l'evangelista, Gesù "diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestando la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui".
I miracoli servono, quindi, la fede: sono cioè segni davvero straordinari che accompagnano la predicazione della lieta novella e sono finalizzati a suscitare in coloro che ne beneficiano o che vi assistono la fede in Gesù. Nel miracolo compiuto a Cana, non è certamente difficile leggere un atto di vera accondiscendenza da parte di Gesù verso gli sposi, che sarà subito interpretato come segno inequivocabile della benedizione che sull'amore umano scende dal cuore di Dio. L'amore umano tra l'uomo e la donna è quindi una buona strada per vivere il vangelo, cioè per incamminarsi sul percorso della santità.
Bisogna però riconoscere che il miracolo di Cana non riguarda solo coloro che tra di noi sono sposati. Ogni uomo e ogni donna è chiamato a incontrare il Signore come Sposo della sua esistenza. La connotazione sponsale dell'esistenza cristiana dovrebbe sempre di più entrare nella coscienza credente comune, e con essa anche il tema della gioia. Il cristianesimo è, in verità, un'esperienza di incontro gioioso con il Signore, di quella gioia che brilla sul volto degli sposi nel giorno in cui celebrano il dono del loro reciproco amore.
Spesso però può sembrare che il Cristianesimo evochi ben altro che la gioia nella testa e nei cuori dei nostri contemporanei. Altro che gioia! La Chiesa – e in molti purtroppo la pensano così - vuole tarpare le ali ai nostri desideri, vuole spezzare le gambe alla nostra ricerca di felicità e di gioia. Per questo in tanti si mantengono a distanza di sicurezza dalla Chiesa, dalle sue celebrazioni e da coloro che la rappresentano. Quanta tristezza provoca in noi constatare tutto ciò, dopo duemila anni di annuncio della lieta novella. Proprio a Cana, siamo invece invitati a scoprire che Gesù non si presenta a noi come un padrone che viene a chiedere conto del nostro operato né come un comandante che ci impone di seguire ciecamente gli ordini ricevuti. Si manifesta come Sposo dell'umanità: come colui che risponde alle attese e alle promesse di gioia che abitano nel cuore di ognuno di noi.
E allora non possiamo non chiederci se davvero, almeno noi che ci professiamo suoi discepoli, conosciamo il Signore sotto questa luce, se almeno noi gli stiamo rispondendo sulla lunghezza d'onda di quell'amore sponsale che egli dichiara per ogni uomo, se insomma ci siamo accorti che da lui siamo cercati e invitati a fargli spazio nell'intimo del nostro cuore.
E per nostra fortuna non siamo lasciati da soli in questo cammino.
Abbiamo con noi il dono della Sacra Scrittura. Le giare di pietra ricolme di quell'acqua che Gesù trasforma miracolosamente in vino sono segno dell’antica e nuova rivelazione: l'acqua buona dell'Antico Testamento in Gesù viene compiuta, trasformata (non sostituita!), nel vino della Nuova Alleanza. C'è, dunque, da aspettarsi che solo da un costante incontro con la parola di Dio il nostro cuore possa convertirsi decisamente al riconoscimento della verità profonda del nostro essere cristiani. Meditando con attenzione sulle pagine sante che in molti modi ci rendono presente la passione divina per l'uomo, potremo sempre di più innamorarci del Signore Gesù, nostro sposo e andargli incontro con le lampade accese della nostra fede gioiosa, divenendo così suoi convincenti testimoni dinanzi agli uomini e alle donne del nostro tempo.

lunedì 4 gennaio 2010

10 Gennaio 2010 - Battesimo del Signore

Dio è nato: accessibile, incontrabile, diverso, immensamente diverso dalla brutta immagine che ne abbiamo, questo Dio totalmente altro diventa bambino, neonato. Stanco di essere incompreso e non cercato, Dio diventa uomo perché l'uomo diventi come Dio. Lui è nato, e io?
Sì, per carità, vivo, respiro, cresco. Come fanno gli arbusti. Ma sono nato? Nato alla verità, nato alla visione diversa delle cose, al sorriso di Dio che quest'anno sono invitato a scoprire, nato all'amore?
Esiste un modo concreto di nascere: diventare discepoli del Maestro Gesù. Rinascere nel sacramento del Battesimo, segno di conversione e di vita nuova, traboccante presenza che ci viene innestata, presenza di Dio che ci abita. Tutto ciò è accaduto il lontano giorno del nostro Battesimo in cui siamo stati creati discepoli, rinati a vita nuova.
Lo so, avete ragione: non ve ne siete accorti. Forse perché – ahimé – quel gesto è divenuto doverosa prassi, moderno rito di iniziazione, abitudine; il mio e il vostro battesimo resta sepolto nei fragili ricordi dell'infanzia. Ma è accaduto, comunque, e forse possiamo riscoprirlo, rispolverarlo, farlo scatenare in noi.
Riscoprire il proprio battesimo significa riappropriarci del cammino di discepolato, passare da una visione della fede stanca e rassegnata, ad una avventura entusiasmante che può – davvero! – cambiare la nostra vita. Vi propongo, allora, di rinascere a due atteggiamenti che derivano dal battesimo.
Giovanni dice che Gesù battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Fuoco, amici, fuoco. Gesù è fuoco, la sua parola ci divora, ci inquieta, ci converte. Fuoco, amici, non tiepidezza. Come siamo frastornati quando ci innamoriamo, così accade – e di più e meglio - quando incontriamo la verità dello sguardo di Cristo. Fuoco che illumina, riscalda, consuma, incendia. Fuoco, non tiepida adesione ad un progetto intellettuale. Se non bruciate dentro al pensiero del Maestro, dobbiamo compiere ancora un bel cammino.
Il secondo atteggiamento di rinascita parte dalla frase espressa dal Padre nei riguardi del figlio in preghiera: "Tu sei il mio figlio bene-amato, in te mi sono compiaciuto"
Tutti noi veniamo educati a meritarci di essere amati, a compiere delle cose che ci rendono meritevoli dell'affetto altrui; sin da piccoli siamo educati ad essere buoni alunni, buoni figli, buoni fidanzati, buoni sposi, buoni genitori, bravo parroco... il mondo premia le persone che riescono, capaci e – dentro di noi – s'insinua l'idea che Dio mi ama, certo, ma a certe condizioni. Tutta la nostra vita è l'elemosina di un apprezzamento, di un riconoscimento.
Anzi, se una persona mi contraddice, mi accusa, reagisco ma in fondo penso che abbia ragione, dico: "devi arrenderti all'evidenza, tu non vali". La reazione spontanea – lontani da Dio – è allora di difesa e aggressività o di eccessiva superficialità, mi omologo, do il massimo, passo la mia vita ad inseguire l'idea di me che gli altri mi restituiscono. Invece Dio mi dice che io sono amato bene, dall'inizio, prima di agire: Dio non mi ama perché buono ma – amandomi – mi rende buono. Dio si compiace di me perché vede il capolavoro che sono, l'opera d'arte che posso diventare, la dignità di cui egli mi ha rivestito. Allora, ma solo allora, potrò guardare al percorso da fare per diventare opera d'arte, alle fatiche che mi frenano, alle fragilità che devo superare. Il cristianesimo è tutto qui, Dio mi ama per ciò che sono, Dio mi svela in profondità ciò che sono: bene-amato. È difficile amare "bene", l'amore è grandioso e ambiguo, può costruire e distruggere, non si tratta di adorare qualcuno, ma di amarlo "bene", renderlo autonomo, adulto, vero, consapevole. Così Dio fa con me.
Questa consapevolezza, del fuoco che illumina e dello scoprirmi bene-amato, è possibile solo attraverso la preghiera; una preghiera quotidiana, autentica, fatta di silenzio e di ascolto della parola del Maestro Gesù così come ci insegna il Rabbì, assorto nella preghiera dopo il suo battesimo.
Coraggio, fratelli, amici, è tempo di rinascere.

6 Gennaio 2010 - Epifania del Signore

Il passo del vangelo dell'Epifania è quello notissimo dei magi, i misteriosi sapienti che dal lontano oriente si recano in visita al neonato bambino Gesù, lo cercano invano presso il re Erode e, una volta trovatolo, gli offrono ricchi quanto simbolici doni: un episodio che si presta a fascinose rappresentazioni e a interrogativi senza fine (da dove venivano? chi e quanti erano? come si chiamavano? perché hanno portato in dono proprio oro, incenso e mirra? a guidarli fu una stella o una cometa? e semmai, quale? eccetera).
Tante domande, che non avranno mai risposta certa e servono soltanto a distogliere l'attenzione dall'autentico significato della festa. Diciamo subito, allora, che quella di oggi non è "la festa dei re magi": l'episodio serve soltanto a esemplificare il significato del termine Epifania, cioè "manifestazione"; dopo aver celebrato con il Natale il fatto della nascita di Gesù, la festa di oggi invita a riflettere sul perché. Perché il Figlio di Dio si è fatto uomo? Non per restare nascosto, non per ragioni sue private, ma appunto per manifestarsi, per farsi conoscere, e sin dalla nascita: ancor prima dei magi sono invitati a visitarlo i pastori di Betlemme.
I pastori e i magi: vale a dire, gli ebrei e i non ebrei, i poveri e i ricchi, i socialmente irrilevanti e i dotti ricevuti a corte; insomma tutti, perché per tutti il Figlio di Dio si è incarnato, e tutti invita a conoscerlo e riconoscerlo e così fruire dell'opera che è venuto a compiere. Allo scopo, non solo la nascita ma l'intera vita terrena di Gesù è la sua epifania: qui sta la ragione prima dei suoi insegnamenti, delle sue tante guarigioni fisiche e spirituali, e infine della sua risurrezione.
Dio si fa uomo per mettersi al nostro livello, per rivolgersi a noi con parole e comportamenti da noi comprensibili. Per dirla con le parole stesse della Bibbia, "Molte volte e in molti modi Dio aveva parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti, e infine ha parlato a noi per mezzo del Figlio": questi è l'apice della rivelazione di Dio, la sua piena epifania, la parola ultima dopo la quale non ce ne saranno di nuove, almeno sino a quando gli uomini giungeranno a Lui e potranno contemplarlo "faccia a faccia".
Si capisce allora l'importanza della festa di oggi. Essa richiama l'attenzione sull'indicibile magnanimità di Dio: l'Eterno, l'Infinito, l'Onnipotente, il Creatore e Signore dell'universo, Lui che non ha bisogno di niente e di nessuno, ha voluto entrare in contatto con le povere misere indegne creature quali noi siamo. Lo ha fatto per il nostro bene, come espressione del suo amore senza limiti; ma se l'ha fatto, significa anche un'altra cosa: che ci ha voluto in grado di dialogare con Lui. Ecco perché ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza: l'ha dotato, unica tra tutte le creature terrene, di intelligenza e di libertà, anzitutto proprio perché possa dialogare con Lui.
Con la propria intelligenza l'uomo sa lanciarsi in meravigliose avventure: esplora l'universo, inventa macchine e medicine, dà forma a bellezza e poesia. Ma può trovare avventura più esaltante del ricercare Colui che l'intelligenza gliel'ha data? E, meraviglia delle meraviglie, tale suprema avventura non è riservata a pochi temerari o mentalmente superdotati: Dio appaga chiunque lo ricerchi. Si può andar per mare su una barchetta come su un transatlantico; secondo il mezzo, si potrà giungere in America o sull'isolotto di fronte alla costa: in ogni caso, comune sarà l'ebbrezza del navigare. L'importante è decidersi a partire.