domenica 18 luglio 2010

25 Luglio 2010 - XVII Domenica del Tempo Ordinario

Come Maria di Betania possiamo fare l'esperienza splendida di sederci e metterci in ascolto del Maestro che parla. Il cuore, allora, scopre di sé una nuova dimensione, fino ad allora sconosciuta, un percorso che – stupore! – lo mette in contatto con Dio.
Niente "vocine" o autosuggestioni, credetemi, solo la scoperta dell'oceano su cui passeggiamo senza saperlo.
La dimensione dell'interiorità, del silenzio, della scoperta di Dio passa attraverso l'esperienza della preghiera, una delle esperienze universali dell'umanità.
Ma, ahimè, il cuore dell'uomo tende a possedere, a manipolare, a schematizzare e anche la splendida esperienza della preghiera rischia di essere svilita e sbiadita, ridotta a noiosa ripetizione, a dovere da assolvere, a estremo ricorso in caso di difficoltà.
La Parola di Dio di oggi ci aiuta a capire cos'è la preghiera secondo Dio.
Prima di tutto la preghiera è amicizia. La pagina della Genesi di oggi è un capolavoro che ci svela il volto di Dio: Sodoma e Gomorra sono due città violente e depravate e Dio decide di distruggerle, abbandonandole al proprio destino. Dio è dubbioso: ormai il rapporto di amicizia con Abramo si è consolidato e decide di parlargli del proprio progetto. Abramo ha un tuffo nel cuore: a Sodoma abita Lot, suo nipote, e inizia una serrata contrattazione. Alla fine la spunta Abramo: se Dio troverà a Sodoma anche solo cinque giusti salverà l'intera città. Importanza della preghiera amichevole! La preghiera è infatti un colloquio intimo, uno scambio di opinioni, una reciproca intesa. Non una lista della spesa, non un tentativo di corruzione, non una litania portafortuna.
Noi concepiamo la preghiera come una serie di formule bene auguranti, ma la preghiera è fatta anzitutto di ascolto, l'ascolto di Dio, e di intercessione, intercessione per il mondo, non per i miei bisogni.
La preghiera è fiducia. Gesù ci svela il volto del Padre: è a lui che rivolgiamo la preghiera. Non a un despota capriccioso, non a un potente da convincere. Siamo diventati figli, ci ha detto san Paolo, Dio ci tratta come tratta il suo figlio beneamato. Un buon Padre sa di cosa ha bisogno il proprio figlio, non lo lascia penare. Molte delle nostre preghiere restano inascoltate perché sbagliano indirizzo del destinatario: non si rivolgono a un padre ma a un patrigno o a un antipatico tutore a cui chiedere qualcosa che, pensiamo, in realtà ci è dovuto.
La splendida e unica preghiera che Gesù ci ha lasciato dovrebbe essere la preghiera sempre presente sulle nostre labbra, a cui attingere; preghiera piena di buon senso e di concretezza, di affetto e di gioia, di fiducia e di realismo, ci permette di rimettere al centro la nostra giornata.
La preghiera deve inoltre essere costante.
Come la vedova della parabola il Signore ci invita ad insistere. Gesù non entra nel merito: forse la questione sollevata dalla vedova è un litigio tra vicini e il giudice ha ben altro di cui occuparsi. Eppure, alla fine, cede. Gesù è sicuro di ciò che dice: se chiediamo otteniamo, se ci affidiamo siamo accolti in un caldo abbraccio dal Padre.
Ma, cari fratelli, è a un Padre che ci rivolgiamo con costanza?
Leggendo questa pagina del vangelo mi viene da sorridere: nella mia vita ho pregato molto, ma mi lamento di non essere mai stato esaudito. Perché?
Già sant'Agostino si poneva questa domanda e rispondeva mirabilmente: non sei esaudito perché chiedi male, senza l'insistenza dell'amico importuno, perché ciò che chiedi non è il tuo vero bene (ora, guardandomi indietro, vedendo i problemi sotto una luce completamente diversa, devo dargli ragione!), perché Dio aspetta ad esaudirti per lasciare crescere in te il desiderio di ciò che chiedi.
E allora mi correggo: con la mia preghiera non ho mai ottenuto ciò che chiedevo, ma sempre ciò che desideravo profondamente. Per questo dobbiamo imparare a pregare.
Si, perché la preghiera prima di tutto ha bisogno di noi: così come siamo, devoti o atei, santi o peccatori. Ma deve essere un "noi" vero, autentico, non finto, di facciata. La preghiera ha bisogno anche di un tempo: cinque minuti – tanto per cominciare – tempo in cui, spegnendo il cellulare e isolandoci, riusciamo forse a non essere proprio storditi o distratti. La preghiera ha bisogno anche di un luogo: l’autobus, la metro, vanno bene al pari della nostra stanza o della strada percorsa in solitario nella pausa pranzo. La preghiera ha bisogno di una parola da dire: le persone che incontriamo, le cose che ci angustiano, un "grazie" detto a Dio. La preghiera ha bisogno, quando possibile, di una parola da ascoltare: meglio se il Vangelo del giorno, da leggere con calma e assaporare, perché la preghiera ha bisogno di una Parola da vivere: e quando riprenderemo la nostra attività, dopo questa breve parentesi, ci accorgeremo che qualcosa è cambiato.
Venga lo Spirito promesso dal Signore, fratelli e sorelle; lo Spirito che ci permette di vedere con uno sguardo diverso anche le cose che ci sembrano indispensabili alla nostra felicità, capendo, infine, che ciò che riteniamo un ostacolo insuperabile non è poi così importante risolverlo e – forse – non è neppure un ostacolo. Perché, nella preghiera, scopriremo che nulla ci può impedire di dire con verità: “Padre”. Amen.

martedì 13 luglio 2010

18 Luglio 2010 - XVI Domenica del Tempo Ordinario

È facile immaginare la scena: Gesù, verso la fine del pomeriggio, quando il caldo di Gerusalemme cede il passo al vento, scendeva la valle del Cedron e risaliva il monte degli Ulivi, per superarlo e raggiungere il piccolo villaggio di Betania.
Chissà quando aveva conosciuto le sorelle e Lazzaro, forse suoi coetanei...
Per Gesù Betania rappresentava una pausa di normalità, una sosta, un refrigerio. Lasciati indietro anche gli apostoli, forse Gesù ritrovava in quella casa di campagna gli odori e le luci della sua piccola Nazareth.
Forse a Betania, davanti ad una focaccia cotta, Gesù dimenticava la tensione che provava nella Gerusalemme che uccide i profeti, abbandonava il dolore sordo che gli stava crescendo nel cuore vedendo la sua missione duramente contrastata.
A Betania Gesù poteva parlare liberamente, sentirsi accolto, svestiva il ruolo del Rabbì, abbandonava i panni dell'accusato per ritrovare, per qualche momento, il piacere dell'amicizia e della complicità.
Mi commuove alle lacrime vedere Dio intessere una relazione, che chiede ascolto, che ama sedersi con semplicità intorno ad un tavolo e ridere e scherzare.
Se potessimo, di quando in quando, invitare Dio e ascoltarlo, preparare per lui, come Abramo, un buon pasto e dello yogurt fresco! Diventassimo capaci, ogni tanto, di ascoltare Dio e il suo desiderio di salvezza, ascoltare le sue fatiche e il suo dolore nel vedere l'umanità travolta dalla violenza e dal limite, dirgli che può contare su di noi per realizzare quell’altro mondo, quello che ha nel cuore...
Facessimo diventare Betania la nostra vita!
Maria e Marta rappresentano le due dimensioni della vita interiore: la preghiera e l'azione.
Maria ascolta con attenzione le parole del Maestro, le manda a memoria, se ne abbevera. Come molti, ancora oggi, pende dalle labbra del Signore, aspetta che egli parli al suo cuore.
All'origine di ogni fede, il cuore di ogni esperienza religiosa è e resta l'incontro intimo e misterioso con la bellezza di Dio. Dio che solo intravediamo attraverso le fitte nebbie del nostro limite ma di cui, pure, possiamo temporaneamente fare cristallina esperienza. Rimettiamo la preghiera e il silenzio nel cuore della nostra giornata, come sorgente di serenità e di gioia.
Marta realizza la beatitudine dell'accoglienza, la concretezza dell'amore e dell'ospitalità. Anche lei sa che l'ascolto del Maestro è l'origine di ogni incontro, ma sa anche che se questo incontro non cambia la vita, resta sterile e inconcludente.
Marta nutre il Cristo che Maria adora.
Non esiste una preghiera autentica che non sfoci nel servizio.
È sterile una carità che non inizi e non termini nella contemplazione del mistero di Dio.
Restare ancorati a Cristo, ascoltare la sua parola, farlo diventare ospite fisso della nostra vita suscita e produce in noi una profondità che nulla può travolgere.
Marta e Maria, pur restando gravemente turbate dalle morte di Lazzaro loro fratello, sapranno, comunque, rivolgersi ancora, disperatamente, al Rabbì che scioglierà le loro angosce.
Paolo, riflettendo sul dolore che sta caratterizzando la sua vita di apostolo, invece di disperarsi offre il suo dolore a compimento del dolore di Cristo. Nella logica del Vangelo, anche la notte e la sconfitta, se unite a Cristo, Signore della notte e della sconfitta, possono trasformarsi in gesto d'amore.
Siamo ormai nel cuore dell'estate: in ferie – i più fortunati – o nelle città arroventate; lasciamo entrare, fratelli cari, la freschezza dello Spirito accogliendo Cristo, ovunque ci troviamo. Amen.

mercoledì 7 luglio 2010

11 Luglio 2010 - XV Domenica del Tempo Ordinario

È scritta nel cuore la legge di Dio: è la scoperta straordinaria fatta da un popolo di nomadi, fuggiti dalla schiavitù. Un popolo guidato da un liberatore liberato, un ebreo cresciuto alla corte del Faraone che nel deserto scoprì che Dio c'era ed era immensamente diverso dalle divinità ad uso dei sacerdoti e dei potenti della terra d'Egitto. Il Dio dei Padri, il Dio di Mosè si era rivelato: il suo nome era: "Io ci sono". E Dio c’è veramente, non è uno scherzo! E per scoprire il suo vero volto, Dio ha svelato il vero volto degli uomini.
Dio c'è e parla al cuore degli uomini. La sua legge è scritta nel profondo di ciascuno di noi. Il problema è che frequentiamo poco il nostro “dentro”; che evitiamo di avvicinarci al nostro cuore; che fatichiamo a scavare.
Oppure che confondiamo il nostro “dentro” con le nostre capacità intellettuali, con la conoscenza, o con l'esperienza mistica o con chissà cos’altro ancora. Come il dotto dottore della legge che pone al falegname diventato Rabbì una delle tipiche questioni teologico-morali dell'epoca: qual è il primo fra i 613 comandamenti? A tante erano state gonfiate le scarne e asciutte dieci parole che Dio diede a Mosè sul monte nel deserto. Domanda semplice, esigenza reale: saper distinguere il centro dalla periferia, l'essenziale dal relativo. Opera, questa, in cui gli ebrei eccellono e che - ahimè - i cristiani stanno dimenticando a causa della pigrizia mentale e di una sconcertante superficialità mediatica. Gesù sa che il dottore sa. E lo invita, con rispetto e ironia, a far sfoggio della propria cultura. La sua risposta è esatta, forte, essenziale, presa dalla Parola di Dio, conclusione di un lungo dibattito fra i rabbini dell'epoca. Il primo e il secondo tra i comandi sono: ama. Ama Dio come riesci, esplorando l'ampiezza del tuo limite. Amalo pensandolo ed emozionandoti, amalo perché sei amato. E poi scopriti amato per poter amare gli altri, che da avversari divengono fratelli. Bene: risposta splendida, un applauso. Cioè? Il dottore è sconcertato. Sa, e sa di sapere; e Gesù gli conferma il suo sapere. Sa, ma non ama, sa ma non sa che farsene del sapere, non ha sapore il suo sapere. Tentenna, ondeggia, poi replica: chi devo amare? Domanda arguta, ovvio. Molti Rabbì sostengono che bisogna amare il povero, l'orfano e la vedova, pupilla di Dio. O che bisogna amare tutti. Tutti coloro che appartengono al popolo di Israele.
Gesù sorride e si guarda nel cuore, là dove Dio abita. E in lui Dio è. Non è presente, è sé. Il racconto della parabola del samaritano spiazza tutti. Un tale viene rapinato e ferito, l'unico che si occupa di lui è uno straniero, un extracomunitario, uno che non tira diritto. Altri due scendono dalla capitale, bazzicano il Tempio, uno è prete e l'altro un cantore/lettore. Tirano diritto e fanno bene. Che ne sanno chi è quel tale e cosa gli è successo? E se fosse un regolamento fra bande? E se avesse l'Aids? E se i briganti tornassero? Essi hanno Dio nel cuore, sulle labbra, fanno discorsi sensati. Gesù non li biasima, né li condanna: sono figli del loro tempo. E del loro Tempio.
Il prossimo è il samaritano. E Gesù conclude: tu di chi vuoi essere prossimo? A chi vuoi avvicinarti? Soccorsi e samaritani, siamo stati pestati a sangue. Tutti. La vita è così, più o meno faticosa o rigida o dolorosa, ma tutti prima o poi prendiamo qualche bastonata. I cristiani sono coloro che sono stati soccorsi da Cristo, buon samaritano, che ha versato sulle loro piaghe il vino della consolazione e l'olio della speranza e si sono visti portare alla locanda che è la Chiesa. La Chiesa, come canta la comunità di Colossi, segue il buon samaritano e lo imita, lo considera il Capo, cioè la testa, e il principale e cerca di imitarlo.
Animo dunque, fratelli discepoli del Nazareno, convalescenti della vita: se avete sperimentato la tenerezza del Signore e la sua consolazione, siete resi capaci di consolazione, di leggere la legge nel cuore, di passare dalla norma(lità) all'eccezione, dalla testa al cuore. Allora saprete vedere nel volto del fratello il vostro volto, il volto di Cristo. Amen.

lunedì 5 luglio 2010

4 Luglio 2010 - XIV Domenica del Tempo Ordinario

Dio ha un sogno: svelare ad ogni uomo il tesoro nascosto nel campo, far scoprire ad ogni persona la propria dignità, il proprio carisma da mettere a servizio del Regno, manifestarsi ad ognuno come il Dio della misericordia e della consolazione. Dio non vuole salvare il mondo senza di noi, non ci tratta come burattini, vuole, desidera, chiede al nuovo Israele, ai settantadue discepoli protagonisti del Vangelo di oggi, a noi, di diventare suoi discepoli, narratori di Dio. Il Signore ci chiede di costruire la Chiesa senza fanatismi, senza scorciatoie o nostalgie, cercando una piena e matura umanità.
Dovrebbe essere una cosa chiara per tutti, ma così non è.
Quando si parla di "Chiesa", spontaneamente la stragrande maggioranza di noi pensa al proprio parroco, o al Papa, o ai Vescovi o più in generale ai preti. Questa distinzione tra cristiani di prima (il clero) e cristiani di seconda classe (i fedeli) è durissima a morire e non è bastato un Concilio per farci entrare nella corretta prospettiva biblica: ogni discepolo fa parte della Chiesa, e ad ognuno è affidato il Vangelo da vivere e da annunciare, secondo il proprio carisma e il proprio ministero.
La Chiesa è unica, e nell'unica Chiesa ci sono fratelli chiamati a costruire comunità, altri a conservare il deposito della fede, altri a manifestare in coppia l'amore che Cristo ha per la Chiesa, altri a vivere la continenza per il Regno. Ma ad ognuno, lo ripeto, è affidato l'annuncio.
I nostri paesi di tradizione cristiana rischiano di sedersi sugli allori, di confondere la cultura cristiana con l'appartenenza a Cristo. È bello che il nostro paese senta ancora una forte appartenenza ai valori cristiani (almeno a certi valori), ma questo non significa incontrare Dio.
Quant'è difficile, fratelli, annunciare Cristo ai cristiani! Sanno già tutto!
Ma chi deve annunciare la speranza del Vangelo all'ottanta per cento dei battezzati che non celebra la presenza del Risorto ogni settimana? Chi deve consolare, scuotere, incoraggiare, ascoltare i tantissimi che credono di credere? Io, tu, fratello che leggi, noi tutti! Senza distinzione.
Questa è la sfida che ci aspetta: far uscire Dio dalle chiese, riportarlo là dove aveva deciso di vivere, tra la gente. Strapparlo dagli angusti abiti del sacro in cui l'abbiamo relegato, per farlo tornare in quella umanità che aveva deciso di assumere. Gesù ci indica con precisione lo stile e la modalità di questo annuncio, lo stile da assumere.
I discepoli sono mandati a due a due, precedendo il Signore.
Non dobbiamo convertire nessuno: è Dio che converte, è lui che abita i cuori. A noi, il compito di preparargli soltanto la strada. In coppia veniamo mandati: l'annuncio non è atteggiamento carismatico del singolo, di qualche guru, ma dimensione di una comunità che si costruisce, che fatica nello stare insieme. L'annuncio è fecondato dalla preghiera: perché non diventare silenziosi operatori di bene, seminando benedizioni e preghiere segrete là dove lavoriamo? Affidando invece al Signore il compito di giudicare?
Il Signore ci chiede di andare senza troppi mezzi, usando gli strumenti sempre e solo come strumenti, andando all'essenziale. Il Signore ci chiede di portare la pace, di essere persone tolleranti, pacificate. Nessuno può portare Dio con la supponenza e la forza, l'arroganza dell'annuncio ci allontana da Dio in maniera definitiva.
Infine il Signore ci chiede di restare, di dimorare, di condividere con autenticità. Noi non siamo diversi, non siamo a parte: la fatica, l'ansia, i dubbi, le gioie e le speranze dei nostri fratelli sono proprio le nostre, esattamente le nostre.
È faticoso e crocifiggente, lo sappiamo bene. Lo sa anche Paolo che, pur convertendo il bacino del Mediterraneo, sente tutto il limite del suo carattere. Ma, come Isaia, siamo chiamati a incoraggiare gli esiliati di ritorno da Babilonia, a volare alto, a sognare in grande, a costruire il sogno di Dio che è la Chiesa.
E pazienza per i risultati che mancano: è un'epoca di profezia, la nostra. Smettiamola di restare impantanati nella routine, superiamo le paure del mondo, non valutiamo i risultati come un'azienda del sacro: e gioiamo fratelli cari, perché i nostri nomi saranno scritti nei cieli: e Dio ha già colmato i nostri cuori, affidandoci il Regno. Amen!

martedì 22 giugno 2010

27 Giugno 2010 - XIII Domenica del Tempo Ordinario

La vita? La vita cristiana? Il nostro pezzo di strada con Gesù condividendone le scelte è lo scopo stesso dell'esistenza. La sua come la nostra va verso un compimento che va perseguito decisamente: la vita è dono ricevuto e come dono dev'essere investito 'verso Gerusalemme': il luogo di Dio giudizio e premio, risurrezione e Regno definitivo. In questo percorso anche noi come Lui abbiamo insuccessi, non accoglienza, tentazione di chiedere castigo per chi non ci ama, ma il rimprovero di Gesù ci mette al riparo: la vita è troppo breve per sprecarla avvelenandoci dentro e allungando catene di odio, rancore, vendetta.
La vita riserva momenti di precarietà, solitudine, mancanza di sicurezza e stabilità. Cosi Gesù dice di sé, non ha dove posare il capo e, cosi per noi. Siamo in viaggio, non abbiamo qui stabile dimora. Quello che conta è la totalità della sequela. Non perdere di vista nel bene e nel male, negli affetti e nei lutti: Lui il solo che rimane, la meta del viaggio. "Lascia che i morti seppelliscano i morti". Noi dobbiamo annunciare con la vita di fede che il Regno, la Signoria di Dio è più forte della stessa morte. E poi la fedeltà. Troppi oggi, di fatto, praticamente abbandonano la vita di fede, relegandola nei momenti critici come compensazione. La fede è mettere mano all'aratro per creare il solco, la traccia della nostra esistenza dove la vita sepolta come il chicco di frumento seminato diventerà spiga di vita eterna. Non ci si deve voltare indietro in nostalgie o recriminazioni. Il Cristiano attraversa la fatica. Va avanti. Nell'Antico Testamento Eliseo, che sta per mettersi al seguito di Dio, ci dà un esempio eloquente e riassuntivo: trasformare l'intera esistenza, il lavoro della vita in un'offerta a Dio, in sacrificio ed Eucarestia. San Paolo, ai Galati, dà ai primi cristiani alcune coordinate esistenziali anche oggi irrinunciabili: "Siete stati chiamati a libertà". Bisogna restare liberi. Liberi per fare della vita un atto di amore; c'è un solo precetto: "amerai".
In definitiva, la vita cristiana è lasciarsi guidare dallo spirito. Ci sono preoccupazioni ma non bisogna soccombere. Ci sono incombenze e anche importanti ma non bisogna rimanerne schiacciati. Ci sono momenti tristi e lieti ma non sono ancora il tutto della vita. Ci sono tentazioni o sentieri alternativi che sembrano più facili e comodi ma non portano alla pace interiore e al bene da costruire e lasciare in eredità. Ci sono anche debolezze e tradimenti ma ci si può rialzare e raggiungere Cristo. È Lui stesso la strada, il suo Vangelo il percorso, la sua presenza e l'essere con Lui fa salvezza dell'essere stati chiamati alla vita, alla vita cristiana.

mercoledì 16 giugno 2010

20 Giugno 2010 - XII Domenica del Tempo Ordinario

C'è un'interpellanza di Gesù che ritorna spesso, che certamente ci scuote e ci turba, ma che ci fa bene: "Voi chi dite che io sia?" "Per te chi sono io? Che importanza e che ruolo ho per te? Vivi bene anche senza di me oppure no? Chi sono per te? In che misura tu vivi per me?..."
Sono dure queste domande, ma sono vere. Come quando, dopo la risurrezione, Gesù chiederà ripetutamente a Pietro: "Mi ami tu?"
Nel testo di oggi Gesù sente il momento molto importante, perché "se ne stava pregando da solo ed erano con lui i discepoli", poi pone due domande: vuole sapere dai discepoli che cosa la gente pensi di lui, ma soprattutto che cosa essi, pensano di lui.
È la seconda domanda che conta. La prima serve perché incomincino a parlare e perché avvertano la differenza della loro posizione. Essi sanno che per Gesù non sono come tutti gli altri: essi sono stati scelti, ad essi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, essi hanno visto i miracoli, hanno ascoltato le sue parole profonde.
Pietro, a nome di tutti, risponde: "Tu sei il Cristo di Dio", il Messia, l'Unto di Dio.
Gesù ordina di non dirlo a nessuno perché "il Figlio dell'uomo deve patire molto,... essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno". E' il primo annuncio della passione, un annuncio strettamente legato alla confessione di Pietro. Gesù vuol far capire che non sarà un messia, come loro se lo immaginano o si aspettano (potente, glorioso), ma un messia sofferente. Questo non se lo aspettavano, non lo comprendono, anzi reagiscono.
Ma Gesù sa che dovrà affrontare la sofferenza, il rifiuto, la morte e lo fa nella speranza, perché sa che la via di Dio non finisce nella morte, ma sempre nella vita; il Cristo risorgerà il terzo giorno e porterà a compimento la sua opera di salvezza. Ma i discepoli non potevano capire ancora, per questo li invita a non dire nulla a nessuno: andrebbero a spiegare una cosa che non hanno per niente chiara.
Ma Gesù li vuole aiutare e li invita a sperimentare ciò che annuncia. Quando uno vive certe cose o in un certo modo, capisce più facilmente e soprattutto intuisce una verità che è il progetto di Dio, ma che è insita anche nell'esistenza umana.
Quand'è che uno realizza la sua vita, la costruisce in maniera vera, appagante, e per sempre? La mentalità mondana offre le sue prospettive e le sue logiche individualistiche ed egoistiche, la verità di Dio apre all'amore, al "perdere" la vita, per salvarla veramente e per sempre.
Dice Gesù a tutti: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua".
Rinnegare se stessi, fare della propria vita un dono, perderla per realizzare il cammino della salvezza. I miei istinti, i miei desideri, il mio corpo, la mia impostazione... sono i miei padroni o li so dominare? E non per un mio perfezionismo, ma perché il prossimo si senta amato e aiutato.
Prendere la propria croce: ciascuno è chiamato ad assumere i propri doveri, le sofferenze, le fatiche, fino alla disponibilità a perdere la propria vita, fino al martirio.
La prova di queste affermazioni del vangelo è stata la vita e la missione di Gesù; è stata ed è la vita di tanti santi e di tanti martiri.
Se io sono disposto a morire per Cristo, allora Cristo è la vera vita, è il tutto. Ma questa è una grazia che dà il Signore al momento giusto. Però fa capire la portata della domanda iniziale: Per te chi sono io?
Nella misura in cui cerco di essere fedele al Signore, di non vergognarmi di Lui, di parlare di Lui, di proporlo ad altri; nella misura in cui vivo, gioisco e soffro per lui e con lui; nella misura in cui offro la mia vita come dono ai fratelli, nel tanto bene che posso compiere... riesco a rispondere non con le parole ma in verità: Tu sei per me il Cristo, il Salvatore, il Signore, il tutto della mia vita sulla terra e per l'eternità!

giovedì 10 giugno 2010

13 Giugno 2010 - XI Domenica del Tempo Ordinario

Eppure per Gesù non deve essere stato per niente facile operare questo tipo di scelta, offrire il suo amore per gli ultimi: il suo è stato un gesto di rottura nei confronti dell'istituzione (civile e religiosa) che poneva la donna in una condizione di sconfortante, mortificante e degradante subalternità rispetto all'uomo. Ma oggi, a duemila anni di distanza, e nonostante le varie e benefiche rivoluzioni femministe, non è poi così diverso, se noi, come Davide (cfr. 2Sam 12), le donne preferiamo averle per noi, piuttosto che con noi; se ancora usiamo il termine "uomo" per indicare l'essere umano, uomo e donna…
E questo non accade solo nei rapporti interpersonali, in ufficio, nella scuola, nella politica, nella Chiesa, ma accade anche nella famiglia che dovrebbe essere invece il luogo della ricomposizione delle differenze.
Confessiamolo: siamo tutti un po' come il fariseo Simone. Conosciamo i doveri dell'ospitalità. E neppure a noi dispiacerebbe avere Gesù a tavola. Un uomo interessante, vale pena conoscerlo… Forse un po' fuori delle righe, però adesso esagera… Che ci fa quella donna ai suoi piedi? Come ha fatto ad entrare in casa mia? Una prostituta, poi. Ma siamo sicuri che lui, il "Maestro", davvero sia un "profeta"? Se lo fosse, non si lascerebbe profumare da quella donna lì… Proprio a me doveva capitare… Pensa che scandalo con la mia Chiesa… Accogliere in casa mia una "peccatrice" che fa mille moine a quello che si fa' chiamare il Maestro…
Simone, ho da dirti qualcosa… Devo dirti che io sono venuto a portare una bella notizia: il superamento di ogni divisione e di ogni discriminazione. Sono venuto a portare la salvezza che non deriva dall'adesione formale alla Legge, ma dal superamento della Legge fatta di tanti codici in un unico codice, quello dell'amore. Un amore gratuito verso tutti, quelli che sanno di essere peccatori (o peccatrici) e quelli che invece ritengono di essere senza peccato perché osservanti e devoti. Non ti dico, Simone, di non essere più osservante né devoto: ma ti dico di accogliere l'amore di Dio che si rivela negli esclusi, negli emarginati, nei portatori di un “marchio”, che voi - i devoti e gli osservanti, i "religiosi" - avete attribuito loro. E sai una cosa, Simone? Io questo amore non mi limito a predicarlo, io lo vivo. E lo vivo qui e ora, in questa circostanza concreta, non con la donna, ma con questa donna che ho avuto la ventura di incontrare. Tu in me hai accolto un simbolo, e venendo a casa tua mi rendo conto che ho attizzato l'ipertrofia del tuo "io". Lei, la donna, la "peccatrice" come tu la chiami, ha accolto me, come persona. C'è una bella differenza, non trovi? Oh, sì… càpitano gli imprevisti… eccome! È successo al sacerdote e al levita che si imbattono nell'uomo ferito sul ciglio della strada… Come poi diranno più avanti nel tempo i teologi, all'ortodossia io preferisco l'ortoprassi. Al giudizio previo, io preferisco il perdono. Preferisco la misericordia, quella che magari anche tu saresti disposto a predicare, salvo poi a trovarti scoperto di fronte alle prove traumatizzanti della realtà e della storia.
Questo discorso Paolo lo ha capito bene, e vigorosamente, com'è nel suo stile, lo annuncia: «Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno». (Gal 2,15-16).
Ma oggi, nella Chiesa, questo discorso continua sì a risuonare, ma è praticamente inascoltato.
Oggi siamo troppo occupati a parlare di identità. Di identità cristiana. E discriminiamo.
La ricerca dell'identità può solo dividere e discriminare.
Crea i confini. I buoni e i cattivi, i puri e i peccatori. I bianchi e i neri. I ricchi e i poveri. Gli uomini e le donne.
Più cresce la tensione verso l'identità, la purezza … più viene abbandonata l'esigenza della comunità.
Anche a noi Gesù chiede un moto di conversione.
Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!».