«C’era un uomo ricco, che
indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti
banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe,
bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i
cani che venivano a leccare le
sue piaghe…» (Lc 16,19-31)
Ad un
primo veloce approccio col Vangelo di oggi, si potrebbe concludere che i ricchi
vanno all'inferno e i poveri in paradiso. Quindi, visto così, sarebbe un invito
per i poveri a sopportare con pazienza le miserie di questa vita, in vista di
una ricompensa lassù: fermo restando che quaggiù i poveri rimarrebbero sempre
poveri e i ricchi sempre ricchi.
Il
senso della parabola però è molto più profondo e indica in realtà quello che ci
accadrà se continueremo a vivere disinteressandoci degli altri, del bisognoso che
bussa alla nostra porta, mentre noi facciamo finta di non vedere quello che ci succede
intorno, quello che, per qualche tornaconto, non vogliamo vedere e che invece dovremmo
vedere.
Nel
vangelo ci vengono proposti due personaggi, il ricco e il povero. Il ricco ha
tutto: vestiti di porpora e bisso (segno di grande agiatezza e di alta
posizione sociale), una casa, cibo a volontà, che gli consente ogni giorno di mangiare
lautamente e abbondantemente; ha “fratelli”, cioè relazioni, amici, amore; ha
una sepoltura (cosa che solo i ricchi potevano permettersi a quel tempo). Il
ricco insomma ha tutto, non gli manca niente. L'unica cosa che non ha è un
nome.
Poi
c'è Lazzaro. Lazzaro non ha proprio nulla. Non ha casa, non ha cibo né amici (è
solo con i cani!) e non ha nemmeno sepoltura. Lazzaro è indifeso, è mendicante,
bisognoso, malato, ricoperto di piaghe, affamato e solo. L'unica cosa che
possiede è un nome: Lazzaro, che vuol dire “Dio
aiuta”.
Ebbene:
per la Bibbia avere un nome è fondamentale, perché il nome identifica una
persona, è la persona stessa. Conoscere il proprio nome significa conoscersi,
avere un'identità, una strada da percorrere, qualcosa da realizzare, essere
vivi. Lazzaro, “Dio aiuta”, è il povero;
il suo nome è la sua vita: ha bisogno di Dio, ha bisogno che qualcuno lo aiuti,
che Dio si prenda cura di lui e che lo salvi dalla sua condizione.
Il
ricco, invece, no. Quasi sempre i ricchi del vangelo di Luca non hanno nome. Il
ricco non ha nome perché è incosciente, non si conosce, vive nella superficialità,
si disinteressa completamente di ciò che succede alle porte di casa sua, e per
questo non ha alcun potere sulla sua stessa vita.
Il
ricco non si accorge di Lazzaro: non lo vede neppure; ma come avrà fatto a non
vederlo? Era lì... alle porte di casa sua... tutti i giorni a mendicare:
chiedeva aiuto e urlava il suo disagio.
Questo
è il grave problema del ricco, questa è la sua condanna: il non accorgersi. E una
stessa condanna sarà riservata anche a noi, ci dice il vangelo, se vivremo non accorgendoci
dei Lazzaro nostri fratelli, ma soprattutto del Lazzaro che è in noi: non
accorgendoci, cioè, del bisogno, del disagio della nostra anima, della nostra coscienza
che urla, che strepita, che vuole la nostra attenzione, e che noi lasciamo
fuori, alle porte della nostra casa.
L'inferno
e il paradiso sono nelle nostre mani. Tocca a noi decidere se ospitare in casa nostra
Lazzaro o se lasciarlo fuori.
L'inferno
o il paradiso ce lo scegliamo noi: se facciamo i “ricchi”, se sfarfalliamo, se chiacchieriamo
a vuoto, se non ci poniamo mai domande serie da scuoterci l’anima, se non affrontiamo
mai questioni vitali, profonde; se ci guardiamo bene dallo scavare dentro di noi,
se evitiamo insomma le difficoltà, i problemi, se evitiamo il bene perché è
scomodo e ci dà fastidio, se in una parola non ascoltiamo la voce della nostra coscienza,
finiremo sicuramente all'inferno, alla perdita dell’amore eterno.
Dobbiamo
pertanto convertirci: la conversione è il passaggio che facciamo dall’inferno
al paradiso, è il momento stesso in cui smettiamo di lusingarci da “ricchi”, e
accettiamo, pur con dolore ma con un senso di liberazione e sollievo, che siamo
tanti Lazzaro. È in quell'istante infatti che potremo sperimentare con mano che
veramente “Dio salva”.
Noi siamo
i Lazzaro: siamo i soli, gli indigenti, i pieni di miserie. Siamo i soli,
perché in casa nostra non abbiamo proprio nessuno.
È
triste ammetterlo, ma quante volte nella vita, siamo stati Lazzaro: quante
volte ci siamo trovati anche noi a dover “mendicare” amore, affetto, comprensione,
e non è arrivato nulla!
Fa male
aver bisogno di amore; fa tanto male dover chiedere amore, riconoscere che ne abbiamo
bisogno. Fa male tendere la mano per ricevere, dover mettere a nudo la nostra
anima per poter essere nuovamente accettati, perché qualcuno possa farci entrare
nella sua “casa”: abbiamo il terrore di venire nuovamente feriti. Siamo deboli
e vulnerabili, anche se ostentiamo sicurezza e presunzione. Del resto non è facile
accettare di essere Lazzaro: di dover mendicare amicizia, calore umano, di doverci
accontentare di briciole d’amore, convinti che in fondo “qualcosa” è sempre
meglio di niente! In certi momenti siamo addirittura pronti a scendere a dei
compromessi con noi stessi, a permettere agli altri di fare di noi quello che
vogliono, pur di avere in cambio un riconoscimento, calore, comprensione, sostegno.
Non ci
piace vederci come Lazzaro che, solo e abbandonato, bussa ad una porta a cui
nessuno apre, un Lazzaro che nessuno vede né sente; essere Lazzaro ci fa
vergognare, ci fa soffrire.
Ma è
molto peggio essere i “ricchi”, perché significa trasformare la nostra vita fin
da ora in un inferno. Si, perché l'inferno è solitudine; inferno è chiudere per
sempre la porta di casa nostra, sbarrarla e impedire a chiunque di entrare. L'inferno
è “chiusura”: è impedire a Dio di entrare con la sua luce, per portare ascolto,
liberazione, pace, perdono e misericordia là dove c'è tormento, solitudine e
sofferenza.
L'inferno
o il paradiso è quindi nelle nostre mani.
Tocca
a noi decidere pertanto se ospitare in casa nostra gli altri Lazzaro, quelli
che ci sono vicini, o se lasciarli fuori: dei Lazzaro che urlano, ma che noi
non sentiamo. Ma se ci stanno urlando perché stanno male, guardiamoli una buona
volta, e accogliamoli! Se ci stanno urlando silenziosamente la loro paura, le
loro angosce, accorgiamoci delle loro urla silenziose, accogliamoli e
ascoltiamoli. Come facciamo a non accorgerci che nostra moglie, nostro marito,
il nostro partner, i nostri confratelli, i nostri amici, hanno bisogno del nostro
amore, delle nostre parole, della nostra presenza? Come facciamo a non vedere che
i nostri figli, i nostri nipoti, hanno bisogno di noi, del nostro incoraggiamento,
del nostro apprezzamento? Non vediamo che i nostri fratelli soffrono, che hanno
la tristezza e il pianto negli occhi? Non vediamo, non sentiamo l'angoscia di
chi ci vive a fianco? Non vediamo i dolori e i pesi che si tengono dentro? Eppure
questi Lazzaro ci sono così vicini, fuori della nostra porta: ma noi siamo occupati
nelle nostre cose, occupati nei nostri affari, nel “giardino” della nostra casa,
e non diamo loro ascolto.
Nella
seconda parte del vangelo c'è poi la preghiera del ricco che vorrebbe andare
dai suoi fratelli perché non facciano la sua stessa fine. Ma – interviene Abramo
– ciò non è possibile. Del resto, se uno ha il cuore indurito, neppure davanti
a Cristo in persona crederebbe.
I
segni ci sono: chi vuol vedere vede, chi non vuol vedere non vedrà mai. Molte
persone vivono una vita da sordi, non hanno orecchie per ascoltare, vivono
senza udire le voci degli uomini di Dio che li ri-chiamano. Molte persone hanno
vicino “Mosè e i Profeti”, hanno profeti e persone, possibilità ed esperienze
per poter sentire e crescere, occasioni che ricordano loro di prendersi cura di
Lazzaro, della loro anima, del loro mondo interiore, di chi soffre vicino a
loro, di coltivare la propria sensibilità. Non sono i miracoli che salvano, è
la fede. Esseri vivi e svegli al mattino è davvero un miracolo; i computer più
sofisticati fanno semplicemente ridere di fronte al miracolo della vita: ma
tutto questo neppure ci sfiora. Siamo immersi in un continuo miracolo che si
chiama vita, ma tutto questo non ci stupisce né ci commuove. E chi non vuol
credere, non crederà neppure se i morti resuscitano.
Noi
siamo esseri di luce e di ombra. Siamo contemporaneamente l'uomo ricco e anche
Lazzaro; siamo ciò che ci piace, ma siamo soprattutto ciò che rifiutiamo, che
non vogliamo accettare e accogliere nella nostra vita, che è doloroso, insostenibile;
siamo esseri divini, ma anche terribilmente umani. E se ci nascondiamo una cosa,
non vuol dire che non ci appartenga.
Il
grande compito della nostra vita è portare luce dove c'è buio. Ma chi vuole aver
a che fare col buio? Nessuno. Perché il buio ci spaventa, ci angoscia, ci fa
terribilmente paura. Chi vuole entrare con la propria flebile luce in certi
inferni della vita? Ovvio, nessuno. L'ignoranza è l'illusione di credere che
certe cose non esistono solo perché non le vediamo. Eppure è proprio questo che
la vita ci chiama a fare. Entrare negli altri con la luce di Dio, della
coscienza, della consapevolezza, con la fiducia e con la forza del Padre, per
portare luce e liberazione negli inferni delle anime. L'inferno è tale perché è
buio; ma se c'è una luce, per quanto debole sia, anche il buio più pesto può
diventare abitabile.
Noi
siamo figli della luce, noi siamo figli di Dio: non dimentichiamolo.
Il
diavolo, il male, ama il buio, il sotterfugio, il nascondimento, l'anonimato,
la notte, l'oscurità. L'ignoranza è il peccato più grave: vuol dire lasciare
nel buio, nell'anonimato, nel nascondimento, ciò che chiede di essere portato
alla luce. Anche il ricco ignorava Lazzaro, ed è per questo che ha creato il
suo inferno. Il buio è ciò che non sappiamo, ciò che ci spaventa, ciò che
evitiamo. Vera spiritualità è portare luce nelle tenebre della nostra vita; è
portare consapevolezza nell'ignoranza della nostra esistenza; è vedere tutto
ciò che è Lazzaro.
Per
chi vive al buio, per i figli delle tenebre non c'è possibilità di salvezza;
solo i figli della luce, solo chi avrà la fiducia di non nascondersi nulla e di
far entrare la luce di Dio nella propria vita potrà salvarsi e potrà vivere.
C'è
una storiella: è sera e un uomo sta cercando in casa sua qualcosa. Arriva un amico
e gli chiede: “Cosa cerchi?” “Cerco le chiavi dell'auto”. Allora anche l'amico
si mette ad aiutarlo ed entrambi cercano per un bel po' in quella camera. Ad un
certo punto l’amico gli chiede: “ Ma dove di preciso le hai perse?”. “Le ho perse
in cantina”. “Ma diamine, perché cerchiamo qui allora?”. “Perché qui c'è più
luce!”.
Si
potrebbe anche ridere, se non fosse che questa storiella ci propone una grande
realtà.
Noi
tutti preferiamo muoverci dove c’è luce, sicurezza, serenità: preferiamo non
lasciarci coinvolgere dal buio, dalle difficoltà della vita presente, dalle
necessità del prossimo. Ma come pensiamo di raggiungere la luce, la felicità,
l’amore eterno di Dio, se ignoriamo il richiamo del nostro fratello Lazzaro, e
lo lasciamo morire davanti alla nostra porta? Noi abbiamo il terrore della
cecità degli occhi: ma per quella del cuore nessun timore ci sfiora. Pensiamoci.
Amen.
«Che cosa farò, ora che il mio
padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi
vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato
dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua» (Lc 16,1-13).
Riconosciamolo:
la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza non poco e suscita in noi un
notevole disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che
Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue.
Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto,
come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Non dice: “Ha
fatto bene a fare così” e quindi: “Se ti è possibile fai anche tu altrettanto!”.
Gesù, al contrario, di quel contabile disonesto si limita a lodare solo la capacità
di reagire ad una situazione compromessa: il darsi da fare cioè di uno che non
si rassegna, che non si butta giù, che non “piange a vuoto”, ma che trova a
tutti i costi la soluzione definitiva ad un problema apparentemente
irrisolvibile.
Dove infatti
il testo dice: «Il padrone lodò
l'amministratore disonesto», appare evidente che si tratta di una traduzione non
proprio corretta: è impensabile infatti che un padrone, per quanto bravo e santo
sia, accortosi di essere stato derubato dal suo amministratore, gli dica: “Complimenti,
hai fatto proprio bene! Hai tutta la mia stima!”.
Per capire
il vero senso del testo, era sufficiente tradurre il termine greco “κυριος” del
versetto 8, invece che con “padrone”,
con “Signore” (è infatti “κυριος” l’appellativo
più ricorrente per indicare Gesù: Luca lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107
negli Atti); in questo modo la frase diventerebbe immediatamente comprensibile:
“Il κυριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore”. Non è il padrone, dunque, ma è Gesù
che loda l’uomo, è Gesù che sottolinea, come esempio da seguire, non ciò che
lui fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la
sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare
ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato,
non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la
soluzione chissà da chi. In pillole insomma Gesù vuol dire: “come miei
discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone “dormienti”,
imbambolate, inconcludenti, persone cui sta bene tutto, vada come vada. Dovete
essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad
essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, uno che ha saputo
valutare molto bene le sue reali possibilità”. In questo modo lo schema da
seguire, così come ci viene indicato, è molto semplice: ci accorgiamo che in
una certa situazione non possiamo più “lavorare”? Che quella strada che avevamo
imboccato non è più praticabile? Basta, inutile tergiversare: dobbiamo
immediatamente trovarne un’altra, dobbiamo agire in un altro modo, con un'altra
logica; dobbiamo fare scelte mirate, più creative, concrete; in una parola dobbiamo
correre subito ai ripari, inventarci un rimedio veloce ed efficace.
Quando
una cosa non funziona più, è inutile insistere, lottare, illudersi che possa
cambiare. Quando una cosa non funziona più, dobbiamo semplicemente cambiarla.
L’area
di applicazione più ovvia di questi insegnamenti, è quella del nostro comportamento
di fronte alla colpa. Abbiamo sbagliato, ci siamo comportati egoisticamente,
abbiamo calpestato i nostri principi, abbiamo tradito noi stessi, la fiducia e
i diritti degli altri? Se siamo già caduti così in basso, inutile recriminare,
inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima. Seguitare a rimuginare sul
male fatto, su cosa avremmo dovuto fare e non l’abbiamo fatto, su come avremmo
dovuto farlo, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo
stati degli sprovveduti, dei superficiali, troppo sicuri di noi, parecchio stupidi
ed egoisti; ma a questo punto vogliamo forse morire? A che serve farla finita, morire
(dentro o fuori che sia)? Cosa risolviamo? Ciò che è stato è stato. Ma se il
passato non si può cambiare, siamo noi però che possiamo cambiare: siamo noi
che dobbiamo imparare a non ripetere il male; a chiedere perdono a Dio e al
prossimo, a riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo
noi, insomma, che ci dobbiamo correggere, che dobbiamo perdonarci e risorgere
con nuovo slancio.
Nel
vangelo è dunque la risolutezza dell'amministratore che viene lodata: non si
lascia annientare dal fatto di essere colpevole di frode; non si arrende. Quante
persone invece dopo un errore, dopo una colpa, anche se non grave, si lasciano
andare completamente, non reagiscono, non alzano un dito per tornare come
prima.
Invece,
abbiamo rubato? Abbiamo tradito il partner? Abbiamo completamente sbagliato nell’educare
i figli, ecc.?; certo sono fatti oggettivamente gravi, concreti. Ma non
perdiamo tempo: prendiamo immediatamente in mano la situazione, rialziamoci e
corriamo dal medico per le cure del caso. È l’unico modo per salvare il salvabile
e riacquistare la nostra dignità. Qualunque cosa facciamo, dobbiamo perdonarci.
E perdonarci, significa riconoscere il mal fatto, provarne un sincero
dispiacere; non tanto in noi stessi, per conto nostro, nella nostra testa, ma
di fronte a “qualcuno” che può a sua volta perdonarci in nome di Dio. Dopo di
che rialziamoci, e torniamo a vivere nuovamente liberi, a testa alta.
Altra
indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei
nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha
fatto l’amministratore infedele; finora egli aveva “sfruttato” le persone, le
aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere
il più possibile. Ora invece si accorge che quelli con cui trattava, non sono
oggetti, sono degli uomini, delle persone. E come mai se ne accorge? Perché
anche lui ora si trova nella stessa loro condizione. Anche lui adesso è un “debitore”
del padrone, esattamente come loro. Anche lui ora vede le cose dalla loro
stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè è caduto in basso,
quando è costretto a vivere le stesse esperienze negative dei miseri, a dover affrontare
le loro stesse situazioni compromesse, le stesse colpe - che nasce in lui la
misericordia. L’uomo perfetto, quello al di sopra di tutti, quello che non
sbaglia mai, non conosce la misericordia, non sa cosa sia, non potrà mai usarla;
non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui
non è un debole e non conosce alcuna caduta. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi
alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto con superiorità.
Solo chi ha sperimentato sulla sua pelle cosa voglia dire sbagliare, sentirsi
uno schifo, sentirsi indegni, colpevoli, può apprezzare la misericordia, il
bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi non sbaglia mai, non
può che giudicare gli altri con disprezzo. Chi non sbaglia mai non conosce il Dio
dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli
nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
Tutti in
genere riconosciamo apertamente di sbagliare, di essere peccatori: ma la
maggior parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così
tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli
errori, ma nel non voler riconoscere quelli che facciamo; così, pur professandoci
peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi
essere i critici più spietati con quanti vediamo cadere.
Ebbene,
è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma
radicalmente il suo modo di pensare e di agire: prima, egli spendeva tutte le
sue energie per defraudare i “debitori”; dopo, le sfrutta tutte per aiutarli. E
ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza.
Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e
attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”,
l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto”
non si espone, non ne ha bisogno, perché lui non ha colpe nascoste, non ha lati
distorti da raddrizzare.
Gesù stesso
non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del
nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di niente, del nostro comportarci
come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo
affatto.
È poi molto
importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a
vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli
scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle
zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie,
delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra
memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le
conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita
siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai
figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre
responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di
avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare
nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta
probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti ad ogni valore morale
irrinunciabile, a Dio e alla famiglia…
Pertanto
se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle
nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale
situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa
perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo
tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci
seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e
perdoniamoci: si, perdoniamoci! Ci sentiamo in colpa perché abbiamo un
carattere difficile, perché non riusciamo a dominare i nostri istinti, i nostri
scatti d’ira, perché ripetiamo all’infinito i soliti errori? perdoniamoci! Solo
così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa
in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a
Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere
il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche
modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo
in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati: perché
solo in questo modo, potremo nuovamente trasfigurarci nella gioia, nella luce e
nell’amore del Padre. Amen.
«Un uomo aveva due figli. Il
più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi
spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze…»
(Lc 15,1-32).
Questo
brano del vangelo ha molte chiavi di lettura: è la storia di Dio Padre che aspetta
il ritorno a casa di ogni figlio smarrito, e lo accoglie sempre a braccia
aperte. È la storia di quei giovani in procinto di affacciarsi nel mondo: per
poter trovare se stessi, la propria vita, la propria collocazione nella società,
devono prima “uscire” da una mentalità ristretta, chiusa, infantile. È la
storia di ogni uomo, di tutti noi, che a volte possediamo le cose ma non ce ne
rendiamo conto; da qui la necessità di capire, di apprezzare e riconoscere quello
che già possediamo: ci sono differenze infatti che non potremo mai cogliere stando
rintanati in noi stessi, ma solo “uscendo” da noi, vivendo, magari sbagliando,
ma provando e riprovando. È la storia di come possiamo fare tante “cavolate”
nella vita; ma anche di come non sia mai troppo tardi per rimediarvi: possiamo finire
con i porci, condurre una vita depravata, razzolare tra i rifiuti, ma abbiamo sempre
la possibilità di redimerci, di recuperare la nostra vita e soprattutto riacquistare
la nostra dignità. È la storia dell'amore che rimane, che vince su tutto: è la
storia di quel padre che, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là
del rifiuto ricevuto dal figlio, al di là di tutto, continua a rimanere un
padre affettuoso, un padre innamorato del figlio. È la storia di chi ha paura
di crescere, di cambiare: di chi se ne sta chiuso in se stesso, con le sue
solite idee, con il suo solito lavoro, nel suo solito mondo, e muore: muore
perché la sua non è vita, vivere non è questo: non è vita quella del figlio
maggiore che dichiara un depravato, un morto, suo fratello, e non si accorge
che sta parlando di sé; è lui che è un morto in casa, è lui che è corroso e
paralizzato dalla paura; e cosa fa? Giudica! Giudica il fratello perché non
riesce a vivere come lui, e ciò lo infastidisce profondamente. Il giudizio è
sempre la voce della morte: attacchiamo l’altro, perché noi non siamo in grado di
imitarlo e vivere la vita come fa lui.
Ecco,
queste sono alcune possibili chiavi di lettura di questo vangelo. Più in
generale esso ci propone la storia dell’uomo, l’evolversi della vita: ci descrive,
ci mostra con mano, come le nostre relazioni interpersonali, durante
l’esistenza, siano destinate a cambiare.
Guardiamo
meglio cosa succede. C'è un padre con due figli, e quindi, essendo in tre, ci vengono
descritte tre relazioni: quella tra il padre e il figlio minore; quella tra il
padre e il maggiore, e infine quella tra i due fratelli, il minore e il
maggiore.
Per
entrambi i figli il padre è colui “che dà”. Il figlio minore gli dice infatti: «Dammi la parte di eredità che mi spetta».
Quel “dammi” rivela chiaramente come lui consideri suo padre: suo padre è colui
che gli deve “dare”. Anche il figlio maggiore la vede in questo modo, e gli
rimprovera: «Tu non mi hai dato mai un
capretto per far festa con gli amici».
Tutti
i figli, in fondo, vedono il padre e la madre in questo modo: come coloro cioè che
devono “dare” sempre: il cibo, i vestiti, la casa, i soldi per i libri, per mangiare
la pizza con gli amici, per uscire e divertirsi. Del resto, guai se non facessero
così: guai se i genitori non assicurassero ai loro figli sostentamento e
nutrimento: è la loro stessa funzione naturale quella di “dare”, fin dai primi
anni di vita: sono lì esattamente per quello.
E la
relazione tra i due fratelli? Non si rivolgono mai la parola. Non si diranno
mai niente: i due fratelli non s'incontreranno mai! Perché? Semplice: non “vogliono”
incontrarsi; entrambi sono in conflitto per il padre, un conflitto che però li
divide: vince il maggiore (il prescelto), perde il minore che se ne deve
andare.
Si
capisce allora perché egli si rivolga al padre in maniera così dura e perentoria:
“Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Non a caso si rivolge così; non
perché abbia un caratteraccio, non perché sia un depravato. Si rivolge così
perché il padre ha scelto il maggiore (com'era normale e ovvio a quel tempo e,
per certi aspetti, in ogni tempo) e lui si sente rifiutato. Non è il preferito;
il padre ha scelto l'altro: e non essere scelti, non essere i primi, fa sempre molto
male!
Tra i due
fratelli c'è relazione, ma è una relazione di odio, di competizione, di
conflitto. Non si dicono niente ma si odiano “a sangue”: e risulta
particolarmente evidente quando il maggiore, rivolgendosi al padre, allude al
fratello chiamandolo “questo tuo figlio”: non lo vuol riconoscere come fratello,
per lui è soltanto un estraneo, uno che ha divorato i “tuoi averi con le
prostitute”, uno che merita solo odio e disprezzo. Egli si sente più forte: è
l'erede legittimo, e si sente quindi personalmente “defraudato”.
Il
minore invece, geloso del legame speciale esistente tra il fratello e suo
padre, si sente in netto svantaggio, e non può fare altro che andarsene. Anche
se la differenza che lamenta in fondo rientra nella normalità. Da che mondo è
mondo, infatti, i genitori non hanno mai trattato due fratelli esattamente allo
stesso modo; mai, in nessuna epoca, i figli hanno avuto da loro un trattamento
assolutamente paritario. Quando diciamo che i figli sono per noi tutti uguali,
ci illudiamo, facciamo solo della teoria. Non è così. Pensiamoci un attimo: il
primogenito, essendo il primo figlio, quello “atteso”, quello “desiderato”,
quello “cercato” e “voluto”, ha dai genitori un amore e una sollecitudine del
tutto particolare. Li ha tutti per lui. Il secondo non sarà mai come il “primo”,
perché non sarà più una novità, non procurerà più lo stesso impatto emotivo,
non richiederà lo stesso investimento di energie, né la stessa pianificazione del
primo. Il primo, poi, rispetto al secondo, è sempre “più avanti” nella scala
delle attese dei genitori: arriva prima a correre, a scrivere, a leggere, a
fare le cose; gode di maggior fiducia da parte della mamma, che lo ritiene più
bravo e responsabile, e gli da qualche piccolo incarico, a volte anche di
badare al fratello minore.
È
ovvio quindi che, agli occhi di quest’ultimo, sia lui il più bravo, lui il più
affidabile, e quindi anche, sia lui il preferito; è tutto ovvio e naturale. Ma
vedere uno che è sempre e comunque “più” di noi, essere costretti a dover lottare
continuamente per dimostrare che noi valiamo di più, sappiamo “di più”, possiamo
fare “di più”, beh, a lungo andare, distrugge anche i più forti.
Ebbene:
quello che il vangelo riporta è nient'altro che questo: il maggiore sa di
essere il primo, e il minore sa di essere il secondo.
Questa
perlomeno era la situazione iniziale, ma poi c'è stato un distacco, una
lontananza. C’è stato un viaggio salutare, che ha ridimensionato le cose: il
minore si è staccato dal padre, cioè dall’immagine di colui che deve solo “cedere”
il suo patrimonio, ed ha intrapreso quel lungo viaggio che l’avrebbe riportato dentro
di sé, sui suoi passi, sulle sue valutazioni (rientrò in se stesso). Anche il
padre ha dovuto fare un viaggio analogo, anche lui ha dovuto superare una immagine
distorta, rancorosa: quella di avere un figlio ingrato, ribelle, egoista, che
dopo aver ricevuto i soldi, invece di ringraziare, di dimostrargli riconoscenza
e amore, fa perdere le sue tracce; è cambiato al punto che lo troviamo in ansia,
fuori di casa, mentre attende angosciato il suo ritorno.
L’unico
che non ha fatto nessun viaggio è il figlio maggiore. Per lui suo padre è rimasto
“quello che dà”, e suo fratello continua ad essere per lui “quello inferiore”, il
depravato, il “porco”, quello che ha dissipato tutto con le prostitute. Egli è
spinto da invidia e da livore: non tollera che suo fratello, il “minore”,
quello che è sempre stato meno di lui, sia accolto in casa dal padre con una dignità
e con onori tali che neppure a lui, il fedele, gli erano mai stati
riconosciuti: per questo reagisce distruggendo il fratello, distruggendo la sua
immagine, infangandola, screditandola. Questo palese affronto alla sua superiorità,
al suo primato indiscusso, scatena in lui collera, rabbia, rancore. Il suo vero
problema è appunto non essersi mai mosso da casa; non essere uscito da se
stesso, non aver fatto alcun “viaggio” purificatore. Quante persone, rimaste
sempre ferme, tappate “in casa”, rivelano per questo tutti i loro limiti, la
loro chiusura mentale, le loro solite quattro idee, il solito modo di pensare,
le stesse cose e le stesse tradizioni di sempre. Per conoscere, per imparare,
per cambiare, bisogna uscire dal nostro microcosmo chiuso e limitato, bisogna mettersi
in discussione; uscire è scoprire immagini nuove, nuove cose incredibili;
uscire è rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi
della nostra piccola e sclerotizzata testa. Ma uscire fa paura, è pericoloso,
ci mette in balia di forze avverse: non è forse meglio rimanere in casa, al
sicuro, soli e protetti dalle nostre personali certezze?
In
questo modo il minore, uscendo, rischiando, è cresciuto, è diventato uomo, ha
trovato la sua vita vera; il maggiore invece, trincerato nei suoi vecchi schemi
e pregiudizi, è diventato un uomo morto.
Al
ritorno del minore, dunque, sia lui che il padre sono completamente diversi: il
padre non è più “colui che dà” e lui non è più “colui che prende”, ma uno che a
sua volta “dà”.
E questo
figlio, coperto di stracci, senza più nulla, ma vinto dal dolore e dal rimorso,
cosa può dare ora al padre? Gli dà la gioia di esprimere la sua nuova vera paternità:
gli conferma cioè che essere padre non è più questione di soldi (patrimonio),
ma di amore, di affetto, di presenza (paternità). Il viaggio che lo ha portato
dal “patrimonio” (ti do le mie cose) alla “paternità” (ti do l'amore), è stato
determinante: essere padri non è dare cose, posizioni, uno status sociale;
paternità è dare qualcosa di sé, è poter essere una casa che rimane aperta ogni
volta che i figli vorranno tornare: e il “far festa con il vitello grasso”, altro
non è che una espressione di questo nuovo amore.
Sullo
sfondo, invece, il figlio maggiore sarà ancora lì, a discutere di capretti, di vitelli
grassi, di soldi risparmiati e soldi scialacquati: non ha capito la loro trasformazione;
lui non è ancora “passato”, non ha fatto ancora nessun viaggio, per lui l’immagine
del padre è sempre la stessa, quella di prima: e per questo si sente rifiutato.
Improvvisamente percepisce che il padre è radicalmente cambiato (“ama mio
fratello quanto me”), non accetta questo cambiamento, si scontra con questa novità
(“io non sono più il suo preferito”). E sempre per questo lo rifiuta e lo
attacca. Non ha capito che i rapporti nella vita devono cambiare; se non
cambiano muoiono o finiscono (che è la stessa cosa).
Le
relazioni non finiscono perché viene meno l'amore. Le relazioni finiscono
perché noi non vogliamo cambiare, ci irrigidiamo sulle nostre posizioni, ci
ostiniamo a rimanere fermi, ci opponiamo con tutte le forze a far “evolvere” il
nostro rapporto, farlo crescere, renderlo adulto.
Ma
questo, lo ripeto, non è vivere.
Le
scelte che la vita ci propone sono pertanto due: o uscire dalle nostre certezze,
rischiare di perderci, ma vivere poi nella felicità; oppure non muoverci, non
cambiare, fare cioè come il figlio maggiore, che dall’alto del suo legalismo
statico giudica e disprezza tutti, ma è infelice. A noi la scelta dunque, ben sapendo
che la nostra vita sarà condizionata da ciò che scegliamo. Amen.
«Se uno viene a me e non mi ama
più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le
sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non
porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»
(Lc 14,25-33).
Di
fronte alla grande folla che lo segue, Gesù se ne esce anche questa volta con delle
parole molto dure. Per lo meno sembrano dure a noi che siamo abituati a
fermarci in superficie, senza curarci di approfondire, di capire in tutte le
sue sfumature il senso autentico dei suoi discorsi.
Gesù
dunque sembra freddare, scoraggiare la folla che lo segue. Ora, se ad una
importante manifestazione si verifica una folta partecipazione di pubblico, è
umano, naturale, che chi l’ha organizzata provi grande soddisfazione; infatti, il
massimo per chiunque abbia un messaggio da trasmettere, è sicuramente la
presenza di una folla che gli dimostra curiosità, interesse, ammirazione.
Gesù però non la pensa in questo modo: la gente con cui ha a che fare, è
eterogenea, spesso distratta, un po’ chiassosa; una folla che lo segue non
perché attratta dal suo messaggio “rivoluzionario”, ma per emulazione, per
fanatismo, per curiosità; tanto per fare qualcosa di nuovo, perché tutti fanno
così.
Egli non
ama le folle sterminate di questo tipo: Egli preferisce al suo seguito magari
poca gente, ma che sia convinta, motivata, che sappia quello che fa e quello
che vuole; gente che per seguirlo sia pronta a rinunciare anche agli affetti
più cari: «Chi non odia il padre, la
madre, il figlio, le sorelle non può essere mio discepolo».
Un
messaggio forte e chiaro: anche se in cuor nostro pensiamo che qui Gesù sia
andato un po’ oltre, che ci chieda veramente l’impossibile. Non ci aveva sempre
detto il contrario? Come possiamo “odiare” le persone più care al mondo?
Le
parole di Gesù, però, vanno oltre il loro significato immediato: Egli vuole
dirci che nella vita esistono due tipi di amore: uno buono, da coltivare, e uno
cattivo da evitare; un amore che ci rende liberi e un amore che ci rende
schiavi. C'è un amore che ci affranca, che ci redime, un amore che ci ridona a noi
stessi, alla nostra esistenza; e c’è un amore al contrario che ci ingabbia, ci
tarpa le ali, ci mortifica, ci imprigiona, un amore che ci lega indissolubilmente
a sé. Il primo ci libera, ci salva; il secondo ci uccide!
Viene
spontaneo allora chiederci: “Cosa c’entra tutto questo con l’amore per i propri
genitori? Se non è buono quello di amore, quale altro mai lo sarà?!”. Ma
andiamo per gradi: cerchiamo prima di tutto di scoprire e di capire con quale
amore noi amiamo, con quale amore veniamo amati, o come siamo stati amati nel
passato. Allora capiremo che non tutto quello che definiamo amore è “vero”
amore: possiamo infatti definire amore quello di chi ci obbliga a fare solo ciò
che vuole lui? Quello di chi condiziona una qualche dimostrazione di affetto,
di amore, alla perfetta esecuzione dei suoi ordini? Possiamo chiamare amore per
il prossimo, per il proprio compagno, per i fratelli, quello di chi tradisce la
loro fiducia, di chi si comporta in maniera disonesta, mirando solo al proprio
tornaconto? Purtroppo, il più delle volte, quello che noi chiamiamo amore,
altro non è che un travestimento dell’egoismo, dell’ingordigia, dell’avarizia,
della nostra avidità, del nostro amor proprio.
Ebbene:
in questi casi – dice Gesù - come pure in tutte quelle pseudo dimostrazioni
d’amore che sviliscono la nostra dignità di persone, che si frappongono cioè tra
noi e ciò che Dio vuole da noi, dobbiamo lasciare, dobbiamo distaccarci, dobbiamo
separarci, dobbiamo prendere un’altra strada. Anche se ciò coinvolgesse persone
a noi carissime, come i nostri genitori, i nostri cari.
Gesù
usa qui la parola “odiare” perché sa bene quanti sacrifici costi diventare
figli unici di Dio, diventare cioè “liberi”. Cosa c’è di più doloroso del dire
un “no” secco a chi amiamo, a nostro padre e nostra madre, pur di non tradire
noi stessi, la nostra vita, la nostra chiamata? Non fa forse paura l’abbandonare
una strada conosciuta, quella che in famiglia molti hanno già percorso prima di
noi, per seguire quella nuova, quella “nostra”, quella che Dio ci ha chiesto di
seguire in esclusiva, una strada completamente sconosciuta? È forse semplice
compiere il nostro viaggio in solitario, uscendo dalla massa, dal gregge? È piacevole
sentirci addosso la disapprovazione della gente, il loro biasimo, perché non ci
adattiamo come loro, non facciamo come loro, perché noi vogliamo il meglio? Non
sarebbe molto più semplice fare come fanno tutti, essere accettati dalla comunità,
dalla società, dagli altri, piuttosto che esporsi, avviarsi per una strada sconosciuta,
pur di realizzare noi stessi fino in fondo, nella nostra unicità di figli di
Dio, seguendo la Sua chiamata?
È
vero: noi per natura cerchiamo di assomigliare agli altri, di essere in tutto come
loro; ma Gesù ci ricorda qui che tutti noi, ciascuno di noi, siamo intimamente diversi
dagli altri: per cui se non abbiamo il coraggio di marcare questa differenza,
di “separarci” dagli altri, se non abbiamo il coraggio di vincere la paura
dell'abbandono, della solitudine, dell'impopolarità, dell'essere giudicati, se
abbiamo insomma paura di realizzare a fondo noi stessi, se siamo in qualche
modo attratti dalla mediocrità di un amore senza valore, non siamo degni di
Lui, non possiamo seguirlo, non possiamo incamminarci su quella strada, unica, esclusiva,
che Lui ha pensato e voluto solo per noi.
A
parlarne sembra un’impresa facile quella di seguire Gesù, ma non lo è! Perché seguirlo,
vuol dire percorrere quella stessa strada che lo ha portato al Calvario, alla
morte di croce. Ora capiamo finalmente perché Egli smonti con tanta crudezza i facili
entusiasmi di quelle persone che prendono tutto alla leggera, che considerano
la salvezza eterna come un diritto acquisito per il semplice fatto di chiamarsi
“cristiani”; di quelli che pensano di andare avanti per tutta la vita senza troppi
scossoni, mantenendo il piede su più staffe, dimostrando di essere senza testa e
senza cuore.
Nossignori:
nella vita per differenziarci, per distaccarci, per separarci, per vivere la “nostra”
esistenza, dobbiamo esporci, dobbiamo correre dei rischi notevoli; altrimenti non
ci sarà “vita” in noi; e il nostro spirito, la nostra anima, inesorabilmente moriranno.
Vivere la Vita di Dio, comporta il rinascere a noi stessi, l’essere autonomi, protagonisti,
l’essere unici: in una parola, riscoprire la nostra vera fisionomia che ci “differenzia”
dagli altri.
Purtroppo
la società in cui viviamo non ci è di alcun aiuto in questo: una società di
persone anestetizzate, drogate, smidollate, che vivono adagiate le une sulle
altre, che rinunciano a qualunque tratto identificativo della persona; anzi, una
società che calpesta impunemente lo stesso nobile concetto di “persona”, di “famiglia”.
E noi non ce ne accorgiamo! Non ci rendiamo conto che chi vive “attaccato” a
queste ideologie, chi è in simbiosi con esse, con la mentalità imposta da certo
mondo, è soltanto un parassita: perché vive questa sua squallida esistenza, succhiando
il sangue dai buoni, succhiando la vita da quelli che, nonostante tutto, perseverano
e faticosamente procedono nel loro cammino sulla retta via. «Chi non odia il padre, la madre, il figlio,
le sorelle non può essere mio discepolo».
Certo,
sentirsi amati è una cosa bella; godere di una posizione sociale invidiabile è una
cosa buona; come pure essere stimati, rispettati, essere belli e attraenti,
sentirsi in grazia; essere efficienti, organizzati, sapersi ben programmare:
sono sicuramente tutte cose buone, cose belle. Ma quando queste cose cominciano
a condizionarci, a mancarci troppo, ad essere indispensabili, allora diventano
una droga mortale. Allora ci attacchiamo ad esse con tutte le nostre forze, ci
leghiamo indissolubilmente ad esse, senza di loro non possiamo più vivere, abbiamo
il terrore di perderle. In quel momento non siamo più noi che dominiamo le cose
che ci servono, ma sono le cose che ci dominano, siamo praticamente schiavizzati
dalle cose. Non amiamo più le persone, anche se sentiamo un bisogno assoluto di
essere amati. In quel momento perdiamo la nostra libertà. Per questo Gesù ci dice:
“Staccati, separati da tutto questo. Se
vivi così non potrai mai essere te stesso, non troverai mai l’amore, ma rovinerai
la tua vita per sempre”.
Una
medaglia ha sempre due facce: l'amore è una faccia; l'altra è la libertà. Non
c'è amore senza libertà. L'amore è la faccia benevola, la faccia sorridente della
vita; la libertà è la faccia seria, esigente, quella del “dovere”. L'amore crea
“unioni”, la libertà crea “persone”. L'amore senza la libertà crea solo legami
di fusione apparente, di confusione, di paura. È come essere ancora attaccati
al cordone ombelicale. Non ci siamo sciolti,non ci siamo slegati, non siamo indipendenti,
autonomi. L'amore con la libertà crea invece persone vere, complete, autentiche,
persone che non marciano al ritmo dei tamburi della società, ma che seguono la
danza, il ritmo, la musica che sgorga dal loro cuore. Chi è libero può seguire il
Dio dell’Amore; chi è dominato riuscirà a seguire al massimo quegli idoli
“patacca”, che lui stesso si è auto costruito.
In
buona sostanza, Gesù oggi, con le sue parole, non intende dire che per seguirlo
dobbiamo “a priori” rinnegare il
padre, la madre, i figli, gli amici. Ma vuol dire: facciamo in modo che tutti i
nostri legami con le persone e le cose siano “liberanti”, siano cioè vivi,
affrancati da zavorre inutili e pesanti che ostacolerebbero il nostro cammino
verso Dio. Perché chi rimane impastoiato nei valori, nei legami di questo mondo, non
riuscirà a librarsi in alto, non potrà mai raggiungere quella libertà interiore
che gli permette di seguire fedelmente le orme di Cristo…
Liberiamoci
quindi da tutti quei legami che ci imprigionano, che ci condizionano, da tutte
le camicie di forza di questa società alienante. Rimaniamo liberi! Teniamo per
noi solo quello che ci serve per il cammino, senza farci trattenere o rallentare
da tutto ciò che uccide la nostra anima.
Ci
attende un grande compito nella nostra vita: diventare figli di Dio. Noi tutti
geneticamente proveniamo da una madre e da un padre. Ci piaccia o no, è così.
Noi siamo i loro figli. Non solo abbiamo in noi le loro somiglianze fisiche, ma
“prendiamo” dai nostri genitori anche le somiglianze caratteriali, emotive,
interiori. Siamo un miscuglio di nostro padre e di nostra madre. Ma il grande
compito della vita non è quello di diventare identici ai nostri genitori, ma di
diventare figli di Dio, perché è Dio il nostro vero Padre, e Dio-Vita, la
nostra vera madre. È la sua quella “somiglianza” perfetta che dobbiamo
raggiungere, quella stessa con cui siamo stati creati.
Se ci
fermeremo per diventare uguali a nostro padre e a nostra madre, avremo sicuramente
la loro stima, ma mancheremo l'obiettivo della nostra vita. Quando avremo esaudito
le aspettative dei nostri cari, del nostro parroco, del nostro capo, dei nostri
superiori, dei nostri amici, diventando esattamente come loro ci volevano, avremo
forse la loro ammirazione, ma mancheremo all'appuntamento con la nostra vita e
con il progetto che Dio ha sempre avuto per noi. Incontreremo forse il loro
riconoscimento, ma perderemo l’essenza di noi stessi, l’impronta originaria
impressa da Dio nel nostro cuore e nella nostra anima.
Per questo
Gesù, più avanti, ci mette in guardia anche dai facili entusiasmi; ci dice
praticamente che non dobbiamo illuderci, ma al contrario essere concreti, di fare
i conti con la realtà; dobbiamo cioè essere previdenti; dobbiamo agire e fare
le cose pianificandole, con cervello. Dobbiamo soprattutto valutare bene le
nostre forze, le nostre possibilità, e agire di conseguenza.
Per
non prendere cantonate dalla vita, nell’inseguire quelle che sono le nostre
aspirazioni, quello che vorremmo fare od essere, dobbiamo prefiggerci solo ciò
che obiettivamente possiamo fare ed essere, in base alle nostre reali
possibilità ed energie. Alcune persone continuano a fallire nella vita perché
si pongono obiettivi troppo alti, richiedono troppo da sé, non calcolano chi
sono realmente, cosa possono dare e di quanto possono disporre.
Dobbiamo
invece fare sempre i conti con la realtà, con la dura e cruda legge della
realtà. Perché la realtà è l'unica cosa che esiste, il resto è fantasia della
nostra testa. Noi vorremmo essere più semplici, più simpatici, più
intelligenti, meno ansiosi; vorremmo non aver detto quel “sì” o quel “no”; vorremmo
non aver fatto certi incontri; vorremmo che le persone che ci sono vicine
fossero diverse, che ci aiutassero di più, che si accorgessero di quanto
bisogno abbiamo del loro amore; vorremmo che la gente ci apprezzasse di più e
sparlasse meno di noi; vorremmo che nel mondo non ci fossero tutte queste
guerre e tutto questo odio; vorremmo avere meno impegni e costrizioni sociali,
e più tempo per vivere, più tempo per i nostri figli, per i nostri cari, per
noi, per ciò che ci appassiona. Ma la realtà, purtroppo, è ciò che viviamo, non
ciò che noi vorremmo.
Noi
siamo quel che siamo; viviamo in questo mondo, non in un altro. Questa è la nostra
unica esistenza, la nostra unica storia, la nostra unica possibilità di realizzarci,
di distenderci, di divenire. Tutto il resto, tutti i “Vorrei”, tutti gli “Oh come
sarebbe bello”, sono solo aspirazioni, sogni della nostra fantasia. Diceva un
vecchio monaco: “È stolto colui che avendo messo il piede su di un serpente,
chiude gli occhi per non vederlo, per cancellare la sua presenza: perché, anche così facendo, il
serpente lo morderà comunque!”. Svegliamoci, apriamo gli occhi, guardiamo dove
mettiamo i piedi, e viviamo senza farci false illusioni. Amen.
«Quando sei invitato a nozze da
qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più
degno di te… Invece va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui
che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore
davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si
umilia sarà esaltato» (Lc 14,1.7-14).
Per l’insegnamento
di oggi Gesù trae lo spunto dalla vita vissuta, dal comportamento normale della
gente: nello specifico, da come si comportano in genere gli invitati ad un
pranzo di nozze. Non appena si apre la sala del banchetto, si assiste ad un
balzo collettivo in avanti per la conquista dei primi posti, quelli più in
vista, quelli più vicini agli sposi, quelli normalmente riservati alle persone che
contano: ovviamente, lo scopo è quello di mettersi in evidenza, di dimostrare
agli altri commensali la propria superiorità, la propria familiarità con gli
sposi; una volta occupato questo posto prestigioso, poi, si guardano bene dal
cederlo; salvo poi – in presenza di qualche invitato veramente importante - su invito del padrone di casa, subire l’umiliazione
di dover arretrare agli ultimi posti, tra lo scherno e la commiserazione dei
presenti.
Quante
volte sarà capitato anche a noi di notare una cosa del genere! Un comportamento
quasi irrazionale, un bisogno irresistibile, vitale, quello dell’apparire, quello
del dimostrare agli altri il proprio prestigio: una mentalità che fin
dall’infanzia ci viene inculcata dalla società consumistica e arrivista in cui
viviamo. La nostra società in particolare è una società illusoria, menzognera: fin
da piccoli ci spinge a inseguire sogni impossibili, irrealizzabili, a rivestirci
di panni che non sono nostri, a raggiungere posizioni per noi sproporzionate, nelle
quali non potremo mai essere noi stessi.
Gesù
nota questa tendenza umana, e la stigmatizza: del resto, se vogliamo a tutti i
costi posizionarci ai primi posti senza averne i requisiti, per pura ambizione,
dimostriamo di non essere obiettivi con noi stessi, di non apprezzare la
posizione che ci compete naturalmente; dimostriamo di vivere una realtà, una
dimensione, che non è la nostra; dimostriamo di non amare la nostra vita vera, di
non capire quello che effettivamente siamo e rappresentiamo nella società. Dimostriamo
insomma una grande immaturità, che è sistematicamente causa di una profonda
infelicità.
Vale
allora la pena di spendere una vita intera alla ricerca continua di false illusioni?
Struggersi in un costante logorio interiore, nella rabbia e nell’invidia per quanti
sono più fortunati, più in alto di noi? Ricordiamoci che nella vita ognuno ha ricevuto
dei precisi “talenti”, e ciascuno è tenuto a farli fruttare sapientemente, con
ogni cura possibile; ma sarebbe stupido quel tale che, avendone avuti due
soltanto, pretendesse risultati pari o maggiori di coloro che ne hanno ricevuti
cento. Sarebbe doppiamente un perdente: per non aver apprezzato il suo massimo risultato
personale, e per la frustrazione e la delusione continua di non poter
raggiungere un traguardo per lui comunque irraggiungibile.
Ognuno
rivela il suo carattere con i fatti. Per capire chi abbiamo di fronte, per
capire chi egli sia, cosa consideri importante, e soprattutto cosa pensi e cosa
conservi dentro, è sufficiente guardarlo come parla, cosa dice, come si muove,
come si relaziona, come si comporta.
Legare
la nostra felicità semplicemente al sentirci superiori agli altri, al saperci
più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo
apparire, è pura immagine. Inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, perché
in realtà, dentro di noi, ci sentiamo delle nullità.
Il
dramma, purtroppo, è che nessun travestimento, nessun apparire, nessuna
immagine esteriore, per quanto grandiosa, può farci felici. Non lo può per
definizione. Perché la felicità nasce solo dalla nostra vita concreta, dalla
sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa nostra vitalità, dal
percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore. Al
contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità
e i nostri sentimenti interiori ci appaiono sfocati, scontornati, eliminati,
distrutti. E la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento.
Allora
che fare? Come dobbiamo reagire? Semplice: dobbiamo imparare a raggiungere già
in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo
convogliare tutte le nostre energie. Ma in che cosa consiste esattamente questo
“regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità
senza fine, di quell’amore senza
confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa
terra ed è morto sulla croce?
Nulla
di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata.
Regno
dei cieli, oltre che sentire le sensazioni più intime, le vibrazioni più
personali del nostro cuore che riflette l’amore di Dio, è provare anche la
paura, l'angoscia, la tristezza: perché esse ci rendono umili e vicini a tutti
gli uomini nostri fratelli. Regno dei cieli è sentire e soffrire per
l'ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è percepire l'amore
che danza dentro di noi e che trasmettiamo in quanti incontriamo. Regno dei
cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei
cieli sono gli occhi pieni di passione di chi ci ama, occhi che ci penetrano e
che raggiungono l'anima. Regno dei cieli è dispensare amore, affetto e presenza
ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche
quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza
giudicare, poter toccare senza prendere, poter ammirare senza voler possedere.
Regno dei cieli è sentirsi vivi, così vivi da sentire completamente piena e
traboccante la nostra vita; così vivi da poter anche morire soddisfatti, perché
abbiamo vissuto abbastanza, seminando in questo mondo sincerità, speranza e amore.
Regno dei cieli è poter ammirare l’innocenza di un bambino, l'eccitazione nei suoi
occhi quando vede la mamma, o quando salta di gioia godendo del suo amore.
Regno dei cieli è sentirsi noi tra le braccia del Padre, ed essere certi che lì,
tutto sommato, non c’è proprio nulla da temere. Regno dei cieli è smettere di
preoccuparci per cose inutili e anche per quelle utili. Regno dei cieli è
sentirci parte importante ed essenziale di questo mondo; sentirci come si sente un
figlio, parte integrante di una vera famiglia, voluto, benedetto, aspettato, da
un padre e da una madre.
Tutto
questo è normalità. Quando nasciamo, tutto questo lo conosciamo già. È invece
crescendo che la società ci insegna ad abbandonare questo “regno dei cieli”. La
maggior parte della gente crede che tutto ciò sia solo una grande “balla”, frottole
per bambini, illusioni per preti e squilibrati.
Lo
sapeva anche Gesù: tant’è che solo in pochi credettero al suo Regno dei cieli. Però
quei pochi che gli credettero e lo sperimentarono, lasciarono tutto quello che
avevano per seguirlo, e non furono mai più gli stessi. Gli altri, quelli che
non gli credettero, lo uccisero perché era un “eretico”, uno che diceva falsità,
che illudeva la povera gente.
«Chi si esalta sarà umiliato e
chi si umilia sarà esaltato».
È proprio così.
Per
chi cerca sempre e solo di salire in alto, per sentirsi superiore agli altri, “umiliarsi”
è una esperienza terribile, improponibile. Umiliarsi (che poi significa entrare
in contatto con la propria “umanità”) è davvero tragico per tutti, ci fa
davvero male. Perché, una volta che ci togliamo la nostra bella maschera, non
troviamo più nulla di noi stessi: di quel grande personaggio che pensavamo di
essere non troviamo più traccia. La maschera in qualche modo ci dava sicurezza.
Non eravamo noi, ma per gli altri eravamo sicuramente “qualcuno”. Ora, senza camuffamenti, ci rendiamo conto che, nella
nostra goffaggine, non siamo nessuno. O al più, peggiori di tanti altri.
È un
momento difficile, duro, ma è un passaggio obbligato per ritrovare la nostra
vita autentica, la strada verso noi stessi. È la conversione: cesseremo cioè di vivere una vita non nostra, a
beneficio della gente, ostentando un qualcuno
che non siamo; inizieremo umilmente a ricostruirci una nuova esistenza partendo
dal nostro interno, da ciò che siamo veramente dentro, dalla nostra coscienza;
ricomporremo pezzo dopo pezzo la nostra identità, ripartendo dal basso, dagli
ultimi posti.
Del
resto - il Vangelo lo sottolinea espressamente - se non ci mettiamo all'ultimo
posto, se non iniziamo dalle fondamenta nascoste, dall’umiltà più convinta, non
potremo mai costruire nulla, e non potremo neppure accogliere, ospitare,
invitare chi a sua volta è anche lui “ultimo”.
Ecco:
questo significa seguire il richiamo del “regno dei cieli”. Un “regno dei cieli”
che è comunque un problema serio. Se infatti ci guardiamo allo specchio della
nostra anima, se siamo onesti con noi stessi, noi che pensiamo di essere già veri cristiani, cosa vediamo in fondo, in fondo? Le
nostre debolezze: che cioè anche a noi, discepoli convinti, piace stare ai
primi posti; che ci piace trattare soprattutto con le persone belle,
affascinanti, amabili, mentre cerchiamo di evitare quelle meno gradevoli, i
poveri, i miseri; che ci piace aver a che fare con chi ha una posizione
prestigiosa; che ci sentiamo onorati della loro amicizia e compagnia; che con
tutto l’amore che predichiamo, se potessimo, elimineremmo volentieri quelle
persone che ci stanno di traverso, o almeno faremmo loro, con grande piacere,
un po' di male. Non ci vediamo forse così? No!? Se diciamo di no, non siamo sinceri
con noi stessi: e sappiamo di mentire!
Certo,
non è bello scoprirsi così! Ma questa è purtroppo la nostra natura umana! È la
base su cui dobbiamo innalzare il nostro “regno dei cieli”. Guai a chi non si
vede così. Guai a chi crede di essere superiore a queste miserie, a chi crede
che tutto questo non gli appartenga. Vederci così fragili, al contrario, ci fa
bene. Ci fa bene perché ci rende umili, ci ricorda la nostra debolezza umana: ci
ricorda che, quando vediamo qualcuno che cade, non lo dobbiamo giudicare; perché
sappiamo che ciò che è capitato a lui, può capitare in peggio anche a noi.
E
concludo: solo se ascolteremo attentamente la nostra anima e conosceremo a
fondo il nostro cuore, saremo in grado di ascoltare e conoscere il cuore degli
altri. Solo se saremo sinceri con noi stessi, se non ci mentiremo, potremo essere
sinceri e onesti con gli altri. Chi non si accetta così com’è, chi non sa stare
umilmente al proprio posto, non accetterà mai nessuno altro alla pari! Perché chi
si ritiene “primo”, guarderà gli altri sempre e solo come “secondi”. Amen.
«Gesù passava insegnando per
città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme… “Sforzatevi di
entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare,
ma non ci riusciranno”» (Lc 13,22-30).
Gesù continua
il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di
Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che
ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il
riferimento ad una necessaria e irrinunciabile progressione spirituale
dell'anima. Se spiritualmente non siamo in cammino, se non ci muoviamo, siamo
fermi. Se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. Le persone “vive”,
camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono. Le
persone “morte” rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si intestardiscono,
si impuntano.
Ci
siamo mai chiesto perché il Signore dice ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire”
comporta necessariamente un avanzamento progressivo. Non si può seguire il
Signore e rimanere fermi, rimanere gli stessi, fossilizzarsi sulle stesse idee,
sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si
giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella sua
vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni diverse, più
appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, più convenienti al
suo particolare percorso di sequela.
Vuoto
immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta:
perché è ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete continuamente senza alcun
entusiasmo, passivamente, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di
andare al massimo, di trarre il meglio da se stessa; non costruisce il suo
percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui.
Ma così facendo rinuncia ad essere se stessa, si lascia trascinare supinamente dal
pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale.
Vogliamo
fare una verifica sulla nostra situazione personale a questo riguardo? Vogliamo
sapere se siamo veri discepoli del Signore, in continua tensione? È molto
semplice: è sufficiente controllare se le nostre preghiere, la nostra fede, il
nostro credere, il nostro comportamento nei confronti di Dio e del prossimo,
sono gli stessi della nostra infanzia: se è così, vuol dire che il nostro
cammino cristiano è rimasto allo stadio infantile; non siamo cresciuti, siamo rimasti
fermi ai primi passi; vuol dire che gran parte della nostra vita è passata inutilmente.
Se a quarant'anni la nostra coscienza ci rimprovera ancora: “Bugie... parolacce...
preghiere dimenticate... mormorazioni”, vuol dire che siamo ancora ai nostri otto
anni, alla prima comunione! Dal punto di vista spirituale siamo rimasti immobili,
immaturi; non siamo cresciuti per nulla.
Seguire
il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol
dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua
trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale
della vita, è quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre
Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una
domanda chiaramente superficiale, da curioso, di uno che parla tanto per dire
qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle poste
nelle interviste da tanti cronisti di oggi, fatte con l’intenzione di ricavarne
magari uno “scoop” da dare in pasto allo “spettegolare” quotidiano. Ma Gesù non
gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è
questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve
mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci
riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà...
allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che
si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo
quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo
a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci
sul come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri
si salveranno o no: il problema vero siamo noi, è la nostra possibile salvezza.
Un
problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto
dura, forte, decisa. Non vengono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze.
Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente l’opposto del Padre buono,
del Padre che ama alla follia, del buon samaritano, del Padre che aspetta il
ritorno del figlio prodigo, del Padre che ci cerca, che ci perdona ogni cosa,
che accoglie tutti a braccia aperte. C'è quasi da aver paura di questo Dio
“intransigente”. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: «Signore aprici!», Egli non ha dubbi o ripensamenti: «Non vi conosco, non so di dove siete… Allontanatevi
da me voi tutti operatori di iniquità!». Capito bene? «Operatori di iniquità!». Ma come è possibile? Noi che siamo
convinti di essere perfettamente in regola! Noi, i “grandi”, i “saputoni”, gli
esperti di chiesa, di fede, di vangelo; noi, gli autentici cattolici “adulti”,
impegnati nel sociale e nelle catechesi; ebbene, proprio noi, “fuori!”, “esclusi!”.
Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, i “discepoli puri e duri”, siamo
destinati al “pianto e stridore di denti”. Quelli invece che noi deridiamo,
quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità,
delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’Amore e nella gloria di
Dio. Beh, dev'esserci per forza qualche spiegazione che è sfuggita al nostro ottuso egocentrismo!
Diciamo
pure che qui l’autore, dovendo esprimere un concetto molto importante, un
concetto che tutti dovevano capire alla perfezione, si è servito di immagini particolarmente
dure, di forte impatto emotivo, tipiche dello stile e della cultura del tempo.
Immagini comunque che non devono farci erroneamente pensare ad un Dio
prepotente e crudele, incline alla condanna facile; un Dio irremovibile, che
decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è
assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Non è che se talvolta ci
comportiamo male, se non seguiamo alla lettera le sue regole, Lui, per
vendetta, ce la faccia pagare. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la
condanna non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato di certe nostre premesse,
una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di
causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte
finale; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo
stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare di fare scelte di “non scegliere”, di
condurre un certo vivere senza farsi domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi
acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò ha come diretta
conseguenza un giudizio negativo.
Le
facce della medaglia sono sempre due: da un lato c’è Dio che è grande,
misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che
tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, ci sono le nostre
mani; anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo
facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci
sarà mai quella “presa” che ci salva. Se manchiamo questa “presa” la colpa non
è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che
dobbiamo aver paura. È di noi stessi: è di noi che non dobbiamo fidarci, del
nostro agire fuori regola, dei ritardi delle nostre risposte, delle nostre
mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza.
Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza.
Nessun altro. Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”.
La
dinamica di questo cammino viene qui spiegata attraverso l’immagine della
porta.
La
porta, in tutte le culture, indica un passaggio dal fuori al dentro,
dall'esterno all'interno. Indica un cambiamento di situazione, un passaggio dal
mondo profano a quello sacro, una netta evoluzione spirituale. La porta aperta
evoca accoglienza, calore, libertà, accesso; la porta chiusa evoca rifiuto,
esclusione, imprigionamento.
Cosa
vuol dire allora quest'immagine? Che nella vita è indispensabile oltrepassare questo
passaggio obbligato, per non rimanere tagliati fuori: dobbiamo cioè fare di
tutto per varcare la soglia di questa porta. Per questo dobbiamo fare necessariamente
delle scelte, entrare in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo
farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento
in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma sarà la nostra stessa vita
a dirci: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile,
impresentabile!”. E anche in questo caso non è una punizione della vita in quanto
tale, non è un accanimento del “destino”: è semplicemente la conseguenza delle
nostre libere scelte, del nostro agire.
“Sforzarsi”,
in greco agon°zomai, significa letteralmente “lottare,
combattere, gareggiare”. Indica cioè una difficoltà. Nessuno dice infatti che queste
iniziative siano facili; ma è giocoforza affrontarle, dobbiamo passarci dentro,
perché per varcare quella porta dobbiamo risolverle. Talvolta fanno anche paura;
forse ci faranno anche piangere, creeranno tensioni, vere lacerazioni interiori.
Ma se le ignoriamo, se le lasciamo lì, se facciamo finta di niente, verrà un
giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente. Nessuno
ha mai detto che crescere spiritualmente sia semplice: ma dobbiamo comunque entrare
“dentro” in quel cammino, dobbiamo oltrepassare quella strettoia determinante.
Molti
diranno: “Quanti paroloni inutili in questo commento! A che servono? Io sono già
cristiano: io prego; io vado in chiesa quasi tutte le domeniche; io non ho mai
fatto male a nessuno; io mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo
la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto:
ma è evidente che tutto questo non basta: ricordate il vangelo di oggi? «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e
tu hai insegnato nelle nostre piazze...». Che vuol dire: “Come mai proprio
noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei
tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Evidentemente questo solo
non basta. Vuol dire che, nonostante ciò, siamo rimasti “fuori” della nostra
anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la
voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi
richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo
accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa
solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta che ci introduceva
alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva a stretto contatto con
Dio. Non abbiamo ascoltato la sua voce e non abbiamo agito di conseguenza.
Se
continueremo a seguire la mentalità del mondo, purtroppo continueremo ad
ignorare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi,
fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere anche la “casa” stessa! È una
eventualità che non va sottovalutata!
In
conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante è
uno solo: c'è questa benedetta porta da passare, da entrarci dentro. O ci
decidiamo a farlo in fretta, o rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta
per noi irrimediabilmente chiusa. Tocca soltanto a noi scegliere! Amen!
«Sono venuto a portare il fuoco
sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!... Pensate che io sia venuto a
portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. (Lc 12, 49-57).
Il
vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente
dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i
concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non
sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al
solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali,
risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”,
diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell'uomo vecchio, quello incentrato su se
stessi, e la nascita dell’uomo nuovo,
quello che ci fa vivere da figli di Dio.
Un cambiamento
che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo
di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono
sempre stati considerati all’opposizione,
“dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno
scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il
mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza
delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza,
le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare
né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano
proprio questa situazione di ostracismo e di divisione.
Scegliere
di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una
decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù
stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti
sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente
si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando
facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo
terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”,
segno di “contraddizione”; in una società dell'immagine e del consumismo come
quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico,
difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di
successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”!
Le
parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma
la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo
delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a
rotolarsi nelle ingiustizie e nelle perversità di sempre; Egli è venuto a
portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha
portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che
non va bene, di ciò che ferisce l'uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta”
necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per
quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori).
Le
persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano solo questo; questo
ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “Pensate attentamente a Cristo
che ha sopportato da parte dei peccatori una così grande ostilità contro la sua
persona, proprio perché voi non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete
ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato…”. È
chiaro? “Resistere fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i
primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto, come succede a noi!
La
Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana
dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in
grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o
ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come
se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo
timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque
altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questo nostro tempo, di
“salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”,
di “principi morali inalienabili”. Ci nascondiamo: un po’ come vediamo fare
certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi
di indossare una veste, “una divisa”, che li distingue dagli altri, li
identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento
“superiore”, “convinto”, da “consacrati”, luminosamente “coerente” con la fede
che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non
è questo che Gesù vuole da noi: perché noi, come tutti gli uomini, siamo i
“chiamati”. Ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in
prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: proprio
perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono
verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si
scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non tacciamole
queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente,
in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione
che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato.
Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, professori di
religione, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul
serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede
e della morale cattolica! E in questo modo la verità ci farà liberi.
In un
ambiente sociale, in cui la verità è causa di schiavitù e di servitù, perché
ignora o disprezza sia la sua stessa natura, che quanti la professano, noi
cristiani dobbiamo essere convinti che è la verità, particolarmente la verità
della nostra fede, che ci affranca, che ci rende assolutamente liberi.
L'uomo
non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere la verità del suo
essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per se
stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c'è verità c'è libertà, e dove non c'è
verità, c'è inevitabilmente qualche forma di schiavitù. Cerchiamo la verità?
Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la
verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo
rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale
inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità,
della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità
assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di
questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è
aver paura di essere se stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi
dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità umana, la
propria personalità. La verità ci farà liberi. Non dubitiamone. È l'esperienza
degli uomini grandi.
Il
Vangelo nasce dunque sotto il segno della contraddizione: e sotto il segno
della contraddizione cresce e si diffonde. È questo il dramma dell'alleanza fra
Dio e il suo popolo, dramma che continua a riproporsi nella storia: Dio si
racconta, si svela, si avvicina all'uomo, si offre di aiutarlo; ma l'uomo sistematicamente
gli risponde “no, grazie”.
Siamo
discepoli di un Dio che crea divisione, di un Dio che non ci lascia tranquilli,
indifferenti, adagiati nelle nostre certezze, trincerati dietro le nostre
tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri gruppi esclusivi di
spiritualità; siamo discepoli di un Dio che ci scuote, che ci infiamma, che ci brucia
dentro, che ci spinge fuori, nel mondo.
Chiediamoci
allora: veramente sentiamo dentro di noi questo Dio che brucia il nostro cuore,
la nostra anima? Ci brucia sul serio, al punto da non poter fare a meno di
annunciarlo, di parlare di Lui a tutti quelli che avviciniamo? Lo difendiamo nelle
discussioni con quanti lo negano? Di conseguenza: siamo mai stati derisi per le
nostre convinzioni? No? Allora i casi sono due: o viviamo segregati in un limbo
virtuale, tagliati fuori, avulsi dalla realtà, oppure viviamo molto poco da
autentici cristiani: la nostra testimonianza è talmente insignificante e priva
di mordente che nessuno si accorge di noi. Viviamo da “tiepidi”; ma proprio per
questo nostro essere “né caldi né freddi” rischiamo di essere “vomitati” da
Dio, come scrive l’Apocalisse.
Noi siamo
discepoli di Cristo: non dimentichiamolo mai! E come tali siamo chiamati da Lui
per essere dei rivoluzionari, degli incendiari: gente che scuote, che infiamma tutto
il mondo; gente che predica e professa apertamente l’Amore di Dio per le sue
creature. Amen.