giovedì 9 gennaio 2025

12 Gennaio 2025 – BATTESIMO DEL SIGNORE


Lc 3,15-16.21-22

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione era molto attuale ed efficace e la gente lo seguiva con attenzione. In molti si chiedevano addirittura se non fosse lui il Messia, il Cristo, l’Aspettato da sempre: lo sentivano parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”. Di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente correva da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmetteva è certamente quella di un Dio che ama; ma era anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – faceva capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. È necessario pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige la perfezione, non fa sconti, opera con giustizia, rigore, intransigenza: ripaga i giusti con il premio del paradiso, castiga i malvagi con la condanna all’inferno, allontanandoli dalla sua presenza. 
Farsi battezzare da Giovanni nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima immergendosi nelle acque del fiume, era quindi per chi lo seguiva l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Dio ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma una volta sceso in acqua, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto il Padre lo ami, di quanto Egli sia importante agli occhi del suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo Vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c’è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che il rito del “battesimo d’acqua”, acquista per Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento storico, materiale, di routine; egli tenta qui di riportare una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento profondo, interiore, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso “segni e discorsi” celestiali che tutti avranno modo in futuro di percepire e comprendere: i “Cieli sono aperti”, sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) in stretta, indissolubile comunione, sono aperti per rendere comprensibile qualunque comunicazione.
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, tutto ciò che esiste l’ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; sei unico per me: ti voglio bene!”.
Che cosa in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente siamo, o siamo stati, i destinatari di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata col cellulare e neppure di un “sms”. Ma per tutti, questa occasione è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia quasi esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza per quanto è grandioso e bello.
Se vogliamo capire e dare seguito a questa “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni. Dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell’incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutte le nostre miserie, con il nostro nulla, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono spenta la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare, ripulire, tagliare, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: quello Spirito d’Amore che ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere bravi, giusti, perfetti, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, perché così non arriveremmo mai a incontrare e a conoscere l’amore di Dio; non potremmo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore non si “patteggia”, non è soggetto a “conflittualità”, non “pretende” nulla: è solo “a servizio”, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata: ascoltiamo la Voce dell’Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
Fidiamoci della Voce del Padre; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente alla sua “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.

  

giovedì 2 gennaio 2025

05 Gennaio 2025 – II DOMENICA DOPO NATALE


Gv 1,1-18 
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Il vangelo che la Liturgia ci propone questa domenica, è il brano più profondo e difficile di tutti i Vangeli. Alcuni studiosi hanno passato la loro vita a studiarlo; S. Giovanni Crisostomo o anche Sant’Agostino hanno detto che è un vangelo che va al di là della comprensione umana.
In principio c’era il Verbo: in greco Logos, un termine che ha due significati: Progetto e Parola. Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”. Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni afferma che Dio, prima di creare ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, un’idea. Questo significa che noi non siamo qui per caso; siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi; pensate: noi, creature insignificanti, facciamo parte del Progetto di Dio. Se così non fosse, noi neppure esisteremmo. Ma ci siamo, e siamo qui per un motivo ben preciso... e visto che Dio ci ha creati, il motivo deve essere davvero importante. In altre parole Dio ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori neppure ci volevano... magari la gente ci rifiuta e ci respinge... magari noi stessi non ci vogliamo, non ci piacciamo, ci facciamo schifo... ma Dio ci ha voluto, e continua a volerci, perché gli serviamo per attuare il suo Progetto. Che aspettiamo allora a dargli una mano?
Dio ci ha fatto un dono: la vita. Il dono che noi facciamo a Dio è quello di vivere. Lui vuole questo da noi. “Io sono venuto, perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”. In pratica dobbiamo vivere, rischiare, metterci in gioco: chi espone le proprie idee, rischia di mostrare a tutti i propri sentimenti, il proprio io intimo; chi ama, corre il rischio di non essere corrisposto; chi vive corre il rischio di morire; chi spera, corre il rischio della disperazione, chi tenta corre il rischio di fallire. Ma bisogna correre i rischi, perché il rischio più grande nella vita è quello di non rischiare nulla. Colui che non rischia nulla, è un nulla e non diventerà mai che un nulla. Può evitare la sofferenza e l’angoscia, ma non può imparare a sentire, a cambiare, a progredire, ad amare, a vivere. Incatenato alle sue certezze, è uno schiavo. Ha rinunciato alla libertà. Solo colui che rischia è veramente libero. La vita, come ho detto, è il dono che Dio ci fa: una vita vissuta è il nostro dono a Lui: una vita sprecata è il più grande peccato. Cosa aspettiamo allora a vivere? Non diamo anni alla vita, ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo luce che risplende nelle tenebre. L’uomo che vive, cioè colui che ha accolto il messaggio di Dio, è vita, è luce; non dice luce che lotta, ma semplicemente luce che splende, luce cioè che brilla, libera, senza subire costrizioni e senza costringere nessuno.
Ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1,5). Naturalmente le tenebre odiano la luce, non la vogliono: qui Giovanni allude alle autorità religiose. Infatti esse “sono dei morti” che vivono, inflessibili, freddi, autoritari, senza un cuore caldo. Avrebbero dovuto portare la luce e invece... 
“Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 19,9). La luce vera, Gesù, il verbo incarnato, è venuto nel mondo. “Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre ma avrà la luce della vita”.
Gesù-Vita è quindi la vera luce che illumina ogni uomo: facciamo però attenzione a non prendere abbagli, perché il potere (orgoglio, superiorità, mancanza d’amore, rigidità, ecc) non può conoscere Dio.
Anche coloro che si lasciano incantare da altre luci, diverse dalla Luce vera, sono comunque “divini”, sono cioè fatti, impregnati di Dio; ma poi si sono, come dire, dimenticati di chi sono veramente, si sono dimenticati che hanno l’impronta di Dio nel loro cuore e vivono non riconoscendolo e non riconoscendosi più. Che tristezza: essere dei re e vivere come degli schiavi!
“A quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.
Ecco, questo è il progetto originario di Dio per ognuno di noi: che noi diventassimo suoi figli.
Noi abbiamo imparato che l’uomo è fatto per servire Dio, che Dio è sopra e l’uomo è sotto, è il suo servitore, che è meglio ubbidirgli perché Dio è potente e se non stiamo attenti ci punisce con l’inferno o con qualche castigo.
In realtà non è così: noi non siamo i servi di Dio ma siamo i serviti da Dio. Vi ricordate la lavanda dei piedi (Gv 13,1-20)? È Dio che serve l’uomo e non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede preghiere, servizi, sacrifici per lui: è Lui che è venuto a portare il suo servizio e l’amore a noi. La fede non è più quello che noi facciamo per Lui, ma quello che Lui fa per noi.
Noi non siamo figli di Dio per nascita, ma lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4,7-8). I figli di Dio sono pertanto quelli che sono stati generati nell’amore e vivono nell’amore. Non con preghiere, digiuni o sacrifici, lo ripeto, ma con l’amore. Amore: questo, e questo solo, Lui ci chiede.
Questa di Giovanni è una teologia “trasgressiva”: Dio non è più nelle chiese, in un posto prestabilito, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”. Dio non è più fermo, fisso in un luogo, come lo era nel Tempio, ma in cammino, in un continuo cammino insieme alla gente.
Dio non è più un luogo (tempio), ma un tempo (kairòs): perché nell’istante stesso in cui c’è l’amore, lì c’è Dio..
“E noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). “Nessun uomo può vedere Dio!”, era la convinzione degli antichi israeliti; a Mosè, che ad un certo punto chiede al Signore: “Mostrami la tua Gloria”, Dio gli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,18-20). Ma con Gesù questo non è più vero: Dio non è invisibile; Gesù stesso dirà: “Dio si vede... Chi vede me vede il Padre (Gv 14,9)”. Dio non è lontano da noi; Dio è qui.
Sulla vetta di un’alta montagna delle Dolomiti, ricordo un cartello che diceva: “Non cercare Dio, ci sei immerso”. Lui infatti era lì... bastava guardarsi attorno!
In Gesù, “unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi non è Gesù che è come Dio, ma è Dio che è come Gesù. E allora, se vogliamo sapere chi è Dio, guardiamo, imitiamo, diventiamo, come Gesù. Tutto ciò che Gesù non è, non viene da Dio. La caratteristica di Dio, invece, è quella di essere “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14): una forma che si può tradurre con “pieno di amore e di verità” oppure con “pieno di amore vero”. Perché Dio è così: Egli ama di un amore fedele, di un amore che non tradisce, che non si vendica, che rimane sempre: anche se noi ce ne andiamo o lo tradiamo.
Ancora oggi molte persone temono di aver perso l’amore di Dio, di aver fatto qualcosa di irreparabile per Dio, di essere indegni di Lui...: ma Lui non è così! Lui rimane, Lui è fedele, sempre! “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv 3,19-20). Ricordiamolo in questo giubileo della Misericordia: l’amore di Dio non tradisce mai, non viene mai meno, neppure di fronte alle nostre più oscure cadute. Amen.

 

giovedì 26 dicembre 2024

29 Dicembre 2024 – SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE


Lc 2,41-52 
I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

Nella prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Noi immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita.
Al contrario il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene, non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non soffochiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro unico Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; come tutti i genitori non erano preparati a vedere il piccolo figlio in prospettiva del suo domani; anche a loro è accaduto e continua ad accadere a tutte le famiglie del mondo.
È la ruota della vita: i figli ne sono il centro. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, cerchiamo di essere il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Stiamo perdendo i nostri figli e non ce ne rendiamo conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma quel bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui preferisce stare con gli amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro proprietà”: pensarlo è un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima.

Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al “tempio”, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li unisce, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli hanno una loro strada da seguire, devono raggiungere la loro Gerusalemme, devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
In realtà è veramente difficile accettare che i figli siano grandi; è difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è difficile lasciare loro spazio; è difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non li aiutiamo a crescere, non facciamo il loro bene.
Quando finalmente Maria e Giuseppe trovano Gesù nel Tempio, gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, il richiamo dello Spirito, la Voce della Sua missione; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
Possiamo dire che la storia di Maria e di Giuseppe è costellata dal “non capire”, dal non comprendere, da un mistero incomprensibile: anche se quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Come mai allora noi vogliamo capire sempre tutto? Perché vogliamo avere sempre una risposta, una spiegazione? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere tutto sempre chiaro? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? Se smettessimo di voler capire tutto, se ci fidassimo un po’ più di Dio?
Una cosa fondamentale dobbiamo capire: che la nostra vita ha un compito ben preciso da assolvere: quello di tornare al Padre, con i frutti della nostra missione.
Per rispondere alla “vocazione” di Dio noi abbiamo delegato molto volentieri alcune persone (preti, suore, frati ecc.), come se loro soltanto avessero il compito di collaborare al grande Progetto di Dio. In questo modo ci siamo sicuramente messi a posto la coscienza, ma non il cuore. Ci siamo mai chiesti perché in certi momenti, soprattutto quando siamo soli e nel silenzio, siamo tristi? Semplice: perché tutti abbiamo un’anima; e la nostra anima, in questa vita, ha una missione, uno scopo ben preciso. Tutti siamo dei “chiamati”. Possiamo raccontarcela come vogliamo, ma nessuno di noi è qui per caso. Possiamo far finta di nulla: possiamo occuparci di tutt’altre cose, ma la nostra anima continuerà a desiderare di essere, di fare, di vivere, ciò per cui è stata creata.
La felicità vera è infatti scoprire e realizzare ciò per cui esistiamo: il compito affidatoci da Dio, realizzare ciò per cui Lui ci ha pensato.
Siamo agli sgoccioli di questo anno solare. A tutti gli amici che mi seguono porgo i migliori auguri per un radioso 2025. Che sia veramente un anno santo, portatore di santità per noi.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita.
Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, Lui sì ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.

 

giovedì 19 dicembre 2024

22 Dicembre 2024 – IV DOMENICA DI AVVENTO




Lc 1,39-45 
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Siamo alla quarta domenica del tempo di Avvento, la domenica che precede il Natale.
Il vangelo di oggi ci presenta l’incontro tra Maria ed Elisabetta, tra queste due donne che sono “parenti” non tanto di sangue, ma soprattutto per ciò che sta loro capitando e che le accomuna entrambe: l’una e l’altra cioè hanno gravidanze straordinarie; l’una e l’altra hanno mariti scettici; l’una e l’altra hanno in grembo figli “particolari”; l’una e l’altra sono madri di una novità che non conoscono e che le supera.
Si capiscono bene, proprio perché vivono cose simili.
Maria dal nord della Galilea, si mette in viaggio, in fretta, verso il sud della Giudea.
Facciamo mente locale per un attimo: Maria intraprende da sola un viaggio di molti giorni; una donna sola, a quel tempo, era esposta a pericoli di ogni genere! Inoltre, per scendere dalla Galilea alla Giudea, era necessario allungare di molto il viaggio, almeno di tre o quattro giorni, per evitare di passare attraverso la Samaria, nemica secolare dei Giudei. Insomma, era un’impresa impensabile per chiunque volesse farla da solo.
Ma lei è decisa: si alza e parte! A volte noi immaginiamo Maria come modello di riservatezza, di umiltà, di silenzio: una donna dimessa che ubbidisce a tutti e se ne sta zitta e tranquilla, nella sua stanzetta; una madre insomma tutta casa e preghiera. Ma dai vangeli non appare affatto così: Maria è una donna risoluta, forte, coraggiosa, intraprendente.
Del resto c'era voluto un bel coraggio per dire “sì” ad una maternità come la sua, per affrontare il giudizio di Giuseppe, dei famigliari, della gente, per acclamare apertamente, nella sua condizione femminile di quel tempo: “Dio rovescia i potenti... rimanda i ricchi a mani vuote... disperde i superbi...”. Poteva essere accusata come sovversiva, e andare incontro a gravi conseguenze!
Il vangelo ci dice dunque che Maria ha fretta, ma non dice il perché. Dice però che arrivata da Elisabetta, entrò “nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta”. La fretta di abbracciare la cugina è talmente forte da farle dimenticare un saluto al padrone di casa Zaccaria: possibile che durante il viaggio sia diventata improvvisamente scortese, maleducata? Oppure c’è dell’altro, un qualcosa che è successo proprio in quella casa? Zaccaria in effetti era muto a causa della sua incredulità all’annuncio di Dio: egli, sacerdote e religioso, aveva rifiutato lo Spirito Santo, aveva rifiutato l’annuncio di Dio.
Maria ed Elisabetta, invece, lo Spirito Santo lo hanno accolto, immediatamente. E questo Spirito le ha riempite non solo di un figlio ma di una gioia, di una sensibilità, di una profondità che solo loro due possono condividere: una intimità che Zaccaria non può né provare né capire.
In estrema sintesi, Luca vuol dirci: solo chi è vivo può capire la vita; solo chi è innamorato può capire l’amore; solo chi ha la felicità può capire la gioia.
Zaccaria non può capire; Zaccaria non può vibrare; non sa entusiasmarsi, non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non sa piangere, non sa rallegrarsi, non ha lo stesso cuore delle due donne.
Il suo è un cuore morto. Soltanto chi ha il cuore vivo, pieno d’amore, chi ha il cuore grande, può capire l’annuncio di Dio, ed aver fretta, come Maria, di condividerlo. Gli altri non possono capire perché sono legati alle logiche della mente umana, alle logiche economiche, alle logiche finanziarie, della paura.
Il saluto di Maria, piena di Spirito Santo, trasmette ad Elisabetta lo stesso Spirito. Maria passa ad Elisabetta ciò che vive, ciò che possiede, ciò che ha. È piena di Spirito e passa lo Spirito. Ognuno, nella propria vita, trasmette ciò che ha, comunica quello che è.
Il loro saluto è uno scambio, una comunicazione di percezioni, di energie vitali, di vibrazioni dell’anima. È un incontro in cui, al di là dei discorsi, i cuori e le anime delle due donne si sfiorano e si toccano.
Ebbene, sull’esempio di Maria permettiamo anche noi allo Spirito del Signore di incontrarci nel profondo del nostro cuore? O lo blocchiamo in superficie, a confrontarsi solo con le nostre esibizioni, col nostro apparire, con le nostre maschere esteriori? Non è certo così che dobbiamo incontrare Dio. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi e Lui. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda al panico, all'angoscia. Tutto questo non ha nessuna importanza, perché se riusciamo a incontrarLo nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo. 
Solo infatti incontrandoLo nella completa nudità del nostro cuore, possiamo trovare la serenità, confidargli le nostre paure, esternargli ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessargli le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo incontrandoLo possiamo aprirci e raccontargli i nostri sogni, spiegargli le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi.
Insomma: è la nostra vita interiore che dobbiamo comunicare a Dio, non vuote parole di comodo; è l’anima che dobbiamo offrirgli quando lo incontriamo nella preghiera, non squallide cerimonie. Allora, e solo allora, avverrà il nostro incontro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità di una vita in unione con Lui. E anche se ciò risultasse talvolta difficile, ci costasse fatica, ci facesse star male, ci facesse soffrire, pazienza, perché solo uniti saldamente a Lui è vivere una Vita vera. Amen.

 

giovedì 12 dicembre 2024

15 Dicembre 2024 – III DOMENICA DI AVVENTO


Lc 3,10-18 
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

Nel vangelo di oggi la gente va dal Battista per porgli una domanda fondamentale: “Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi una grande quantità di persone si pone molto spesso: “Cosa devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un’iniziativa, un’associazione, un gruppo, qualcuno, a cui rivolgermi per risolvere affrontare le incognite della vita?” 
Cosa non farebbe oggi tanta gente pur di trovare un personaggio veramente carismatico in grado di chiarire i loro dubbi! Purtroppo abbondiamo invece di personaggi fasulli che si spacciano per “illuminati”, inviati di Dio, dotati di poteri soprannaturali, paranormali, extrasensoriali; e siccome nei deboli, sia la pressione emotiva della sofferenza, che il desiderio di sollievo spirituale, sono grandi, l'attaccamento a cialtroni del genere è presto concluso.
E visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per essere felici, per far bene l'amore, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per il proprio equilibrio spirituale, per risollevare la propria anima; si illudono cioè che la felicità, l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare in internet, che ci sia un toccasana su Amazon che risolva tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta guardarci intorno, per renderci conto di quanto ricco sia il mercato on line del sacro: ci sono i siti in cui possiamo prenotare messe, rosari, preghiere, secondo le nostre intenzioni, per le nostre necessità materiali e spirituali (ovviamente con offerta adeguata); c'è il tour operator che organizza, sempre ovviamente a pagamento, gite e pellegrinaggi nei luoghi sacri, volendo anche, per una maggior devozione personale, con l’assistenza dei rispettivi “mistici” del momento; c'è il guru di turno pronto a soddisfare ogni nostra curiosità su quella vita che abbiamo vissuto prima dell’attuale; c’è il mago infallibile che ci mette in contatto con i nostri cari “morti”; c’è il santone, in contatto diretto con qualunque santo a nostra scelta, che guarisce a distanza qualunque malattia, previo versamento di un “piccolo” contributo alle spese; c'è una marea di gruppi carismatici sempre pronti ad accogliere chiunque a braccia aperte, assicurando felicità e benessere, purché ovviamente facciano eventuali donazioni alle loro chiese; c’è infine una folla oceanica di maghi, indovini, fattucchieri, stregoni che vendono i numeri vincenti del lotto, che predicono il futuro, che fanno incontrare l'anima gemella, e via dicendo.
In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche se non ce ne rendiamo conto!
Purtroppo, anche in questa società accogliente e ciarliera, c’è sempre tanta solitudine, tanto bisogno di aiuto spirituale. Quante persone si rivolgono anche a noi per chiederci: “Che cosa devo fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di dare tu una risposta alle mie ansie, alle mie preoccupazioni!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà, non è possibile.
Ognuno deve affrontare e risolvere le proprie inquietudini terrene, ognuno deve affrontare le proprie contrarietà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe. Solo con la fede, con l’aiuto di Dio, potremo trovare pace e tranquillità in noi stessi!
Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa.
Noi tutti, indistintamente, siamo per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per tutte le nostre crisi, ma non c'è! Vorremmo che una preghierina, biascicata distrattamente ogni tanto, fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile! Vorremmo che ci fossero delle pillolette da assumere ogni tanto, per stare a posto con Dio e con la nostra coscienza; ma non ci sono! Vorremmo insomma avere sempre la chiave giusta per risolvere tutti nostri problemi, sociali, religiosi, economici, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di soluzioni semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in te, la sua soluzione deve arrivare soltanto da te”.
Alcuni si danno veramente molto da “fare”, per esempio in parrocchia, con associazioni benefiche, con la “caritas”, con le comunità sant’Egidio; ma non lo fanno per un motivo valido, come per crescere spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire, per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su questo il Battista è molto pratico: “chi ha, dia!”. In pratica: “Inutile girare a vuoto: le occasioni e i punti per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere scontroso e di non riuscire a relazionarti con i fratelli? È qui che devi agire. Ti senti insoddisfatto della tua vita cristiana, del fatto che non riesci mai a trovare un momento per Dio? Ecco, è qui che devi agire. Insomma dobbiamo applicarci umilmente, senza casse di risonanza, nell’aiuto di coloro che soffrono sia spiritualmente che materialmente; dobbiamo fare le cose per dimostrare a Dio il nostro amore, la nostra riconoscenza per tutto ciò che Lui fa per noi; per amore suo e dei fratelli, dobbiamo intervenire noi, materialmente, dove Dio non può più farlo: dobbiamo essere noi le sue braccia, le sue mani; dobbiamo cioè mettere a sua disposizione quelle capacità, quelle facoltà, tutti quei doni che Lui ci ha regalato, la nostra stessa vita: è questo che dobbiamo fare: è così che dobbiamo agire, non a casaccio, come piacerebbe a noi, per apparire degli eroi!
Anche perché, altro motivo serio, è sulle nostre opere che saremo alla fine giudicati. Non riempiamoci la bocca di buonismo e di assoluta, totale misericordia: il giudizio di Dio ci sarà. Il vangelo è chiaro in proposito: il contadino che con la pala divide il grano buono dalla paglia, raccogliendo il primo e bruciando la seconda, è l’immagine emblematica di Cristo: colui che tiene in mano la pala è Lui: è sempre Lui che separerà le nostre opere buone da tutta quella zavorra che ci portiamo addosso; è una prospettiva inevitabile, che deve farci pensare: certamente con serietà, ma senza terrore. Perché non dobbiamo aver paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è colpa sua se alla fine ci presentiamo a mani vuote: siamo noi che pretendiamo di contrabbandare le nostre miserie, le nostre autoreferenzialità, spacciandole per buone azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, siamo noi che ci procuriamo la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento, del nostro vivere in un certo modo.
Giovanni battezza con l’acqua: figura di quei cristiani tiepidi, che conducono una vita serena, tranquilla, in pace con Dio, senza grandi iniziative, senza impegni e scossoni. Dante li definisce come coloro che vissero senza “infamia e senza lode” ((Inf. III 35-36).
Ma non è questo che Dio si aspetta da noi. Perché il nostro “vero” battesimo è quello di fuoco, quello dello Spirito di Cristo, quello che sconvolge la vita, che si impadronisce dell’anima, che proietta il cristiano nel divino. È un battesimo di fuoco perché brucia dentro, infonde passione, forza, energia per andare sempre avanti, giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa capire dove possiamo poggiare il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni del mondo, quelle illusioni che, nonostante la loro inutile idiozia, noi amiamo seguire sempre con entusiasmo; è un battesimo che ci fa toccare con mano il nostro nulla, la nostra debolezza umana. È un battesimo di fuoco perché porta allo scoperto, fa crescere, irrobustire quel soffio divino che ci portiamo dentro, trasformandolo in una forza impetuosa di vita.
Perché il grande impegno dell'uomo, il suo grande “sacrificium” (da sacrum facere, compiere un’azione santa), è quello di trasformare una vita materiale, esteriore, vuota, insignificante, amorfa, in una vita spirituale, una vita interiore, piena, vera, sorretta dall’Amore divino.
In una parola, come ci insegna il Vangelo, il nostro primo compito è “rinascere nello Spirito”. Amen.

 

sabato 7 dicembre 2024

08 Dicembre 2024 – II DOMENICA DI AVVENTO


Lc 3,1-6 
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconìtide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

La parola di Dio scese su Giovanni. È un incontro vivo, che lo trasforma, che lo fa fiorire e genera il suo frutto. Dopo questa discesa il Battista se ne va per tutta la regione a predicare.
Quando la parola di Dio all’inizio della storia scende sulla creazione nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la parola di Dio attraverso l’angelo scende su Maria, nasce Gesù. La parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. Dio quando scende, quando viene, produce una creazione, una nascita, un rinnovamento.
Allora: l’incontro con Dio è un incontro che ci crea, ci cambia, ci “invia nel deserto”, in noi stessi. Noi eravamo qualcosa ma dopo aver ascoltato la Parola, nel senso di “mangiata, assimilata, gustata, fatta penetrare”, non siamo più la stessa cosa.
Durante la giornata ascoltiamo un numero incalcolabile di parole! Ma la parola di Dio è un’altra cosa. Nella nostra vita abbiamo detto migliaia e migliaia di parole, molte anche buone ed edificanti, ma la parola di Dio è un’altra cosa. In Chiesa abbiamo “ascoltato” innumerevoli volte il vangelo: ma la parola di Dio è un’altra cosa. Sì, perché la parola di Dio è quella Parola che non scivola via come le altre, ci penetra in profondità, ci scuote, ci spiazza, ci destabilizza, ci tocca l’anima, ci colpisce il cuore. È quella Parola che sconvolge la mente, anche se non sappiamo spiegarci il perché; è quella Parola che ci risuona insistentemente nell’anima, che ci vibra dentro, che ci chiama in causa con un invito perentorio che non possiamo ignorare. È quella parola che ci è impossibile ignorare. È quella parola che pretende da noi una risposta concreta: e prima o poi dovremo dargliela. È quella parola insomma che una volta entrata, una volta che ci ha catturati, ci costringe a girare pagina: non possiamo più permetterci di rimanere quelli che siamo.
Il Battista predica nel deserto: “deserto” (in ebraico midebar) vuol dire “ciò che viene dal Verbo”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, poco abitata, sede di pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto).
Ma nella Bibbia il deserto è un luogo attraverso cui è necessario. Non si può arrivare da nessuna parte, in nessuna terra promessa, se non si affronta e si supera il deserto.
È stato un passaggio necessario dopo la liberazione dall’Egitto (Es 5,1; 13, 17-21), per quella babilonese (Is 40,3); è stato un luogo necessario per Mosè (Es 3), per Elia (1Re 19), per lo stesso Gesù (Lc 4,1-13), e per Paolo (Gal 1,17).
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Arriva, cioè, un momento in cui bisogna smettere di sfuggire a sé stessi, smettere di cercare risposte fuori da noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, filosofie e pensieri stravaganti, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Nel deserto non c’è nessuno: ci siamo noi, completamente soli.
Molte persone hanno il terrore della solitudine, di stare da soli con loro stessi. È vero, tantissimi cercano un “tempo per sé”: si riposano, leggono, passeggiano, fanno sport, escono con gli amici, vanno a divertirsi; fanno, insomma, quello che di solito non fanno. Bene! Ma “stare con sé” è un’altra cosa: significa entrare dentro la propria anima, rimanere lì, da soli, e ascoltare ciò che ci dice!
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Ora, “predicare”, “kerysso” in greco, vuol dire urlare, dire ad alta voce, e la sua radice “ker”, indica il cuore. Giovanni quindi non fa lunghi discorsi, non fa catechesi teologiche, non tiene conferenze letterarie; i suoi sono messaggi semplici che partono dal cuore e che arrivano al cuore: messaggi brevi, appassionati, diretti e incisivi. Anche Gesù parlava così. Il messaggio non deve convincere: va solo accettato così com’è, perché ci tocca l’anima.
Il battesimo che lui predica, è conversione, è perdono dei peccati. “Conversione”, sempre in greco, è “meta-noeo” (“tornare indietro”): indica cioè il cambiamento della propria direzione, della propria vita; “perdono (da afiemi) significa “lasciar andare, liberare,  mandare via, condonare”; mentre in ebraico “Peccato”, è una “freccia che non coglie il bersaglio”. Infine “Battesimo” (dal greco “baptizein”, immergersi) indica l’immersione nelle acque.
È una legge della vita: per conoscere Dio, la Vita, bisogna immergersi nelle acque, che contengono sì la luce (fauna e flora meravigliose) ma anche le tenebre pericolose (mostri marini). Nella vita dobbiamo quindi confrontarci anche con i nostri mostri interiori, quelli che noi chiamiamo “il male”, quelli che cerchiamo di evitare, di tenere lontani, di eliminare, quelli con cui non vogliamo misurarci.
Il mondo non è soltanto un Eden meraviglioso, ma anche un territorio difficile, dove possiamo incontrare la luce e l’oscurità, i lati positivi e quelli negativi, i momenti di gloria e quelli di vergogna.
Tutta la storia della salvezza è un cammino difficile, impegnativo, attraverso zone buie, tenebrose, di peccato, per affrontarle e, con l’aiuto di Dio, uscirne vittoriosi. Gli Ebrei dovettero attraversare le acque del Mar Rosso, fare un lungo cammino nelle difficoltà e privazioni del deserto, confrontarsi con tutta una serie di nemici, per uscirne alla fine vittoriosi. Il loro fu un cammino impegnativo, di grande fedeltà, ma anche di grande infedeltà. E dovettero percorrerlo tutto, fino in fondo, per poter raggiungere il loro premio, la Terra Promessa.
Anche Gesù si è immerso nel Giordano; anche Lui è dovuto scendere in questo mondo di poca luce e di molto buio, un mondo di “già” e di “non-ancora”; di incontri promettenti e di false vicinanze; anche Lui ha dovuto confrontarsi con il buio delle tentazioni, con le tenebre del male e la malvagità umana, che alla fine lo uccisero.
Anche noi il giorno del nostro battesimo usciamo dalle acque pure della sorgente: da lì inizia anche il nostro percorso interiore verso la luce del Padre, attraverso lotte continue contro quel buio che ci sovrasta e che cerca di impadronirsi della nostra anima.
Siamo già figli di Dio, ma per esserlo veramente, dobbiamo immergerci, dobbiamo incontrare quel “non-ancora” della vita che ci attira e ci fa paura, dobbiamo scontrarci, combattere, sconfiggere quelle visioni accattivanti, ma false, che invece della gioia del vincitore offrono solo l’amaro della confitta.
Siamo un piccolo seme che può diventare una pianta rigogliosa: e lo diventeremo solo se riusciremo a “preparare la via del Signore, di raddrizzare i suoi sentieri”.
Che vuol dire? Semplice: non è forse vero che siamo spesso aggressivi, talvolta crudeli? Non è forse vero che dentro di noi coviamo tanta rabbia, tanta superbia, tanto egoismo? Non è forse vero che dietro al nostro bel volto sorridente, dietro alla nostra religiosità, ai nostri “Dio ti amo”, nascondiamo indifferenza, cattiveria, rancore, invidia, falsità?
Come possiamo essere figli della luce con tutto questo nascosto, questo buio, questa ambiguità?
C’è di che preoccuparsi: perché solo se faremo in modo che la sua Parola scenda nel nostro cuore; solo se la coltiveremo, se la faremo crescere e irrobustire, in modo che possa produrre i suoi frutti, solo allora vedremo veramente Dio, nostra Salvezza: vedremo cioè emergere da noi la Verità, ci vedremo rispecchiati nel Figlio dell’uomo, ossia torneremo ad essere ciò che veramente siamo, immagine vera di Dio: riacquisteremo la nostra immagine originale in tutta la sua bellezza pura, naturale, divina: perché l’immagine che siamo ora, non gli assomiglia neppure lontanamente. Allora potremo ammirare faccia a faccia il Figlio di Dio. Allora tutto sarà chiaro in noi: non avremo più dubbi o domande, perché quando c’è la Luce, tutto appare luminoso! E finalmente ci sentiremo nelle sue mani completamente autentici, veri, protetti, avvolti e riscaldati dal Suo dolce sguardo. E magari, mentre noi in qualche rigurgito di stupidità, ci intestardiamo ancora a perdere il nostro tempo per conquistare chissà chi o chissà cosa, Lui pazientemente ci guarda, sorride, e con infinito amore ci stringe al suo cuore.
Amen.  

 

mercoledì 27 novembre 2024

01 Dicembre 2024 – I DOMENICA DI AVVENTO


Lc 21,25-28.34-36 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

Inizia il tempo liturgico di Avvento, tempo che ci porta e ci prepara al Natale.
Sul piano personale, l’avvento è quello spazio aperto perché un “figlio” e una “nascita” possano accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. ciò non deve limitarsi ad un dato semplicemente rituale, cronologico, tradizionale, ma deve costituire per noi un fatto concreto, una realtà, un progetto che prende vita: Dio continua a nascere dove trova spazio e disponibilità. Ecco allora che l’avvento non dev’essere tanto un periodo dell’anno liturgico, ma uno stile di vita: la certezza che una nuova nascita sta per avvenire in noi. Dio, con la sua venuta, vuole sorprenderci, vuole meravigliarci, vuole portarci lontano, molto lontano, dalle nostre angosciose, dalle nostre derive di insicurezza.
Questo vangelo lo abbiamo già sentito quindici giorni fa nella versione di Marco. Anche Luca, l’evangelista scelto per il ciclo liturgico di quest’anno, usa lo stesso termine “Figlio dell’uomo”. Anche Lui ne descrive il ritorno su questa terra, in maniera apocalittica, alla fine del mondo.
Ma cosa vuol dire esattamente “Figlio dell’uomo”?
Il termine proviene dall’Antico Testamento, esattamente da Daniele 7,13-14, in cui ad un “figlio d’uomo” viene conferito dal “Vegliardo-Dio”, potere, gloria e regno.
Applicandolo a sé stesso, alla sua persona divino-umana, Gesù ha voluto spostare l’attenzione dei contemporanei dall'immagine di un Messia autorevole e glorioso, come lo intendevano gli Ebrei, a quella di un Messia più umano, un “ben adam” (un figlio d’uomo) umile e sofferente, come quel “servo di Jahweh” di Isaia, immagine che meglio lo descrive nella sua missione redentrice del genere umano: rifiutato dai suoi contemporanei, rivendicava comunque per sé una prossima gloriosa rivincita sulla morte (Risurrezione) un suo rientro presso la maestà del Padre (Ascensione) e un suo ritorno nella potenza e nella gloria alla fine dei tempi (Giudizio universale).
Un termine, “figlio d’uomo”, che delinea un programma di vita anche per quanti aspirano a seguire le sue orme: mantenere un atteggiamento da “figli d’uomo” dev’essere infatti l’aspirazione di tutti noi, “uomini comuni”, ai quali con il battesimo è stata conferita una personale missione da compiere. Tutti noi siamo chiamati, infatti, a vivere qualcosa di grande, a dare alla nostra vita un significato più profondo e meritorio sia per noi che per il mondo.
Anche questo, però, come qualunque altro obiettivo vero, grande, potente, ha un suo costo impegnativo: la vita stessa di Gesù non è stata priva di sconvolgimenti, di ore di “angoscia”, di tradimenti, di sofferenze mortali: al punto che noi, figli d’uomo ben più fragili, guardando questa nostra investitura nella prospettiva delle difficoltà, dei pericoli, degli obblighi, del nostro personale esporci, siamo tentati di lasciar perdere. Ma se pensiamo alla gloria, all’Amore, alla dignità divina cui siamo chiamati a condividere con Dio nel suo Regno, allora capiamo che nessuna contrarietà può distoglierci, che qualunque ostacolo diventa superabile. Perché lo scopo primario della nostra vita è meritare quaggiù ciò che potremo vivere in Cielo.
Certo, non è impresa semplice: dobbiamo evitare soprattutto di “addormentarci” sulle difficoltà, sulle fatiche, sulle contrarietà, che sono inevitabili.
Alcune persone dicono di star male, di soffrire tanto, di sentirsi vittime della loro vita. Ma in realtà dimostrano di trovarsi molto a loro agio, non muovono un dito per uscirne, per cambiare, per migliorare. Preferiscono continuare a dormire, auto giustificandosi con i vari “non ho tempo; è difficile, è troppo impegnativo”.
Altri, invece, impostano il loro cambiamento buttandosi a capofitto in mille iniziative: frequentano in parrocchia qualunque riunione, ogni incontro di spiritualità; sono onnipresenti, super impegnati, senza tregua: ma se si fermano un solo istante per guardarsi dentro, scoprono loro malgrado di essere sempre fermi al punto iniziale, non fanno un passo in avanti. Tutta la loro iperattività risulta completamente inutile, è come se dormissero profondamente.
A volte, purtroppo, i percorsi spirituali diventano una droga: ne facciamo tanti, troppi, ci muoviamo in ogni dove, pensando erroneamente di avere in questo modo maggiori possibilità per migliorare. Succede invece, paradossalmente, che queste iniziative individuali, frequentate al di fuori delle nostre comunità, invece di portarci ad un effettivo miglioramento, sono in realtà delle vie di fuga dalle nostre responsabilità, diventano un alibi per non impegnarci nelle iniziative “domestiche”, nelle nostre comunità: “Io non posso esserci, non sarò presente, ho un incontro di “formazione” in un’altra sede, in quel Centro di spiritualità, al quale non posso mancare! E poi, diciamocelo francamente: quanto facciamo qui è troppo elementare, è poco istruttivo, non mi attira, non vedo “carismi” particolari, non vedo guide veramente “illuminate”; io miro a livelli più impegnativi, più avanzati! Sento di poter incontrare Dio solo in quelle specifiche realtà”.
Quanto ci illudiamo! Non capiamo che Dio viene proprio là, in quel paese, in quella città, in quella piccola porzione di Chiesa, in cui Lui ci ha chiamati: è là che lui ripete per noi il suo Natale! Tutto il resto è solo un paravento, una droga, una deleteria ubriacatura di noi stessi, del nostro “ego”.
Per Dio è esattamente come se continuassimo a dormire: perché pregare Dio “a modo nostro”, seguendo le “nostre” ispirazioni, non significa essere svegli, vigilanti; non vuol dire vivere nella giusta attesa della venuta di Dio, ma nell’attesa umana di auto-esibirci.
Per questo il vangelo, concludendo, ci raccomanda: “Vegliate e pregate” (21,36).
Il vegliare, lo stare vigili, il non “dormire”, è il presupposto per poter esprimere una preghiera attenta e gradita a Dio. Il verbo “pregare”, in greco “deomai”, significa pure “aver bisogno, necessitare, desiderare”: quindi noi, oltre che di pregare, abbiamo anche un “bisogno” vitale di stare svegli, di impedire al nostro cuore di prendere sonno e non provare più la gioia di sentirci figli, di chiamare Dio Padre nostro, di godere delle cose umili, l’entusiasmo per le cose piccole, la passione per la nostra “casa”, il luogo dove Dio ci ha chiamati; dobbiamo evitare che la nostra anima, stanca di cercare Dio in ogni dove, si assopisca e non riesca a sentire più la Sua voce proprio là dove Lui ci ha chiamati e dove Lui si aspetta l’impegno laborioso della nostra risposta.
Non permettiamo che la nostra mente si lasci plagiare da spiritualità troppo “mistiche”, da “percorsi di santità” esclusivi: rimaniamo “figli dell’uomo”, rimaniamo nella nostra normalità, nella nostra umiltà, nel luogo in cui Dio ci vuole, tra i nostri fratelli più vicini. Perché quando ci addormenteremo nel sonno della pace, Dio che ci verrà incontro per chiederci quanto conosciamo di Lui, quanto abbiamo studiato per capirlo, quanto lo abbiamo cercato di qua o di là al seguito dei troppi pseudo-santoni; più semplicemente ci interrogherà su quanto abbiamo fatto in “casa nostra”, nella nostra comunità, a beneficio del prossimo; su quanto insomma siamo stati attivi nel conoscere, amare, servire Lui, attraverso i nostri fratelli, proprio in quell’angolo di mondo in cui Lui ci ha chiamato. Amen.