giovedì 5 settembre 2024

08 Settembre 2024 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 7,31-37 
Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Dopo aver constatato la preconcetta chiusura mentale degli scribi e dei farisei nei confronti della sua Parola, come ci ha testimoniato Marco nel vangelo di domenica scorsa, Gesù volta loro le spalle e se ne va. La sua è una decisione esemplare: non intende farsi condizionare né impressionare da niente e da nessuno. È un uomo assolutamente libero Gesù. Non tiene in alcun conto ciò che le persone rappresentano (la posizione sociale, i loro titoli, il loro alto rango, la loro autorità), siano pure “sacerdoti del tempio”, dotti scribi o pii farisei. Ai suoi occhi tutti quelli che lo seguono sono semplicemente “persone”. Ciò che a lui preme, ciò che lo colpisce, non è il livello sociale, ma il cuore dell’uomo, i sentimenti che ognuno ha dentro di sé. Per cui, di fronte ai meschini attacchi dei “prescelti”, Gesù cambia territorio, si trasferisce in terra pagana, a Tiro e Sidone. 
Ed è proprio qui, lontano dalla popolazione eletta, che Egli incontra una fede esemplare.
Un fenomeno abbastanza comune anche oggi: è più facile imbattersi in una fede genuina e profonda tra i non credenti, che tra le persone che si professano “religiose”: mentre la religione infatti può essere professata anche solo mediante pratiche di pietà esteriori, che non coinvolgono l’adesione della mente e del cuore, la fede assolutamente no! La fede è quella profonda convinzione interiore che guida il nostro agire, determina le nostre opere; la fede è ciò che viviamo dentro, è la fiducia che abbiamo nella Vita, quella Vita che ossigena continuamente il nostro cuore; è l’Amore che pulsa e scorre nelle nostre vene.
Dunque qui, in terra “straniera”, Gesù rimane sorpreso da tanta fede, e la premia: dapprima guarisce la figlia di una donna pagana “siro-fenicia”; quindi, commosso dalla fiducia degli accompagnatori, restituisce la parola ad un sordomuto.
È lui, dunque, il beneficiario della bontà divina di cui narra il vangelo di oggi.
Ebbene, in che modo possiamo noi ritrovarci in quel sordomuto? Quali riferimenti per la nostra vita possiamo trarre da questo episodio?
Dobbiamo leggerlo soltanto come una conferma della bontà e della bravura di Gesù nel guarire ogni tipo di malattia, anche tra i pagani, oppure è un formale invito a metterci seriamente in discussione?
Chiediamoci prima di tutto: chi è un sordomuto? Per dire sordomuto Marco usa qui due termini: kòfos che vuol dire ottuso, spento, senza energia, sordo, insensibile, stolto, pazzo; e moghilàlos che invece indica uno con difficoltà di parola, balbettante, uno che tartaglia, che non parla perché ha difficoltà a farlo correttamente. Molto probabilmente quindi non alluderebbe tanto ad un sordo totale fin dalla nascita, ma di qualcuno che ha perso gradualmente la sua facoltà di sentire e, riferito a noi, uno che è diventato incapace di “sentirsi”. Ora, spiritualmente parlando, chi è sordo è sempre muto, assente: perché solo se “ci sentiamo”, se siamo “collegati” con noi stessi, possiamo esprimere qualcosa di noi.
Ecco allora che se ci scopriamo “scollegati”, se non ci sentiamo più, è arrivato il momento di “scuoterci” scrupolosamente, di aprirci, di riscoprire quello che siamo e abbiamo dentro. Fuggiamo dal “rumore” assordante di un mondo che ci stordisce l’anima. Il silenzio, il raccoglimento, sono infatti i presupposti per la nostra crescita spirituale.
Alcuni pagani portano dunque davanti a Gesù questo poveretto e lo pregano di “imporgli la mano”. Non hanno le idee chiare, non gli chiedono espressamente di guarirlo: a loro basta che Gesù lo “tocchi”. Ancora una volta i pagani dimostrano di avere più fede dei religiosi ebrei.
E Gesù premia la loro fiducia. Come sempre Egli non fa distinzione tra osservanti e infedeli, ma interviene con la sua grazia beneficiando chiunque, purché dotato di una fede umile e sincera.
Questo deve confortarci: perché anche se non siamo completamente “di chiesa”, anche se i nostri rapporti con la religione sono un po’ conflittuali, anche se nella nostra vita ci siamo allontanati da Lui, insomma se siamo dei “tiepidi” non praticanti, Egli è comunque sempre disponibile a guarirci, a perdonarci, a sanare le fratture della nostra vita: su questo non dobbiamo avere incertezze, pregiudizi, diffidenze. Se ci avviciniamo umilmente e gli esprimiamo la nostra fiducia, Gesù ci salva, ci guarisce; e lo fa non perché gli mostriamo l’etichetta di “cristiani”, ma perché gli dimostriamo di avere fede in Lui, di essere dispiaciuti per come siamo, di volerci risollevare dalle nostre miserie, di confidare completamente e sinceramente nel suo amore.
A questo punto cosa fa Gesù con il sordomuto? Per prima cosa lo trascina “lontano dalla folla”.
Nei vangeli succede spesso che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40); nel caso del paralitico, che non può raggiungere Gesù col suo lettino a causa della grande ressa, alcuni lo calano dall’alto nella stanza dove Lui si trova (Mc 2,4); il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25); al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22); l’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla, e mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i “malati” dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere sé stessi. La folla sono i condizionamenti dell’ambiente circostante, sono i giudizi impietosi delle persone vicine, che magari amiamo pure. Finché rimarremo succubi dei loro pregiudizi, delle loro valutazioni, non potremo mai guarire, non potremo venirne fuori, non potremo ascoltarci, essere noi stessi. La folla, in questo modo, ci impedisce di agire liberamente, di fare le nostre scelte, di seguire le nostre aspirazioni per paura che qualcuno ci disapprovi, per paura di rendere scontento qualcuno, di farci rifiutare da qualcuno.
Non è un caso che nella nostra società si faccia abuso di anestetizzanti, di psicofarmaci; non è un caso che la gente sia sempre di corsa, non si fermi mai, segua sempre un ritmo convulso; non è un caso che non sappia più fare silenzio, che la vita scorra nel rumore più assordante. Sono tutte cose che servono a non farci “sentire” noi stessi, a non farci pensare: perché in fondo in fondo noi abbiamo paura di misurarci con la nostra coscienza.
Per questo motivo, anche in questo caso, Gesù porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te, del tuo volto!”: e, prima di tutto, gli tocca le orecchie con le dita: deve cioè aprirgliele materialmente, deve stappargliele, deve eliminare qualunque diaframma che ostacoli un perfetto ascolto, una percezione minuziosa e totale. Poi gli tocca la lingua con la saliva. Deve scioglierla per consentirgli di parlare, di esprimersi, di “dirsi”. In altre parole Gesù lo invita a tirar fuori tutto quello che ha dentro, la sua gioia, la sua rabbia, il suo dolore, le sue emozioni. Deve raccontarsi. Deve vincere la paura di essere giudicato, di essere rifiutato, deriso. Deve insomma tirar fuori la sua personalità autentica. Quindi, con gli occhi rivolti al cielo, Gesù impartisce al sordomuto un ordine secco e perentorio: “Apriti”; Gesù cioè lo scuote, lo strattona; è quasi arrabbiato con lui per la sua indifferente chiusura in sé stesso, per il suo disinteresse a voler tornare a sentire, a parlare, a vivere. Gli va bene così, è soddisfatto della sua condizione: da qui l’urlo di Gesù per svegliarlo dal suo letargo, per spaccare quella corazza di indifferenza in cui egli si è rinchiuso.
Quante volte Gesù deve urlare per svegliarci, per scuoterci dal nostro sonno, dal nostro torpore!
E quante altrettante volte noi, puntualmente, lasciamo risuonare a vuoto il suo invito: “Apriti… apriti! Dà una dimensione alla tua vita, fa entrare in te il nuovo, vivi, canta, proclama a tutti che Dio è amore. Ricordati che rimanere chiuso, sordo e muto, significa per te morire”.
Apriti!”: di fronte a tale imperativo non ricorriamo alla solita scusa: “Non ce la faccio!”: non è vero, abbiamo soltanto paura di andare incontro a delusioni, di soffrire, senza renderci conto che rimanendo chiusi, serrati, isolati, siamo destinati a subire insoddisfazioni e sofferenze ben più gravi.
Apriti!”: facciamolo! Perché condannarci a portare nel cuore pesanti massi e pietre strazianti? Perché privarci della gioia e dell’intensità dell’Amore di Dio soltanto per paura di soffrire? Apriamo la nostra mente, leggiamo, impariamo, facciamo nuove esperienze. Non fermiamoci dicendo: “Questo mi basta”. Non dobbiamo aver paura di perdere le nostre vecchie idee, di doverle cambiare, di doverle verificare.
Apriti!”: differenziamo i nostri discorsi. Non parliamo sempre delle solite cose: il tempo, i prezzi, la salute, il cibo, le cose da fare, il calcio, la politica, ecc. Parliamo di noi, di quello che sentiamo dentro, di quello che pensiamo veramente. Allarghiamo le nostre amicizie. Incontriamo persone nuove, stili di vita diversi: ascoltiamo e impariamo. Non temiamo di fare nuove esperienze di vita. Oggi i giovani (e non soltanto!) sono perennemente assenti, inebetiti dallo smanettare convulso sul loro cellulare, totalmente assorti in chat insulse, in puerili giochetti elettronici, come se al mondo non ci fosse null’altro da vedere, da pensare o da fare: preferiscono rimanere sclerotizzati piuttosto che aprirsi a ben più infiniti e luminosi orizzonti.
Apriti!”. “E perché no?”: questo dovremmo rispondere all’invito costante, quasi assillante, di Gesù; perché se non saremo noi ad aprirci, nessuno potrà farlo mai! Eppure ne vale decisamente la pena, perché dentro di noi giacciono ricchezze inimmaginabili, un potenziale dal valore incalcolabile del quale, rimanendo chiusi, nessuno mai potrà usufruirne: con la nostra apatia scegliamo di rimanere un tesoro inutile per noi e per gli altri. Infatti se noi non ci apriamo, chi potrà mai amarci? Chi potrà condividere con noi i suoi progetti, le sue aspirazioni? Se non ci apriamo, siamo destinati a vivere una vita che non ci appartiene, vivere sotto mentite spoglie, con un altro nome! Rischiamo di venire considerati la persona che non siamo! Se non ci apriamo, non approderemo mai a nulla, saremo amorfi, un niente: esattamente dei morti viventi. Pensiamoci! Amen.

  

giovedì 29 agosto 2024

01 Settembre 2024 – XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 7,1-8.14-15.21-23 
Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

Dopo la lunga parentesi in cui abbiamo meditato per intero il sesto capitolo del vangelo di Giovanni, riprendiamo la lettura di Marco che ci accompagnerà fino alla conclusione di quest’anno liturgico. Per meglio comprendere l’assurdità dell’episodio che Marco oggi ci propone, dobbiamo necessariamente rifarci ai fatti che immediatamente lo precedono: Gesù ha appena vissuto tre esperienze fortissime in prossimità del lago di Tiberiade.
La prima sulla riva: molta gente lo seguiva perché “erano come pecore senza pastore” (6,34). Avevano lasciato casa, lavori, campi e si erano perfino disinteressati del cibo pur di ascoltarlo. E proprio per loro Gesù opera la moltiplicazione dei pani; Egli si trova dunque di fronte ad una gran folla di persone assettate, affamate, che vogliono sapere, che vogliono nutrirsi, che vogliono mangiare cibo di vita.
La seconda durante la traversata del lago: i suoi discepoli sono angosciati per il forte vento e non riescono a remare. Gesù va loro incontro camminando sulle acque. I discepoli sono talmente terrorizzati da scambiarlo per un fantasma. Ma Gesù dice: “Coraggio sono io, non abbiate paura” (6,47-52): Gesù sente, percepisce la paura, il terrore dei suoi amici: il terrore di affondare nelle acque impetuose, il terrore nel vederlo, il terrore nel vedere e nel sentire cose straordinarie che non riescono a metabolizzare.
La terza esperienza è dopo l’approdo sulla riva opposta del lago: la gente lo riconosce e lungo tutto il suo passaggio una folla di malati e paralitici, solo toccando il suo mantello, improvvisamente “venivano salvati” (6,53-56): Gesù percepisce in tutta quella gente il dolore della malattia, della sofferenza, dei loro limiti, dei loro condizionamenti.
Gesù insomma si sente immerso nella vita, è attorniato da gente che vive ai margini dell’esistenza umana, dove la miseria scorre, dove si soffre, dove si cerca disperatamente di sopravvivere: dove si piange, ci si dispera, dove ci si rialza, dove, insomma, si vivono intensamente sentimenti di pathos, di dolore, di sofferenza, di angoscia.
E mentre Gesù vive dentro di sé queste esperienze, calandosi nella disperazione della folla che lo pressa da ogni parte, alcuni farisei e scribi si fanno largo e avvicinatolo gli rinfacciano: “I tuoi discepoli non si sono lavate le mani; i tuoi discepoli mangiano di sabato; i tuoi discepoli toccano persone impure; i tuoi discepoli non sono religiosi perché non rispettano tutte le leggi”. Ecco, questo è il loro grande assillo, il loro problema esistenziale! È naturale quindi che Gesù di fronte a tanta stupida superficialità si scateni. Diventa furibondo contro questi ottusi legalisti, questi “ipocriti”, questa gente che rispetta tutti i 613 precetti della legge soltanto per salvare le apparenze, per farsi belli di fronte agli altri. E si rivolge loro ruvidamente, gelidamente, quasi con rabbia: “Sono questi i vostri problemi vitali? Siete senza cuore, non avete anima, non avete ancora capito né percepito chi è davvero Dio, cosa vuole e a che cosa ci chiama tutti. Con le vostre stupide tradizioni e leggi vi fate soltanto compatire. Voi vi preoccupate di essere a posto, bravi, in perfetta regola davanti agli altri; io invece mi preoccupo dell’uomo, della sua anima, dell’amore, della vita. A voi interessano i precetti della legge, a me interessa l’uomo, le sue fatiche, le lacrime, le conquiste, i piccoli passi, le libertà conquistate. A voi interessano queste leggi perché siete prigionieri di voi stessi; a me interessa l’uomo perché sia libero. A voi interessa l’apparire; a me interessa l’essere”.
All’epoca la legge ebraica era ancora scrupolosamente rispettata da tutti. Il favore poi, di cui i farisei godevano tra i loro concittadini, era fuori discussione. Pertanto Gesù, criticandoli, si scaglia non solo contro di loro ma contro un sistema di valori, che era accettato e condiviso dall’intera popolazione. Ciò che Gesù dice è quindi contro la morale comune di allora; le sue parole, agli occhi delle autorità religiose sono pertanto altamente scandalose.
Del resto le regole dei farisei originariamente non erano stupide; è che nel corso dei secoli hanno perso il loro valore. Lavarsi le mani o rispettare il sabato aveva sicuramente un senso molto profondo. Era un modo per dire: “Devo avvicinarmi a Dio con le mani e soprattutto con il cuore puro; ritagliare un tempo, il sabato, di preghiera, di silenzio, di pace, per vivere ricordandomi che Dio è il signore del tempo e di ogni giorno. In quel giorno non farò niente non perché Dio voglia che io non faccia niente, ma perché nessun lavoro può essere paragonato a Dio”.
Gesti che col tempo hanno perso la loro anima, si sono svuotati. Gesti che si continuano a fare perché si è sempre fatto così, perché si è stati abituati così, ma che in realtà non significano più nulla per nessuno.
Quando un gesto perde la sua anima, diventa automaticamente formale o “fondamentalista”.
Un gesto esprime (o dovrebbe esprimere) un senso, un’anima, un sentimento del cuore; è la conseguenza di un impulso interiore, di ciò che abbiamo e proviamo dentro. Se perdiamo di vista l’obiettivo, se il nostro gesto non esprime più questa intenzione, ripeto, è inutile, è formale, sicuramente inutile e spesso falso.
Quindi, nel loro scrupoloso, ancorché formale attaccamento alla legge, le persone che attorniavano Gesù erano tutto sommato delle brave persone: ed è tra queste persone che Egli mette in atto la profonda rivoluzione del suo Vangelo. Purtroppo molti di loro non sono comunque riusciti a incontrare Dio! Anzi, non l’hanno voluto proprio incontrare!
I farisei erano perfetti, digiunavano più del necessario e non trasgredivano nessuna regola. Ma questa loro osservanza, questa “purezza” esteriore decretava la loro impurità, poiché si ritenevano gli unici ad essere amati da Dio, e quindi rispettabili: loro soltanto erano in regola, tutti gli altri no!
Dobbiamo purtroppo ammettere che un certo residuo di questa mentalità è ancora oggi abbastanza diffuso nel nostro cristianesimo “moderno”. Ci preoccupiamo ancora molto del lato “esteriore” del nostro credere. Fino a qualche tempo fa i pastori seguivano la prassi di “quantificare”, di “contabilizzare” tutto ciò che riguardava la vita cristiana; per esempio, la domanda classica che veniva rivolta al penitente in confessionale era: “Da quanto tempo non ti confessi?”, “Quante volte hai fatto quell’azione, o mancato ai tuoi doveri?”. Quindi la penitenza veniva commisurata al numero dei peccati e alla loro ripetitività. In proposito esistevano veri e propri “prontuari”. Cose che inconsciamente inducevano il credente a preoccuparsi più dei particolari “esteriori” che di provare autentico dolore per le proprie malefatte. La numerologia imperava: bisognava conoscere a menadito le 7 domande del Padre Nostro, i 10 comandamenti, le 14 opere di misericordia (7 spirituali e 7 corporali), i 7 sacramenti, le 5 parti o condizioni del sacramento della penitenza, i 7 peccati capitali, le 7 virtù teologali, le 4 virtù cardinali, i 5 sensi corporei, i 7 doni dello Spirito Santo e i loro 12 frutti, le 8 beatitudini, i 4 novissimi, i 15 misteri del rosario, ecc. ecc. Fondamentale era conoscere e seguire pedissequamente le prescrizioni del catechismo.
Oggi tutto è stato spazzato via da uno “tsunami”: conoscenze complementari e mnemoniche al pari di verità dottrinali fondamentali; tutto è sfumato, dimenticato, superato, sparito. Oggi i sacramenti, l’Eucaristia, la Confessione, hanno perduto il loro valore, il loro significato affascinante e salutare. L’individuo è l’unico referente della propria vita cristiana: tutto è stato affidato alla sua sensibilità, alla sua coscienza, per cui tutto è relativo, condizionato, valido solo “ad personam”. Tanto, Dio, misericordia assoluta, assicura a tutti una totale sanatoria postuma, qualunque sia stata la loro vita. Una teoria di comodo e una prassi entusiastica, non meno ipocrite del legalismo farisaico di allora, tanto condannato da Gesù!
Il vangelo di oggi ci sottolinea in proposito una cosa fondamentale: che il nostro credere non deve mai fermarsi all’apparenza, la nostra fede non deve esprimersi a beneficio dell’apparire; non dobbiamo preoccuparci dell’esteriorità, perché la bontà, la convinzione, la sincerità, la rettitudine del nostro comportamento dipende esclusivamente dall’interno, dal nostro animo, dall’intenzione, dalla volontà con cui facciamo le cose.
Per questo è importante saper leggere di volta in volta il nostro cuore: sentiamo che è pieno di rancore, di rabbia, di invidia, di gelosia? Allora dobbiamo fare attenzione, perché il “male” radicato dentro di noi, una volta all’esterno, condizionerà i nostri rapporti con gli altri, seminando altro male. Sentiamo invece dentro di noi felicità, vitalità, voglia di vivere, entusiasmo, fiducia, amore, bisogno di aprirci, di donarci agli altri? Allora tutto quello che faremo non potrà che essere positivo.
Il nostro mondo, la nostra vita, saranno sempre pieni di demoni, se dentro di noi avremo demoni. Saranno sempre affidabili, pieni di gioia e di bellezza, se dentro il nostro cuore regnerà l’amore. Gesù è stato chiaro: “Tutto dipende dal tuo cuore” perché “ciò che hai dentro decide la tua vita o la tua morte”. Amen.

  

sabato 24 agosto 2024

25 Agosto 2024 – XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,60-69 
Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio». 

Giovanni nel vangelo di oggi ci descrive la reazione avuta dai presenti subito dopo aver udito le parole sconvolgenti di Gesù: “Io sono il pane vivo e se uno non mangia di questo pane non avrà la vita... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”.
Molti di quelli che lo seguivano, i “superficiali”, i semplici curiosi, già se n’erano andati: erano talmente scollegati dalla loro interiorità, dalle emozioni, da loro stessi, che mai sarebbero stati in grado di capire quelle parole, di metabolizzare quei concetti: “Mangiare la carne di un uomo? ma cosa dice costui?” Parole effettivamente astruse per chi non entra nel loro significato; parole di Dio, invece, per chi entra. Parole stupide e senza senso per chi è morto dentro; parole di vita eterna per chi è vivo. In ogni caso parole difficili.
Anche i discepoli, pur avendo capito il senso del discorso, gli dicono: “Gesù, questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”. Cioè: sono bei concetti, ma chi può capirli, seguirli, dar loro retta, metterli in pratica? E Gesù di rimando: “È vero. Ma dovete capire che se la folla mi segue perché ha visto la moltiplicazione dei pani, se voi vi limitate ad applaudirmi, a dirmi che parlo bene, a lodarmi, questo “seguirmi” non serve a niente! L’unica cosa che conta è che dovete cambiare vita! Queste belle parole, come dite voi, non servono a nulla se rimangono solo parole; sono un niente se non diventano la vostra vita, la vostra carne, il vostro sangue”.
Parole che non hanno bisogno di altri chiarimenti.
A questo punto, noi cristiani dobbiamo porci delle serie domande, e darci delle risposte leali e concrete: “Perché noi discepoli moderni di Gesù, che andiamo sempre a Messa, non cambiamo mai? Perché, pur pregando spesso, siamo sempre gli stessi? Perché abbiamo tanta paura di guardarci dentro? Perché la nostra vita spirituale non fa mai un passo in avanti? Perché continuiamo a fare quello che ci fa comodo, invece di sforzarci di seguire le parole di Gesù con maggior impegno e fedeltà?
Non fermiamoci alle solite giustificazioni, inutili e inconcludenti: “vorrei ma non posso”, “non ho tempo per queste cose in quanto molto impegnato nel lavoro”, “mi piacerebbe ma non ci riesco”, “ci provo sempre, ma è troppo impegnativo per me”! Sono scuse, soltanto scuse! Cerchiamo piuttosto, una buona volta, di essere sinceri e onesti con noi stessi! Guardiamo ai fatti: se in noi non cambia mai nulla, vuol dire semplicemente che quanto facciamo non ci tocca, ci scivola addosso; i nostri propositi, le nostre messe, le nostre preghiere sono soltanto delle belle abitudini, delle iniziative carine, ma che si esauriscono in fretta come un fuoco di paglia che produce solo cenere; siamo cioè dei cristiani fasulli, completamente inaffidabili; abbiamo una fede asfittica, senza vigore, che non ci tocca intimamente, non ci scalfisce, non ci sconvolge, che ci lascia completamente indifferenti.
Molta gente va in chiesa, ed è contenta di andarci, perché poi “si sente bene”; molte persone pregano e pregano anche tanto: molte persone pensano spesso a Dio ed esprimono dei concetti religiosi molto profondi. Ma rimangono solo concetti, iniziative… e questo non basta: Gesù non sa che farsene di queste cose se investono solo la nostra area esteriore, se non si trasformano in vita vissuta.
Abbiamo visto che su questo è molto chiaro, addirittura duro: “È lo Spirito che dà la vita, la carne (l’esteriorità) non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”.
In altre parole: “Perché continuate a venire qui, se poi siete sempre gli stessi? Se mi amaste, vi trasformereste. Se non lo fate, è perché preferite vivere di “chiacchiere”, di belle omelie su Dio; di liturgie che sono come dei pii teatrini, privi di fede e di amore per me. Se è questo che volete, potete anche andarvene!”.
“Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andarono più con lui” (Gv 6,66).
Una constatazione amara che colpisce come un ceffone in pieno viso anche noi, discepoli superficiali, che viviamo di apparenza. Dobbiamo renderci conto che la fede cristiana non consiste nello scuotere le corone del rosario in chiesa, non è esibirsi nel fare elemosina, non è partecipare a tutti i gruppi possibili di alta spiritualità carismatica, non è un “bla, bla, bla”, un battere le mani o dimenarsi; “avere fede”, “vivere da cristiani”, significa al contrario cambiare radicalmente il nostro carattere, il nostro modo di sentire (cuore), i nostri pensieri (mente), il nostro progetto di vita (anima), l’intera nostra personalità.
Dobbiamo essere decisi. Non come quei pochi discepoli rimasti vicini a Gesù, ma scossi, tentennanti, dubbiosi, indecisi: al punto che Egli, bruscamente, quasi spazientito, senza troppi giri di parole, improvvisamente chiede: “Volete andarvene anche voi?” (6,67). Apparentemente li tratta male: eppure gli apostoli erano la sua casa, i suoi amici, i suoi “partner”. Ma Gesù non accetta neppure da loro, l’indifferenza, l’indecisione di chi non ha coraggio di “mettere mano all’aratro”. Egli esige un rapporto basato sulla libertà, sulla sincerità. Un aut aut coraggioso il suo: “Siete liberi di rimanere o di andarvene”. Non usa particolari strategie per trattenerli: né sensi di colpa, né il suo fascino, né il suo potere, né la manipolazione, né l’adulazione, ecc.
A questo punto, però, il solito Pietro, impulsivo e passionale, sbotta: “Ma Signore da chi vuoi che andiamo? Chi altri mai troveremo in grado di darci quello che ci dai tu?”.
L’economia, il mondo, la società, ci possono dare soldi e benessere, ma non possono darci la felicità dell’anima, la sensazione di essere vivi, la passione, la vitalità.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La giustizia e la magistratura possono darci sentenze, ma solo tu sai cosa c’è nel cuore dell’uomo. Tu solo conosci la vera giustizia e la verità.
Da chi vuoi che andiamo, Signore?”. La famiglia può darci amore e affetto, gioia e unione, ma nessun amore può spegnere la nostra sete del tuo amore infinito, della tua approvazione. Solo tu puoi amarci di un amore incondizionato. Lo psicologo, l’analista, possono migliorare le nostre relazioni, possono curare e rimarginare le ferite della nostra mente. Ma poi, altri dolori, altre ferite, altri dispiaceri si accumulano nella nostra anima, nel nostro cuore.
“Da chi vuoi che andiamo, Signore?” Chi è sempre disponibile ad ascoltarci? Chi può asciugare in ogni istante le nostre lacrime? Chi è sempre pronto a sorreggerci? Quando sbagliamo, quando combiniamo guai terribili, da chi possiamo ogni volta ricorrere certi di essere accolti? Chi ci può dire: “Io ti perdono, va’ in pace, tutto è cancellato, ricomincia da capo come una creatura nuova”? Quando “scantoniamo”, quando inganniamo noi stessi per paura di affrontare la realtà, sei Tu che ci riporti in noi stessi; sei Tu che permetti ai casi della vita di costringerci a farlo. Per fortuna ci sei Tu! Chi altro può dirci: “Va bene così”, in modo da farci sentire accolti, a nostro agio, anche se non siamo perfetti? Chi altro può dirci: “Ci sono io”, così da sentirci sempre seguiti, accompagnati, soprattutto quando non sappiamo dove andare? Chi altro può dirci: “Non aver paura”, quando siamo paralizzati dal terrore? Solo Tu, Signore. Solo Tu hai parole di vita eterna! Da chi altro possiamo andare? Amen.

 

mercoledì 14 agosto 2024

18 Agosto 2024 – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,51-58 
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Giovanni ha scritto un vangelo diverso dagli altri; più che sugli avvenimenti che riguardavano la persona di Gesù, la sua attenzione era concentrata sulle sue parole, sugli insegnamenti. Egli ha lungamente “ragionato” su questi elementi, ha voluto capirli, interpretarli, dare loro un senso, spiegarli, applicarli alla nostra vita: per questo il suo è un vangelo talvolta difficile da capire, un vangelo eminentemente spirituale; egli parla da “mistico”, fa teologia piuttosto che cronistoria. 
A lui, per esempio, non interessa neppure il fondamentale racconto dell’ultima cena: tant’è che non riporta alcun particolare dei preparativi, del luogo dove avviene, della sua ambientazione storica; egli è concentrato esclusivamente sul celebre discorso del Pane di vita, sul significato di questo cibo particolare, sul senso e sulle implicazioni che esso doveva avere sulla vita spirituale dei discepoli presenti e su quella di ogni suo discepolo futuro. Dal suo vangelo risulta che Gesù ha sì celebrato con i suoi discepoli un rito pasquale di saluto, di offerta e di memoria, prima di accomiatarsi da questo mondo (ultima cena); ma ciò che emerge dal suo racconto, è soprattutto la preoccupazione di far capire l’importanza che Egli ha attribuito a questo cibo e quindi la necessità per tutti i discepoli futuri di accettare il suo invito a reiterare lo stesso suo rito, facendone “memoria”, cibandosi e cibando gli altri, di quel pane di vita che è Gesù stesso. 
Questo modo introspettivo di porsi di fronte agli eventi, diventa fondamentale anche per noi. Nella nostra vita ci succedono ogni giorno tante cose, più o meno importanti. Ebbene, se noi ci fermiamo solo all’esterno di ciò che ci succede, alla crosta storica, se rimaniamo solo in superficie, non entreremo mai dentro la vita, alla nostra vita, quando invece è fondamentale per noi cogliere il senso profondo di ciò che ci accade, capire dove la vita vuole farci andare.
Allora niente rimane più senza senso, perché in questo modo acconsentiamo alla Vita (Dio) di insegnarci ciò che ci deve insegnare, e a noi di capire, di imparare ad essere suoi discepoli.
Vivendo così nulla ci sarà estraneo, incomprensibile, scandalizzante, inaccettabile: tutto diventerà parte della nostra vita, potremo accogliere ogni esperienza, ogni incontro, ogni persona. Perfino i fatti più tragici, come le malattie e la morte, pur rimanendo tragici, avranno comunque un senso, qualcosa da dirci e da farci capire, diventeranno maestri per la nostra vita.
È chiaro che i Giudei non capiscono le parole di Gesù; soprattutto non sanno percepire il vero significato del termine “carne: “Ma come può costui darci da mangiare la sua carne?”. I suoi stessi discepoli gli diranno: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”.
Ora, mangiare la “sarx” di Gesù, la sua carne, per Giovanni significa “cambiare vita”: introdurre dentro di noi la sua “carne” significa adottare il suo stesso stile di vita, diventare altri Cristi, abbandonare i vecchi modelli di comportamento, i nostri schemi antichi e perversi; vuol dire relazionarci con gli altri in maniera completamente nuova, più sana, più accogliente, più caritatevole. “Nutrirsi di Gesù” significa insomma far entrare Dio nelle pieghe e nelle fibre della nostra esistenza.
Mangiare la carne”,bere il sangue”: quando Gesù pronuncia queste parole sa perfettamente di irritare, scandalizzare, provocare rifiuto, contrasto, disapprovazione. Perché allora Giovanni le riporta così fedelmente? Perché vede lontano: vuole in pratica mettere in guardia la Chiesa di ogni tempo da quel genere di spiritualismo “disincarnato”, anche oggi tornato tanto di moda. Egli riporta volutamente queste espressioni così forti per proporci plasticamente quello che deve essere il nostro impatto con Cristo, con la sua Parola, con il suo “Lieto annuncio”: dobbiamo cioè “mangiarlo”, adottando le stesse fasi del naturale processo digestivo: nel senso di masticarlo, triturarlo, frantumarlo, per poi digerirlo, metabolizzarlo. Dobbiamo cioè, questa è la cosa essenziale, assimilare, assorbire, fare nostri lo stile, il cuore e la mente di Gesù. Dobbiamo cioè “trasformarlo” nella nostra vita.
In pratica Giovanni ci avverte: “Fai attenzione tu che vai a prendere l’Eucarestia domenicale; per il fatto che ricevi il corpo di Cristo, non vuol dire che mangi veramente la carne di Gesù”. In altre parole ci dice che se il corpo di Cristo non ci trasforma, non ci altera, nel senso che ci rende altri, diversi da quelli che siamo; se non scuote i nostri modi di vivere e di pensare, se non ci mette in discussione con noi stessi, possiamo mangiare tutte le Eucarestie che vogliamo, ma non mangeremo mai la “carne di Cristo”.
Troppo riduttivamente nella Chiesa è stata identificata la carne di Cristo con l’ostia domenicale. Il che è vero, verissimo, ma troppo spesso siamo ben lontani dal pensarlo; questa “carne di Cristo” (l’ostia) è diventata per noi un semplice simbolismo, non la “mangiamo”, non provoca in noi l’incontro decisivo e trasformante in Lui. Per noi “credenti” tutto si è trasformato in puro formalismo!
Eppure, grazie alla preghiera della comunità, al dono dello Spirito e all'imposizione delle mani di un prete (talvolta purtroppo lui stesso inconsapevole del potere che ha), Gesù nella Messa si rende cibo, si rende carne viva per noi.
Per questo dobbiamo essere lì; per questo dobbiamo radunarci, perché, affamati, abbiamo urgente bisogno di saziare il cuore, di illuminare il cammino, e soprattutto di credere, senza ambiguità, senza ritrosia; dobbiamo credere con tutto il cuore e con tutta l'anima che noi mangiamo il corpo di Cristo, quel corpo “risorto”, quel corpo uscito dal sepolcro la mattina di Pasqua, vittorioso sulla corruzione e la morte. Noi mangiamo questo corpo, perché è di Dio, e Dio è infinito, dovunque, al di fuori del tempo e dello spazio, inesauribile, presente nella sua interezza in ogni frammento di pane e in ogni goccia di vino “consacrati”.
Nella Messa domenicale noi ci nutriamo pertanto di Gesù risorto; è un pezzo di risurrezione che entra e cresce dentro di noi: una cosa straordinaria! La Messa non dà soltanto qualcosa di buono, di santo, di grande: la Messa ci trasforma, ci “fa essere”. Ci fa diventare direttamente Cristo risorto.
Certo, partecipare a certe Messe nelle nostre chiese non è che aiuti poi tanto la crescita della nostra fede: sono Messe “stanche”, non entusiasmano, non edificano, non coinvolgono, sono troppo superficiali, “esteriori”; le viviamo con un senso di abitudine e di noia, sbirciando di nascosto l’orologio. Inutile scandalizzarci, strapparci le vesti, non è un’eresia! Nelle nostre celebrazioni quello che soprattutto manca è purtroppo l’entusiasmo di una fede vissuta: spesso in chi presiede, ma sempre nella stragrande maggioranza dei “cristiani” presenti.
Eppure noi per primi dovremmo fare di quella Cena il cuore della settimana, lo stimolo per la nostra vita; per primi dovremmo far diventare le nostre Eucarestie un capolavoro di autenticità, di bellezza, di lode, un incontro irrinunciabile con Cristo.
“Carne e sangue”, in questo modo, non saranno più termini esagerati: non lo saranno perché passeremo attraverso l'esperienza unica che Gesù propone; non lo saranno perché avvertiremo il vincolo profondissimo di amore che egli nutre nei nostri confronti: e in Lui nulla è eccessivo.
Purtroppo noi non crediamo, la nostra fede è posticcia, disancorata dalla vita; siamo ancora troppo lontani dalla vera fede: sissignori, proprio noi: noi malati di possesso, di accumulo, di sicurezze, di garanzie; noi, che viviamo sul crinale dell’idolatria, che rischiamo di dimenticare il significato della parola “gratuità” e cavalchiamo la logica del tornaconto; noi, che permettiamo alla pubblicità di plasmare i nostri bisogni, per poi correre di domenica ai nuovi “templi” commerciali per il gusto di saziarli; noi, che non sappiamo più nemmeno chiamare per nome i sentimenti che ci abitano, che siamo analfabeti del cuore e balbuzienti dello Spirito. Proprio noi che ci professiamo cristiani, non abbiamo più fede! “Sono cristiano ma non praticante!”. Risposta idiota, che lascia trasparire un’ignoranza totale del problema!
Oggi Gesù ci invita a nutrirci di Lui, a nutrirci di Amore, della Sua carne e del Suo sangue, dono totale di sé stesso nelle mani del Padre, dono perpetuo della Sua Pasqua. Nutrirci di Lui per capire finalmente e credere che “la carne che dona vita eterna” è quella offerta per amore, e non quella conservata “sotto vuoto”; che la gratuità è il ritmo cardiaco della felicità; che solo Dio sazia l’insaziabile desiderio di amore che ci abita. Viviamo da uomini vivi, viviamo da risorti con Cristo e in Cristo.
Purtroppo quante persone incontriamo che sono dei morti viventi; vivono anagraficamente, ma in pratica sono morti: non si commuovono più, il loro cuore è diventato duro come una pietra, non sanno più piangere, non provano più tenerezza, più amore, più dolore per nulla, sono sterili, senza sentimenti, sono maschere prive di qualunque emozione. “Che fine ha fatto la loro vita?”.
Giorgio Faletti, comico, scrittore e cantautore scomparso nel 2014, in una sua canzone diceva: “Che la morte mi colga vivo”. Già, che la morte ci colga vivi! Che non significa semplicemente essere “in vita”, ma essere “vivi”, che è tutto un’altra cosa. Amen.

  

giovedì 8 agosto 2024

11 Agosto 2024 – XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,41-51 
Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

La protesta dei Giudei, la loro “mormorazione” nei confronti di Gesù, altro non è che un tentativo di manipolare, alterare, rendere diversa, quella che è la realtà, cercando di compromettere alla base la sua credibilità: “Ma costui non è il figlio del carpentiere? Conosciamo bene suo padre e sua madre, come può dire tali stupidaggini?”. Praticamente cercano di convincere loro stessi e gli altri che quanto egli dice non può essere vero. Per questo si agitano, mormorano e protestano. 
Già la protesta: siamo tutti maestri in questo.
Basta che un nonnulla si scosti dai nostri parametri che immediatamente scatta la nostra reazione. Ma contro le realtà della vita, qualunque protesta è inutile: la realtà non si cambia, va solo accettata e vissuta.
Quando stiamo per lasciarci andare alle proteste, alle lamentele, alle critiche, dovremmo prima di tutto chiederci il perché lo facciamo, il vero motivo del nostro dissentire, perché nella vita ci sono delle realtà inconfutabili, indipendenti dalla nostra comprensione e accettazione: per esempio che noi non siamo unici nel mondo, che innumerevoli altre persone vi convivono, e non sono tutte uguali: ci sono quelle più sensibili, più intelligenti, più attraenti, più affascinanti di noi; ci sono persone decisamente “più” di noi in tutto; e questo non ci piace proprio, perché, anche se pubblicamente lo accettiamo, in cuor nostro siamo sempre convinti di essere noi i migliori o quantomeno pari a loro. Nel nostro egocentrismo siamo convinti di essere il centro dell’universo, il perno su cui ruota il mondo intero. La realtà invece è un’altra: il mondo, la vita, l’universo, vanno avanti benissimo anche senza di noi. Noi siamo soltanto come un’insignificante goccia d’acqua nel mare, una minuscola foglia in una foresta tropicale, una microscopica cellula nell’universo. Non ci piace ammetterlo, ma è così. Siamo nessuno, nulla, esseri ininfluenti, insignificanti, di fronte al continuo scorrere del tempo: vorremmo invece essere “qualcuno”, vorremmo che i posteri ci ricordassero con ammirazione, vorremmo essere nel cuore di tutta la gente, menzionati nei libri di storia. Ma tutto quanto facciamo, o abbiamo fatto, nel corso della nostra vita, sia in famiglia, che nel lavoro o nel sociale, tutto, dopo un po’, viene dimenticato. Chi vivrà dopo di noi, i nostri stessi figli, faranno scelte diverse dalle nostre, adotteranno strategie contrarie, e il mondo continuerà ad andare avanti come prima, o anche meglio di prima. È normale, è giusto che sia così.
Nella vita tutto inizia e tutto finisce, tutto si evolve troppo in fretta. Noi vorremmo che certi momenti particolari non finissero mai: invece no, tutto finisce, tutto passa. Tutto quello che da stolti pensavamo fosse eterno, si rivela poi caduco e provvisorio. La nostra stessa vita, il nostro “essere”, dipende dall’evolversi dell’età e delle cose. “Panta rei” dicevano gli antichi: tutto scorre, tutto è sfuggente, tutto è proiettato nel divenire, nel domani: il presente è l’attimo che appartiene già al passato, il tempo è uno scorrere implacabile di istanti inafferrabili.
Non ci piace ma questa è la realtà! Tutti abbiamo bisogno degli altri. Vorremmo farne volentieri a meno, vorremmo essere completamente autonomi, gestori della prosperità, del benessere; vorremmo organizzare la nostra vita liberamente, senza alcuna interferenza, senza essere costretti a sorbirci il giudizio della gente, ad ascoltare ciò che pensano di noi. Vorremmo, vorremmo, vorremmo…
Ecco, sono queste le realtà contro cui non possiamo nulla, contro le quali la nostra “mormorazione”, la nostra ribellione è inutile. Le vorremmo completamente diverse, come le immaginiamo, come ci piacciono. Ma le vicende della vita sono sempre diverse, più grandi di noi, indipendenti da noi. Dobbiamo imparare invece ad accettare le circostanze della vita come vengono, con serenità e rassegnazione, perché forse Dio, proprio attraverso di esse, vuole insegnarci ciò che dovremmo sapere, farci scoprire quella realtà che ci è più difficile accettare. Realtà come il tempo, Dio, la Vita, sono più grandi di noi: noi dobbiamo non solo accettarli, dobbiamo accoglierli, fidarci di loro, rifugiarci in loro; dobbiamo lasciarci guidare solo dalle fede nell’amore e nell’intelligenza soprannaturale di Dio, perché in Lui tutto ha un senso, anche se noi non lo capiamo.
Ma torniamo al vangelo: mentre dunque Gesù parla di un pane che scende dal cielo, i giudei non capiscono e mormorano: sono su un piano diverso, assolutamente inconciliabile con le realtà di Dio.
Un detto cinese dice: “Quando uno indica la luna con un dito, lo sciocco guarda il dito”.
È quanto succede ai Giudei: Gesù sta parlando di cose alte, elevate, profonde; sta rivelando suo Padre, il Dio vero, quello che sazia la “fame” del mondo, e loro non riescono ad andare oltre il dito. Per loro Gesù non può essere altro che il figlio di Giuseppe, il falegname; per loro il pane è solo quello di farina; per loro il cielo è solo quello che manda il sole e la pioggia; per loro Dio è solo uno da pregare perché aiuti a vincere i nemici e tenga lontane le disgrazie. Non capiscono che Dio è Amore, e che l’Amore è felicità.
Purtroppo, per gli uomini d’oggi, la felicità è “avere” qualcosa. Felicità per essi è avere denaro, ricchezze, una posizione socialmente superiore, un’abitazione sontuosa, essere stimati, invidiati, temuti. Stolti!
Non capiscono che felicità è poter “sentire”, gustare la Vita che è in loro, che cresce, che diviene, che si espande, che li “contiene”. Felicità è poter vivere serenamente quel che si è, essere consapevoli dei propri limiti, gustare le piccole conquiste quotidiane. Felicità è percepire al proprio fianco la presenza amorevole, continua, premurosa, benefica, di Dio.
Cosa fanno invece i “sapienti” nostrani? Ignorano Dio: hanno ridotto il divino ad una preghierina scaramantica da dire ogni tanto, un rito distratto da compiere, ma soprattutto ad una “rottura”, da evitare ad ogni costo, un impiccio di cui non sanno che farsene.
Sono ciechi per loro scelta. Perché Dio è Vita, è la sensazione di essere immersi in Qualcosa di più grande, di più profondo; è vivere l’esperienza divina di appartenere ad un di Più incalcolabile, di essere risucchiati da una corrente impetuosa che ci mette in salvo, al sicuro; è sentirsi amati nonostante le nostre continue meschinità; è sentirsi felici e fortunati di esistere, perché, proprio per questo, Dio ci ha regalato l’esistenza: per sentirci sicuri, per non temere mai nulla, perché Egli ci sorregge e ci difende da ogni pericolo, con il suo grande abbraccio.
Tutto nella nostra vita è importante. Prendiamo per esempio i figli: i figli sono il dono che la vita ci fa per consentirci di esprimere l’amore che portiamo dentro; sono il “mezzo” per realizzare la nostra vita, sono il senso delle nostre giornate. Ma attenzione, sono un “mezzo”, non il “fine”: sono uno stupore da vivere, una meraviglia da contemplare, una scuola di vita da cui imparare la gratuità (diamo senza avere aspettative), il distacco (li amiamo pur sapendo che se ne andranno), l’alterità (sono “altri”, diversi, opposti da noi), l’umiltà (ci fanno vedere le nostre debolezze, le nostre fragilità, i nostri difetti), ecc.; sono insomma “noi stessi” proiettati nel futuro: ma non sono e non devono essere il “fine” della nostra vita.
E così per tutte le cose. Possiamo banalizzare qualunque cosa ci riguardi, possiamo rendere tutto insignificante o inutile, ma anche entusiasmante, profondo, divino. Dipende solo da noi!
Gesù poi dice: “Io sono il pane vivo”. Quindi c’è un pane vivo e c’è un pane morto: esiste cioè un pane “vivo”, che nutre l’anima; e un pane “morto”, che nutre solo il corpo.
Ma quale dei due nutre veramente? Qual è quello insostituibile?”.
Il pane per gli antichi era il cibo normale. Dire “pane” significava dire cibo, significava nutrirsi, sfamarsi. Ogni giorno noi assumiamo cibo, ne abbiamo bisogno. Ma è sufficiente questo pane della terra a saziarci? O cerchiamo ancora qualcos’altro, qualcosa che soddisfi la nostra anima e il nostro cuore? È vero, il cibo riempie il nostro stomaco: ma cos’è che riempie la nostra anima? Esiste un cibo che può saziarla? Facciamo mente locale: ci siamo mai chiesti perché i maghi, le chiromanti, gli indovini sono sempre pieni di clienti? Perché gli studi medici dei terapeuti sono sempre stracolmi di persone? Perché siamo spesso così depressi e alienati? Perché siamo così isterici, “schizzati”, tristi, demoralizzati? Cos’è che ci manca? Ci manca semplicemente quel pane che nutre la nostra anima.
La più grande fame dell’uomo è quella dell’amore, un pane che noi non ne assumiamo mai a sufficienza. Noi siamo bisognosi di amore. Abbiamo necessità di essere amati, che qualcuno ci dimostri di credere in noi, che qualcuno ci apprezzi, ci dia importanza, fiducia. Se non siamo amati, non siamo nessuno, non valiamo nulla: esserci o non esserci è la stessa cosa, vivere o morire non cambia nulla.
Le storie e le vicissitudini della gente sono le storie di uomini e donne che soffrono di una enorme carenza d’amore, senza alcuna prospettiva diversa, senza che ci sia qualcuno in grado di porvi rimedio. Quando ci capita di sentirci soli, chiamiamo un amico, qualcuno che ci faccia compagnia; quando ci sentiamo giù di morale, cerchiamo qualcuno che ci ascolti, che ci consoli. Ecco: quando sentiamo questa fame terribile di amore, quando niente e nessuno può saziarcela, l’unica soluzione è di rifugiarci in Dio, di sentire che possiamo fidarci di Lui, di avere la certezza che Egli non ci lascerà mai soli, che non saremo mai dimenticati, perché facciamo parte di un Tutto che non avrà mai fine, che ci rassicuri e ci ripeta: Ti contemplo dalla mia santa dimora in cielo. I miei occhi brillano d’amore per te. “Non temere, perché il tuo nome è inciso sul palmo delle mie mani” (Is 49,16). Amen.

  

giovedì 1 agosto 2024

04 Agosto 2024 – XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,24-35 
Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!»

Domenica scorsa abbiamo letto il miracolo della moltiplicazione dei pani. Oggi il vangelo ci racconta ciò che è successo subito dopo: la folla, entusiasta di Gesù, vuol farlo re: egli ha moltiplicato il cibo all’infinito, li ha sfamati tutti; é uno che fa miracoli, uno potente, uno che può prendersi cura di loro; uno che deve essere assolutamente il loro capo.
A questo punto Gesù scappa, ma la gente lo insegue, continua a cercarlo ovunque, e lo ritrova sull’altra sponda del lago: lo vogliono loro re ad ogni costo, vogliono avere assicurato ogni giorno quel pane che li sazia.
Gesù questo l’ha capito bene, tant’è che li mette subito con le spalle al muro: “Voi mi cercate solo perché avete mangiato e vi siete saziati”; e aggiunge immediatamente: “Quello che dovete cercare però non è tanto il cibo materiale, ma il pane spirituale, quello che non perisce, quello che dura per la vita eterna”.
Vita eterna”: in greco ci sono due modi per dire “vita”: il primo è “bìos”, che indica la vita fisica, biologica, quella che inizia e finisce; il secondo è “zoé” che si riferisce alla vita interiore, alla vita spirituale, quella indistruttibile, senza fine, eterna. Ed è esattamente a questa “vita”, questo termine greco, che Giovanni usa qui, nel riportare le parole di Gesù.
Ora, tutti sappiamo bene che se non mangiamo, se non nutriamo la nostra vita fisica (bìos), moriamo. È una cosa naturale, ovvia. Ma è altrettanto naturale e ovvio che se non nutriamo la nostra vita interiore (zoé), la nostra anima muore. Semplice, elementare!
Eppure, quanti di noi si preoccupano oggi di nutrire la loro vita spirituale? A chi sta veramente a cuore? Se ci capita di interpellare le persone con un banale “Come stai?”, tutti, indistintamente, rispondono riferendosi alla salute, al lavoro, agli affari. E si fermano qui. Per loro la vita è solo questa, quella fisica. Dimostrano cioè di ignorare di avere un’anima. Oppure sanno benissimo di averla, ma si vergognano di parlarne, hanno paura di ammettere qualunque riferimento a Dio, con il soprannaturale, perché conoscono bene i doveri e le problematiche che ne derivano per i loro comportamenti.
Se però ad un certo punto della nostra vita, tutto sembra andare a rotoli, se la salute viene meno, se i nostri progetti di vita si infrangono, allora non ci vergogniamo più, immediatamente ci lamentiamo con Dio, ci arrabbiamo con Lui, gli rinfacciamo le sue promesse, le sue offerte di costante aiuto. Cadiamo addirittura in depressione, piangiamo, ci sentiamo abbandonati da tutti e non riusciamo a dare un senso alla nostra vita. Solo che è da stupidi prendercela con Dio, quando siano noi soltanto i responsabili dei nostri fallimenti, per aver dissipato il nostro tempo, per non aver coltivato nulla di spirituale, di eterno; ci siamo occupati solo del nostro star bene, dei piaceri della vita, della carriera, del denaro, della gloria. Per Dio, per la nostra anima, non abbiamo fatto nulla, assolutamente nulla.
La vita spirituale non è una realtà a sé stante, autonoma, indipendente da noi: al contrario essa è strettamente subordinata al nostro agire, alle nostre opere, alle nostre scelte: se non la coltiviamo, se non alimentiamo, se non curiamo quel piccolo seme di vita immortale che Dio ha seminato in noi, essa morirà, si seccherà, la perderemo strada facendo. All’inizio c’era, è sbocciata con quel soffio divino che ci ha generati, doveva crescere, irrobustirsi, doveva diventare la guida sicura nel nostro muoverci nel tempo, ma noi l’abbiamo ignorata, trasformando la nostra esistenza in un inutile vagabondare senza meta, senza ideali spirituali: senza alcun nostro interesse, senza le nostre cure salutari, essa è deceduta, si è spenta, è morta.
Ora, se causare la morte di qualcuno, ancorché involontariamente, è ritenuto da tutti un dramma, una tragedia incalcolabile, perché la morte dell’anima, il rifiuto a Dio di vivere in noi, non preoccupa oggi più nessuno? Forse che la morte spirituale è meno drammatica di quella corporale? Forse che escluderci stoltamente dalla visione finale di Dio, dal suo amore eterno, è meno tragico?
Non facciamoci illusioni fuorvianti: anche se riuscissimo a raggiungere il massimo del benessere, anche se la nostra vita terrena fosse ai massimi vertici, privi di una concreta vita spirituale, continueremmo a non apprezzare nulla, ci sentiremmo incompleti, perennemente insoddisfatti, dei falliti. Nulla di questo mondo potrà mai appagarci, nulla riuscirà a soddisfarci completamente; non ci basta il tempo che abbiamo per vivere: cinquanta, settanta, novant’anni: quando saremo giunti al dunque, vorremo avere sempre altro tempo. La fine ci sembrerà sempre troppo prematura; la cruda realtà dei limiti umani, un’ingiustizia. È naturale, perché noi siamo stati pensati da Dio per l’eternità, per un tempo senza fine, per un mondo infinito “al di là” di questo. Non ci sarà mai in questo mondo abbastanza ricchezza che ci appaghi, che ci soddisfi. Più ne abbiamo, ancor più ne vorremmo: i soldi saranno sempre il nostro tarlo quotidiano, non ci basteranno mai. Se avessimo tutta la terra, vorremmo la luna; se avessimo la luna cercheremmo di raggiungere l’intero sistema solare; perché noi siamo fatti per godere di una ricchezza superiore, l’unica in grado di colmare la nostra anima e non le nostre case, le nostre tasche, i nostri conti bancari. Noi siamo fatti per questa ricchezza, per quella che non passa mai, per quella che resta per sempre.
Così, nessun successo sarà mai in grado di renderci veramente felici. Possiamo anche essere famosi, osannati, rispettati, emulati, applauditi. Possiamo far in modo che tutti dicano bene di noi. Possiamo essere dei “miti”, ma questo non sarà mai sufficiente a renderci davvero felici. L’uomo, intrappolato nei suoi limiti temporali, sente il bisogno segreto, costante, di nuovi e più appaganti successi, di traguardi infiniti che si perdono nell’eterno, perché nel nostro intimo, è quella la felicità che noi cerchiamo, quella che non è di questo mondo, quella che non possiamo raggiungere in questa nostra breve parentesi terrena: una parentesi però, che ci è concessa solo ed esclusivamente per consentirci di meritarla, mediante un’adeguata, puntuale preparazione.
Poi, Gesù prosegue: “Credete in me, in colui che Dio ha mandato” (Gv 6,29).
La fede dei discepoli continua ad essere insicura, non sono ancora completamente convinti, hanno bisogno di ulteriori riscontri; per cui, quasi risentiti, insistono: “Ma tu, quale segno ci dai per poterti credere?” (Gv 6,30).
Questo è il punto. I discepoli vogliono conferme, vogliono prove, altri segni tangibili. È così per tutti: chi ancora non crede, chiede miracoli, cerca all’esterno quella spinta, quell’impulso, che non trova dentro di sé; chiede cioè qualcosa di straordinario che lo convinca a credere, anzi che lo costringa a credere. Ma non capisce che Dio non vuole dei “costretti”, non gli interessa gente che crede perché non può farne a meno; egli non ama gli individui “tappetino”: vuole uomini liberi, uomini che lo seguano non perché sono obbligati per legge o attirati dalla possibilità di stare meglio materialmente, oppure affascinati dai suoi miracoli o dalle visioni soprannaturali, ma soltanto perché ricambiano il suo amore, perché apprezzano quelle sue parole che fanno palpitare vivo il loro cuore.
Gesù è chiaro: il miracolo che mi chiedete, l’opera di Dio che voi volete imitare, è una sola: “che crediate in colui che egli ha mandato”. Tutto qui: “fides sufficit”, per fare “miracoli” basta la fede in Lui, perché è Lui che Dio ha mandato; non serve nient’altro. Una fede però che deve essere vera, profonda, autentica, animata dall’amore; perché solo così, nel suo nome, sarà possibile a chiunque compiere “meraviglie”, opere “divine”, sensazionali. Niente esibizionismi funamboleschi, niente spettacoli da baraccone: il divino non si rivela su ordinazione, ad un nostro cenno; Gesù non sopporta le false commedie da palcoscenico. Se sono i miracoli che servono oggi nel mondo, se di “segni” c’è bisogno, siamo noi stessi che dobbiamo diventare “miracoli” umani, “segni” viventi di Dio. Come? Credendo sul serio in Lui: aderendo a Lui con una fede libera, sincera, convinta, espressione del nostro sincero e umile amore per Lui; una fede che deve essere supportata e alimentata da quel cibo divino, da quel “pane consacrato” che, unico, è in grado di dare vigore alla nostra anima.
Io sono quel pane”, dice Gesù. Ecco perché ogni giorno dobbiamo aver fame di lui, ogni giorno dobbiamo sentirne un bisogno assillante, ogni giorno dobbiamo avvertire la necessità vitale di assumerlo. Lui è sempre a nostra disposizione, continua ad aspettarci ogni giorno; la sua è un’offerta costante di amore, perché conosce questo nostro insaziabile bisogno di Lui.
Allora, ogni volta che ci accostiamo all’Eucaristia diciamogli: “Ti aspettavo, Gesù, ho bisogno di te!”, e sentiremo Lui che, entrando nel nostro cuore, ci risponderà dolcemente: “Sono qui solo per te, non vedevo l’ora di venire qui con te, per aiutarti, per darti una mano, per amarti, per guarirti, per servirti, per tenerti stretto a me”. Amen.

  

giovedì 25 luglio 2024

28 Luglio 2024 – XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Gv 6,1-15 
Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Giovanni, nel vangelo di oggi, ci mette di fronte ad una situazione molto concreta: una grande folla (circa cinquemila uomini), attratta dalle parole e dai “segni” compiuti da Gesù, lo segue fin oltre il Lago di Tiberiade; è ormai mezzogiorno, e poiché il luogo è deserto, immediatamente si pone il problema di come poter dare qualcosa da mangiare a quella moltitudine, ormai da molto tempo lontana dalle loro case. Gesù, per provare la fede dei suoi discepoli, chiede loro cosa si può fare: molte soluzioni in realtà non ci sono, poiché essi non hanno proprio nulla con sé; trovano soltanto un ragazzo che casualmente ha cinque pani e due pesci: un niente per tutta quella folla! 
E qui Gesù ci offre il primo insegnamento: la “condivisione”. Condividendo, mettendole cioè in comune, le poche cose si moltiplicano, diventano molte. Se si condivide, ce n’è per tutti. Senza la condivisione ce n’è solo per l’arroganza di pochi. Ecco: condividere tutto, con grande fede, invocando la benedizione di Dio, questo è il significato del miracolo di Gesù: egli sa perfettamente che i cinque pani e i due pesci del ragazzetto sono un niente di fronte alla massa dei presenti, eppure ordina la condivisione, e man mano che il poco, il niente, viene distribuito, automaticamente si moltiplica, non si esaurisce mai, ce n’è per tutti… addirittura ne avanza! 
In pratica, Gesù ci invita a non nascondere il nostro poco, ma a tirarlo fuori, ad usarlo, a fidarci di quel poco che siamo; a non fare gli indifferenti, nascondendoci dietro alla scusa che siamo poveretti, che non abbiamo nulla, che non siamo nessuno. Anche se questa è la verità, anche se effettivamente non valiamo niente, Dio non guarda mai il quanto, il numero delle nostre opere, il volume delle nostre azioni: Dio guarda invece il “come” noi le facciamo le nostre opere, Dio guarda le intenzioni, l’amore che mettiamo nel farle; per questo Egli “scruta” il nostro cuore. 
Tutte le cose all’inizio sono niente. Ma se ci fidiamo di quel poco che abbiamo, se lo usiamo correttamente, se lo mettiamo amorevolmente a disposizione degli altri, un giorno diventerà sicuramente grande, crescerà, si svilupperà. Agli occhi di Dio nulla in noi è meschino, tutto ha un suo valore: anche quando, guardandoci allo specchio dell’anima, ci vergogniamo e ci butteremmo via molto volentieri. Ma dobbiamo ricordarci sempre che veniamo da Dio! Che Egli ci ha creati a sua immagine: una dignità, un dono smisurato, di cui ogni giorno della nostra vita dobbiamo ringraziare e benedire Dio: ogni giorno dobbiamo ringraziarlo per quel poco che siamo, cercando però ogni giorno, con il suo aiuto, di trasformarci, di migliorarci, di diventare un po’ alla volta sempre più assomiglianti a Lui. 
Il miracolo di Gesù ci insegna, dunque, che più si condivide, più le cose si moltiplicano: così in una comunità, se ognuno fa la sua parte, l’impossibile diventa possibile: in un’azienda, infatti, più ognuno mette a disposizione di tutti le proprie informazioni, le proprie capacità, le proprie risorse professionali e umane, più quell’azienda funzionerà; così in famiglia, più si condivide ciò che ciascuno ha vissuto durante la giornata, ciò che ha provato, i suoi alti e bassi, e più quella famiglia troverà unione, serenità, diventerà forte, tetragono nelle avversità. 
C’è un altro insegnamento importante nel vangelo di oggi: dobbiamo cioè “benedire” quel poco che abbiamo. “Benedire” vuol dire accontentarsi di quel che c’è, di quello che siamo, di quello di cui disponiamo. A Gesù “bastano” quei cinque pani e due pesci, e Dio moltiplica quel poco. “Benedire” vuol dire: “Accetto quel poco che sono, perché sono cosciente che viene da Dio; perché se sono così è perché Lui, che sa ogni cosa, che conosce ciò che è bene per me, permette che io faccia quel “particolare percorso” per giungere a Lui. Allora smettiamo di cercare in tutti i modi di essere diversi, di non essere noi stessi, smettiamo di voler essere e fare come tutti gli altri; smettiamo di invidiare gli altri, chissà poi per che cosa! Benediciamo invece ciò che siamo e ringraziamo Dio per questo; cerchiamo di scoprire da Lui, partendo proprio da ciò che siamo, cosa dobbiamo fare per migliorarci, convinti che con Lui possiamo anche noi fare miracoli! 
Forse ci sembra troppo, stante la nostra pochezza, ma fidiamoci di Dio. Ci ha creato Lui, Lui sa! 
Quando Gesù “benedice”, tutto è possibile, il poco diventa abbondanza per tutti.
“Benedire”, inoltre, è ricordarsi da dove viene ogni cosa. Ogni cosa non è nostra. Non è una nostra proprietà. Quindi ricordiamoci la sua origine; quindi ricordiamoci che è di tutti; quindi ricordiamoci che tutti ne hanno diritto.
Spesso invece noi scambiamo per proprietà ciò che abbiamo semplicemente in uso. Chiamiamo proprietà ciò che non è nostro, ciò che non possiamo portare con noi, che non possiamo vincolare a noi.
Abbiamo mai visto un uomo portare con sé i suoi beni dopo la morte? No. E Perché? Unicamente perché non è possibile, non è di “sua” proprietà (anche se ci piacerebbe!). Eppure mentre è in vita, l’uomo si arroga il diritto di chiamare “suo”, ciò che usa soltanto. È una grande illusione. Neppure la vita è “nostra”. Una malattia qualunque ce la può togliere. Basta un qualunque incidente, e la vita improvvisamente si spegne, in un istante ci viene sottratta. Dobbiamo restituirla. E se siamo chiamati a restituirla, è chiaro che non può essere nostra. Allora, cosa possiamo considerare di “veramente nostro”? Solo come viviamo l’attimo presente; l’istante che stiamo per vivere; l’adesso, l’hic et nunc, come dicono i latini, il “qui e ora”: è questa l’importanza enorme di questa inafferrabile frazione infinitesimale di tempo!
Noi pensiamo invece che la vita ci sia dovuta, sia un diritto, senza fine, senza scadenze. E, invece, no. È un regalo, un’opportunità. Ci arrabbiamo quando ci viene tolta; ma ci dimentichiamo di gustarla degnamente quando ce l’abbiamo, ci dimentichiamo di benedire chi ce l’ha data, di ringraziare Dio per le immense possibilità che con essa ci offre continuamente, ad ogni battito di orologio. Se ringraziassimo di più, se vivessimo nel modo giusto la nostra vita, se fossimo coscienti del grande dono che in ogni istante ci viene confermato, in ogni battito di cuore, in ogni respiro, saremmo più riconoscenti e meno angosciati dalla paura di perderla.
Chi pensa di essere “proprietario” delle cose, non ha motivo di ringraziare nessuno, non ha motivo di stupirsi, di benedire: sono sue, perché farlo? Al contrario soltanto chi sa di non avere nulla può provare gratitudine: per quello che è, per tutte le cose che gli sono date in consegna; soltanto chi sa che nulla gli è dovuto, che niente gli spetta di diritto, che tutto è dono, solo costui può vivere veramente sereno e felice. Solo così penserà meno a sé, e più ai fratelli.
In questo senso quel “distribuire a tutti il pane” diventa automaticamente: “siamo tutti un’unica famiglia”.
Quel giorno, in riva al lago, c’era tanta gente, ognuna spinta da proprie motivazioni: alcuni gli credevano ciecamente, altri intuivano soltanto che in quell’uomo c’era qualcosa di grande e di diverso; altri lo seguivano solo per egoismo, per ricavarne qualcosa; altri addirittura lo odiavano, stavano lì per metterlo alla prova, cercavano solo giustificazioni per ucciderlo; altri ancora erano solo curiosi. Ma Gesù li abbraccia tutti con il suo sguardo amorevole; non fa distinzioni, non guarda in faccia alle singole persone, non si chiede se chi gli sta davanti sia amico o nemico. A tutti indistintamente Egli dà il pane, offre il nutrimento. A tutti Egli offre la stessa opportunità: perché sono tutti suoi figli. 
Cerchiamo di metterci anche noi nella stessa prospettiva di Gesù; guardiamo anche noi questa povera umanità tanto martoriata, così violentemente fratricida; guardiamola con gli stessi suoi occhi: non ci sono buoni o cattivi, di destra o di sinistra, bianchi o neri, ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, religiosi o no. Ci sono solo uomini, creature che hanno fame di Dio, di verità, di pace. È Lui il solo Padre, tutti siamo suoi figli. A tutti infatti Egli offre il pane del Vangelo, dell’Amore: alcuni lo mangiano, altri non sanno che farsene; Lui ci ama tutti: alcuni si aprono al suo amore, altri no; si preoccupa per tutti: alcuni lo ascoltano, altri no; vuole nutrirci tutti di Vita: alcuni si sfamano, altri no; ci vuole tutti nella sua casa: alcuni ritornano, altri no; non vuole che nessuno si perda: alcuni lo accolgono, altri lo rifiutano. Tutti, tutti, sono suoi figli. Tutti gli stanno a cuore. È il padre di tutti. Li ama tutti. È il Pane di tutti. Il banchetto celeste è aperto a tutti: sta a noi, però, sta ai singoli, avere il buon senso di presentarci con la “veste nuziale”. Se il suo amore è incondizionato per tutti, dimostrare di esserne degni è l’unica risposta d’amore che spetta a noi.
Ecco: questo è il grande miracolo su cui oggi siamo chiamati a meditare. Amen.