In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento". (Mc 1,7-11).
Marco inizia il suo vangelo
presentandoci Giovanni Battista che, nel territorio posto in prossimità del
Giordano, va predicando a tutti la necessità di sottoporsi al battesimo. Un
battesimo piuttosto impegnativo il suo, un battesimo fondato sulla metànoia,
sulla “conversione”, ossia su di un radicale cambiamento di mentalità e di
valori. Un battesimo insomma che costituisce il segno, il simbolo, dell’avvenuta
conversione. In pratica il Battista dice: “Io, con il battesimo, vi tolgo i
peccati di un passato sbagliato, ma siete voi che dovete cambiare vita,
cambiare mentalità, modo di pensare, altrimenti che senso ha venire da me per
una semplice abluzione esteriore? non serve assolutamente a nulla”.
Il Battista conosce
perfettamente i propri limiti e rilancia il suo messaggio in una prospettiva
nuova: egli sta con le spalle rivolte al passato, ma con il dito puntato in
avanti, per indicare l’arrivo imminente della nuova economia, quella dell’amore,
della grazia, non del provvisorio lavaggio delle colpe, ma del loro totale e
definitivo perdono.
È a questo punto che succede
qualcosa di impensabile, di imbarazzante. Confuso tra la folla accorsa da lui
al Giordano, gli compare improvvisamente lo stesso Gesù; e anche lui, come
tutti gli altri, si mette in fila per farsi battezzare, per farsi “lavare” i
peccati. Un fatto che poi metterà in difficoltà i primi discepoli della giovane
Chiesa: “che bisogno aveva Gesù di “lavare le colpe”, di farsi togliere i
peccati? Che voleva dimostrare con questo gesto? Che forse anche Lui aveva
peccato? Impossibile! E allora perché ricorrere al battesimo di Giovanni?”.
Marco non si pone queste
domande. È lapidario: “Accade in quei giorni che Gesù venne da Nazareth”.
In quel verbo “accade” egli fonda tutta la spiegazione dei fatti. Egli
intende dire cioè che nella persona di Gesù si concentra il compimento, la
realizzazione, di tutte le promesse fatte da Dio nell’antica alleanza: non a
caso Gesù ha la stessa radice di Giosuè: di colui cioè che, come leggiamo nella
Bibbia, ha condotto il popolo dalla schiavitù alla terra promessa; e qui Gesù,
come Giosuè, conduce infatti tutti i popoli dalla schiavitù del peccato, alla
terra promessa dell’amore e della libertà.
Marco dunque dice che Gesù si
fa battezzare: all’inizio del suo ministero, cioè, si presenta in fila come gli
altri peccatori, in tutto solidale con gli altri uomini. Ma egli non confessa i
suoi peccati, come fanno loro: Lui si fa battezzare soltanto per trasformare il
battesimo di Giovanni, simbolo di morte, in un battesimo nuovo, simbolo di
vita.
Giovanni fa immergere le
persone perché “muoiano” al peccato, perché inizino una nuova vita, un
passaggio dalla morte del peccato, alla vita della conversione: tutto ciò che c’è
stato prima deve morire, deve venir estirpato, cancellato, eliminato. Ma Gesù
non vive questo battesimo di morte. Lui vive un battesimo di resurrezione.
Marco infatti fa notare questa differenza ricorrendo ad un verbo particolare:
per dire che Gesù “esce” dalle acque del Giordano, usa anabàinon, che
vuol dire uscire, ma “salire”, lo
stesso verbo usato quando, dopo la resurrezione, dopo aver vinto la morte, Gesù
esce, lascia questa terra per “salire” in cielo. Stesso verbo, stesso
significato.
Lo
scopo del Battesimo di Gesù, quindi, non è tanto quello di affrancarsi dal
peccato originale, di purificarsi dai peccati (che lui non aveva), quanto
piuttosto, come ci dicono tutti i vangeli, nel far discendere sulla sua
persona, e con Lui su ogni uomo, il dono dell’amore del Padre.
Marco infatti continua: “E subito salendo dall’acqua,
vide aprirsi i cieli”; letteralmente, vide i cieli “skizomènus”, squarciati,
spaccati, aperti, rotti in modo irrecuperabile: l’allusione alla
convinzione biblica sulla “chiusura” ermetica dei cieli, è chiara: fino
ai tempi di Gesù si credeva infatti che Dio, indignato per i peccati del
popolo, si fosse ritirato nella sua dimora celeste, sigillandone ogni ingresso.
Dio non si concedeva più, non si comunicava più al suo popolo. Non c’era più
comunicazione fra Dio e gli uomini. I cieli, luogo della dimora di Dio, erano
stati sbarrati per sempre. Per questo il profeta Isaia implorava: “Se tu squarciassi
i cieli e discendessi!” (Is 63,19). Era la
speranza, il desiderio, che Dio tornasse finalmente a comunicare con l’uomo, a
rapportarsi ancora con lui, in un colloquio interminabile, eterno, senza l’interposizione
di altre chiusure.
Ebbene: questa speranza si concretizza con il
battesimo di Gesù: è qui, infatti, nel momento stesso in cui lui “sale”
dalle acque, che i cieli si squarciano: Dio, in Gesù, attraverso Gesù,
polverizza ogni diaframma e torna a comunicare con l’uomo, torna a donarsi all’uomo,
e lo fa in maniera totale, radicale, definitiva. Marco non dice “i cieli si
aprono”: perché come si sono aperti, potrebbero anche chiudersi nuovamente;
egli usa un termine che richiama il senso di irreparabilità: la differenza tra apertura
e squarcio sta tutta qui: lo squarcio è un’apertura definitiva, violenta,
irrimediabile; da quel momento qualunque tentativo di chiusura sarà
impossibile, il passaggio creato da uno squarcio è destinato a rimanere
aperto per sempre. Ricordate? Marco usa questo stesso verbo “squarciare”
anche quando descrive i fenomeni avvenuti al momento della morte di Gesù: “il
velo del tempio si squarciò in due dall’alto in basso”: il velo enorme che
nascondeva alla vista del popolo la presenza e la gloria di Dio,
improvvisamente, si squarcia in maniera irreparabile, definitiva. L’evangelista
cioè intende sottolineare nuovamente, come il Dio velato, il Dio nascosto, si sia
rivelato definitivamente in Gesù crocifisso. Lui stesso è l’immagine visibile
di Dio: è il Crocifisso, infatti, il segno tangibile dell’amore di Dio per gli
uomini, reso ormai visibile a tutti e per sempre; un segno che non potrà più
nascondersi alla nostra vista, anche se lo rifiutiamo, anche se non lo vogliamo
più, anche se lo umiliamo, se lo disprezziamo, se lo crocifiggiamo di nuovo.
Dio, dopo Gesù, non potrà mai più smettere di amare l’umanità.
La spiegazione? È la discesa
dello “Spirito”. Marco qui usa l’articolo: “to pneuma”: non uno spirito
qualunque, ma “Lo Spirito”. L’articolo determinativo indica la totalità della
forza e della vita di Dio: ed ora tutto questo è in Gesù. Cioè tutto lo Spirito
è su Gesù. Non una parte, tutto. Gesù è il possessore dell’intero “Spirito”. In
Gesù si manifesta, non una parte di divinità, ma la pienezza della divinità: l’essenza
della divinità.
Ecco perché analizzando il
Battesimo di Gesù, è impossibile non rilevare la stretta correlazione con il
racconto della sua morte: quando Gesù “muore” (Mc 15,37) si dice infatti
che “spirò” (ek-pneuo). Gesù, nei vangeli, in realtà non “muore”
mai, nel senso che questo verbo non viene mai usato; non si dice mai che
Gesù muore, ma che emette lo spirito. È chiaro che Gesù è morto,
ma usando questo termine gli evangelisti vogliono contemporaneamente dire che
il suo Spirito non muore, non può morire; egli rimane vivo, è già risorto, lui
vive già da allora e vivrà per sempre: lui non è mai morto. Sulla croce Gesù ha
"reso", ha restituito lo Spirito al Padre. Cosa vuol dire? Vuol dire
che lo Spirito che Gesù riceve qui durante il Battesimo, è quello stesso Spirito
(pneuma) che egli emette alla sua “morte”, è quello Spirito che uscito da
Lui, continuerà a vivere su tutti coloro che vivranno come Lui; quello stesso
Spirito d’Amore che Egli dispenserà in dono a tutti nella Pentecoste,
lasciandolo in eredità alla sua Chiesa.
Poi Marco aggiunge: “E ci
fu una voce (phoné) dal cielo”. Anche prima di “emettere lo Spirito” sulla
croce, Gesù dà un forte grido (phoné): “Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato?” (Mc 15,34). È la “voce” dell’amore di Dio. Tutta
la vita di Gesù è immersa nell’amore del Padre che lo sostiene, lo protegge e
lo spinge a realizzare, a compiere, il suo progetto di salvezza.
Ed è quest’amore, questa voce
di Dio che, attraverso Gesù, ci fa sentire al sicuro, protetti, amati,
sorretti. Noi abbiamo bisogno di un amore che ci ami al di là di tutto, un
amore che ci sia sempre e in ogni caso; un amore che non venga mai meno per
nessun motivo; un amore che sia impossibile perdere. Solo così, forti di questo
amore, potremo affrontare qualunque difficoltà.
Qualcuno potrebbe dire: “Ma
io non lo sento questo Dio che parla!”. Certo, ma se non lo sentiamo, non è
perché Lui non parla, ma perché noi siamo sordi. Non lo sentiamo, perché siamo
distratti da mille altre voci, da altri frastuoni, dai tantissimi rumori che
coprono la sua voce. E poi, soprattutto, “dobbiamo volerlo”
sentire. Cosa che non è automatica. Perché troppo spesso abbiamo paura di
conoscere quello che potrebbe dirci; preferiamo quindi non sentirlo, preferiamo
fare i sordi, preferiamo coprire la sua voce con i mille rumori di questo
mondo.
Ma è proprio qui che
sbagliamo: perché se vogliamo sentire la sua voce, dobbiamo creare intorno a
noi il cosiddetto “silenzio dell’ascolto!”. Dobbiamo cioè mettere a
tacere tutte le voci inutili, gli urli sguaiati, assordanti. Dio non ama il
frastuono da discoteca: Dio ama il silenzio, il raccoglimento, la calma
interiore. Vi ricordate l’incontro di Elia con Dio? “Dio non era nel vento
impetuoso, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era in una brezza
leggera” (1Re 19,11-12): questo deve succedere anche per noi: perché Dio
non è lontano, non ha bisogno di gridare, è “dentro” di noi: e parla, “sussurrando”,
alla nostra coscienza.
E concludo con due verità,
entrambe consolanti: Dio ci ama di un amore incondizionato. E quando noi ci
sentiamo amati, troviamo la forza per affrontare qualunque cosa. Quando ci
sentiamo nell’amore di Dio, diventiamo assolutamente irresistibili.
L’amore umano, anche il più
grande, il più bello, pone sempre delle condizioni: abbiamo imparato che per
essere amati, dobbiamo sempre dare qualcosa in cambio. Ma Dio non è così. Dio
non ci ama perché siamo bravi, perché dobbiamo contraccambiare. Dio ci ama semplicemente
perché siamo “noi”, siamo quella “sua” particolare creatura. Non dobbiamo
temere di aprirci con Lui, di non dirgli certe “nostre cose” per farlo contento
ed evitare qualche “penitenza”. Con Dio non è così. A Lui possiamo raccontare
veramente tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo di più, anche ciò che ci fa
più male, che ci ripugna di più, che ci fa veramente schifo. Lui ci ama sempre
e comunque. Lui ci ama sempre e nonostante tutto: ci ama di un amore vero,
sincero, gratuito: un amore che sgorga dal suo cuore e che si chiama “grazia”.
Ma noi cosa dobbiamo dargli in cambio? Assolutamente nulla! Dobbiamo dirgli
soltanto: “grazie, Padre mio!”. Amen.