giovedì 7 dicembre 2023

10 Dicembre 2023 – II DOMENICA DI AVVENTO


Mc 1,1-8 
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaia: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Dove troviamo Giovanni il Battista? Lo troviamo nel tempio? No. Eppure, in quanto “sacerdote”, figlio di un sacerdote, questo posto gli sarebbe spettato di diritto. Ma non lo troviamo nel tempio. Giovanni, ci dice Marco, è soprattutto “Voce” di uno che grida, è annunciatore, messaggero: quindi non il chiuso di un tempio, ma gli spazi aperti e selvaggi del deserto si addicono per la sua predicazione: “Convertitevi dai vostri peccati”. 
Lontano dalle comodità, dagli agi dell’ambiente cittadino, nel deserto non esiste l’”ovvio”: se non si fa qualcosa per sopravvivere, si muore. Lì conta solo l’essenziale. Nel deserto non ci sono fronzoli o finezze: il deserto toglie tutte le sicurezze, le convinzioni, i riferimenti: nella solitudine uno si trova solo davanti a sé stesso, a quello che ha dentro. E arriva a vedere quella parte di sé che non vorrebbe mai conoscere.
Nel tempio tutto è bello, leggiadro: abbiamo le belle liturgie, il bel canto, la bella gente, la sicurezza: stiamo bene e rilassati. Anche se ci parlano di Dio, anche se ci chiedono di convertirci in nome di Dio, tutto è ovattato, tutto è soffuso, di maniera, come la nostra conversione.
Nel tempio non serve convertirsi sul serio; è sufficiente cambiare l’aspetto esteriore, ammantarci di un velo di contrizione, molto apprezzabile a vedersi: una conversione che non tocca il nostro cuore, che non convince l’anima: dentro rimaniamo tranquillamente sempre gli stessi; l’importante è riuscire a camuffare, a dare alle nostre iniquità, magari con “religiosi” distinguo, un aspetto moralmente positivo.
Questo nel deserto non è possibile: nel deserto non si può barare. Il deserto è categorico: “No, amico mio, così non va; devi convertirti, devi cambiare. Qui non puoi illuderti, non puoi nasconderti. Dove vai? Qui non puoi fuggire, non puoi evitare la verità: qui si vede subito se ami Dio, se il tuo cuore è veramente sincero”.
È quanto ci fa capire oggi il vangelo: per credere in Gesù Cristo, dobbiamo necessariamente abbandonare quella nostra patina di copertura che contrabbandiamo per religione. Non sono ammesse soluzioni di comodo.
È una verità dura, ma è così. La “religione”, quella che conosciamo noi, per definizione, ci dà regole, ci dice cosa dobbiamo fare e non fare, ci rassicura, ci dice che se faremo in un certo modo andremo in paradiso e se invece faremo il contrario andremo all’inferno; ci dice chi sono i buoni, quelli che per diritto saranno ammessi al premio finale, e chi i cattivi, gli esclusi. Ma di tutte queste belle “regole”, non c’è nulla negli insegnamenti di Gesù. Perché la religione di Gesù, quella vera, quella profonda, ha un solo obiettivo: l’amore. L’amore è la cartina di tornasole che ci dice quanto siamo sinceri nelle nostre dichiarazioni di fede. Perché per essere degni dell’amore del Padre, per poterlo pienamente godere nell’eternità, dobbiamo a nostra volta amare ogni creatura, aver cura dei nostri fratelli, dobbiamo usare loro rispetto, compassione, tenerezza, carità.
Se la regola della religione è: “Quanto preghi? Quanto sei puro? Quanto se incontaminato? Quanto sei fedele alle regole?”, la regola di Gesù è: “Quanto ami? Quanta fiducia dai alle persone? Quanto le fai crescere? Quanto le stimi? Quanto credi in loro? Quanto le rispetti?”. Ecco: adottare questo comportamento basato sull’amore, guidato dall’amore, vuol dire “convertirsi”; vuol dire “credere al vangelo”. Questo è quanto predica il Battista.
Un annuncio, il suo, estremamente severo ma concreto e onesto. Talmente autentico nella sua essenzialità, che la gente accorre in massa per farsi battezzare da lui. La sua fama, la sua popolarità, il suo successo crescono di giorno in giorno, tanto da allarmare seriamente le autorità religiose. Anche se nella sua predicazione non ha mai rivendicato per sé il titolo di Messia, anche se ha sempre dichiarato di non essere tale, che non è quello il suo ruolo, tuttavia per le autorità del tempio rimane sempre un autentico pericolo, una mina vagante.
Per questo corrono ai ripari: faranno cioè di tutto per isolarlo, screditarlo, diffamarlo, ostacolarlo, carcerarlo, ucciderlo: e alla fine ci riusciranno.
È il solito normalissimo percorso: quando non è possibile eliminare un avversario è sufficiente distruggere la sua reputazione, denigrarlo pubblicamente. Non importa se ha una condotta ineccepibile, se è una persona retta e onesta: l’importante è parlarne male, diffondere maldicenze e calunnie sulla sua moralità, sulla sua rettitudine professionale, per arrivare velocemente a distruggerlo del tutto.
Ma perché adottare questo metodo odioso con il Battista? Perché è un personaggio carismatico, monolitico, esigentissimo con sé stesso e con gli altri, uno che non guarda in faccia a nessuno, che non le manda a dire, insomma un duro e un puro, e questo non piace per niente alle autorità religiose che, al contrario, hanno molto, ma molto, da nascondere.
La conversione che egli predica, infatti, non è facile da accettare: il suo battesimo non implica una semplice trasformazione di facciata: impone piuttosto a tutti di tornare alla primitiva integrità, quella originale, quella di tornare ad essere immagine di Dio, “nuove creature”.
Oggi moltissima gente non esita a definirsi cristiana; certo, il battesimo ci ha reso tutti “cristiani”, figli di Dio: purtroppo però gran parte di questi cristiani si è fermata alla registrazione del loro nome su qualche libro dei battesimi; e vivono beatamente, in tutta tranquillità, nel dolce far niente, nascondendosi dietro una facciata di comodo, una patina di perbenismo. Questo non è essere cristiani: il battesimo ricevuto alla nascita si ferma all’acqua; ma, si sa, l’acqua scivola via: un altro battesimo si impone: quello vero, reale, autentico, quello di “fuoco”, quello dello Spirito; quello che Cristo stesso ha affrontato: un battesimo che “marchia” la vita, che brucia dentro, che scava nel profondo, l’unico che ci autentica alla radice come cristiani, come “uomini nuovi”. È il battesimo che ci trasforma in “altri”, che ci supporta nella realizzazione di quel progetto iniziale per il quale Dio all’origine ci ha segnati con il soffio dello Spirito. Questo in pratica è il nostro vero traguardo, quello che possiamo e dobbiamo raggiungere attraverso il battesimo di fuoco: ridiventare meritatamente quelli che eravamo già, i figli di Dio, creati a immagine e somiglianza del Padre. È la nostra trasformazione. È un “partorirci” nuovamente tra fatiche, pianti, lotte e dolore; ma solo così potremo arrivare ad essere “cristiani” autentici, i “benedetti” e prediletti del Padre.
Quindi, tradotto in pillole: tocca a noi, soltanto a noi, dimostrare con la vita questa discendenza da Dio; tocca a noi, nella essenzialità del “deserto”, spogliarci dagli orpelli dell’apparenza, e rivestire i panni dell’autenticità cristiana, passando attraverso il fuoco della fedeltà, della convinzione, della coerenza, il fuoco della rinuncia, del sacrificio, della battaglia contro il male: perché è questa l’unica via che può riportarci all’essenziale, alla Verità di Dio, all’Amore Infinito.
Battesimo, in ebraico, vuol dire “immergersi”: ecco allora che non una volta, ma ogni giorno, è necessario che ci immergiamo dentro di noi, ogni giorno dobbiamo scendere nel buio della nostra fragilità interiore, “nella mortalità” di questa vita, in ciò che ci rende spiritualmente sfiniti, senza senso, disperati, per far emergere, dalla finzione invalidante dell’apparire, la Luce ardente dello Spirito, la forza e la decisione dell’”essere”, che dà colore e calore alla nostra vita.
Insomma, è solo dopo aver percorso il nostro cammino di purificazione, di liberazione, di amore, dopo aver vissuto il nostro Golgota, dopo aver superato la nostra autenticazione del fuoco, che torneremo finalmente a far risplendere la nostra originale figura di figli, creati dal Padre a sua immagine e somiglianza. Un percorso sicuramente impegnativo, ma non impossibile: un percorso, soprattutto, che non va semplicemente “pensato”: ma fatto e basta! Non abbiamo altre alternative! Amen.

  

giovedì 30 novembre 2023

03 Dicembre 2023 – I DOMENICA DI AVVENTO - anno B


Mc
13, 33-37 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

Dio vuole incontrarsi con l’uomo. È il motivo chiave di queste domeniche che precedono il Natale, e che fa da filo conduttore per tutto il periodo d’Avvento. “Avvento” deriva infatti dal latino “ad-venio” che letteralmente significa: “Ti vengo incontro”. 
Il vangelo di questa prima domenica, ci vuol ricordare appunto la “venuta” di Gesù: non tanto quella storica, verificatasi oltre duemila anni fa in quel di Betlemme, e neppure quella finale, la “parusia”; ma quella privata, personale, quella che Egli farà per ciascuno di noi, quando deciderà di prelevarci da questo mondo. È la venuta che decreterà il nostro passaggio da questa vita terrena a quella eterna, cui nessuno può sottrarsi, e che ci viene presentata oggi come il “ritorno del padrone”. 
Un ritorno assolutamente certo, di cui però ignoriamo sia la data che l’ora. È questa incertezza che ci impone una costante preparazione: dobbiamo cioè essere sempre pronti ad accogliere il ritorno del Padrone, in qualunque momento della nostra vita. Non possiamo correre il rischio di farci sorprendere impreparati, di farci cogliere di sorpresa. Certo, per noi che viviamo sempre a pieno ritmo, che siamo immersi nelle bellezze della vita, è decisamente sgradevole pensare a queste cose.
È innaturale immaginare la nostra fine: concludere di punto in bianco la nostra esistenza, troncare la nostra vita, abbandonare i nostri affetti, i nostri cari, rinunciare al compimento dei nostri progetti, immaginare quell’ultimo istante in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a passare definitivamente la mano. È impensabile. Nessuno guarda con simpatia a queste realtà, tutti preferiscono ignorarle, non pensarci, non approfondirne i particolari; molto meglio preoccuparci del presente, del concreto, dell’immediato. Eppure sono realtà che richiedono grande considerazione. 
Come deve essere allora questa nostra “attesa”? Ce lo insegna il Vangelo: deve essere vigile, paziente, produttiva, costante. Noi invece ci stanchiamo subito: vogliamo risultati, successi, traguardi facili e immediati; pretendiamo raccolti veloci, abbondanti, senza applicarci alla semina. L’attesa è invece sempre impegnativa, spesso snervante: dobbiamo soprattutto essere convinti che il seme di Dio è quello migliore, che per germogliare e crescere, oltre ad un terreno fertile, ha bisogno soprattutto della luce e del calore dell’amore. E di tanta perseveranza: una virtù che oggi purtroppo è trascurata, obsoleta, di altri tempi. Oggi le mode cambiano in fretta e noi con esse. Oggi tutto è in divenire, tutto è mutevole. “Se Gesù con il suo Vangelo è ancora fermo a più di duemila anni fa, noi che possiamo farci? Si adatti Lui ai nostri tempi moderni, aggiorni Lui la sua Parola, ci segua; si allinei con le nostre esigenze, si metta al passo coi tempi, e noi allora vedremo di seguirlo!”.
Illusi! Come pensiamo di cambiare noi le leggi eterne della natura, del tempo, di Dio? Siamo noi che dobbiamo accettare, seguire, abbracciare queste leggi, questa è la verità. Perché solo se continueremo a lavorare in silenzio, a dissodare, a vangare il terreno, a concimare, a rimuovere pazientemente i sassi e le sterpaglie, un giorno potremo vedere la fioritura e cogliere i frutti del nostro lavoro.
Il vangelo di oggi ci insegna proprio questo: dobbiamo vegliare, dobbiamo aspettare il ritorno del padrone lavorando: mai cedere al sonno della pigrizia. Perché questo è il grande pericolo della vita: addormentarsi, vegetare, sopravvivere.
“Vegliare” non vuol dire smettere di lavorare, far finta di nulla, tirare avanti aspettando che “succeda qualcosa”: se non facciamo nulla, non approderemo mai a nulla; “vegliare” vuol dire imparare a conoscere oggi la “Voce”, mettere in pratica nel presente gli insegnamenti di quel Dio che un giorno ci chiamerà. Perché quando Lui chiama non abbiamo scelta: dobbiamo necessariamente rispondere, dobbiamo andare, costi quel che costi, anche se abbiamo paura, anche se non capiamo il perché, anche se la morte ci terrorizza, anche se ci sembra impossibile che tocchi proprio a noi.
Ritagliamo allora dal nostro tempo, oggi che possiamo, spazi di meditazione, pause di riflessione su queste verità. Non lasciamoci frastornare dalle idee e dalle mode insulse del momento: purtroppo viviamo situazioni in continua evoluzione, in costante travisamento; i media ci spingono sempre al peggio, in realtà effimere, in altri pensieri, in altre ambizioni, in altre priorità. Soprattutto, viviamo Cristo, la “Vita”. Condurre una vita da morti, non si può definire vita.
Non prendiamoci in giro dicendo: “Tanto, col tempo cambierò”. Succede che il tempo passa e le cose restano come sono! Il tempo da solo non cambia nulla, scorre soltanto. “Quando sarò più libero, quando avrò meno preoccupazioni, quando sarò anziano, quando sarò “in pensione”, allora mi dedicherò a Dio”: sono propositi idioti, senza senso; non c’è bisogno di essere liberi da ogni impegno per amare Dio; serve piuttosto conoscerlo, volerlo incontrare, volerlo vedere, riconoscerlo nei fratelli, assaporarlo; insomma dobbiamo viverlo, ora che possiamo, in famiglia, nel lavoro, nella nostra professione. Se non lo amiamo oggi, come pensiamo di poterlo amare domani? Non cambierà nulla. Sono solo fantasie, è un alibi perverso con cui giustifichiamo la nostra apatia. E poi, chi ci garantisce di avere tempo sufficiente per poterlo fare più tardi? 
Soprattutto non illudiamoci di essere già delle brave persone: non diciamoci che sì, alla fin fine, non siamo proprio così tanto male; non convinciamoci di essere come gli altri, anzi, tutto sommato, migliori degli altri; di essere insomma dei cristiani “a posto”, dei “quasi perfetti”, bisognosi al massimo di qualche piccolo ritocco ogni tanto! Non dimentichiamo mai che furono i “perfetti” che procurarono a Gesù una fine tragica sulla croce. Fu ucciso proprio da quelle persone che si spacciavano per osservanti, le più in regola, le più brave, le più religiose.
Non creiamoci false e ipocrite aspettative: già il solo pensare di essere migliori degli altri, ci mette in coda a tutti, all’ultimo posto, perché la nostra altro non è che subdola presunzione, una superbia ben truccata e difesa.
Quando ero ragazzo mi capitava di incrociare spesso un monaco molto anziano che invariabilmente, ricambiando il mio saluto, mi sussurrava sospirando: “Sta’ in campana, Mario!”. Nient’altro. Solo queste parole. Una “perla” di saggezza, con la quale evidentemente voleva mettermi in guardia dalle facili illusioni della vita: “Sta’ pronto, sta’ in campana!”. Una raccomandazione, grave e minacciosa per la mia età, che continua a risuonarmi nella mente.
Aspettiamo allora l’incontro finale con Dio, pregando ogni nuovo giorno, al mattino, al nostro risveglio, con grande umiltà: “Gesù, fammi parlare oggi come se le mie parole fossero le ultime. Fammi agire come se quelle di oggi fossero le mie ultime azioni. Fammi sopportare le contrarietà, come se fossero l’ultimo dono che posso offrirti. Fammi pregare, come se la mia preghiera di oggi fosse l’ultima possibilità, che ho qui su questa terra, di parlare con te. Ti aspetto!” Amen.

 

giovedì 23 novembre 2023

26 Novembre 2023 – XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – CRISTO RE DELL'UNIVERSO


Mt
25, 31-46 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 Con questa domenica si conclude l’anno liturgico, e come meditazione finale, la Chiesa ci propone la visione apocalittica di Gesù Cristo, Re dell’Universo, attorniato dai suoi angeli, che giudica tutti i popoli. È il giudizio universale, quel giudizio che tutti cerchiamo di minimizzare, di annullare dalla nostra mente, perché a tutti, inutile negarlo, incute una certa preoccupazione.
Di fronte a tale scenografia restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile - come il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina - fa decisamente paura. Cos’ha a che vedere questa pagina con il Gesù dolce e misericordioso del resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci sbagliamo noi continuando a professare un Dio tutto miele, dal volto amoroso e compassionevole?
Entrambe sono immagini che appartengono a Gesù, e solo apparentemente sono in contrasto tra loro. Vediamole nei particolari.
Prima di tutto l’immagine di “Re” attribuita a Cristo: un paragone altisonante, maestoso, che però non ha nulla a che vedere con il Gesù, umile e remissivo, Padre innamorato, Pastore sollecito, che siamo abituati a vedere attraverso la Parola: perché, in realtà, Egli è sì un Re, ma non un “Re” tradizionale, un battagliero conquistatore, un dominatore, un governatore di popoli. Egli è un Re particolare, che entra nella sua città cavalcando non un nervoso destriero bianco, ma un tranquillo e lento somaro; un Re che si mette a lavare i piedi dei suoi sudditi; un Re che svalorizza il potere umano, invitando tutti indistintamente a farsi servi degli altri; un re che invece di dire ai suoi “amatemi”, li esorta con “amatevi” gli uni gli altri; un Re contestato e deriso, un Re sconfitto più di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un Re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un Re che per essere identificato ha bisogno di un cartello, un Re senza potere se non quello devastante dell’amore.
Dall’altro lato c’è poi la strana immagine di un giudice incorruttibile e severo, che siede sul suo trono per valutare, premiare e condannare: ma, guarda caso, lo fa anche qui in maniera singolare, perché di fronte lui si presentano proprio quelle sue creature che per salvarle, per riscattarle dal male, Lui stesso le ha talmente amato, da offrire la propria vita per loro morendo sulla croce.
Cristo Re dell’universo, potrebbe dunque sembrare una contraddizione, ma non lo è: perché la Chiesa, buona conoscitrice delle necessità dei suoi figli, con questa festa, ci vuol ricordare una grande realtà, un valore importantissimo, una verità fondamentale: che Gesù - per noi suoi eletti, noi suoi figli, noi sua Chiesa - rappresenta veramente il tutto. Lui è l’essenziale, lo sposo, il testimone del Padre, il nostro intercessore presso Dio, il nostro avvocato. In una parola è il nostro “Re” indiscusso, il nostro Signore e Maestro, colui che dà misura e senso ad ogni nostra esperienza umana, che ci svela il mistero d’amore nascosto nei secoli.
Dire quindi che Cristo è “Re e sovrano” della nostra vita, significa riconoscere che il nostro percorso di vita e di fede ha un senso, solo se fatto in lui, con lui, per lui.
Ecco perché, alla fine dell’anno liturgico, è molto gratificante per noi, ribadire con forza, tutti insieme, come Chiesa, questa nostra certezza, perché siamo stati noi che lo abbiamo eletto Re, noi che gli abbiamo detto “sì”; siamo stati noi che lo abbiamo scelto come guida della nostra vita di Chiesa e di discepoli, noi a volerlo nostro “unico rappresentante” di fronte al mondo.
Quindi, nessuna contraddizione se oggi la Liturgia ci presenta un “Re amoroso e misericordioso” e insieme un “Re giudice, giusto e inflessibile”; un re che verifica minuziosamente la bontà delle nostre scelte di vita, la nostra coerenza su quanto noi stessi gli abbiamo promesso, su quanto noi stessi ci siamo impegnati: in una parola, se siamo stati o meno all’altezza del suo amore, donando anche noi amore agli altri.
Gesù durante la sua vita terrena non ha mai “giudicato” nessuno; e non lo farà neppure allora. Perché Dio non giudica, Dio si limita a “rivelare”. Dio cioè renderà semplicemente visibile, quello che noi abbiamo tenuto nascosto, i nostri pensieri, i nostri desideri, quello che volutamente abbiamo lasciato nell’ombra, nell’incompiuto. Il suo “giudizio”, il giudizio di questo Re misericordioso, consisterà quindi semplicemente nel rendere pubblica, nello svelare la nostra reale situazione, nel portare tutto a galla, allo scoperto: non ci sarà più alcun angolo buio nel nostro cuore; nessun segreto potrà rimanere nascosto nell’ombra. Quel giorno tutto “apparirà” nel vero senso della parola, tutto sarà chiaro, tutto illuminato. E ognuno capirà da solo, senza bisogno di sentenze, se mettersi con gioia alla destra del Re, o con vergogna alla sua sinistra.
Ma in base a quale “codice” verrà valutata la nostra fedeltà? Il vangelo di Matteo elenca in proposito, con una insistenza quasi puntigliosa, una serie di “situazioni”, come nutrire gli affamati, dissetare chi ha sete, accogliere i forestieri, vestire chi è nudo, assistere i malati, visitare i carcerati; situazioni tutte che prevedono “movimento”, che esigono cioè da parte nostra un intervento reale, che non si ferma alle belle parole, ma che è azione, interessamento, preoccupazione. In una parola, significa mettere concretamente a disposizione del prossimo il nostro amore.
È infatti questo il “tesario” su cui alla fine saremo esaminati: non ci verranno richieste grandi azioni, eroiche imprese, perlopiù impossibili, ma piccole cose, una buona parola, una fraterna condivisione, uno slancio di carità, un sostegno morale… Qualunque cosa, purché non rimanga un vago desiderio, perché “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Questo infatti è l’unico elemento su cui poggia il verdetto finale, lo stare alla destra o alla sinistra del Re: l’aver fatto per i fratelli ogni cosa per Lui, a Lui, con Lui.
Una domanda accorata però sgorga a questo punto da entrambe le schiere di quanti sono in attesa della loro destinazione: “Quando Signore? Quando mai ti abbiamo incontrato?
Già, “quando?”. Nessuno di loro infatti si era mai reso conto della sua presenza nell’altro; nessuno aveva mai capito di aver avuto davanti a sé non delle persone bisognose, ma Dio stesso in persona! Nessuno se n’era mai accorto. Sì, perché Dio non è visibile a occhio nudo, non è riconoscibile, non è individuabile; è misterioso, si presenta sempre in incognito, per cui tutti, sia gli eletti che i dannati, lo hanno amato o rifiutato, ignorando chi fosse realmente presente davanti a loro: gli uni, amando le persone, hanno amato Dio in loro, pur non vedendolo; gli altri, rifiutando di amare le persone, hanno rifiutato di amare anche Dio.
Amare Dio, attraverso il prossimo, significa amarlo istintivamente, inconsapevolmente. I santi sono diventati tali proprio perché amando il prossimo amavano Dio, lo amavano senza sapere di amarlo, senza sapere di ottenere per questo dei meriti soprannaturali. Se amiamo qualcuno, sapendo di ereditare le sue ricchezze, in realtà non lo amiamo, lo stiamo solo adoperando per un nostro tornaconto. La stessa cosa succede quando amiamo il prossimo allo scopo di avvicinarci a Dio, per ottenere da Lui dei meriti, delle grazie! Lo amiamo, ponendo però delle condizioni. Ebbene, anche in questo caso noi non amiamo veramente, ma semplicemente “sfruttiamo” l’Amato. L’amore non va strumentalizzato, finalizzato, condizionato: questo mai, in nessun caso. Neppure per arrivare a Dio: non “dobbiamo” infatti amare il prossimo per compiacere Dio, assolvendo un nostro impegno di cristiani; i fratelli, il nostro prossimo, vanno amati per loro stessi, li dobbiamo sentire nell’anima, ci devono penetrare dentro, devono toccarci il cuore: in una parola dobbiamo amarli come Gesù stesso ci ha insegnato: perché amando loro amiamo Lui.
È una faccenda seria: perché quando, alla fine della nostra breve vita, giungeremo davanti a Cristo, Re dell’universo, dovremo giustificare le nostre scelte, le nostre decisioni, l’esiguità del raccolto che abbiamo prodotto nella nostra vita: con un’unica prospettiva che ci attende: “I maledetti al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna!”. Non abbiamo alternative!
Mettiamo allora da parte la nostra bella “agendina” su cui annotiamo puntigliosamente, in vista del nostro esame finale, le ore di preghiera, le messe, le confessioni, le opere buone, i sacrifici fatti con cristiana rassegnazione; evitiamo di preparare giustificazioni per le nostre deficienze, appuntando scuse e attenuanti semplicemente ridicole e pretestuose.
Dimentichiamo tutti i nostri bei discorsetti politici di autodifesa, perché il Signore ci chiederà solo una cosa: se lo avremo riconosciuto nel povero, nel debole, nell'affamato, nell'anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì, abbiamo capito bene: l’esame finale sarà incentrato tutto sulla carità: solo che dovremo spalancare per bene, fino in fondo, il nostro “bagaglio” interiore: perché solo così apparirà chiaro se abbiamo lavorato bene, se abbiamo dispensato vero amore, e soprattutto con che “cuore”, con quale dedizione l’abbiamo fatto.
Corriamo pertanto ai ripari finché abbiamo ancora tempo; evitiamo in particolare che la nostra Messa domenicale si esaurisca in Chiesa: non può, non deve avvenire! La nostra celebrazione eucaristica deve continuare fuori, nella quotidianità, nella vita di ogni giorno. Perché solo così il fondersi in noi del reale Corpo di Cristo, e le proposte della sua Parola, potranno trasformarsi in autentici, concreti strumenti di comunione e di amore con Lui e con i fratelli; solo così potremo fare della nostra vita un reale veicolo di carità e amore. Non è certo per quell’ora di Messa settimanale che ci salveremo: ma è nel lavoro, nello studio, a scuola, all’università, nei lavori di casa, in ufficio, per strada, a piedi o in macchina. È qui che dobbiamo portare Dio che, con l’Eucaristia, è diventato noi: perché con Lui ci salveremo; ma solo ad una condizione essenziale: se sapremo trasferire il nostro amore dall’interno all’esterno, dal vicino al lontano, se sapremo cioè trasmettere e amare il volto di Cristo nel volto dell’amico o dello sconosciuto che incontriamo ogni giorno.
Viviamo così e non preoccupiamoci d’altro per l’incontro finale con Lui: perché se l’avremo amato al meglio delle nostre capacità, diventando trasparenza della sua misericordia, testimoni e portatori credibili del suo amore, verremo sicuramente accolti tra le braccia misericordiose di Cristo, nostro Re, nostro Padre e Signore! Amen.

 

giovedì 16 novembre 2023

19 Novembre 2023 – XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
25, 14-30 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

La parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve partire per un lungo viaggio, e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Che succede allora?
Che egli consegna a ciascun servo perché la investa e la faccia fruttare al massimo. C’è però in questo “affidare” una diversità, nel senso che non tutti ricevono la stessa somma. A ciascuno, dice il vangelo, viene consegnato “secondo le proprie capacità”: vale a dire che tutti ricevono “somme” diverse, commisurate però alle reali possibilità di ciascuno, poiché ogni persona è diversa dall’altra, ognuna dispone di adeguate caratteristiche personali.
In pratica cosa vuol dire Gesù a noi cristiani moderni: che Dio consegna ad ogni sua creatura, fin dal primo istante di vita, un suo particolare patrimonio di doni, costituito da sensibilità, raziocinio, ideali, fiducia, libertà, voglia di vivere e di amare. Tutta una serie di proprietà con cui Dio ha dotato la nostra vita: doni che aspettano solo di essere scoperti, individuati, e messi in azione.
Ecco perché è fondamentale che ogni cristiano si chieda seriamente, con grande sincerità: “Chi sono io? Quali sono le mie aspirazioni, quali i miei traguardi e le mie concrete possibilità di raggiungerli?”. Perché tutti dobbiamo conoscerci in profondità; tutti dobbiamo essere orgogliosi e soddisfatti delle nostre qualità, perché è su di esse e con esse che dobbiamo “costruire” la nostra vita.
Ci sono invece troppe persone che non si pongono questo problema: invece di trarre il meglio dalle proprie possibilità, passano l’intera vita a rincorrere dei falsi ideali, a voler emulare questa o quella celebrità, a diventare anch’esse dei personaggi “superiori” agli altri, felicemente realizzati e considerati: aspirano cioè ad avere i soldi di uno, la bellezza di un altro, la cultura e la brillantezza di un altro ancora. Ma senza far nulla in concreto. Così invece di guardare, di interessarsi al “chi sono io”, inseguono delle macabre sembianze che non si addicono alla loro dignità, non li rappresentano, non li identificano, non sono alla loro portata, ma soltanto delle chimere, delle realtà inesistenti e irraggiungibili.
Brutta cosa vivere di confronti! Infatti, se continuiamo a confrontarci con gli altri, è chiaro che ciò che abbiamo, come siamo, non ci soddisfa, non ci riconosciamo il giusto valore; per cui scopriremo continuamente che gli altri hanno di più, che sono più fortunati, che sono dei privilegiati, convinti in cuor nostro che se ci trovassimo noi al loro posto, saremmo di gran lunga migliori. E viviamo male. Ma è solo perché siamo invidiosi degli altri: e invece di ringraziare Dio per quel che ci ha concesso, continuiamo a roderci dentro, nel nostro malcontento, nella nostra insoddisfazione.
In realtà, nessuno è sprovvisto di doti, di “talenti”, di possibilità: è che nella nostra avidità pretendiamo sempre di più, trascuriamo ciò che già abbiamo, per fissarci su ciò che ancora non abbiam; così facendo, però, dimostriamo tutta la nostra superficialità, perché ci limitiamo a guardare soltanto in superficie, all’esterno, alle apparenze, prendiamo in considerazione soltanto i risultati che gli altri hanno raggiunto, ma non le fatiche, i sacrifici, le difficoltà che hanno dovuto affrontare per raggiungere quel risultato. Noi insomma vorremmo subito, senza faticare, senza alcun obbligo, tutto quello che gli altri hanno invece conquistato nel tempo, con grande applicazione, con grande coraggio, osando, mettendosi completamente in gioco.
Dovremmo piuttosto concentrarci di più su noi stessi: inoltre non dovremmo mai dimenticare che nessuno è proprietario di quanto nella vita è riuscito a raggiungere, perché tutto gli è stato “permesso”, tutto “concesso”, e anche tutto quanto produce gli viene lasciato provvisoriamente in “deposito”: niente di questa vita potremo trattenere per noi stessi, tutto dovremo riconsegnare al ritorno del padrone.
Già, quanto produciamo: è questo il vero problema. Perché in questa vita non siamo in vacanza, non possiamo considerarci dei semplici visitatori nullafacenti. Allora, perché non sfruttiamo veramente quei doni che Dio ci ha prestato per questa nostra vita, lavorando sodo finché siamo ancora in tempo, e poter raggiungere i risultati che Egli si aspetta da noi? Perché non la “viviamo” veramente questa nostra vita? Perché rimandiamo continuamente invece di scendere in campo, di buttarci nella mischia? Troppe persone sprecano i loro giorni da “panchinari”: sono presenti, marcano il loro cartellino, ma non hanno mai il coraggio di entrare in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, un sapore alla loro vita, che la trasformino, che le diano “colore”, intensità, tono. Nella loro vita hanno scelto di non “scegliere” mai: un partner per la vita? tutti van bene; gli amici? quelli che capitano a tiro; gli hobby? quelli meno faticosi; le idee? quelle più comuni, le meno compromettenti. Non si chiedono mai cosa pretenda la vita, cosa Dio stesso si attenda da loro: e così dissipano la loro esistenza: hanno la possibilità di viverla, ma si lasciano vivere: il carro del tempo passa, ci salgono su, e si lasciano trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo mica fermi, noi progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si stanno illudendo, non si accorgono che non sono loro che progrediscono, ma è il tempo che va avanti, che cammina, che inesorabilmente passa: loro si lasciano semplicemente trasportare, senza far nulla.
Ci sono cristiani che, come l’uomo del vangelo, nascondono la loro esistenza sottoterra; pensano che sia meglio rimanere invisibili, che sia preferibile passare la vita senza seccature; ma in questo modo sono già morti prima ancora di vivere.
La vita è il dono, il “talento” più prezioso che Dio ci fa: è una tela bianca, completamente vuota; solo se noi la dipingiamo, solo se la ricopriamo di colore e di calore, essa si trasformerà in dono, in un regalo “nostro”, autoprodotto, da rendere con soddisfazione a Dio, quando saremo chiamati.
La vita restituisce sempre quello che noi costruiamo in essa: per questo dobbiamo “viverla” intensamente nel bene. Tutti abbiamo avuto le nostre occasioni: solo che, il più delle volte, noi le abbiamo ignorate, oppure le abbiamo impegnate in modo sbagliato.
Non abbiamo capito che un cristiano svogliato che passa la vita senza far nulla, che ha “sotterrato” anche il dono più prezioso, quello dell’amore di Dio, rendendolo inefficace, è semplicemente indifendibile. Vivere solo per cose futili, senza mai trovare il tempo per un incontro spirituale, un’opera di carità, una collaborazione benefica, una presenza consolante, non è vivere da cristiani: la vita di chi vuol seguire Cristo è una vita in continua tensione nel bene, nella carità, nelle opere buone. Non possiamo arrenderci mai, neppure quando, avanti negli anni, pensiamo di aver raggiunto il nostro meritato “traguardo”: perché tutto quel bene che abbiamo guadagnato nel corso dell’intera vita, investendo con fatica i nostri talenti, sarà sempre un nulla, una miseria, rispetto a tutto il bene che Lui continuamente ci riserva.
È proprio condividendo quell’amore divino con tutti i fratelli, che investiremo i nostri “talenti” positivamente e con maggior successo: e in questo dobbiamo impegnarci ovunque ci troviamo: in parrocchia, nella società, in famiglia, negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo.
Pensiamoci allora con calma, ma seriamente! Perché è un vero delitto perdere anche una sola opportunità di dimostrare al mondo che Dio è Amore. Amen.

 

 

giovedì 9 novembre 2023

12 Novembre 2023 – XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
25, 1-1
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».

La parabola delle dieci vergini che aspettano lo sposo, ci invita a meditare sulle ultime ore della nostra vita, sulle realtà ultime veramente importanti, su quei doveri che sistematicamente tralasciamo. Dovremmo pensare più spesso e più seriamente che la vita presente un giorno finirà, che non viviamo su questa terra in pianta stabile, che la nostra è soltanto una presenza provvisoria.
Abbiamo ricordato, alcuni giorni fa, i nostri defunti, che ci hanno già preceduto là dove anche noi prima o poi dovremo andare. Sì, perché la vita è un passaggio: è il percorso da un punto di partenza ad uno di arrivo, dalla nascita alla morte; una realtà che vale indistintamente per tutti, nessuno escluso: giorno dopo giorno, il nostro nome sale inesorabilmente al primo posto, sulla lista di quelli che vengono chiamati; siamo tutti in attesa del nostro turno per l’incontro finale con lo Sposo, il nostro Creatore e Signore.
“Attesa” e “Passaggio”: sono proprio queste due parole importanti che vengono proposte dal Vangelo di oggi, alla nostra meditazione.
“Vigilate, tenetevi pronti, perché non sapete quando il vostro Signore verrà”.
La nostra vita, dunque, prima di tutto è “attesa”. Una dichiarazione che apre a diversi interrogativi: attesa di chi? di che cosa? per quale motivo dobbiamo condizionarci la vita nell’attesa di qualcuno che arriva quando vuole lui? Certo, tra le tante nostre preoccupazioni quotidiane, quella di aspettare l’incontro finale con Dio, non rientra certo tra le più urgenti. Eppure, “attendere”, “aspettare”, rientra tra le categorie mentali più frequenti e comuni della nostra vita: tutti, in qualche modo, siamo in costante “attesa” che prima o poi si realizzi qualcosa che ci riguarda: un buon lavoro, una famiglia, la sistemazione dei figli, una vita serena. Per questo elaboriamo sempre nuove possibilità, ricaviamo esperienze, proviamo emozioni, superiamo difficoltà, addirittura ci struggiamo, pur di ottenere sempre il massimo, in vista di un nostro domani migliore. Tutti ci aspettiamo un futuro in cui vivere finalmente felici, soddisfatti, ricompensati per tutti i nostri sacrifici. È una cosa naturale, normalissima per chiunque. Salvo poi, arrivati ad un certo punto, dover ammettere a noi stessi di aver fallito, di non aver ottenuto la completa realizzazione dei nostri sogni.
La delusione più amara arriva in particolare per chi ha investito la propria “attesa” soprattutto sull’apparire, sulla realizzazione della propria immagine, sul potere, sulla gloria, sul possedere. Ci accorgiamo di aver miseramente mancato il nostro obiettivo, di essere rimasti vittime delle gaudenti prospettive del mondo, delle sue continue trovate consumistiche, che con le loro lusinghe, ci hanno spinto in una obnubilante follia. E il rimorso per tale fallimento ci angoscia l’anima.
Noi cercatori di Dio, ancorché tiepidi, conosciamo bene la vera natura di quel malessere: sappiamo che non c’è nulla di più deprimente nella vita dell’uomo che la constatazione di essere rimasti sempre sordi alla “voce” di Dio, di aver tradito la sua fiducia, il suo amore, di aver trasformato l’attesa della sua venuta in totale “disattesa”. Per non aver saputo o voluto “aspettare” l’arrivo dello Sposo in maniera appropriata, come meritava.
Abbiamo sbagliato, ce ne rendiamo conto: forse continueremo ancora a sbagliare, perché dimentichiamo facilmente che non è il “fuori”, il transitorio, il volubile, che può riempire la nostra anima, che può appagarla, saziarla; è il “dentro” che conta: è con la fede, con la generosità del nostro cuore, con la carità, con le opere buone, che possiamo riempire di “olio” il vaso di scorta del nostro cuore, assicurandoci un incontro con Dio luminoso e sereno.
Certo, la morte è per molti un pensiero lugubre e fastidioso. “Gli uomini, non potendo evitare la morte, hanno deciso di non pensarci; ma il loro è un rimedio ben misero!”, scriveva Pascal.
Per il pensiero edonistico moderno, infatti, la morte è tabù: meno se ne parla, meglio è.
E invece no; il Vangelo ci insegna che Dio ci ha creati e ci ha inviati nel mondo per contribuire a perfezionare questa sua meravigliosa creazione, con l’impegno di tornare, una volta ultimato il nostro lavoro, nella Casa d’origine. L’importante è non farsi cogliere impreparati, ma in vigile attesa, indossando la “veste nuziale”, muniti di una buona scorta di quell’olio, che abbiamo prodotto lungo il nostro “percorso” terreno.
Non consideriamo una sciagura l’arrivo dello Sposo! Prendiamolo invece con la gioia di un evento importante e decisivo, di un ritorno tra le braccia del Padre, sempre amorose e spalancate, consapevoli in cuor nostro di non aver sprecato questa “attesa” con un “percorso” scellerato.
A volte, purtroppo, pensiamo scioccamente di essere immortali: siamo convinti che, dopo i 60-70 anni, raggiunta la famosa e sudata “pensione”, saremo finalmente liberi di starcene tranquilli, di dare una svolta significativa alla nostra esistenza, di iniziare cose più piacevoli, più distensive, più divertenti. E in cuor nostro ci perdiamo in mille progetti. Ma siamo degli illusi! Per quante persone, purtroppo, questi progetti rimangono soltanto un miraggio, una fantasia! Null’altro che un sogno, cancellato dall’arrivo imprevisto e imprevedibile dello “Sposo”.
Non dobbiamo mai abbassare la guardia: perché il lavoro, le responsabilità, l’impegno, per raggiungere il Regno dei cieli non finiscono mai; in questo non c’è “pensione” che tenga!
Anzi, più gli anni passano, più dobbiamo impegnare seriamente il nostro tempo, consapevoli che l’arrivo dello Sposo si fa ogni ora sempre più vicino.
Non serve più produrre per questo mondo, ma dobbiamo farlo per l’altro, per il Cielo; dobbiamo approfittare di questi giorni che il Signore ancora ci concede, per fare qualcosa di più importante, più decisivo perché il nostro incontro con Lui sia veramente meritorio. Non scommettiamo sul domani! Potrebbe non esserci un domani.
Ricordate come sono i giorni che precedono una partenza importante, un avvenimento da lungo atteso? L’eccitazione che cresce, la mente impegnata a ricordare le ultime cose da fare, le ore che scorrono freneticamente. Ecco, la nostra vita dovrebbe essere sempre così, carica di tensione, perché la nostra “partenza” finale da questo mondo, arriva improvvisamente, quando meno ce l’aspettiamo: “raptim”, scrive sant’Agostino, rapidamente, precipitosamente.
Non a caso il vangelo di oggi termina con la raccomandazione: “Vegliate”, “State svegli!”; a cui fa eco Luca, nel suo brano parallelo: “Estote parati!”, “Siate pronti!”.
Prestiamo allora la massima attenzione a questi inviti, non sottovalutiamoli, per non trovarci all’improvviso, proprio per la nostra superficialità, nella condizione di trovare la porta chiusa, di non venire riconosciuti dallo Sposo, e di rimanere chiusi fuori, lontani dallo splendore delle nozze e dalla calda Luce dell’Amore divino: una possibilità anche per noi purtroppo concreta e reale. Amen.

 

 

giovedì 2 novembre 2023

05 Novembre 2023 – XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt
23, 1-12 
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».

 Oggi Matteo ci riporta l'ennesimo scontro di Gesù con gli scribi e i farisei, nel quale denuncia apertamente il loro comportamento incoerente e ipocrita. Ormai conosciamo molto bene l‘atteggiamento di questi personaggi: conoscevano perfettamente la legge della Bibbia, la insegnavano, ma erano anche molto astuti nel trovare scappatoie ed eccezioni che li esentassero dal mettere in pratica ciò che insegnavano. Quando invece la osservavano, lo facevano solo esteriormente, mettendosi bene in mostra, esibendosi come persone religiose, fedeli, osservanti, e disprezzando apertamente quanti non erano “giusti” come loro; non tolleravano cioè le debolezze altrui, e invece di aiutarli, li condannavano pubblicamente deridendoli. Ebbene: Gesù, gente come quella, non la sopporta; la disprezza senza mezzi termini, offrendo alla gente la giusta considerazione nei loro confronti: “Siate rispettosi di quello che insegnano, perché la Legge la conoscono e la sanno predicare molto bene, ma non seguite il loro esempio; non fate come loro, non meritano la vostra attenzione, perché sono incoerenti, fasulli, gente che predica bene ma razzola male”.
Parole forti: parole che Gesù non pronuncia ad esclusivo beneficio dei suoi discepoli e di quanti lo seguivano: ma parla anche di noi, si riferisce proprio a noi persone evolute e razionali del nostro secolo: parla soprattutto ai pastori super impegnati, ai cattolici praticanti, religiosi, pii e istruiti; parla a quanti sono chiamati a testimoniare il vangelo, a noi che, col battesimo, abbiamo il compito importante di portare il lieto annuncio di liberazione e di vita, ai poveri, ai peccatori, ai deboli del nostro tempo. Egli parla alludendo alla vita concreta di allora: ma è come se vedesse la nostra di vita, quella tanto civile dei nostri giorni.
Si, perché noi, super emancipati e colti, siamo proprio ben strani! Ci dichiariamo in tutti i modi contrari a qualsiasi imposizione, a qualsiasi forma di autoritarismo, di coercizione; ci indispettiamo se qualcuno si permette di far pesare la sua carica, il suo ruolo su di noi; pretendiamo tutti, e giustamente, la massima autonomia e libertà: eppure, da autentici idioti, non sappiamo fare a meno dei “guru” di turno, dei “profeti”, dei “mistici” che, da buoni ciarlatani, pretendono di darci il rimedio infallibile per i nostri problemi, la dritta sicura su come evitare efficacemente le fragilità della nostra esistenza.
Il nostro è un tempo stracolmo di opinionisti, di sedicenti maestri, di tuttologi; più aumenta il relativismo, l’insicurezza, il dubbio, più aumentano coloro che hanno sempre qualcosa da dire, che si propongono come unici esclusivisti della giusta soluzione. E purtroppo anche noi, pur nel nostro tanto decantato scetticismo, ci lasciamo stupidamente fagocitare da una moltitudine di questi “maestri” fasulli, che si esibiscono in televisione, sui giornali, nei mezzi di comunicazione, negli ambienti di lavoro, nella scuola, in politica, in campo sociale! Maestri che straparlano, che sbraitano, che urlano, che vogliono imporsi ad ogni costo: non importa su chi e su che cosa, se in positivo o in negativo, l’importante è urlare, apparire, esserci.
Gesù invece, nella sua compostezza, è pratico, chiaro come sempre: egli ci spiega come dobbiamo vivere nelle nostre comunità, nelle nostre famiglie, come dobbiamo edificarci vicendevolmente nell'amore e nella pace, come dobbiamo educare i nostri figli.
È importante quindi che ci esaminiamo continuamente sulla nostra coerenza e sincerità, per non incorrere nella facile contraddizione, nell'ipocrisia. È una cosa che in qualche modo ci tocca tutti da vicino, perché in qualche modo siamo tutti “maestri”: per cui tutti dovremmo chiederci con sincerità: “sono realmente convinto di quello che insegno? Vivo coerentemente, col cuore, con amore, quello che insegno, quello che predico? Io che raccomando agli altri la preghiera, amo la preghiera? Dedico del tempo alla preghiera personale? Io, genitore, che mando i miei figli in parrocchia per il catechismo, per la messa domenicale, sono assiduo nei miei doveri di cristiano? Facciamolo allora questo piccolo esame di coscienza!
Ovviamente, chi vive compiti istituzionali, sociali, politici, informativi o altro, chi in altre parole gode di maggior prestigio e visibilità, è ancor più responsabile della sua coerenza; non serve a niente fare bellissimi discorsi se poi non si vive per primi l'onestà, la correttezza, lo spirito dei valori umani e cristiani.
Nella vita, per essere persone coerenti, convinti sostenitori della fede in cui crediamo, cittadini sempre in regola, abbiamo bisogno di suggerimenti, indicazioni, consigli: dobbiamo affidarci al giudizio di qualcuno più esperto e preparato di noi, che ci indichi con onestà dove veniamo meno, dove siamo incoerenti, dove costruiamo i nostri sotterfugi, dove pretendiamo dagli altri ciò che poi noi non facciamo, dove ci piace apparire, farci vedere, dove cioè siamo così sfacciatamente sostenitori del nostro io, da diventare addirittura sgradevoli, dove badiamo più a conformarci alle esteriorità, alle consuetudini sociali, piuttosto che all'amore e alla verità di Dio.
Oggi purtroppo pullula una grande quantità di cosiddetti “maestri”, che operano indisturbati all’aperto, in pubblico; come il prepotente di turno, l’influencer del momento, il politico di spicco, il prete mediatico e onnipresente. Quello che importa è che dobbiamo evitare assolutamente questi falsi “dottori”, questi venditori di angoscia; noi cristiani abbiamo già il nostro Maestro a cui ricorrere, a cui appoggiarci, su cui contare con tutta la nostra fiducia; è quello autentico, l’unico: Cristo.
Non ci servono surrogati, sedicenti profeti, santoni, futurologi, imbroglioni e parolai da strapazzo: abbiamo già a nostra disposizione il Migliore in assoluto. È Lui soltanto che dobbiamo seguire, è Lui soltanto che dobbiamo porre al centro della nostra vita; sono Sue le Parole e gli esempi che dobbiamo seguire; e dobbiamo farlo con riflessione adulta, con passione ferma e critica, con la verità del cuore, senza deleghe fuorvianti. Siamo tutti chiamati alla scoperta di un Dio adulto che ci tratti da adulti. In che modo? Vivendo come Lui ha fatto, facendosi servo di tutti fino alla morte: “Il più grande tra voi sia servo”: è questa per Lui la portata della vera “autorità”: una parola che in Lui acquista un senso particolare, del tutto inusuale: l’autorità non è dominio, non è potere, non è comando, ma puro servizio, umile impegno personale a beneficio della comunità”.
«Voi siete tutti fratelli…». È la conseguenza del nostro “metterci a servizio” come ha fatto Lui: perché in questo modo dimostriamo di essere tutti fratelli in quanto tutti salvati, tutti perdonati.
Ognuno di noi ha un ruolo, un compito, un ministero appunto, tutti uniti nella comune e primissima appartenenza alla fede attraverso il Battesimo; nessun Maestro, ma solo fratelli chiamati a ruoli specifici: e più aumenta la responsabilità, più deve crescere l'amore al Regno e ai fratelli che si servono. Perché, in buona sostanza, essere fratelli significa che tutti ci prendiamo cura del buon andamento della comunità, passando da una appartenenza alla Chiesa in maniera asfittica e senza vita, ad una meravigliosa scoperta di essere tutti figli di Dio, nella fatica della sopportazione reciproca e della visione evangelica delle scelte obbligatorie. Essere fratelli significa evitare in tutti i modi che nelle comunità prevalga l'aspetto umano, le simpatie, le antipatie, introducendo il rischio descritto da Gesù, di diventare cioè professionisti del sacro, primi della classe, ma con l’anima vuota.
Una cosa è assolutamente trasversale, valida per tutti: chi vuole essere “grande”, deve “abbassarsi”. Non c’è alternativa. Perché è nell'abbassamento che sta il segreto della vita cristiana. Chi vive l'umiltà, sa dare valore a quelle cose che sembrano piccole, ma che sono grandi, importanti, essenziali. Per chi vive lo stile di Gesù non esistono posizioni trascurabili, tutto acquista nuovo valore, nuovo significato: perché ognuno vive i carismi avuti da Dio. È Lui che ci unisce; è Lui l'unico Maestro sicuro e infallibile. Amen.

 

giovedì 26 ottobre 2023

29 Ottobre 2023 – XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mt 22, 34-40
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Dopo aver fatto continue brutte figure con Gesù, i farisei per metterlo alla prova scelgono questa volta una persona competente, il meglio del meglio, nientemeno che un "dottore della Legge". E questi lo affronta subito impostando il discorso sulla “sua” materia. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” usato qui da Matteo, è quello stesso peirazo usato per descrivere le “tentazioni” di satana: in pratica l’evangelista paragona il comportamento dei sacerdoti del tempio, degli scribi, dei farisei, sempre pronti a tentare, a mettere alla prova Gesù, come opera di satana: un particolare che dovrebbe farci riflettere! 
Ma cosa gli chiede dunque questo dottore, questo esperto legale? “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”.
Anche questa volta è la solita domanda provocatoria del “Pierino” di turno. Al tempo di Gesù erano 613 i precetti della Torah ebraica: 365 negativi e 248 positivi. Stabilire quale fosse il più importante era praticamente impossibile, poiché per la tradizione rabbinica tutti, indistintamente, erano importanti e obbligatori. 
Del resto, già da come si pone, lascia subito intendere il suo reale proposito: l’appellativo di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, infatti, è pronunciato in maniera chiaramente provocatoria: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico; vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei comandamenti e della legge? 
La verità non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere realmente il pensiero di Gesù; vuole semplicemente sfruttare l’occasione per avere la conferma di cosa egli pensasse in merito ad una questione fondamentale e delicata: il valore cioè dei comandamenti della Legge, visto che nella sua predicazione Egli non solo ne prende le distanze ma arriva pure a trasgredirli. Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei comandamenti che tutti ritenevano validi, e che tutti si sentivano obbligati ad osservare. Una “interpretazione”, quella di Gesù, che inquietava seriamente le autorità religiose; per cui la sua risposta serviva soltanto come riprova della sua ortodossia, oppure come motivo di denuncia ufficiale. 
Ma Gesù sa perfettamente cosa vorrebbero sentirsi dire le autorità tramite il suo interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è l’osservanza del sabato!”. Sì, perché il rispetto del “sabato” era il comandamento più grande, più considerato dagli ebrei; Dio stesso lo aveva rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della creazione. La sua osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Sappiamo però che per Gesù questo comandamento non è per nulla importante, non è affatto prioritario, tant’è che non ne tiene conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lo fa tranquillamente anche di sabato, perché per lui l’amore è molto più importante della legge.
È comunque una domanda ben congegnata, perché se Gesù avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, (“la legge del sabato”), il dottore della legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio per Gesù.
Il dottore dimostra in questo modo di essere un esperto, un vero conoscitore delle dispute legali: ma Gesù dimostra di non essere da meno, e gli risponde a tono citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene: gli fa capire cioè che il testo non va interpretato sulla base di una singola citazione letterale, ma attraverso una visione d’insieme, una lettura completa dei testi: e gli cita infatti un altro comandamento – altrettanto “grande”, anzi sicuramente il “primo”, il più importante – riferito cioè a quella “preghiera” che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: questa volta le autorità sono salve, Gesù non le condanna! Ma il problema nasce subito dopo, con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia, ma è evidente a tutti che le autorità non lo tengono per nulla in conto.
A rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come andavano allora le cose, introduce una grande novità: condiziona cioè l’amore per Dio all’amore per il prossimo: crea un legame indissolubilmente tra i due amori. Come dire: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno nella vostra preghiera, mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole, non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso, ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46).
Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde attenendosi scrupolosamente a quanto già prescritto dalla legge ebraica. E poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”.
Ma non è tutto qui: il “novum” introdotto da Cristo nella legge antica dell’amore è a dir poco rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; per Gesù, invece, “prossimo” è l’intera umanità; inoltre, altra novità, dobbiamo amare questo prossimo “come noi stessi”: ma attenzione, perché se ci fermassimo a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe comunque perfetto: per logica, infatti, se io mi amassi poco o nulla, amerei poco o nulla anche il mio prossimo. Ebbene: Gesù annulla questo aspetto riduttivo, e riconosce alla legge dell’amore una valenza divina, universale: in altre parole, ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Una nuova e straordinaria prospettiva si apre quindi davanti a noi: il termine di riferimento dell’amore al prossimo non sarà più quello riduttivo, il “nostro”, ma quello di Dio, universale, straordinario, senza limiti.
Per Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Risultato: l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Il vero credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.
Un’attenta lettura di questo vangelo ci offre poi altre considerazioni su cui meditare.
Prima di tutto, ci siamo mai chiesto cosa significhi la parola “amore”? Etimologicamente deriva dal latino “a-mors” (“a” privativo e “mors”, morte) che letteralmente vuol dire “togliere la morte a qualcuno”, “dare la vita”; per cui “amare” significa “rendere vivo”, vitale, colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a sé soprattutto persone che soffrivano: persone colpite da gravi malattie, come ciechi, sordi, paralitici, lebbrosi, o addirittura persone morte. Egli le “amava”: il suo amore le guariva, le toglieva dalla morte, reale o simbolica, rimettendole in contatto con la vita. Egli dispensava amore a piene mani, e lo faceva (altro insegnamento fondamentale per noi) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un riconoscimento: neppure in termini di fama, perché chiedeva sempre a tutti di non divulgare la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per proselitismo: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e con il suo “amore” lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
Questo è l’amore di Gesù, e questo deve essere anche il nostro amore: chi ama rende vivo l’altro; chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò ci costa fatica e sacrificio; perché ciò che è meglio per l’altro, non sempre coincide con quello che è meglio per noi.
Altra considerazione: in passato per l’ascetica cristiana amare il prossimo “come noi stessi” comportava un far passare in second’ordine l’amore per sé stessi, per la propria persona; significava riconoscere all’amore per l’altro la priorità assoluta: in questo modo amare se stessi, “amarsi”, era ritenuto una “debolezza umana”, un peccato; equivaleva ad essere egoisti, narcisisti. La via maestra per la santificazione personale passava quindi attraverso il sacrificarsi, l’immolarsi completamente per gli altri; tant’è che a quanti volevano intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, venivano continuamente ricordate le parole: “Se uno non rinnega sé stesso e non prende la sua croce...”: era un cammino di vita che “doveva” essere impostato solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla spersonalizzazione, sulla tolleranza, sulla totale dedizione per gli altri. Oggi questa lettura del vangelo è stata profondamente rivista: nessuno si permette più di affermare che Dio accetta al suo servizio soltanto gli infelici, i frustrati, i pieni di sventure: perché non è così!
Ma allora come dobbiamo amare noi stessi? Esattamente come amiamo gli altri. “Amarci” infatti significa volere il nostro bene, renderci vivi, vivere da vivi; significa lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile e rispettata. Gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono? Invece di continuare ad arrabbiarci, amiamoci! “Amarci” vuol dire migliorare il nostro carattere, la nostra personalità; significa trasformarci, diventare amabili, accettabili, ricercati; significa essere più aperti con gli altri, più elastici, meno saccenti, meno giudicanti, meno pretenziosi; in una parola “amarci” significa diventare migliori.
Pretendere dagli altri ciò che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi, è autentico parassitismo.
Infine un’ultima considerazione: il nostro amore deve essere “pieno”: dobbiamo cioè “amare in pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze (Lc 10,27), cioè con la concretezza, con le azioni. L’amore, per essere vero amore, deve interessare tutte le nostre facoltà, tutte le nostre possibilità, l’intera nostra persona, a tutti i livelli: altrimenti non è amore. Infatti: amare solo con mente e forze senza cuore, è volontarismo, è azione, è amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore senza le forze, ossia le opere, è sentimentalismo, non c’è azione. Amare con cuore e forze senza mente, è istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza, non c’è lucidità. Soltanto quando l’amore è mosso dall’intera nostra persona, da tutto di noi: mente, cuore e forze, solo allora è pieno, completo, perfetto. Solo in questo modo “ameremo” veramente il prossimo; lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, esattamente come Lui stesso ci ha amati e continua ad amarci: senza condizioni, senza tornaconti, senza pretese. Amen.