“Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò
nell’ultimo giorno” (Gv 6,51-58).
La
festa liturgica del Corpus Domini risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì
in ricordo del miracolo successo al sacerdote boemo Pietro di Praga, che
dubitava della presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze
del pane e del vino consacrati: per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma
per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro e durante il viaggio di ritorno in
patria, fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: qui, alla
frazione del pane, l’ostia si trasformò miracolosamente in carne, da cui
fuoriuscì una grande quantità di sangue, macchiando vistosamente il corporale
steso sull’altare. Una preziosa reliquia che possiamo ancora oggi ammirare e
venerare nel famoso duomo di Orvieto.
Oggi, dunque, la Liturgia ci
ricorda che quando nella celebrazione Eucaristica ci accostiamo all’altare per “assumere”
l’ostia consacrata, in realtà noi “mangiamo” il Corpo e il Sangue di Cristo. Ci
immedesimiamo in Lui. È la festa dei discepoli, di tutti noi, la festa della
condivisione, la festa che ci ricorda l’importanza e i doveri dell’essere
Chiesa.
Il
vangelo parla più volte di “mangiare la carne” e “bere il sangue”.
Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben
comprenderne i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse,
furono tacciati anche di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del
resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia
dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ricordo in
proposito che una vecchia suora ripeteva severamente a noi ragazzini, durante
la preparazione alla Prima Comunione: “Non masticate la particola, perché fate
male a Gesù!”. Parole che mi hanno colpito così profondamente, che ancora oggi talvolta
mi condizionano.
Ma all’epoca
vigeva ancora la mentalità che discriminava rigorosamente la “materia” rispetto
allo “spirito”. Si diceva: “Tutto ciò che è materia, che è corpo, che è umano,
che muore, è negativo, indegno, spregevole, è peccato. Soltanto ciò che è
spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo mortificare il
più possibile la materia”.
Pertanto
la “materia”, il corpo, era considerato solo un vile rivestimento, un
contenitore, la prigione dello “spirito”: chi desiderava rispondere ad una
vocazione religiosa, chi ambiva seguire Cristo, doveva reprimere il suo lato materiale,
fustigare il proprio corpo, doveva purificarlo, in nome di Dio, da ogni godimento
mondano. La via della santità passava attraverso la totale privazione di ogni
piacere naturale: per il cibo e le bevande, per le gioie sessuali e l'affetto,
per il divertimento e le sane risate. Qualunque debolezza in questo senso, era
“peccato”, tutto era opera del demonio. Lo slogan era: “Il corpo è di Satana:
bisogna combatterlo”.
Poi
finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio
anche un corpo; inscindibili l’uno dall’altro: non esiste nessun corpo umano senza
spirito, come nessun spirito, nessun’anima, senza il proprio corpo; ogni uomo è
costituito da questi due elementi inseparabili: quando stiamo male nel corpo, infatti,
anche lo spirito soffre, sta male; al contrario quando lo spirito sta bene
anche il nostro corpo sta bene. Noi non ce ne rendiamo conto ma molte delle
nostre malattie corporali dipendono da malattie dell'anima: in tal caso possiamo
prendere tutti i farmaci che vogliamo, tutti gli antidepressivi in
circolazione, ma non ne usciremo mai, perché non è il corpo che è ammalato, ma
il nostro spirito: il corpo funge semplicemente da termometro, è il display, la
“radiografia” del nostro spirito.
Chi non
ama il proprio corpo non ama neppure Dio perché il corpo è l’abitazione dello
Spirito di Dio. Il corpo è di Dio. S. Paolo lo definisce “tempio dello Spirito
Santo”. Ecco perché dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo
conoscere e rispettare i suoi ritmi, i suoi limiti, le sue possibilità;
dobbiamo amarlo, dobbiamo volergli bene.
Senza ovviamente
oltrepassare i limiti del buon senso e della morale naturale: perché oggi, dal
disprezzo pressoché totale di una volta, siamo passati oggi alla più sfrenata
esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare
il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene
pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio,
oggetto di latria, di culto. Qualunque sua imperfezione determina la discriminazione
della persona; l’amore che gli viene tributato è comunque ben lontano dal
rispetto che ci ha insegnato Gesù, dall’amore con cui Lui ama il nostro corpo.
Quando
andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo
di Cristo”; e noi rispondiamo “Amen!”, cioè “è vero, è così, sto veramente per
mangiare il Corpo di Gesù”.
È
l’istante del nostro incontro materiale con Dio. Il Divino si riumanizza in
noi, e dovremmo allora sentire il nostro cuore esplodere in umile preghiera:
“Ecco, Signore: questo è il mio di corpo, te l’offro come tua abitazione: entra
tranquillo, farò di tutto per rendere confortevole la tua presenza!”; e Gesù di
rimando: “Amen; lo so, va bene, tranquillo, mi piaci così come sei: insieme
faremo grandi cose!”.
Se
sapessimo ascoltare, sentiremmo sicuramente queste o simili espressioni: perché
incontrarsi attraverso l’Eucaristia è senz’altro motivo di conforto, una gioia reciproca,
quella di Dio e quella nostra!
Lui, il Dio
onnipotente, non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, anzi entra nella
nostra umanità per amarla, valorizzarla, ristrutturarla, difenderla; viene
perché è felice di stare a tu per tu con noi; viene per identificarsi con noi,
Corpo nel corpo. E lo fa anche per necessità, perché egli ha bisogno di noi, del
nostro corpo; dopo la sua ascesa in cielo, infatti, il nostro corpo gli è
indispensabile: per muoversi, per operare, per continuare a parlare, per
catechizzare questo mondo ostile; durante questa nostra vita siamo noi il suo
alter ego: siamo noi la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il
suo cuore.
Un compito
molto impegnativo, per il quale è necessario “santificare” questo nostro corpo,
averne cura, non esporlo mai al pericolo del male, non asservirlo irresponsabilmente
al peccato.
Ci siamo
mai chiesto perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a
mangiare e a nutrirci della sua santità, della sua giustizia? Perché, invece
del suo sangue, non ci dice di bere la sua innocenza, la sua mitezza? perché
non ci dice di prendere dalla potenza divina tutto il suo vigore? Invece si
limita a dire: “Prendete e mangiate la mia carne!”. Non vi sembra incredibile?
Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del
suo corpo umano!
Avrebbe
potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto
lasciarci un segno straordinario della sua potenza, della sua gloria, un segno evidente
e definitivo per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe
potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo
corpo, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, sublime trasparenza
di quello del Padre.
Mangiare
la carne e bere il sangue del Signore significa pertanto nutrirsi del cuore
incandescente dell'Amore, significa assimilare la linfa di quella Vita più
forte della morte, significa scoprire che Dio è più intimo con noi, di quanto
lo siamo noi stessi.
Ciascuno
di noi è chiamato quindi ad abbandonare il suo agire da “uomo vecchio” per
diventare altri “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui.
Dobbiamo abbandonare la nostra identità per diventare Corpo di Cristo, per
assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Non si
tratta ovviamente di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il
prendere un cibo qualunque: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità
di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio,
un’assimilazione lenta, studiata, progressiva.
In altre
parole si tratta di una profonda “conversione”, un diventare “l’Altro”.
Nei
vangeli, tutti quelli che hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli
stessi di prima.
La loro
è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra
“esperienza”? Che cambiamento è avvenuto in noi? Dove, come, quanto, Dio ci ha
“sconvolto” la vita? Che fuoco ha acceso dentro di noi?”.
Se non
si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è
ancora vera, autentica. Se continuiamo ad essere “noi stessi”, se continuiamo a
rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, vuol dire che
ancora non siamo riusciti ad immedesimarci con “Lui”. Allora il nostro
“incontro” con Gesù Eucaristia, dovrà purificarsi, dovrà essere un incontro di vera
“comunione”: in questo modo Egli, offrendosi a noi, compenserà il nostro
nulla, trasformandoci da “esseri carnali”, in “esseri
spirituali”: con la sua azione di grazia, cioè, noi arriveremo gradualmente
a vivere della sua stessa Vita.
Preghiamo
allora, oggi in particolare, Gesù Eucaristia, perché si attui questa nostra
conversione, perché ogni discepolo su questa terra si apra al suo stupore e al
suo amore di Dio, perché ogni prete, ogni cristiano, che agisce nel Suo nome,
diventi sempre più trasparenza di Dio.
Preghiamo
perché nessuno svilisca, “cosifichi”, invalidi, l'Eucarestia domenicale: ma al
contrario essa si trasformi, all'interno della nostra settimana, in una forza
dirompente, divinizzante, un salubre pungolo per sollecitare la nostra
mediocrità, e diventare discepoli sempre più convinti e consapevoli
dell'immensità di Dio. Non spegniamo mai lo Spirito Divino che è in noi:
lasciamo invece che la Sua grazia ci raggiunga e ci trasformi radicalmente.
Amen!
“Dio
non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo
sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-18 ).
Oggi la
chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Un
mistero, quello trinitario, che è costantemente al centro della vita cristiana;
noi lo ricordiamo infatti ogni volta che facciamo il segno della croce: «Nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Un gesto purtroppo che
ormai ripetiamo meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo o diciamo,
soprattutto a come lo facciamo. Dobbiamo infatti riconoscere che la questione
della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale
della nostra fede, oggi non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la
divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione
storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo,
viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali
ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima
preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o
trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e reale degli
stessi cristiani.
La festa
di oggi ci pone pertanto davanti ad un problema: perché il Dio della teologia,
dell’intuizione speculativa, non corrisponde più con il Dio della nostra vita
pratica? Problemi di comprensione? Di impenetrabilità dei concetti? Eppure la
Trinità divina ─ almeno a livello di “intuizione”
─ non ha bisogno di uno “sforzo
speculativo”, di equilibrismi intellettuali, per essere afferrata dalla nostra
mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; è in pratica fare esperienza
di Dio, quella stessa esperienza vissuta e capita direttamente dai primi
discepoli, che non erano certo degli intellettuali: Gesù, loro amico, loro
compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio: e nella realtà si
comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente
Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un infinito mondo d'amore, di
comunione, una vita così grande e intensa, un qualcosa di così profondo e
intimo da risultare incommensurabile: e collegarono questa loro esperienza
all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di famiglia, composta da un
padre-madre, da un figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre
parole un Dio “trino”, un “unico” che si esplica in tre funzioni: un Dio che
sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi
chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, che si chiama Figlio, che si fa
compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha
riscattati,; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo”
(dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theos” = “il dio
dentro”), come creatività, forza, passione, energia: il Dio, in una parola,
che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il
creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana,
prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo
nella loro identità due persone distinte, si fondono in unità (Padre-madre)
nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando
un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben
distinto da loro.
La reale
funzionalità di questo “amore” come terzo elemento connaturale, uguale e
distinto, appare evidente. Come pure evidente è la percezione del nostro ruolo
“trinitario”: quando eravamo bambini infatti abbiamo sperimentato un “unum”
indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, eravamo completamente fusi
con lei fin dal grembo della vita; ci sembrava che fuori di noi due non ci
fosse nulla, ci sembrava di essere il tutto. Poi col tempo ci siamo accorti che
non c'eravamo solo noi, ma che c'erano anche tante altre persone; ci siamo
accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; eravamo unici, ma
eravamo anche in tanti, e abbiamo scoperto che qualcosa ci univa: un qualcosa
ci legava, un qualcosa che si intesseva con le nostre vite: un qualcosa che,
maturando, abbiamo riconosciuto come sentimento, amicizia, rispetto, amore.
Venire
al mondo, nascere, è la cosa più bella, è il senso della vita, ma è anche la
cosa che ci fa paura perché in quello stesso momento diventiamo “altri”: ognuno,
da solo che era, dovrà confrontarsi con gli altri, dovrà cioè “altrificarsi”.
Così per molte persone sentirsi
“altre”, sentirsi diverse (di-versus vuol dire che ognuno ha il suo
verso, il suo carattere, la sua strada, la sua corsia, la sua “chiamata”) diventa
un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, quando invece
preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel
conformismo, nell'indifferenza, nelle mode.
Di contro, vi sono persone che
vivono la loro “alterità” come una competizione, un continuo confronto: “Io
sono meglio di te; sono più bello di te; tu sei più buono di me; sei più preparato”.
“Competere” significa allora voler puntualizzare la nostra diversità, voler
stabilire la nostra superiorità, dimostrare che non temiamo confronti. Vuol
dire affrontarsi e farsi guerra; sentire l'altro come un nemico, un pericolo.
Il mondo
familiare, il mondo del lavoro e a volte anche le nostre comunità cristiane
sono piene di persone che di nascosto, subdolamente, si combattono tra loro.
Sentono l'altro come un nemico e tentano di zittirlo, di eliminarlo, di
ucciderlo, non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i
giudizi taglienti. Giudicare, in greco “krino”, vuol dire letteralmente
“dividere”, “separare”; chi giudica con acrimonia, non ama, e non si ama;
non accetta gli altri perché in realtà non accetta neppure sé stesso. Sminuisce
gli altri per farsi più grande; e quindi sparla, trancia giudizi velenosi, crea
maldicenza intorno a sé. Chi emette giudizi a vanvera è un illuso, un mitomane,
perché pensa di essere solo lui perfetto, inattaccabile, superiore a tutti.
Certo,
c’è ancora molta strada da fare, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza
trinitaria, in cui io sono io e tu sei tu, ma l’amore ci unisce entrambi.
Se
sviluppiamo e viviamo la nostra “alterità” in funzione dell’amore, saremo
sicuramente felici, ci sentiremo realizzati, saremo soddisfatti, di noi stessi per
come siamo, e degli altri per come sono. Allora gli altri possono scegliere anche
soluzioni diverse dalle nostre, senza che per questo proviamo invidia o rancore
per le loro scelte; noi proseguiremo per la nostra strada e saremo felici: gli
altri andranno per la loro di strada, e noi saremo felici per loro, perché capiamo
che quella è la strada giusta per loro. Le cose a questo mondo si possono fare
in tante maniere: solo che noi molto spesso definiamo “sbagliato” ciò che è
soltanto differente: ci sono tanti modi di pregare, tanti modi di vivere la
famiglia, tanti modi di pensare; ci sono innumerevoli possibilità, che
riflettono tutte insieme l'immensa grandezza di Dio, la sua varietà di progetti,
la sua creatività, la sua generosità. Pretendere che tutti agiscano allo stesso
modo, standardizzare qualunque iniziativa, significa essere malati di
autovalutazione, non amare le iniziative e la libera espressione degli altri:
amiamo cioè l’altro, solo perché rappresenta specularmente la nostra stessa immagine:
attraverso lui, ammiriamo e amiamo in ogni caso noi stessi.
Il
nostro relazionarci con l’altro in questo modo è però falsato sul nascere, perché
non c'è crescita, non c'è novità, non c’è vita, non c’è amore: non ci sarebbe
soprattutto il libero intervento creativo di Dio, che ci ha voluti creature
diverse, creature uniche, inconfondibili.
L'amore vero,
autentico, l’amore creativo, l’amore offerta, l’amore oblazione, si realizza infatti
unicamente attraverso l'unione di due creature “distinte”, diverse. “Ti amo
perché tu sei tu, non sei me. Ti amo te perché sei altro da me”. È questa
l'unione vera; è questo l'amore vero; è questo il legame che deve unirci; è
questo lo Spirito che incontriamo al di là di ciò che facciamo o di ciò che pensiamo;
insomma è questa la vera unione spirituale, l'incontro in profondità delle
anime. Amare non consiste nel pensare le stesse cose, nell’avere le stesse idee,
nel compiere le stesse azioni, nel sognare gli stessi ideali. Amare è
incontrarsi nello Spirito, nel profondo dell'anima, e costruire, nella reciproca
“alterità”, l’identità di una unione che si ispira a Dio, rendendolo concretamente
visibile. Perché Dio è amore, e la Trinità è l’essenza concreta di questo
amore.
Inondati
dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire
al Dio Trinità che celebriamo oggi, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato, che è amore,
festa, incontro, relazione, amicizia, comunione, famiglia.
Ricordiamoci
che questo Dio ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”: ha impresso cioè
dentro di noi un DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio
per vivere anche noi una vita d'amore, di comunione, di fraternità, di
condivisione.
Festeggiare
la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare
se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali,
vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo la nostra
vita. Amen.
“Gesù
disse loro: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi. Detto
questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui
perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non
saranno perdonati”.
(Gv 20,19-23).
Dopo la
morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un profondo sconforto, dalla
paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel Cenacolo, stanno tutti insieme,
hanno una paura folle. Il
Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro una
specie di grembo materno, si sentono avvolti, protetti, nascosti, al sicuro. I
cinquanta giorni, che sono trascorsi dalla Pasqua, hanno segnato per loro
un’esperienza terribile, un periodo di profonda e sofferta crisi interiore.
Improvvisamente
un terremoto, un uragano, uno scossone tremendo si abbatte su di loro. Lo
Spirito di Dio è sceso su di loro, ha invaso i loro cuori, ha spazzato le loro
menti: la loro esistenza viene completamente stravolta; i loro pensieri, le
loro certezze, la loro vita, che prima seguivano certi ragionamenti,
all’istante cambiano, trasformano radicalmente tutto il loro essere: da
incerti, timorosi, dubbiosi, diventano forti, intrepidi, decisi: in una parola
diventano “altri”, sono irriconoscibili.
È la
Pentecoste, il giorno dello Spirito: il giorno che ha segnato la loro totale,
decisiva rinascita. Da un livello di superficie, di esteriorità, di facciata,
sono passati ad un livello di grande profondità, di decisiva interiorità; da un
dipendere da altri, da una insicurezza infantile, sono passati alla piena
maturità, alla completa autonomia, alla totale libertà di pensiero.
Parlavano
una lingua “altra”, che però tutti capiscono, perché dentro di loro hanno
stabilito un contatto diretto con Dio. Prima Gesù era fuori, all’esterno: aveva
trascorso con loro giornate intere, avevano mangiato e parlato insieme. Ora
quel Gesù, risorto, non è più fuori ma dentro di loro, lo
sentono forte e chiaro, potente e presente. Il loro terrore di perderlo ora si
è trasformato nella certezza che nessuno avrebbe più potuto allontanarlo da
loro.
Pentecoste
è dunque una “irruzione” dello Spirito che sconvolge, rovescia, rigenera; per
questo è sempre accompagnata da una crisi. Il verbo greco “crino”, da
cui “crisis”, vuol dire separare, distinguere, giudicare: la “crisi”
generata dallo Spirito consiste pertanto in un punto di rottura, di svolta, di
separazione: un momento cioè in cui dobbiamo stabilire ciò che in noi va tenuto
e ciò che va lasciato; dobbiamo riconoscere il nuovo e avere il coraggio di
lasciare il vecchio.
È quindi
impossibile crescere, evolvere, rinascere, senza dover di volta in volta affrontare
e superare le nostre tante crisi: quelle della vita, degli anni che passano
inesorabilmente, dei fatidici sessant’anni; della morte di persone a noi care; delle
disavventure e delle difficoltà economiche, della perdita del lavoro. Le crisi
spirituali e affettive: della fede che non ci sorregge più; della necessità di
maggiori certezze; degli imprevisti della vita che ci crollano addosso; del
naufragio di un amore, di una famiglia, dell’allontanamento dei figli.
Crisi
che sono il corredo della nostra vita: ognuna di esse comporta per noi una
sofferenza, un travaglio, un conflitto; ma ci matura, ci rende più forti, ci
scuote, perché ogni crisi è sempre puntualmente accompagnata da quel
particolare “intervento” dello Spirito che ci purifica, che ci trasforma, che rende
la nostra Vita più vera, più matura, più libera, più trasparente; ogni crisi è anche
quel momento specialissimo in cui sentiamo distintamente l’amore di Dio che opera
in noi, che ci modella, ci plasma, ci forgia, ci rende come vuole Lui: è la personale
Pentecoste che si ripete nella nostra vita, è la consolante azione dello
Spirito in noi.
Eppure,
se noi chiediamo alla gente cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa
rispondere. E non sa rispondere perché purtroppo non lo conosce, non ne ha
esperienza, non lo ha mai vissuto.
Molti
pensano che lo Spirito sia un “optional”, un qualcosa che a richiesta si può “aggiungere”
alla persona, a “come” siamo; e poiché, per quanto li riguarda, stanno già bene
così come sono, dello Spirito ne fanno volentieri anche a meno.
Ma lo
Spirito non è un di più, un’aggiunta, un accessorio: è qualcosa di noi, è
parte del nostro essere, è un qualcosa che ci fa essere. Lo Spirito di
Dio non decide di scendere su di noi in un certo giorno della nostra vita; egli
sta con noi da sempre, ci ha fatto nascere, è quel “soffio di vita” che
Dio alitò inizialmente sull’uomo, e che ripete puntualmente ad alitare su ogni
essere umano all’istante del suo concepimento.
Essere
dello Spirito, allora, essere “spirituali”, non vuol dire pregare molto,
compiere buone azioni, fare cose pie e religiose, frequentare la chiesa,
partecipare ai pellegrinaggi. Essere spirituali vuol dire essere dello Spirito,
vivere dimostrando “Chi” abbiamo dentro, a chi apparteniamo, chi è la nostra guida
spirituale: è un particolare stile di vita.
Se
guardiamo una persona, noi in genere ci fermiamo solo al suo apparire
esteriore. Dobbiamo invece andare oltre, guardare l’anima delle persone, come
faceva Gesù, che fu per eccellenza l’uomo del guardare oltre le apparenze, oltre
la realtà materiale, colui che scrutava lo spirito di chi incontrava: il suo “modo”
di vivere, che Lui chiamava “Regno di Dio”.
E lo
diceva sempre: “Il Regno di Dio non è un luogo lontano, ma è qui, dentro di te,
oggi, adesso. Vederlo dipende dai tuoi occhi”. Gesù infatti guardando un fiore,
un giglio del campo, vedeva Dio, perché vedeva la luce, lo Spirito del fiore; guardava
gli uccelli del cielo ed esclamava: “Che meraviglia; chi può vestire come loro?
Come sono liberi!”; vedeva i fatti che accadevano e vi leggeva la mano di Dio
che interveniva per insegnare; vedeva i sofferenti, i poveracci, i bisognosi e
mentre tutti cercavano di evitarli, Egli li avvicinava, li abbracciava, li
baciava, coglieva il loro bisogno d’amore, donava amore; vedeva i peccatori e
mentre tutti li consideravano nemici di Dio, Egli entrava dentro la loro anima,
ne coglieva la luce nascosta, la loro forza, il desiderio intimo e profondo di
rinascere; vedeva un pescatore qualsiasi e coglieva le sue potenzialità, lo
vedeva già un suo “apostolo”. In croce era accanto ad un assassino, un omicida
e, mentre tutti vedevano in lui il malfattore, Gesù gli disse: “Oggi sarai con
me in Paradiso”; condannato a morte, mentre noi proviamo soltanto rabbia verso
i suoi carnefici, Egli vide in loro un barlume di luce, soffocato dalle tenebre
del cuore, e disse: “Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”. Gesù
insomma non vedeva l’esteriore, la facciata, il materiale; Gesù vedeva in ogni
essere umano lo Spirito del Padre, la luce che c’è dentro ogni creatura.
Questo
faceva Gesù; questo è l’insegnamento che Egli ci ha lasciato: ma noi siamo
troppo distratti, indifferenti, assenti: abbiamo un sacco di cose da fare,
siamo tesi, tormentati, assillati: nel nostro intimo siamo sempre
insoddisfatti, mai pienamente sereni e felici.
Non
riusciamo ad entrare in sintonia con lo Spirito che vive in noi.
Questo
è il nostro problema: non riusciamo a vedere il divino, a vedere Dio. Siamo
bloccati sul materiale delle cose, sollecitati in questo dalla moderna società,
incapace di elevarsi allo spirituale. È una vera, autentica malattia: il nostro
interesse dominante è “avere”, possedere: “Quanto costa? Quanti soldi hai?
Quanti soldi servono? Quanti soldi ti danno?”; siamo concentrati esclusivamente
sull’io, sull’egocentrismo più sfrenato: “Io…, io…; Io faccio così; se non ci
fossi io; ti dico io cosa fare; io di qua, io di là; parlo io; io so; io non ho
bisogno…”. Poi ci scandalizziamo per quanto succede nel mondo, per le notizie
dei telegiornali, dimenticando che i veri colpevoli siamo noi, siamo noi a
comportarci così, è la “società”, solo che la società siamo sempre noi.
Quando il
principale interesse della nostra vita consiste nel diventare “superiori” a
tutti, è naturale che lo Spirito passi in seconda linea, che non ci attiri, che
lo perdiamo strada facendo: se giudichiamo o valutiamo le persone in base al loro
vestito, alle abitazioni, alle auto; se il nostro unico pensiero è il conto in
banca; se il divertimento viene prima di ogni cosa; se ragioniamo solo in base
al “do ut des”; se non preghiamo più, se non troviamo più il tempo per
congiungere le mani, per fare silenzio, per metterci in contatto con la nostra
anima, ebbene, ciò significa che siamo già al capolinea: vuol dire che ci siamo
sganciati dallo Spirito, che abbiamo fatto del materialismo il centro dei
nostri pensieri, dei nostri ideali, delle nostre scelte.
Dopo
aver donato il suo Spirito agli apostoli, Gesù si preoccupa anche di renderli
consapevoli su come dovranno comportarsi nei confronti dei fratelli: “A
coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non
perdonerete, non saranno perdonati”.
Ora,
stabilire chi perdonare e chi no, implica sempre una grande responsabilità:
sappiamo però che Gesù, in proposito, ci ha insegnato che dobbiamo perdonare
tutti, anche chi ci fa del male; che dobbiamo usare nei loro confronti carità,
amore, comprensione. Non per sette volte, come pensava Pietro, ma per settanta
volte sette: vale a dire sempre e comunque.
Se non
perdoniamo, succede che la rabbia, il risentimento, il dolore per le offese
ricevute, continueranno a vivere in noi: ogni mattina le rivivremo, ogni santo
giorno verremo dilaniati dalla stessa collera: invece di lanciare gesti
d’amore, lanceremo solo sassate: perché la vendetta genera vendetta. Solo il
perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza questo automatismo diabolico.
Il famoso domenicano Henri-Dominique Lacordaire,
era solito dire ai suoi frati: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati.
Vuoi essere felice per sempre? Perdona”.
Oggi è
Pentecoste: preghiamo allora Dio che faccia scendere nei cuori di tutti i
fedeli il suo Spirito, il Consolatore, l’Avvocato. Perché oggi più che mai, ne
abbiamo un assoluto bisogno: oggi più che mai abbiamo bisogno nella Chiesa e
nel mondo di una nuova Pentecoste! I potenti della terra sono infatti sempre
più assetati di potere, e pensano solo ad aumentarlo, prevaricando su tutto e
tutti; i ricchi mirano soltanto ad accrescere a dismisura la loro ricchezza,
non curandosi in alcun modo dei miserabili che non hanno di che sfamarsi; i
genitori non capiscono più i loro figli e ai figli non interessa più quel che
dicono i genitori; nella famiglia e nella coppia il dialogo non c’è più, perché
ciascuno usa un proprio linguaggio, diverso e intraducibile.
Nella
Chiesa le parole e i gesti dei pastori non scaldano più il cuore, sono
meccanici, consunti dall’uso, e non invogliano più nessuno alla conversione. A
chi è ancora lontano dalla fede, non arrivano più le parole di amore e di vita
del Vangelo, perché affidate a testimoni sempre più frettolosi, freddi,
distaccati, invischiati nel “mestiere”, e diventati irriconoscibili a Cristo
stesso...
Abbiamo bisogno, Signore, che il tuo
Spirito Santo scenda dal cielo, e come fuoco bruci tutte le sterpaglie che
soffocano il mondo; e soprattutto ripeta ancora una volta il miracolo delle
lingue! Sì, perché in questa nostra società, nonostante i potentissimi mezzi di
comunicazione, non c’è più colloquio, non c’è più condivisione di gioia, di
bellezza, non ci sono più parole di bontà e di perdono. Siamo bersagliati
continuamente da sopraffazioni e violenze, da cattiverie e da odio, inondati
dal fango di putride insinuazioni.
Per questo serve in fretta che Tu,
Signore, ripeta dal cielo il Tuo miracolo d'Amore in particolare su quanti ti
rappresentano: come avvenne in quel lontano giorno di Pentecoste, in cui i
pochi Apostoli uscirono rinnovati dal cenacolo e fecero capire al mondo intero
la bellezza della Tua Parola, vivendola e testimoniandola, fortificati dai tuoi
santi doni. Amen.
“Andate
dunque e fate discepoli tutti i popoli, insegnando loro a osservare tutto ciò
che vi ho comandato” (Mt 28,16-20).
Oggi la
chiesa celebra la festa dell'Ascensione: Gesù lascia questa terra e sale al cielo
per ricongiungersi col Padre. L’appuntamento concordato con i discepoli è di incontrarsi
in Galilea, su un “monte” noto ad entrambi: solo che giunti lassù i discepoli, vedendo
Gesù ancora solo, vengono assaliti da nuovi dubbi: la scena che essi
immaginavano era quella dei preparativi per organizzare finalmente la rinascita
di Israele. Nel loro cuore, pertanto, tutto viene rimesso in discussione.
Gesù
capisce subito la situazione, e li riporta alla realtà: li fa vivere un’esperienza
che diventerà importante e decisiva non solo per loro, ma per noi e per tutti i
discepoli che verranno: Gesù ci affida il difficile compito di continuare la
sua missione nel mondo, assicurandoci la sua costante presenza. Non dice come: ma
i discepoli di ogni tempo lo capiranno nel momento stesso in cui lo Spirito di
Dio scenderà in ciascuno di loro, ed essi si trasformeranno, diventeranno
“altri”.
I pochi
versetti della pericope di oggi, concludono il vangelo di Matteo.
Costituiscono
la sua sintesi dottrinale: ed è proprio dalla conclusione della vita terrena di
Gesù, che dobbiamo partire per capire il compito della sua missione universale,
la missione della Chiesa. È da qui che Egli inizia una nuova presenza sulla
terra: Egli non c'è più, ma ci sono gli apostoli; Gesù non c'è più, ma c'è la
Chiesa, sua presenza nel mondo: Lui “ascende” al cielo, se ne ritorna lassù da
dove era venuto, e lascia qui in terra la sua Chiesa, noi, i “nuovi Gesù”.
In
questo passo Matteo, per la verità, non fa alcun cenno all'Ascensione, non
spende una parola per questo evento importantissimo. Contrariamente a Luca, che
nel suo Vangelo e negli Atti ne parla ampiamente, Matteo non la nomina neppure:
si limita a scrivere che Gesù, una volta risorto, appare agli undici e impartisce
loro alcune disposizioni prima di andarsene.
La sua
è semplicemente una scena di congedo: Gesù che se ne va e lascia ai suoi
collaboratori le ultime volontà, lascia il suo testamento spirituale, le sue
parole più preziose, a guida e conforto di quanti rimangono.
Matteo apre
questo resoconto, sottolineando subito nei discepoli il loro stato d’animo
contraddittorio: dapprima “si prostrano” per adorarlo, e subito dopo in cuor
loro dubitano di lui: sembra casuale, ma in effetti è una annotazione
magistrale, perché dipinge esattamente i due volti della Chiesa, il duplice
modo di rapportarsi a Dio dei discepoli, dei cristiani di allora, di oggi, di
ogni tempo: ci sono infatti persone che aderiscono immediatamente a Lui, lo
sentono vicino, vivo, presente, dentro la loro vita; altre invece sono dubbiose,
scettiche, persone che non si lasciano coinvolgere con facilità. Due
atteggiamenti tipici dell’animo umano: l’interesse e il disinteresse.
Per
questo motivo la Chiesa, fatta di uomini, non potrà mai essere una comunità che
crede in Dio tutta allo stesso modo e con lo stesso grado di coinvolgimento.
Anni e anni di storia ce l’hanno dimostrato. I nostri stessi stati d’animo
cambiano frequentemente tra alti e bassi: in certi giorni siamo all’apice del
fervore, crediamo in maniera convinta, totale, e in certi altri, la nostra fede
si sgonfia, diventa tiepida, vacillante: in certi giorni esultiamo: “Dio c'è,
lo sento, lo vedo, è vero!”; in certi altri siamo nello sconforto: “Dio dove
sei? Perché mi fai questo? Che ti ho fatto di male? Perché non mi rispondi?”. La
chiesa, in quanto comunità di uomini, non sarà mai perfetta: i suoi componenti
sono infatti persone in cammino, deboli, traballanti, che cercano, come possono,
di vivere nella loro vita la chiamata di Dio.
“A me è
stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Gesù mette in chiaro le sue credenziali:
chi è, che poteri ha, il suo campo d’azione: Egli è il Signore della storia, ha
il potere assoluto su ogni cosa, su tutti gli eventi, su ogni uomo. Egli è la
salvezza per tutti gli uomini, nessuno escluso: è di tutti, per tutti. È Padre
misericordioso, ma anche giudice imparziale.
Parole solenni,
importanti, che oggi sentiamo anche noi risuonare distintamente nella nostra coscienza;
parole che, per inciso, ci richiamano alla memoria i maestosi mosaici del
Cristo “Pantocrator” (dal greco “pan-kratéo” = onni-potente):
un Dio serio, autorevole, Padrone della vita e del mondo che, seduto sul suo
trono, si appresta a giudicare gli uomini.
Un’immagine
oggi accantonata del tutto, poiché ci evoca realisticamente quel momento
tremendo in cui anche noi, messi alla sua presenza, dovremo sottoporci al suo giudizio
finale: dovremo cioè rendere ragione di ogni cosa che ci riguarda, anche delle
più segrete e nascoste: in quell’occasione il nostro animo, la nostra
coscienza, il nostro cuore, la nostra vita, verranno esaminati: ogni nostra menzogna
sarà svelata, ogni inganno rivelato, ogni lato buio, ogni ombra, messi in luce.
Saremo privi di ogni maschera, tutti potranno vederci per quello che siamo realmente:
ogni nostro bluff miseramente cadrà: scopriremo che dietro a tante azioni che
noi pensavamo buone, si celava falsità, ottusità, cattiveria, mentre al
contrario tante azioni giudicate cattive dal mondo, in realtà erano dettate
dalla bontà, dall’altruismo, dalla preghiera, dall’ascolto della Parola di Dio.
In quel giorno avremo veramente molte sorprese, e capiremo con quanta
leggerezza abbiamo vissuto, con quanta presunzione abbiamo spesso agito, senza
tener conto che un giorno Dio ci avrebbe giudicato con grande misericordia, è
vero, ma anche con la dovuta giustizia.
Oggi dunque
Gesù sale al cielo e lascia gli Apostoli sulla terra. Prima era Gesù il
responsabile, l'incaricato dell’annuncio; ora lui non c'è più; ma c'è la
Chiesa, ci siamo noi. Siamo noi i nuovi responsabili. Per questo dobbiamo
esserne sempre all’altezza, dobbiamo chiederci continuamente: “Ma io… faccio
vedere il Cristo? Lo annuncio? I miei comportamenti, i miei gesti parlano di
Lui?”. Capite l’importanza di questo passaggio di ruoli?
Da questo momento in poi, nulla si può più lasciare al caso; la nostra vita non
può essere più la stessa di sempre: essere “spirituali” a tutto campo, infatti,
vuol dire anche essere concretamente “materiali”: dobbiamo cioè prenderci cura
di questo mondo. Non possiamo rifugiarci soltanto nello spirituale, nella
meditazione, nel colloquio estatico con Dio, ma dobbiamo calarci anche in
questo mondo, percorrerlo in lungo e largo annunciando il messaggio di Cristo.
Lui ce l’ha ordinato!
Sappiamo
che il mondo è molto più contento quando ce ne stiamo per conto nostro,
rinchiusi nelle nostre Chiese, impegnati nelle nostre preghiere, nelle nostre
liturgie: l’importante per lui è che ce ne stiamo lì, buoni, che non
pretendiamo di immischiarci nei “suoi” problemi, nei suoi equilibrismi; vuole che
non ci impicciamo di politiche sociali, di famiglia, di matrimoni omosessuali, di
trasformazioni genetiche, di sfruttamento minorile, di lavoro nero.
Solo in
questo modo possiamo essere tollerati dai potenti della terra.
Ma Gesù
non vuole che stiamo zitti: La sua voce di condanna si è sempre espressa contro
ogni sopruso, Lui è l'unico nostro criterio di guida, a Lui e al suo
Vangelo dobbiamo conformarci. Noi siamo il Gesù di questo tempo: non dobbiamo
dimenticarlo mai!
Lui non c'è più, è vero, ma ci siamo noi per Lui, e in Lui non
possiamo rinnegare la sua Parola.
Questa è la nostra realtà: se non ci sta
bene, se non la consideriamo, allora smettiamola di definirci cristiani, “discepoli
del Maestro”: smettiamo di ingannare noi e gli altri, poiché lontani da Lui, disallineati dal suo Spirito, non saremo mai nessuno.
C'è poi
il grande mandato: “Andate! Fate discepoli! Apritevi!”.
Una
fede chiusa, circoscritta, è una fede morta. La vera fede, al contrario, è aperta,
dinamica, deve crescere, progredire, spingersi sempre più in avanti.
La fede
della Chiesa non può sopravvivere vivendo bloccata al suo passato, alimentandosi
della sua storia, immergendosi nel suo vissuto secolare: il vangelo, la
tradizione, il magistero, che giustamente costituiscono la sua spina dorsale,
devono essere la molla che la spinge continuamente in avanti, verso il domani,
verso il futuro.
Per dare copiosi frutti spirituali, oltre che “cristiana”, legata
cioè indissolubilmente a Cristo, deve quindi essere “cattolica”, universale, deve
aprirsi, diffondersi a tutti gli uomini, al mondo intero, senza mai perdere la
sua lucentezza, la sua originalità, la sua fedeltà.
Purtroppo, in ogni credente, la fede può mutare, può deteriorarsi,
scomparire.
Sappiamo
infatti che tutto ciò che vive, è destinato nel tempo a mutare, ad evolversi, a
trasformarsi; anche se visivamente tutto può sembrare identico, immobile, invariato,
nella realtà tutto cambia.
Anche il nostro rapporto con Dio: Dio, è sempre Dio:
i suoi principi, le sue raccomandazioni, il suo Vangelo, sono e rimarranno sempre
quelli; siamo noi che cambiamo, e con noi, anche la nostra risposta alla sua chiamata
d’amore: essa cambia, infatti, in funzione dell’età, della disponibilità
individuale, della sensibilità di ciascuno.
Da qui
la necessità, il dovere assoluto per ogni cristiano, di custodire gelosamente
la propria fede, di curarla, approfondirla, purificarla, difenderla da ogni
attacco contro la sua originale integrità.
Ogni
tempo si caratterizza per le sue sfide innovative, per le sue battaglie
culturali e religiose: per questo la nostra fede, la fede della Chiesa, deve
essere pronta a combattere, a difendere la sua originalità, evitando di rimanere infettata
dal virus di fasulle ideologie.
A
questo proposito dobbiamo amaramente constatare che anche nella nostra cattolicissima
Italia, la fede cristiana oggi è allo sbando: debilitata, ferita, imbastardita,
fagocitata dalle novità del momento, si sta definitivamente spegnendo; siamo di
fronte ad un cattolicesimo declassato, fuori moda, diventato religione “per vecchi,
per chi non ha nient’altro da fare”: trascurata, accantonata, svilita dalle
nuove generazioni, ha gradualmente smarrito il suo entusiasmo vincente, quella
vitalità che la rendeva raggiante, appassionante, coinvolgente.
Sarebbe
ingeneroso scaricare come al solito l’intera responsabilità di questa
situazione sui preti, sulla Chiesa, sul magistero: la colpa principale, questa
volta, è soprattutto nostra, di noi cristiani tiepidi, demotivati, indifferenti,
senza orgoglio, smidollati: cristiani spinti più dal “possedere” che
dall’essere, preoccupati più di piacere al mondo che a Dio.
Fortunatamente,
nonostante i cristiani, Cristo è sempre il vincente, rimane sempre il nostro Paraclito:
“Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. È la nostra assicurazione
sulla vita. Dio è con noi ogni giorno: nutriamoci allora di Lui quotidianamente perché:
Lui è
alla nostra porta, accogliamolo;
Lui è in
casa nostra, stiamogli vicino;
Lui è
nel nostro cammino, incontriamolo;
Lui è
la nostra guida, il nostro riferimento, seguiamolo;
Lui è
fuori di noi, perché lo possiamo vedere; è dentro di noi per poterlo sentire;
Lui è
con noi nel buio, per essere la nostra Luce;
Lui è
con noi quando siamo soli nel dolore, per essere la nostra Consolazione;
Lui è
con noi nella gioia, per essere nostro compagno e amico;
Lui è
con noi negli entusiasmi, nelle passioni e nelle avventure, per essere nostro
complice, nostro eroe;
Lui era
con noi ieri, lo è oggi, lo sarà domani;
Lui è sempre
a nostra completa disposizione.
Custodiamolo
nel nostro cuore, come Lui ci custodisce nel suo! Amen.
“Pregherò
il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”
(Gv 14,15-21).
Giovanni
continua anche oggi a riferirci il discorso di addio di Gesù iniziato domenica
scorsa: i particolari da chiarire sono ancora molti e importanti, perché devono
essere capiti bene. Siamo dunque ancora nel cenacolo.
Gesù
aveva appena annunciato la sua partenza per tornare al Padre, in un luogo dove
non c'è più nulla da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il
suo posto, unico e insostituibile, un posto che lui andava a prepararci. Oggi Egli
conferma questo suo distacco: ma nello stesso tempo assicura che il Padre non
li avrebbe lasciati soli, avrebbe assicurato la presenza di un “Paraclito” che
sarebbe rimasto per sempre accanto a loro, a noi, alla Chiesa di ogni tempo: anche
se materialmente nessuno potrà più vedere il suo volto, Egli continuerà a rimanere
con noi, ma in maniera diversa, in maniera spirituale, in noi, con il suo
Spirito.
“Il
Padre vi darà un altro Paraclito”. In
greco, “Paraclito” significa “Avvocato”: avremo cioè un incaricato che ci
difenderà contro le insidie del male, che ci assisterà quando siamo in
pericolo, quando ci sentiremo soli, deboli, impotenti; uno che ci suggerirà sempre
cosa dobbiamo fare, come comportarci al meglio. Ma significa anche “Consolatore”:
avremo sempre cioè uno che ci capisce, che condivide i nostri problemi, le
nostre ansie, le nostre paure; uno che ci consola quando pensiamo di non
farcela, che lenisce il dolore delle nostre ferite, che sa entrare nel nostro
mondo interiore, nella nostra anima, che sa parlare al nostro cuore.
Gesù sa
perfettamente che senza la sua costante presenza, i discepoli, e in futuro
anche noi, avrebbero facilmente dimenticato la sua immagine e le sue parole. Per
questo ha assicurato la presenza di “un protettore”, un avvocato, un
“chiarificatore”: di uno insomma alla cui scuola i discepoli di ogni tempo
avrebbero imparato a fondo cosa significhi fare “esperienza di Dio”.
Una prima
considerazione: tutti dobbiamo entrare in familiarità con questo “Paraclito”; dobbiamo
cioè conoscere lo “Spirito” di Dio, incontrare il Gesù dentro di noi, entrare
in Lui, amarlo, vivere di Lui.
Parole
facili da dire, ma non altrettanto da mettere in pratica, anche se, in realtà, le
occasioni per poter concretamente incontrare Gesù nei vari momenti delle nostre
giornate, della nostra vita, sono tantissime: dobbiamo solo aprire bene gli
occhi, indossare gli occhiali della nostra fede, della nostra anima, del nostro
cuore; dobbiamo insomma calarci in quella dimensione del nostro io occupata dallo
Spirito: una dimensione “spirituale” di cui dovremmo avere la massima cura, e
che invece noi con grande disinvoltura mortifichiamo in continuazione,
riducendo il nostro cristianesimo a una inutile religione di facciata.
Abbiamo
visto che anche il vangelo di oggi ritorna sul tema del “distacco”, motivo di smarrimento
interiore nei discepoli; una separazione che provoca in loro tristezza, preoccupazione,
un senso di solitudine, di impreparazione per i domani.
Gesù, il
loro leader, il capofamiglia, il carismatico, se ne va e loro si chiedono se da
soli potranno mai farcela. Come non capirli?
Da qui
una seconda considerazione: tutti noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di
riferimenti, di regole e leggi chiare, precise.
Tutti
abbiamo bisogno di una guida che ci istruisca, che ci introduca nella vita, che
ci faccia crescere, maturare, diventare adulti, e, a nostra volta, dei maestri.
Il
desiderio di un padre è quello di vedere i propri figli diventare indipendenti,
emancipati; è questo che lui vuole ardentemente: perché se li mantenesse sempre
bambini, se li costringesse ad avere sempre bisogno di lui, a dover pendere
sempre dalle sue labbra, dimostrerebbe di non amare i propri figli, sarebbe
come se li usasse, li manipolasse.
Non è
possibile rimanere sempre studenti; ciascuno ad un certo punto deve diventare
maestro della propria vita. Nessuno può continuare a giustificarsi dicendo: “faccio
solo quello che mi hanno insegnato!”. Se Dio avesse voluto che non
ragionassimo, che non fossimo persone responsabili, non ci avrebbe dotati di un
cervello. Al contrario ci dice: “hai le gambe, cammina; hai gli occhi, osserva;
hai le orecchie, ascolta; hai il cervello, usalo”.
Di
fronte a Lui dobbiamo essere completi, autonomi, non mezze calzette, non dei
piagnucoloni!
Ecco
perché, oggi soprattutto, la Chiesa nostra maestra, deve formare uomini liberi,
uomini veri, dalla grande personalità; uomini forti, integerrimi nei costumi;
uomini lungimiranti che sappiano interpretare la storia, che sappiano prevederla;
uomini “alternativi”, come lo è stato Cristo Gesù; devono, in una parola,
volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in
aria autonomamente, senza alcun sostegno. Devono saper guardare la luna, non il
dito che la indica.
Oggi in
particolare, i “pastori”, i “maestri” del Vangelo, gli inviati, che sono i primi
depositari del Paraclito, lo Spirito della Verità, dovrebbero dimostrare di essere
veramente dei “posseduti” da Dio, dovrebbero pensare, agire, insegnare sempre, come
degli autentici “illuminati” dal Suo Spirito: perché solo così arriveranno a
trasmettere il messaggio di Cristo ai fratelli, insegnando loro a conquistare,
coltivare, accrescere, custodire la fede in Lui, a vivere nel Suo amore:
soprattutto insegnando a meritarla, la fede, a difenderla, a perseverare in
essa. “Perseverare nella fede”: un’espressione che è sparita completamente da
catechesi, prediche, pubblicazioni cattoliche: un verbo – “perseverare” – che
implica fatica, lotta, fedeltà e amore per un ideale, che mal si coniuga con
l’idea oggi predominante di un Dio bonaccione, che passa sopra a qualunque
offesa, che lascia correre, che perdona comunque tutto a tutti.
Purtroppo,
la società contemporanea è fagocitata dal relativismo, l’anticristo imperante:
la gente si sente affascinata, piuttosto che dalla Verità del Vangelo, da una
congerie di insulsaggini, propagandate da preti, maghi, santoni e indovini che,
lautamente retribuiti, sproloquiano dalle loro cattedre televisive.
È
diventata ormai una moda rinunciare alla propria autonomia intellettuale, e
affittare il cervello e la propria vita a questi falsi profeti, a questi
squallidi buffoni, che pretendono di ergersi a Divinità infallibili, ad
altrettanti Dei.
In
questa situazione drammatica la Chiesa fallirebbe in pieno il suo mandato
divino, se pensasse di trasmettere ai fedeli un Dio immagine, in formato
“regalo”, semplicemente da ammirare, da pregare, da esporre, da esibire. Il Dio
di Cristo non è così! Gesù non ci ha trasmesso un Dio statico, immobile, un
Padre buonista, facilmente manipolabile dal nostro scaltro “savoir faire”: ci
ha insegnato invece un Dio attento, onnipresente, che va cercato, seguito e
amato tra mille difficoltà, tra mille dubbi, tra infinite sconfitte e piccoli
progressi: la nostra è una fede seria, impegnativa, che non “impone” nulla, che
non ha “regole” capestro, ma offre semplici “consigli” di vita, che esigono
però concretezza, onestà intellettuale, amore sincero, fedeltà! Non offre una
vita soprannaturale “tout court”, ma ci dice al contrario di costruirla,
perfezionarla, alimentarla quotidianamente con i suggerimenti dello Spirito di
Dio che abita in noi. La strada da percorrere è ovviamente in salita, lunga e
difficile: è un percorso che esige da ciascuno serietà, maturità, convinzione,
costanza.
Non
basta infatti “vivere”, ma bisogna “saper vivere”, saper capire, saper
giustificare, saper amare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che
professiamo, a ciò che confessiamo, a come e perché lo traduciamo in vita
vissuta.
Per questo
il “credo” cristiano, quando è coerente e fedele allo Spirito, va sempre contro
corrente, è in perenne disaccordo con gli schemi individualistici dell’uomo, è
sempre motivo di rottura e di abbandono da parte dei pusillanimi, oggetto di
critica atroce da parte del “mondo”: poiché, come dice Gesù, il “mondo” non può
relazionarsi con lo Spirito, non lo vede, non lo sente, non lo conosce: opera
in tutt’altra dimensione!
“Chi
accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”, dice Gesù.
Qui Giovanni
parla di “comandamenti”: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci
comandamenti” del catechismo; ma a pensarci bene, Gesù ci ha lasciato un solo “comandamento”:
“Ama il Signore tuo Dio e il prossimo tuo come te stesso”.
È il “comandamento”
dell’amore: ma definirlo tale, non è esatto, perché, in realtà, l'amore non si
può imporre a nessuno. Non si può comandare di amare: l'amore è libero, nasce
spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio:
“Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo.
L'amore vive solo dove c'è libertà.
Gesù
quindi non ha “comandato” di amare, non l’ha mai “ordinato”; lo ha invece caldamente
consigliato. L’unico comandamento vincolante, per chi vuole seguirlo, è quello
di “vivere come Lui”, di “seguire i suoi passi”, di diventare, cioè, come Lui,
uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio.
Se siamo
costretti a fare le cose, se le facciamo a comando, in genere le facciamo per
non deludere chi ce le ordina, le facciamo cioè per “rispetto umano”. Soltanto
se le facciamo per amore, spontaneamente, vivremo nella Pace, nell’Amore,
sentiremo crescere nell’anima quella soddisfazione intima che ci riempie il
cuore.
Per
raggiungere qualunque obiettivo è necessario “volerlo” veramente, sentire nel
cuore quell’intimo impulso che ci spinge all’azione. Infatti i “maestri”, gli
educatori, possono ben pretendere dai loro allievi che si impegnino seriamente nella
vita, che osino, che puntino sempre più in alto, in una parola che siano “aquile”:
ma se questi in cuor loro non sono convinti, se hanno paura di volare, se non
sentono alcuna attrazione per l’altezza, per la bellezza, se non sentono il
fascino del volo, poveretti! si sforzeranno anche, ma non arriveranno mai a
nulla: una gallina, per quanto si sforzi, non potrà mai diventare un'aquila!
Gesù, anche
per questo, ci ha assicurato la presenza del suo Spirito: proprio perché, grazie
a Lui, trasformati da Lui, potessimo abbandonare la nostra naturale “pesantezza
umana” per librarci fin lassù, in alto, tra le braccia del Padre: guidati dai
suoi consigli potremo infatti diventare veri “esseri spirituali”. Lui può: perché
è il nostro Maestro, la nostra forza, la nostra guida, il nostro avvocato, il nostro
Consigliere, il Dio in noi. Con Lui nulla ci sarà impossibile. Gesù ce l’ha
promesso!
Accogliamolo,
allora, questo Paraclito Consolatore; apriamogli le braccia e il cuore,
accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con
Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando. Semplicemente amando. Perché questo
è lo Spirito: Amore! È Lui che alimenta questo nostro cuore, creato dal Padre per
ricevere e dare Amore: lo presuppone, lo suscita, lo incarna in noi. È lo
Spirito Amore che tiene compatta la nostra vita, nonostante le fratture, le contraddizioni,
i fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva, la indirizza, la rinvigorisce.
Tutto in noi, di noi, viene continuamente nobilitato dallo Spirito Amore: è questa
la “buona notizia” di oggi. Amen.
“Quando
sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me,
perché dove sono io siate anche voi”.
(Gv 14,1-12).
Il
vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di
Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai
discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: Egli sta per andarsene, e affida loro il suo testamento spirituale, parla delle cose più intime, più
profonde, che più gli stanno a cuore.
Giuda è
già uscito per tradirlo, e quindi poco dopo le guardie sarebbero arrivate per arrestarlo;
il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale: lo
spettro della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del
Golgota.
Gesù ha
ancora molte cose da dire ai suoi; soprattutto vuol far capire bene lo scopo della
sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e
indissolubile che esiste tra lui e il Padre. “Quando sarò andato da Lui e vi
avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me”.
Parole piuttosto oscure, difficilmente comprensibili in quel momento dai discepoli:
essi annaspano, non capiscono: “Te ne vai? Come, dove, quando, perché?”. Un
turbinio di domande agita infatti il loro cuore: “Che ne sarà di noi? Cosa ci
accadrà? Che fine faremo? Abbiamo sbagliato a credere in Lui?”. Poveri
discepoli! Sono confusi, hanno capito che qualcosa di molto grave sta per
accadere, ma non sanno immaginare quando; sentono però la minaccia di un
pericolo incombente, sono spaventati, sconvolti: il verbo greco
"tarassesko" (sia turbato), indica appunto una
profonda agitazione: “Gesù tu eri tutto per noi, abbiamo investito tutta la
nostra vita in te, ci avevi infiammato il cuore; ora che ne sarà di noi?”.
E Gesù:
“Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma state tranquilli, non temete:
vado a prepararvi un posto. Non scappo via. Vado, ma poi torno a prendervi! Ora
siete impauriti perché tutte le vostre previsioni, le vostre certezze, sembrano
crollare. Questa è la vostra impressione: ma non è così! Perché nulla andrà
perduto di quanto vi ho promesso. Guardate il tempo: dopo ogni notte, dopo il
buio, dopo la solitudine, puntualmente la nuova luce del mattino risorge sempre
a tranquillizzare, a rischiarare la vita”.
Questo, espresso in altre parole, è quanto Gesù promette ai suoi: ed è esattamente
quanto, ogni giorno, Egli continua a ripetere anche a tutti noi.
Le sue sono
parole importanti, parole che ci devono tranquillizzare contro le tante
incognite del domani, contro le difficoltà, le sconfitte, le paure, tutte
nostre puntuali compagne di viaggio. In ogni momento difficile della nostra
vita, dobbiamo ricordarci sempre “chi siamo” e “chi è nostro Padre”. Anche se
gli altri ci discriminano, ci ignorano, ci evitano, Lui è sempre presente, Lui
ci capisce sempre perfettamente!
Quando un giorno ci renderemo conto delle nostre continue infedeltà, dei nostri
tradimenti, non perdiamo la speranza del perdono, affrontiamo umilmente ma con
fermezza il nostro riscatto, perché Lui, da sempre, ci sta aspettando a braccia
aperte.
Se nella nostra fragilità ci dovesse capitare un evento talmente grave,
tragico, da stravolgere completamente la nostra vita, ripetiamo a noi stessi:
“Sono figlio di Dio: Egli mi ama, è mio Padre, niente può distruggermi, mi fido
di Lui”.
Se ci troviamo con il cuore straziato dal dolore e dall’angoscia, e
non sappiamo dove andare o cosa fare, rassicuriamoci, perché Gesù, è sempre lì
al nostro fianco: fedelmente, amorevolmente.
E quando la notte della vita si
presenterà a bussare alla nostra porta, sarà sempre Lui che ci prenderà per
mano e ci condurrà nella casa del Padre, ad occupare quel “posto”, che Lui ha
preparato per ciascuno noi. Una prospettiva decisamente incoraggiante che,
quantunque incerti, quantunque provati dalla vita, sconsolati, demotivati, riuscirà ad
infondere nel nostro cuore nuovo entusiasmo, pace, serenità.
Da qui,
allora, l’importanza di gridare non una, ma due, dieci, cento volte la nostra fiducia
in Dio, di metterci nelle sue mani: non importa se lo faremo nel dolore o nella
gioia, nella calma o nei battiti affannosi del nostro cuore, perché, in ogni
caso, questo è pregare, questa è una preghiera. Probabilmente non risolveremo
immediatamente i nostri problemi, ma sicuramente ritroveremo la fiducia,
riavremo la certezza che se anche tutto dovesse crollare, anche se tutto
dovesse fallire, Lui c'è sempre; e con Lui, abbiamo sempre disponibile il
nostro posto “nella casa del Padre”.
Lì ognuno
ha il suo posto, un posto personalissimo; nessun altro può averne uno uguale,
perché tutti noi siamo unici. Spesso molte persone si sentono soddisfatte, in
perfetta regola, nel giusto, solo perché si vedono uguali agli altri, perché si
comportano esattamente come loro. Dovrebbero al contrario sentirsi in difetto,
perché Dio non crea doppioni, non ama duplicati; non pretende un comportamento
standard, uguale per tutti: ogni vita “copiata” è un falso, una vita sbagliata,
non realizzata, non vissuta, mai osata.
Certo
dare il buon esempio è importante: tutti abbiamo bisogno di guardare gli altri,
di studiarli per imparare, per capire; ma il Dio che nasce in ciascuno di noi, che
si adatta alla nostra persona, che noi manifestiamo agli altri attraverso la nostra
vita, ci rende diversi, altri: è la nostra esclusiva fisionomia. Egli fin
dall’inizio ci ha creati tutti a sua “immagine e somiglianza”: mentre però l’essere
sua “immagine” dipende da Lui, dal suo “tocco creatore”, identico per tutti gli
uomini, il “somigliare a Lui” è di nostra competenza, spetta singolarmente a ciascuno
di noi. Il risultato che ne otterremo dipenderà esclusivamente da come
risponderemo alla sua chiamata, da come investiremo i “carismi” di cui egli ci
ha dotati: da qui la nostra “somiglianza” unica, originale, personalissima.
Lo
slogan di Dio è: “Ognuno ha il “suo” posto, perché per occuparlo deve
percorrere la “sua” strada: ogni vocazione, ogni cammino, ogni esperienza, sono
tutti elementi unici di una vita, induplicabili, e come tali vanno costruiti,
vissuti. A Dio non interessa la forma, ma il contenuto di ogni singola
esistenza.
Gesù si
identifica con “la via, la verità, la vita!”; osserviamo bene l’ordine con cui
le nomina, perché non è casuale: Gesù è la “Via” che conduce alla “Verità”,
perché solo nella verità la “Vita” sarà piena, sensata, realizzata, degna di
essere vissuta.
Non
dice: “Io vi indico una via”, ma: “Io sono la via!”.
Gesù
non ha bisogno di darci altre regole, altri codici, altre indicazioni da
seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui; Egli è tutto; è il cammino,
l'unico cammino che ciascuno deve percorrere. A quanti gli chiedevano cosa fare
per avere la vita eterna, per essere felici, per andare al Padre, Egli ha
sempre detto a tutti: “Seguimi!”. Un cammino che compendia l’intero Vangelo.
Non
dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la Verità”.
In
proposito, di fronte alla domanda di Pilato: “Quid est veritas?”, (che
cos’è la verità?), sant’Agostino, anagrammandola magistralmente, ipotizza questa
risposta di Gesù: “Est vir qui adest” (è l’uomo che ti sta davanti): “La
Verità sono Io”, punto! Non sono ammessi fraintendimenti!
Ci sono
invece molte sedicenti “chiese”, molte religioni (o pseudo tali), molti
santoni, molti guru, veggenti e ciarlatani di ogni genere, che si arrogano il
diritto di affermare: “Io ho la verità, io ho Dio, seguimi e ti farò diventare
un avatar, incarnazione virtuale di Dio”. Siamo seri, non perdiamo tempo
con tali idiozie! La Verità non si possiede, si vive, è vita. Essi confondono
la “verità” con delle vaghe “conoscenze” personali che applicano ai loro
discorsi, quasi sempre a sproposito. Per Gesù, la Verità (aletheia,
togliere il velo) è scoprire quello che Dio vuole da noi, significa aprire la
nostra mente a ciò che lo Spirito di Dio ci suggerisce nell’anima.
Gesù
non dice: “Io ho la vita”, dice: “Io sono la vita”. Non è un’assicurazione da stipulare per campare tranquillamente, a scanso di preoccupazioni e problemi. Gesù è “la”
Vita, quella che dobbiamo fare nostra, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere?
Eccomi: Vivi!”.
Sbaglia
chi pensa che “vivere” coincida con il fare tante esperienze, con il possedere molte
ricchezze, con il godere al massimo i piaceri di questo mondo: “vivere” non è
buttarsi allo sbaraglio, dove capita, con chi capita: ma è sentire, percepire
la “Vita” divina che vive in noi, per realizzarla esteriormente nel quotidiano.
E
concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”.
Facciamo nostra questa preghiera. Facciamo nostro questo accorato invito rivolto
a Gesù perché ci renda partecipi dell’abbondanza di bene e di amore che il
Padre rappresenta. Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle
immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per
soddisfare il nostro egoismo e la nostra accidia: un Dio qualunque, un Dio
imprecisato e vago, un Dio indifferente.
Non
confondiamoci col credere, come bambini, in divinità misteriose e inquietanti,
sempre pronte a condizionare negativamente la nostra esistenza. Siamo adulti!
Il Dio Padre di Gesù è un Dio adulto che ci tratta da adulti; un Dio che non ci
considera degli sprovveduti, degli incapaci, da dover correre continuamente a
risolvere i nostri problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: magari
facendoci capire che spesso è inutile ostinarsi contro situazioni irrilevanti e
senza senso; che faremmo molto meglio ad occuparci costruttivamente degli
aspetti belli e positivi della vita, rendendola più gradevole e appagante.
Il Dio
di Gesù è un Dio splendido, affascinante, innamorato delle sue creature,
lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero, che svela a
ciascuno di noi, nel profondo, chi siamo, cos’è la Via, cos'è la Verità, cos'è
la Vita.
Cerchiamo
allora di conoscerlo questo Dio che ci conosce uno ad uno, che ci ama da
sempre; cerchiamo di non sfuggire al suo amore, di essere il più possibile
attenti alle sottili sfumature del suo Spirito, alle meravigliose percezioni
che ci trasmette nell'anima, ai suoi paterni suggerimenti per vivere
serenamente questa nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola
del Maestro Gesù, e chiediamogli se il Dio in cui crediamo, il Dio che
professiamo, che celebriamo, è veramente il Dio, Padre vivificante, che Egli ci
ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, misurandoci
con essa, affinché ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.
“Io
sono la porta delle pecore” (Gv 10,1-10)
Le
parole di Gesù proposte oggi dal vangelo ci sembrano dolci, tranquille,
rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un
“buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un bastone in
mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune
pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è
proprio così: le sue parole, al contrario, si riferiscono ad una dura realtà,
sono critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di tensione, di aperta ostilità nei suoi confronti.
Siamo in
prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle
pecore”: un particolare che sicuramente offre a Gesù lo spunto per parlare di
greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe
religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e
grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo:
sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti,
detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, ultras della fede,
puri e duri.
E Gesù,
con voce ferma, si rivolge ad essi con un discorso sostanzialmente del seguente
tenore: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di
lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge
di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato
l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché
avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza
politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la
gente; voi la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più,
parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un
nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza
mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione”.
Questo in
pratica afferma Gesù, consapevole della gravità delle sue parole,
cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La
gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, con passione, con
la forza della verità: le sue parole, appunto.
Le persone vogliono ascoltare il
suo messaggio, il suo “Vangelo”, il suo annuncio "bello", positivo. E cosa
dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le sue pecore dal recinto in cui sono rinchiuse, e di portarle al Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è il pastore “é kalçv”, come dice il testo greco: “quello bello”, quello
integro, quello capace di amare, di servire l'umanità, di prendere sul serio il
proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo.
Gesù è il
pastore che conduce le sue pecore verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è
colui che le difende, le protegge dagli attacchi esterni, le aiuta nei momenti
di difficoltà; è per esse il riferimento, la guida che sa dove andare, quale strada
percorrere.
Gesù è
il pastore che chiama le pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere
pastore passa attraverso l'intimità del chiamare per nome ciascuno di noi. Per
Lui non contano i grandi numeri, le folte assemblee; per Lui contano i nomi, i
singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma comportano l’anonimato,
la reciproca estraneità.
Con Gesù, invece, ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di
noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquistando con Lui una
profonda familiarità, una confidenza tale da consentirci di riconoscere
immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù
non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra
risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo in grado di riconoscere
la sua “voce”.
Da notare
come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti
termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente alla “voce” suadente di un pastore;
forse perché si rende conto che una terminologia più impegnativa può
confonderci; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la
vicinanza costante di un Gesù comprensibile, un Gesù alla sua portata; ha
bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che
solo una “voce” amica può assicurargli.
Nel
nostro cammino di fede è pertanto fondamentale incontrare il Signore, frequentarlo
assiduamente, riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, ascoltare la sua Parola,
instaurare con Lui un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia,
di amore, fino a sentire il nostro “cuore ardere, bruciare d’amore”, come è
successo ai due di Emmaus.
Gesù è
venuto nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, per seguirlo lungo la via
che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui noi tutti
dobbiamo passare: è il nostro “varco” attraverso cui uscire dal nostro “io” e seguirlo
fedelmente.
Egli ci chiama
e noi lo riconosciamo: perché la sua è una voce che parla direttamente al
cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia,
che perdona, che inquieta, che sconcerta; una voce che ci porta all’unica Verità.
“Attraversare”
Gesù, significa però passare per una porta stretta, e noi lo sappiamo bene; perché
per farlo, dobbiamo essere autentici, essere come agnelli fiduciosi nel loro
pastore. Egli ci
chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i
nostri orizzonti; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla
agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello
allora che questo Pastore ci conduca fuori da noi stessi. Gesù non è uno che
chiude la porta, non è uno che ci imprigiona dentro; è il Pastore che ci fa
entrare nell’intimo, nell’anima, ma è anche e soprattutto il Maestro che ci fa uscire,
che ci indica la strada da percorrere. Quante volte infatti Gesù ci chiama per
nome per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra
vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra chiusura protettiva, dal nostro ermetismo, per
aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa
uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su
di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per
gli altri e un po' meno per noi.
Dobbiamo
però essere sempre prudenti, guardinghi; è Gesù stesso che ci mette in guardia
dai ladri, dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che
vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di venire per il tuo
bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”. Un avvertimento che dobbiamo
avere sempre presente nella vita: chi tenta di rubarci l'anima è un ladro; chi
tenta di rubarci ciò che custodiamo nel nostro cuore è un brigante, chi ci attrae
con facili e suadenti prospettive è un impostore. Non facciamoli entrare!
Difendiamoci!”.
Il
pastore vero, autentico (sia esso genitore, coniuge, prete, consigliere o amico)
entra nel nostro “recinto” solo per darci vita, entra perché possiamo crescere,
fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo non è un pastore ma un ladro che
viene per prendere, per sottrarre, per legarci a sé. Il pastore invita, ma non
impone nulla, non usa mai la forza, è sempre presente nel momento del bisogno,
non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza,
colpevolizza, lega a sé e ruba la vita che abbiamo dentro. Chi non pratica con
noi la carità e la bontà è un brigante; chi ci fa sentire cattivi, sbagliati,
idioti, stupidi, cretini, è sicuramente un brigante, perché intende usarci per
suo piacere fisico o per i suoi interessi; soprattutto è un ladro chi cerca di rubarci
la gioia di vivere, la nostra personalità, la nostra vitalità.
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, non ci proteggiamo, non lottiamo per noi stessi, non combattiamo
per la nostra vita permettendo agli altri di fare di noi quello che
vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore,
come se fossimo una nullità, un oggetto manipolabile a piacimento.
Come facciamo a vedere se abbiamo incontrato Gesù, la nostra Porta, e se l’abbiamo veramente
attraversata? Semplice: se uno rimane sempre identico nella sua mediocrità,
insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non l’ha
incontrato; se uno è di vedute ristrette, egoistiche, non va mai oltre sé
stesso, significa che non ha incontrato Cristo; se uno va regolarmente a Messa,
si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è in grado di
perdonare il fratello, il coniuge, i figli, il collega, l’amico, vuol dire che non ha ancora incontrato
Cristo, non ha fatto un passo verso di Lui. Quelli che si comportano in questo
modo pensano di entrare nell'ovile passando da un'altra porta che non è Gesù, e
di loro il Signore dice: “Sono ladri, briganti!”: anche se di fronte alla gente
sono “pastori” famosi, dottori della Legge, teologi, preti, frati, suore, laici
impegnati nella Chiesa, in realtà sono tutti “ladri e briganti!”.
Ci
vuole molto coraggio per varcare la nostra soglia per entrare nel tempo
presente: incalcolabili avversità insidiano il nostro percorso! Ma se entriamo
attraverso Cristo, unica Porta sicura, tutto diventerà più semplice, ogni nuova
prospettiva verrà superata più agevolmente.
E saremo felici: sì, perché
allora ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della
contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente,
che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Saremo cristiani felici, perché
ci sentiremo veramente Chiesa, sogno del Risorto, passione dell'Incarnato. E diventeremo
anche noi pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare sui fratelli
più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi amorosi, guide ansiose
di indicare Cristo, la Porta, a quanti cercano di entrare nella Vita e nell’Amore
assoluto. Amen.