venerdì 1 maggio 2020

3 Maggio 2020 – IV Domenica di Pasqua


“Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,1-10)

Le parole di Gesù proposte oggi dal vangelo ci sembrano dolci, tranquille, rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un “buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un bastone in mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue parole, al contrario, si riferiscono ad una dura realtà, sono critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di tensione, di aperta ostilità nei suoi confronti.
Siamo in prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle pecore”: un particolare che sicuramente offre a Gesù lo spunto per parlare di greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, ultras della fede, puri e duri.
E Gesù, con voce ferma, si rivolge ad essi con un discorso sostanzialmente del seguente tenore: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più, parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione”.
Questo in pratica afferma Gesù, consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, con passione, con la forza della verità: le sue parole, appunto. 
Le persone vogliono ascoltare il suo messaggio, il suo “Vangelo”, il suo annuncio "bello", positivo. E cosa dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le sue pecore dal recinto in cui sono rinchiuse, e di portarle al Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è il pastore “é kalçv”, come dice il testo greco: “quello bello”, quello integro, quello capace di amare, di servire l'umanità, di prendere sul serio il proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo. 
Gesù è il pastore che conduce le sue pecore verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è colui che le difende, le protegge dagli attacchi esterni, le aiuta nei momenti di difficoltà; è per esse il riferimento, la guida che sa dove andare, quale strada percorrere.
Gesù è il pastore che chiama le pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere pastore passa attraverso l'intimità del chiamare per nome ciascuno di noi. Per Lui non contano i grandi numeri, le folte assemblee; per Lui contano i nomi, i singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma comportano l’anonimato, la reciproca estraneità.
Con Gesù, invece, ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquistando con Lui una profonda familiarità, una confidenza tale da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo in grado di riconoscere la sua “voce”.
Da notare come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente alla “voce” suadente di un pastore; forse perché si rende conto che una terminologia più impegnativa può confonderci; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la vicinanza costante di un Gesù comprensibile, un Gesù alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che solo una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro cammino di fede è pertanto fondamentale incontrare il Signore, frequentarlo assiduamente, riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, ascoltare la sua Parola, instaurare con Lui un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia, di amore, fino a sentire il nostro “cuore ardere, bruciare d’amore”, come è successo ai due di Emmaus.
Gesù è venuto nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, per seguirlo lungo la via che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui noi tutti dobbiamo passare: è il nostro “varco” attraverso cui uscire dal nostro “io” e seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi lo riconosciamo: perché la sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta; una voce che ci porta all’unica Verità.
“Attraversare” Gesù, significa però passare per una porta stretta, e noi lo sappiamo bene; perché per farlo, dobbiamo essere autentici, essere come agnelli fiduciosi nel loro pastore. Egli ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello allora che questo Pastore ci conduca fuori da noi stessi. Gesù non è uno che chiude la porta, non è uno che ci imprigiona dentro; è il Pastore che ci fa entrare nell’intimo, nell’anima, ma è anche e soprattutto il Maestro che ci fa uscire, che ci indica la strada da percorrere. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra chiusura protettiva, dal nostro ermetismo, per aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per gli altri e un po' meno per noi.
Dobbiamo però essere sempre prudenti, guardinghi; è Gesù stesso che ci mette in guardia dai ladri, dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di venire per il tuo bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”. Un avvertimento che dobbiamo avere sempre presente nella vita: chi tenta di rubarci l'anima è un ladro; chi tenta di rubarci ciò che custodiamo nel nostro cuore è un brigante, chi ci attrae con facili e suadenti prospettive è un impostore. Non facciamoli entrare! Difendiamoci!”.
Il pastore vero, autentico (sia esso genitore, coniuge, prete, consigliere o amico) entra nel nostro “recinto” solo per darci vita, entra perché possiamo crescere, fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo non è un pastore ma un ladro che viene per prendere, per sottrarre, per legarci a sé. Il pastore invita, ma non impone nulla, non usa mai la forza, è sempre presente nel momento del bisogno, non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza, colpevolizza, lega a sé e ruba la vita che abbiamo dentro. Chi non pratica con noi la carità e la bontà è un brigante; chi ci fa sentire cattivi, sbagliati, idioti, stupidi, cretini, è sicuramente un brigante, perché intende usarci per suo piacere fisico o per i suoi interessi; soprattutto è un ladro chi cerca di rubarci la gioia di vivere, la nostra personalità, la nostra vitalità.
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, non ci proteggiamo, non lottiamo per noi stessi, non combattiamo per la nostra vita permettendo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore, come se fossimo una nullità, un oggetto manipolabile a piacimento.
Come facciamo a vedere se abbiamo incontrato Gesù, la nostra Porta, e se l’abbiamo veramente attraversata? Semplice: se uno rimane sempre identico nella sua mediocrità, insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non l’ha incontrato; se uno è di vedute ristrette, egoistiche, non va mai oltre sé stesso, significa che non ha incontrato Cristo; se uno va regolarmente a Messa, si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è in grado di perdonare il fratello, il coniuge, i figli, il collega, l’amico, vuol dire che non ha ancora incontrato Cristo, non ha fatto un passo verso di Lui. Quelli che si comportano in questo modo pensano di entrare nell'ovile passando da un'altra porta che non è Gesù, e di loro il Signore dice: “Sono ladri, briganti!”: anche se di fronte alla gente sono “pastori” famosi, dottori della Legge, teologi, preti, frati, suore, laici impegnati nella Chiesa, in realtà sono tutti “ladri e briganti!”.
Ci vuole molto coraggio per varcare la nostra soglia per entrare nel tempo presente: incalcolabili avversità insidiano il nostro percorso! Ma se entriamo attraverso Cristo, unica Porta sicura, tutto diventerà più semplice, ogni nuova prospettiva verrà superata più agevolmente.
E saremo felici: sì, perché allora ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Saremo cristiani felici, perché ci sentiremo veramente Chiesa, sogno del Risorto, passione dell'Incarnato. E diventeremo anche noi pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare sui fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi amorosi, guide ansiose di indicare Cristo, la Porta, a quanti cercano di entrare nella Vita e nell’Amore assoluto. Amen.


venerdì 24 aprile 2020

26 Aprile 2020 – III Domenica di Pasqua


“Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (Lc 24,13-35).

Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, dopo aver tranquillizzato i suoi e aver donato loro la pace, in quello stesso giorno dopo il sabato, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge due discepoli, che lo avevano seguito fino a Gerusalemme, in cammino verso Emmaus.
Tornano a casa loro, scappano da quella città “maledetta” che uccide i profeti. Sono tristi, pensierosi, commentano a bassa voce le ultime tragiche vicende, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l’amarezza sono profonde, insostenibili, terribili, arrivando a mettere in discussione l’operato di Dio.
Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; del resto, come potrebbero? Non si rialzano da loro stessi, dalla loro sofferenza, e non possono quindi incrociare lo sguardo amoroso del Signore. Sono talmente pieni del loro “sacrosanto” dolore da non accorgersi che non c’è più alcun motivo per essere tristi. Sono totalmente incapaci di uscire dalla spirale vorticosa di quel nulla in cui sono precipitati dopo la scomparsa del loro maestro, da non accorgersi che Egli è lì, al loro fianco.
Uno stato d’animo che anche noi sperimentiamo molto spesso: quante volte ci sentiamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchierate tra amici, lo scambio delle proprie impressioni, l’amabile conversare del nulla, la vacuità del dire: tutte cose che ci irritano; nulla ci soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, irriverenti, quasi insolenti. E Lui, di fronte alla nostra idiozia, al nostro vuoto assordante, tace paziente. Tace suo malgrado, perché Dio ama discutere con noi; egli è il moderatore, vuole che riflettiamo, che cerchiamo, che ci documentiamo. Egli, rispettoso e discreto, ci considera capaci di conoscere, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell’interrogarci. Non vuole dei cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Ma noi non appena egli si mette al nostro fianco lungo il percorso della vita, quando con tutta la sua amorevolezza cerca di farci capire che in fondo il nostro dolore non è poi così insuperabile diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della nostra situazione attuale? Delle nostre preoccupazioni, dei nostri problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, del tirare su dei figli, della situazione internazionale, della pandemia, delle guerre, del terrorismo, della crisi economica, della fame, del malcostume generale che ci fagocita? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti il dolore ci rassicura, ci dona identità, ci identifica, e in questo nostro percorso di autodistruzione folle, finiamo col costruirci una nuova identità. Finiamo col coltivare il dolore per sé stesso: “Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Ho il cancro. Mio marito, mia moglie mi ha lasciato...”. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento, ci esibiamo nel nostro “dolore”, vogliamo che ci riconoscano così, compiacendoci scioccamente di inutili cenni di benevolenza, di compassione, di condivisione. Ma siamo degli illusi. Il dolore non deve ridursi ad un fenomeno da baraccone, non è una maschera da indossare per ottenere ammirazione e consensi: il dolore vero nasce dalla constatazione della nostra precarietà, della nostra fragilità, dall’esperienza di essere un nulla. È la via per arrivare a capire che Uno solo può consolarci veramente, Uno solo può offrirci motivi validi per risorgere dalla nostra depressione, dalla nostra fragilità di creature: è il nostro Creatore, Colui che conosce perfettamente il nostro cuore, la nostra anima, Colui che fin dal primo istante di vita ci ha amati fino all’inverosimile.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto ai due. “È mai possibile – essi pensano - che questo intruso sia tanto svanito da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Sono frastornati, offesi; e ne hanno veramente motivo, essendo rimasti improvvisamente orfani della loro guida, della loro unica speranza di miglioramento. E gli rispondono parlando della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla. Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha affrontato personalmente tutto questo, sembra non sapere nulla. 
“Noi speravamo che fosse Lui il liberatore di Israele”: rispondono. Parole che rivelano la loro profonda frustrazione! “Noi speravamo”: solo che la speranza si riferisce sempre ad un futuro, mai declinarla al passato come fanno loro, perché così significa ammettere un totale fallimento. Nella vita è sempre difficile accettare la fine di qualcosa: ma il fallimento della speranza è addirittura tragico, perché con la delusione, causa inevitabilmente la morte interiore. La delusione è la punta estrema del fallimento di ogni prospettiva: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza il sospetto di essere stati ingannati; un dolore che ci destabilizza, che mette in dubbio l’efficacia di ogni nuovo progetto, che ci impedisce di riprendere coraggio, confinati tra cocenti delusioni, speranze abbandonate, sofferenze dell’anima insopportabili. Eppure lì, proprio nel più profondo all’anima, alla soglia dello smarrimento finale, Dio ci aspetta con tutto il suo amore: è lì per ascoltarci, per soccorrerci, per rimetterci in piedi e camminare insieme a noi.
“Noi speravamo” insistono i discepoli: “ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui!”. “Noi speravamo: ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro”.
Ebbene: quanti ne abbiamo conosciuti di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E non si accorgono che il Signore, creduto morto, cammina con loro.
I due si aspettano comprensione da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece un sonoro schiaffone: “Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro Gesù: “Stupidi, ignoranti!”. La sua è una evidente provocazione: vuole scuoterli, costringerli ad alzare lo sguardo, a guardare avanti. Dobbiamo infatti capire, loro come noi, che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene, e non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte nella vita un energico scossone ci distoglie dalla sofferenza, dall’autocommiserazione, e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa, in una prospettiva nuova, più costruttiva.
Essi si scuotono, è vero, ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”. “Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della Sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. I discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte!
Le parole del vangelo di Luca sono qui taglienti, quasi insostenibili: il problema, il problema vero, non è l’assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando ci cammina accanto, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso. Egli è costantemente con noi; cammina sempre al nostro fianco: e ci spiega pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare, di adeguarsi, di abbandonare la rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l’immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; per questo Egli cammina, per questo si è messo in viaggio, un viaggio lunghissimo: dall’eterno al finito, dall’essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta all’incarnazione. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. Dio non è un macigno granitico, immobile e compatto, ma soffre, cambia idea, decide. Ama e, si sa, l’amore è sempre in movimento; e l’amore chiede sempre sofferenza.
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l’intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo...
È un momento di grande tensione, questo: i due pur essendo stati amabilmente insultati ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che questo tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il cuore di questi tiepidi discepoli finalmente si scalda. Poi il tepore divampa, e diventa fuoco incontenibile.
Lo conosciamo sicuramente anche noi questo fenomeno: la Parola meditata si insinua dentro di noi, ci inquieta, ci apre, ci obbliga alla verità. E più troviamo argomenti contrari a questa verità che avanza, più i nostri incrollabili pregiudizi vacillano, scricchiolano, finché alla fine dobbiamo arrenderci! Il nostro dolore, che paradossalmente ci gratificava, viene spazzato via dalla Parola che ci riscalda e illumina. Allora tutto acquista senso, tutto acquista una nuova dimensione. La nostra vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un valore completamente diverso. È come se Gesù ci dicesse: “Non cercatemi nei fatti straordinari. Non inseguite continuamente ciò che sembra magico e miracoloso, perché non mi trovereste. Cercatemi piuttosto lungo i percorsi quotidiani, nei gesti elementari, nelle piccole cose. Fermiamoci insieme sulle Scritture, figli miei; fidatevi della mia Parola, non di quelle degli uomini... a volte forse non succederà niente, ma a volte sentirete un turbamento profondo, un ardore improvviso che infiammerà il vostro cuore. Ebbene, quel turbamento sono io a crearlo, perché sono io che parlo nel vostro cuore”.
È così che Gesù ci educa; è così che ci insegna a non rivolgere la nostra fede allo stupore dei miracoli, ma al fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto che trasmette un messaggio d’amore. Egli allude proprio a questo quando, alla nostra richiesta di restare con noi, ci mette in condizione di superare ogni tristezza, ogni solitudine, il vuoto, la delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, resta con loro. Si ferma e resta con noi: Egli non ci abbandona, si ferma eccome! Perché è Lui che vuole “fermarsi”, è Lui che vuole “restare con noi”: è sufficiente che noi glielo chiediamo!
E Gesù entra con loro: al nostro invito, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. 
E Gesù entra con loro: al nostro invito, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. “Mane nobiscum Domine, quoniam advesperascit, et inclinata est iam dies Rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!”. No, Signore, non così, non andartene! Non lasciarci mai soli, Signore, soprattutto ora, quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
Ed è qui, all’interno, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! Ma egli sparì dalla loro vista.
Ed è qui, all’interno, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! Ma egli sparì dalla loro vista.
Ma il Signore non se ne va: non lo vediamo, ma Lui è sempre qui, non può abbandonarci, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo(Mt 28,20). Cristo risorto, vivo, continua pazientemente a camminare a fianco di ogni uomo, gli parla con la sua Parola, si dona a lui nell’Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più “tramonti”, perché illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l’unica luce che non scomparirà mai. Amen.


venerdì 17 aprile 2020

19 Aprile 2020 – II Domenica di Pasqua


“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi!” (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi ci parla di due apparizioni di Gesù, avvenute con modalità identiche ma in tempi diversi e soprattutto con finalità diverse: la prima era destinata a consolare e a rinfrancare i discepoli di allora, la seconda a sollevare e incoraggiare tutti noi, suoi discepoli di oggi: i primi, radunati insieme nel giorno del Signore, hanno avuto la fortuna di incontrarlo visivamente, tangibilmente, ricavandone quella gioia profonda, quell’entusiasmo che li hanno spinti poi a seguire coraggiosamente il suo invito di annunciare nel mondo la sua Parola e di dare vita alla sua Chiesa; noi, radunati nell’Eucaristia domenicale - pur non vedendolo materialmente, ma incontrandolo e ammirandolo con gli occhi della fede - possiamo sperimentare la stessa gioia, lo stesso coraggio, la stessa forza per continuare nella Chiesa la stessa opera evangelizzatrice: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno”.
In altre parole il racconto del vangelo ci offre l’immagine perfetta di quello che ci succede ogni domenica, quando ci riuniamo in chiesa per celebrare l’Eucaristia: riviviamo cioè, come i discepoli di allora, la stessa “esperienza” del Risorto; egli è presente in mezzo a noi: non lo “vediamo” materialmente, è vero, ma lo possiamo toccare, lo “sentiamo”, lo possiamo assumere in noi, percepiamo nitidamente e concretamente il calore consolatore del suo amore, sentiamo in noi quella stessa forza rinnovatrice di cui anche noi abbiamo tanto bisogno. Se non fossimo tanto distratti, sentiremmo distintamente la sua voce salutarci, dentro di noi, con “Pace a voi!”, il saluto rivolto ai discepoli radunati nel cenacolo; lo stesso identico saluto che tutti i presbiteri, di ogni tempo e di ogni luogo, rivolgono ai fedeli riuniti in chiesa nella celebrazione Eucaristica.
È dunque con la Santa Eucaristia che possiamo rinnovare ogni settimana il nostro appuntamento con Gesù, e rivivere intensamente quei momenti che sono per noi insieme forza e perdono.
Sono prima di tutto “forza”: quando, soffocati dalle nostre paure, dai nostri segreti, dalle nostre “chiusure”, dai nostri contorti “distinguo”, incontriamo il Risorto, la Vita, la Luce, l’Energia, l’Amore, percepiamo che i battiti irresistibili del Suo cuore ci catturano e sciolgono la nostra aridità, cancellano, annientano le nostre insicurezze, le nostre ansie, le nostre paure, le nostre infedeltà: e in quel preciso istante sentiamo il nostro cuore ricaricarsi di generosità, di entusiasmo, ritrovando la voglia di vivere, di ripartire, di cambiare vita; la voglia insomma di essere migliori. È solo nell'Eucarestia, insieme a Lui, che possiamo quindi ritrovare il coraggio e l'energia che avevamo perduto, e affrontare serenamente tutto quello che ci sembrava impossibile.
Quei momenti sono anche “perdono”: sappiamo dai Vangeli che Gesù, nella sua vita terrena, ha sempre perdonato tutti; ha avuto per tutti parole di consolazione e di incoraggiamento: peccatori, prostitute, gentaglia di ogni genere, gente di malaffare.
Ebbene: quando ci presentiamo alla sua Cena, sentiamo di rappresentare un po’ tutti questi personaggi, sia all’esterno, nei nostri comportamenti, che all’interno, nei nostri pensieri. Per questo ci presentiamo a Lui confidando nella sua misericordia, nel suo perdono.
Prima però di “ricevere”, dobbiamo imparare a “dare”, a perdonare, cioè, sia i nostri fratelli che noi stessi: noi spesso non riusciamo a perdonare gli altri, proprio perché non sappiamo perdonare noi stessi; siamo irrigiditi, paralizzati, bloccati dal male che abbiamo commesso: invece di tirarlo fuori, di guardarlo bene in faccia, di esternarlo chiedendo perdono, preferiamo tenerlo chiuso, sepolto nella nostra anima, lo ignoriamo, fingiamo che non esista, ma esso c’è, e corrode il nostro cuore, la nostra anima, ci incattivisce, e nei momenti più impensati, egli riemerge in tutta la sua forza. Solo quando sapremo perdonarci, solo quando riusciremo a liberarci della nostra zavorra, solo quando sapremo distaccarci da esso, il nostro dolore, la nostra vergogna, il nostro pentimento ci faranno ritrovare quell’Amore vero che potremo rivolgere ai nostri fratelli.
È necessario quindi che in ogni santa Messa, la nostra anima raggiunga questa conversione interiore: perché, anche se è difficile ammetterlo, siamo noi i peccatori, i “pubblicani”, la prostituta, i farisei del Vangelo: e come loro, ci prostriamo davanti a Gesù per chiedere e ricevere il suo perdono, e potergli esprimere di cuore, come Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. È la nostra intima e sincera esclamazione d’amore, avendo sperimentato, anche noi come lui, la meravigliosa e rassicurante esperienza del Cenacolo.
A questo punto non serve più ascoltare le esperienze degli altri, perché l’incontro con Dio è un evento diretto, personale, esclusivo: tutti lo devono personalmente “toccare”, tutti lo devono incontrare e ammirare con i propri occhi; non ci si può accontentare dei racconti, delle idee, delle intuizioni altrui, impossibile provare quelli che sono i “loro” momenti esclusivi: saremmo come coloro che dicono di sapere tutto sul vino, senza averne mai sperimentato un buon bicchiere, senza aver provato quanto esso sia inebriante ed eccitante; unicamente l'esperienza diretta delle cose può produrre la vera conoscenza, soprattutto quella intima, del cuore.
Non c’è bisogno quindi che le nostre liturgie eucaristiche ci “parlino” di Dio, non devono abbondare in parole e spiegazioni, spesso eccessive e inopportune; esse devono al contrario farci “sentire” Dio che ci parla, devono farcelo sperimentare personalmente; devono trasmettere passione, il sentirsi “toccati” da Dio, dalla sua presenza: i canti, i riti, la partecipazione dell’assemblea, le acclamazioni, i gesti, diventano “efficaci” solo se ci mettono in intimo contatto con Dio; perché se non ce lo fanno “sentire”, se non ce lo fanno “toccare”, se non lo fanno “risorgere” nel nostro cuore e nella nostra vita, non servono assolutamente a nulla, sono inutili: possono essere al massimo piacevoli evasioni dalla quotidianità, momenti di aggregazione fraterna, ma non realizzano il nostro incontro personale con il Dio della Vita, non ci procurano quelle emozioni intime con cui Lui fa vibrare la nostra anima, la nostra sete di Infinito. Noi abbiamo bisogno di queste emozioni, perché sono esse che ci costringono a fare i conti con la nostra realtà, a verificare le nostre risorse, le nostre potenzialità, a toccare con mano tutte le “ferite”, le miserie, le debolezze che ci affliggono, e chiedere umilmente alla sua misericordia di aiutarci a guarire e a risorgere. Se ciò non avviene, purtroppo le nostre belle cerimonie, le nostre belle celebrazioni eucaristiche non raggiungono il loro scopo!
La Messa è incontro, è colloquio, è guarigione. Chi non ha ferite nella vita? Chi non ha bisogno allora di incontrare Gesù nell’Eucaristia? Chi, sapendo di essere gravemente ferito, non fa di tutto per andare dall’unico medico che può guarirlo? La Comunione della domenica, fatta in grazia di Dio, è esattamente quel balsamo, quella crema, quell’unguento, in grado di guarire le nostre ferite. Andare a Messa allora non è più un “dovere”, un’abitudine da mantenere; ma è il “bisogno” profondo, la necessità improrogabile di incontrare Gesù, di ricongiungerci con Lui, di trarre da Lui Vita e Amore. Provando ogni volta gioia e serenità! Amen.


venerdì 10 aprile 2020

12 Aprile 2020 – Domenica di Pasqua


“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”
(Gv 20,1-9). 

Maria di Magdala, che aveva amato così tanto Gesù da non poter accettare l’idea della sua morte, la domenica di prima mattina, quando era ancora buio, si reca al sepolcro.
È completamente frastornata: nella sua mente rivive ancora le immagini strazianti degli ultimi istanti di vita del suo Gesù. Arrivata al sepolcro, ancora assorta nei suoi pensieri, nota da lontano che la pesante pietra posta a chiusura del sepolcro non c’è più: qualcuno l’ha rimossa.
Rimane sconcertata: non pensa, non controlla, non ragiona; la sua reazione è immediata: deve avvisare subito i discepoli: il suo cuore batte all’impazzata, ma corre, corre veloce, trafelata e piangente, da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quel Giovanni che Gesù prediligeva.
Singhiozza, urla che qualcuno ha rubato il corpo di Gesù, ma tra i singulti del pianto, non si fa capire molto. Di fronte a tanta disperazione, i discepoli si rendono conto che qualcosa di grave deve essere successo, e corrono; corrono anch’essi affannosamente, seguiti da Maria, nel silenzio di una città ancora immersa nel sonno.
Il sole inizia pigramente a fare capolino sull’orizzonte, rischiarando appena le pietre color ocra dei fabbricati. I mercanti più mattinieri stanno iniziando pigramente ad esporre le loro merci sui banchi: è il giorno successivo al riposo del sabato. I tre non se ne curano e continuano a correre: lasciano al loro fianco la cava di pietra in disuso, quel Golgota che i romani avevano destinato come luogo per le esecuzioni capitali e le crocifissioni; i pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano ancora sinistramente in alto, aspettando nuovi condannati.
Nulla li distrae, corrono sempre, senza sosta; ormai il fiato manca; la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, in debito di ossigeno, rallenta un po’, mentre gli altri scendono velocemente verso il sepolcro. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba ceduta da Giuseppe di Arimatea, è realmente aperta: la pesante pietra che ne bloccava l’ingresso è rovesciata, rotolata di lato.
Giovanni, giunto per primo, si ferma e aspetta; le tempie gli pulsano, ansima rumorosamente, mentre si china per guardare all’interno; arriva anche Pietro e, in segno di rispetto, gli cede il passo: abbassando la testa, entrano entrambi. Nulla. Non c’è nulla. Gesù è veramente scomparso. Il lenzuolo, afflosciato, e il “sudario”, il telo che fasciava la testa, giacciono entrambi abbandonati, esattamente al loro posto, come se il corpo di Gesù si fosse dissolto. Nient’altro. Gesù è scomparso e nessuno sa che fine abbia fatto! Ma loro, i discepoli, lo sanno bene: è risorto come aveva annunciato.
Ecco: Questa è la Pasqua cristiana: Cristo è veramente risorto. La lunga corsa di Pietro e Giovanni e il sepolcro inesorabilmente vuoto, sono le icone della giornata di oggi.
Quella tomba che Maria di Magdala e i due discepoli quel mattino trovarono vuota, è ancora lì, a Gerusalemme, muta testimone della risurrezione di Cristo. La corsa dei discepoli è la nostra corsa, verso colui che ci aspetta sempre a braccia aperte.
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”: è la domanda che Gesù rivolge ai suoi che lo piangono: parole che ci toccano, che devono farci riflettere profondamente, perché anche noi, troppo spesso, ci ostiniamo a cercarlo tra i morti.
Se veramente vogliamo trovarlo, dobbiamo cercarlo dove Lui è vivo, dove lui è presente! Sicuramente non tra i creatori di morte, tra coloro che con i loro pregiudizi uccidono ogni speranza, tra coloro che inquinano la vita e le relazioni umane, tra gli indifferenti, gli egoisti, i pessimisti; certamente non lo troveremo tra coloro che vivono con l’unica preoccupazione di arricchirsi, che si nutrono solamente di crudo individualismo e non di carità e amore fraterni; non lo troveremo tra chi non vuole perdonare, tra chi cerca la vendetta e la ritorsione; non lo troveremo tra coloro che non nutrono alcuna speranza e non credono in una vita futura di pace per tutti i giusti.
Non riusciremo mai a trovarlo tra queste situazioni di morte, perché Egli è vivo, è libertà, è immortalità, è amore! È nel pane spezzato insieme, è nella Parola amica che dona coraggio a chi si sente rifiutato: è in un semplice gesto di carità, in un cenno sincero di perdono, nella richiesta di amore di un emarginato, nella mano di un bambino innocente che cerca la nostra guida; è nei nostri fratelli, nelle nostre sorelle che promuovono silenziosamente, giorno dopo giorno, la sua Parola e il Suo Regno di Pace.  
Lui, il Dio nudo, appeso, osteso, il Dio umanamente sconfitto, straziato, crocifisso, è morto: deposto sulla fredda pietra di una tomba, non c’è più, è risorto: perché Lui è il vincitore assoluto della morte, della Sua morte, della nostra morte, di qualunque morte! Perché Lui è Vita immortale.
È “risorto”, non rianimato, non ripresosi, non vivo nel nostro ricordo. Gesù è veramente vivo, è presente per sempre in carne ed ossa.
Non è facile credere a questa notizia, lo so bene: avremo modo, nei prossimi cinquanta giorni, di verificare la fatica che gli stessi apostoli hanno fatto per convertire il loro cuore a questa sconcertante verità.
Nell’attesa di poterlo anche noi un giorno incontrare, dopo questo nostro difficile cammino, apriamoci oggi alla gioia della risurrezione. Facciamolo con i nostri fratelli, con i nostri cari, gioiamo con loro, soprattutto “crediamo” con loro: perché è la fede che, superata qualunque difficoltà, ci aiuterà a gioire fin d’ora, nella prospettiva di quella gioia autentica, unica, immortale; una gioia che va conquistata attraverso la croce, attraverso la risurrezione; una gioia che va costruita da vivi, tra i vivi, con i vivi. Perché è qui, tra i vivi, che Cristo ci sta aspettando.
Smettiamo allora di cercarlo tra i morti: non isoliamoci nella tomba del nostro egoismo, non trasmettiamo tristezza ai fratelli che condividono le nostre liturgie, le nostre preghiere, le nostre devozioni, trascinandole e consumandole per abitudine, senza amore, spesso con la morte nel cuore! Coraggio, diamo nuovo entusiasmo, nuova vita alla nostra fede, torniamo ad essere discepoli di un Dio vivo, di un Dio che ha fatto esplodere d’amore il suo sepolcro! 
Non siamo più schiavi della morte, non siamo più dei prigionieri senza scampo: Gesù è risorto! Gesù è vivo: gioiamo! Facciamo che la nostra vita diventi offerta di serenità per chi soffre.
Il Signore è risorto per tutti: per coloro che vivono la Pasqua in solitudine nel triste ricordo di una persona cara che è mancata; per quanti si consumano per un figlio che lotta tra la vita e la morte; per quanti sono confinati dalle loro malattie invalidanti su un letto o su una carrozzella; per quanti non hanno più una famiglia, o non l’hanno mai avuta. È risorto anche per chi in tutta la sua vita non l’ha mai cercato: possa oggi, magari per caso, trovarsi davanti a Lui, e pur non sapendo che Egli è risorto, lo senta vivo e palpitante d’amore accanto a sé.
Cristo è risorto perché tutti potessimo risorgere con Lui. Lui, lAgnello senza colpa, ha redento le sue pecore, ha riscattato i peccatori riunendoli al Padre.
Se siamo convinti di questo, capiremo allora che la Pasqua al di là delle uova di cioccolato e delle campane a festa è la vittoria dell’amore, è la pienezza della vita immortale, è il terribile duello con la morte che il Figlio di Dio, vittima sacrificale per la redenzione delle sue creature, ha definitivamente superato e vinto.
Tutto dunque è compiuto! Tocca ora a noi credere veramente, tocca a noi vivere da risorti, testimoniando il Risorto lungo le strade della vita, della nostra “Galilea”.
Noi, discepoli affannati per il correre, discepoli sempre in ritardo rispetto alla forza dirompente di Dio, dobbiamo accettare la sfida della fede; dobbiamo smetterla di cercare Cristo tra i morti, dobbiamo smettere di piangerci addosso e di lamentare un Dio assente: Gesù è risorto, è qui, al nostro fianco! Gioiamo, viviamo, cantiamo, preghiamo: soprattutto dimostriamo a tutto il mondo che Cristo è la nostra Pasqua! Amen.

IL MIO AUGURIO
·         Buona Pasqua a tutti gli amici, che hanno la pazienza e la costanza di leggere i miei post, in qualsiasi parte del mondo si trovino. 
·         Buona Pasqua a tutti quelli che cercano di incontrare Dio, toccati dalle sue Parole che trasformano l’anima. 
·         Buona Pasqua a chi si ostina ad amare comunque gli altri, anche se non ottiene nulla in cambio. 
·         Buona Pasqua a chi sente di avere sbagliato tutto nella vita: ricominciare non è mai troppo tardi.
·         Buona Pasqua a quanti riescono a conservare la fede in questa nostra orribile società moderna che divora e omologa tutto e tutti.
·         Buona Pasqua ai tanti consacrati e consacrate che hanno scelto di servire Dio: non siate calcolatori, non risparmiatevi, non accontentatevi di fare solo il dovuto: tuffatevi nell’amore infinito e gratuito del Risorto, attingetene a piene mani e riversatelo sui cuori aridi di chi non capisce o non vuol capire…
·         Buona Pasqua a chi lotta contro qualche malattia incurabile, sapendo che, forse, questa è l’ultima che gli è consentito di vivere.
·         Buona Pasqua e chi è in lutto, a chi gli è mancata in quest’anno una persona speciale, senza la quale nulla sembra avere più alcun senso.
·         Buona Pasqua a tutti voi, che, come me, siete cristiani fragili e un po’ distratti: coraggio, Gesù è davvero risorto. Ascoltiamolo! Seguiamolo! Amiamolo!

È questo il mio augurio per tutti voi.
Mario


giovedì 2 aprile 2020

5 Aprile 2020 – Domenica delle Palme


“In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?” (Mt 26,14-27,66).

Oggi la Liturgia ci propone il racconto della “Passione” di Gesù: un racconto che ci introduce nelle celebrazioni della Settimana Santa.
Gesù è morto per noi. Una domanda però emerge spontanea dal nostro cuore: l’umanità è ancora interessata a questo evento di salvezza? Noi stessi che ci professiamo cristiani praticanti, ci rendiamo conto della sua importanza? Diciamo di credere che Cristo è morto per redimerci dai peccati e portare l’amore nel mondo, ma noi, piuttosto che rimuovere la trave dai nostri occhi evitando di commetterne altri, ci preoccupiamo di sottolineare la pagliuzza negli occhi altrui, criticando le loro debolezze. Il mondo in cui viviamo dimostra purtroppo di essere completamente insensibile a questo dono incalcolabile di Dio, non gli interessa, dimostra di non averne alcun bisogno.
Cerchiamo allora almeno noi, in questi giorni, di meditare su queste verità: lasciamoci interrogare, scuotiamoci dal nostro torpore! Cerchiamo di penetrare dentro il racconto del Vangelo, ravviviamo la nostra fede, liberiamola dalla opaca e spessa patina del tempo, dell’indifferenza, dell’esteriorità, e fissiamo il nostro sguardo negli occhi del Nazareno, innalzato lassù su quel patibolo straziante!
Fermiamoci davanti a questa realtà inaudita, inimmaginabile: giorno dopo giorno, ripercorriamo spiritualmente le ultime ore della Sua vita terrena, celebriamone i sentimenti, rimaniamo in ascolto, meditiamo, stupiamoci: il Figlio di Dio si è immolato sull’altare dell’amore proprio per ciascuno di noi; ci ha dimostrato, con il suo sacrificio finale, che “amare” vuol dire “morire”! Una lezione che è la più bella e profonda che l’umanità abbia mai ricevuto: una lezione che, interiorizzata e valorizzata, ci porta a pentirci, a rabbrividire per la nostra ingratitudine!
Oggi dunque Gesù fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme. La gente applaude, agita in alto i rami strappati dalle palme e dagli ulivi, stende i propri mantelli al passaggio del Rabbì di Galilea. Breve gloria prima dell’ignominia, fragile osanna prima del delirio. Ma Gesù sa, sente, conosce ciò che sta per accadere.
Troppo instabile il giudizio dell’uomo, troppo vaga la sua fede, troppo ondivaga la sua volontà.
Ma che importa? Gesù sorride, ora, e ascolta la lode che la folla rivolge a lui e che egli dedica al Padre. Messia impotente e mite, energico e tenero, affaticato e deciso.
Non entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro bianco, non ha soldati al suo fianco che lo proteggono, nessuna autorità lo riceve: entra in città cavalcando un ridicolo asinello, ricordando a noi, malati di protagonismo, che il potere è tale solo se esercitato nel “servire”, che la gloria degli uomini è solo inutile, breve, effimera.
Osanna, figlio di Davide, Osanna nostro incredibile Dio, nostro magnifico re.
Osanna dai tuoi figli poveri e illusi, feriti e mendicanti, Osanna re dei poveri, protettore dei falliti, Osanna!
Matteo descrive meticolosamente quei momenti, racconta le ultime ore della missione divina, racconta lo scontro titanico tra il Dio rifiutato e le tenebre incombenti sull’umanità che suggeriscono a Gesù di abbandonare l’uomo al suo destino (“Padre mio, se è possibile passi da me questo calice”).
Ma poi, tutto diventa miracolo. La morte di Dio si tinge di inattesa dolcezza.
Chiudiamo gli occhi, smettiamo di leggere e meditiamo.
Sono molti i personaggi che affollano questo racconto e si muovono intorno a Gesù arrestato, processato e condannato...
Ci siamo anche noi: ci riconosciamo un po’ in tutti i personaggi del racconto: e non ne veniamo di certo fuori bene. La cruda verità che ne emerge, ci coinvolge profondamente, e ci costringe a sentire nell’anima il sapore acre e salato del pianto e del rimorso.
Ci sentiamo coinvolti prima di tutto come “credenti”. È vero, siamo dei credenti non credenti, dei credenti “tiepidi”, del “quando mi fa comodo”, del “quando mi serve”: ma non possiamo assolutamente considerare questa storia come una favola qualunque, una favoletta del “c’era una volta”, e del “vissero tutti felici e contenti”. Non è possibile. La passione di Cristo è una realtà drammatica che ci investe completamente: nel cuore, nella mente, nella vita; oggi, domani, sempre, sia che lo vogliamo, o che non lo vogliamo; indipendentemente dall’esserci qualche Sua immagine a ricordarcelo: perché il Cristo in croce è da sempre e per sempre marchiato a sangue nel nostro cuore!
Siamo anche noi gli “apostoli”: quelli che Gesù chiama a preparare e vivere la sua ultima cena, per poi continuare a celebrarla anche quando lui non ci sarà più. Soltanto che ci dimentichiamo che è la cena dell’amore e della condivisione fraterna, e ci perdiamo nei personalismi, nel voler dimostrare il nostro “valore”, i nostri meriti, nella perversa ricerca di essere sempre i primi, i più grandi, i più bravi, quando invece Gesù ci ricorda che il vero potere sta nel servire, che la vera grandezza è di farci piccoli tra i piccoli, poveri tra i poveri.
Siamo anche noi “Simon Pietro”. Abbiamo come lui tanta voglia di credere e di rimanere fedele alle promesse fatte a Gesù: ma basta il cenno di una serva qualsiasi per farci soggiogare dalla paura. Basta un nulla, e ci dimentichiamo immediatamente che Gesù ha bisogno di noi. Ma incrociando il suo sguardo, sentiamo gli occhi riempirsi di lacrime amare, e il nostro viso, indurito dall’indifferenza, ammorbidirsi nell’emozione profonda del pianto e del suo perdono.
Siamo anche noi “Giuda Iscariota”: quante volte pure noi tradiamo Gesù con un bacio! Tradiamo la sua fiducia, tradiamo il suo amore di Padre; anche quando gli siamo più vicini con il corpo, nell’Eucaristia, il nostro cuore continua ad essergli lontano. Signore, c’è ancora possibilità di perdono per noi?
Siamo tutti dei “Ponzio Pilato”. Anche se cerchiamo di liberare Gesù perché qualcosa ci dice che è innocente, ci lasciamo condizionare dal mondo. Siamo tante banderuole che si animano con il vento del momento. Non ascoltiamo la nostra coscienza (che è il luogo vero dell’incontro con Dio) ma ascoltiamo soltanto ciò che proviene dall’esterno, dalla gente, dal potere, dai pregiudizi.
Siamo uno dei tanti della folla che grida “Crocifiggilo, crocifiggilo”. Gli stessi che qualche giorno prima lo seguivano per osannarlo, per chiedergli una guarigione o un miracolo. Quanto siamo veloci nel cambiare idea! Quanto facilmente ci lasciamo influenzare da chiunque, dalla mentalità comune, dai politicanti, dai tanti “si dice”. Nonostante ciò, Gesù sulla croce, invece di maledirci, dirà: “Padre, perdonali, perché non sanno quel che fanno!”
Siamo tanti “Cireneo”: presi per caso e senza preavviso, capita anche a noi di aiutare Gesù a portare la sua croce che, per un piccolo tratto, diventa anche nostra. Questo ci deve servire per imparare ad essere sempre disponibili, ogni volta che qualche derelitto ha bisogno di un sostegno, anche momentaneo. È vero, non risolveremo i suoi problemi, ma almeno gli faremo sentire una vicinanza amica.
Siamo anche il “buon ladrone”, crocifisso accanto a Gesù. Sentiamo che Lui in quel patibolo ha sofferto per noi, e che anche noi dobbiamo condividere, almeno spiritualmente, questa sofferenza con Lui. In modo che quando verrà il giorno in cui il dolore e la caducità della carne piegherà ogni nostra illusione di immortalità, Gesù faccia sentire anche a noi quella stessa promessa, ci faccia sentire nel cuore e nella mente la Sua vicinanza e la Sua pace. Il dolore, anche quando è grande, non ci salva automaticamente: ma in quei momenti, tra le tue braccia del Padre, sentiremo il paradiso più vicino.
Noi tutti abbiamo dunque di che meditare nell’ascolto della Passione di Cristo: perché ci tocca molto da vicino, facendoci sentire in qualche modo dei protagonisti.
A questo punto, non ci rimane che prepararci a vivere degnamente questa Pasqua: evitiamo di considerarla soltanto come una gradita occasione di evasione e di divertimento; accettiamo invece con entusiasmo l’invito di Gesù di accompagnarlo e di vivere con lui questi giorni cruciali e conclusivi della sua missione terrena, che lo vedranno sì morire, ma subito dopo gloriosamente risorgere.
Dobbiamo capire che dopo ogni passione, dopo ogni prova della vita, dopo ogni sconfitta, ci aspetta sempre la risurrezione. Ogni nuova caduta, ogni crocifissione, deve essere sempre l’occasione di rinascita, l’offerta di nuovo vigore, per poter dare nuovo senso, nuova dimensione, un nuovo percorso, alla nostra vita.
Dobbiamo farci carico delle nostre difficoltà, delle nostre sconfitte, delle nostre debolezze: perché esse sono la nostra croce. Una croce che dobbiamo caricarci sulle spalle senza recriminazioni, senza ribellarci; dobbiamo invece abbracciarla, superare la sua drammaticità, e trasformarla in occasione di salvezza, di felicità, di rinnovo, di purificazione, per una nuova dimensione di vita, in Cristo, con Cristo, per Cristo.
Perché solo così capiremo cosa significa essere accolti e amati da Lui.
Approfittiamo di questi giorni per meditare con maggior intensità queste realtà: non rendiamo inutile il nostro vivere, smettiamo di essere famelici di piaceri e di evasioni, gente senza valori, senza riferimenti, senza principi morali. Non sradichiamo la nostra fede per seminare, nel nostro cuore, sogni privi di speranza. Guardiamo con fiducia a Lui e capiremo che è Lui l’unica strada da percorrere, poiché è l’unica in grado di cambiare il mondo.
Se meditiamo con fede la sua passione, non potremo che restare allibiti, costernati, assistendo allo spettacolo di un Dio talmente innamorato, da accettare la morte per donarsi totalmente a noi. La settimana che si apre davanti a noi è “santa”, proprio perché tutti dobbiamo uscirne un po’ più santi, per vivere nella gioia e nell’amore del Cristo risorto. Amen.


giovedì 26 marzo 2020

29 Marzo 2020 – V Domenica di Quaresima


“Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11,1-45).

Oggi, ultima tappa del nostro percorso di conversione quaresimale (tra 15 giorni saremo insieme al Cristo risorto, vincitore della morte), il vangelo ci parla di morte, di vita, di amicizia, di commozione, di tristezza, di dolore, di “silenzio di Dio” di fronte alle nostre tragedie.
Giovanni descrive, come al solito con grande ricchezza di particolari, quanto è successo in Betania, a Marta, Maria, Lazzaro, amici di Gesù. Un testo chiaro, comprensibile, che offre via via anche la spiegazione di quello che Gesù fa e dice.
Accennavo alla “conversione”. Non possiamo parlare di autentica conversione se non andiamo alla radice, se non rivediamo il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni, il nostro modo di porci di fronte alle realtà ultime dell’umana esistenza.
C’è un’altra morte, decisamente meno esteriore, meno visivamente percepibile, meno concretamente rilevabile, rispetto a quella corporale, ma altrettanto, e forse più, traumatica: una morte che paralizza l’anima, che la debilita, che vanifica in noi ogni slancio di vita; una grande ubriacatura di mondo, di “attuale”, di falsa libertà, di egoismo, di divertimento, che ci allontana sempre più da Dio; una disaffezione nei suoi confronti, che ci porta a disertare le chiese, a perdere ogni desiderio di “stare” con Lui, a preferirgli il piacere compulsivo dei sensi, del possedere sempre più ricchezze, onori, fama, dell’ottenere ogni cosa “ora e subito”.
Quando poi rientriamo in noi stessi, più che pentirci dei nostri tradimenti, ci sentiamo offesi, dimenticati da Dio; e con lo stesso tono del rimprovero di Marta gli gridiamo: “se tu fossi stato qui con me, la mia anima non sarebbe morta!”: un’espressione di rabbia per un Dio ritenuto assente, per un Cristo che non ci ha soccorso in tempo debito.
Quanta prosopopea, quanta ignoranza mettiamo nelle nostre insulse recriminazioni! A quale cecità ci spinge la nostra ingratitudine! Abbiamo calpestato il suo Vangelo, abbiamo ignorato il suo amore, non abbiamo ascoltato la sua Parola, con cui continuava a ripeterci: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà in eterno”. Nel nostro delirio di onnipotenza, di perdizione, di superficialità, accusiamo Dio di averci abbandonato; gli lanciamo quasi una sfida assurda, condizionando il nostro ritorno a Lui, la nostra “conversione” ad un suo incondizionato e “tangibile” intervento: vogliamo, come davanti al sepolcro di Lazzaro, vederlo piangere per noi, vogliamo sentirlo dire: “togliete quella pietra che lo rinchiude”, vogliamo sentirlo gridare: “vieni fuori dal tuo sepolcro!”. 
È vero: Gesù davanti alla morte di Lazzaro si commuove, piange, si unisce al dolore e al lutto delle sorelle. Egli non può accettare tanto dolore e disperazione per la scomparsa dell’amico e compie il miracolo della risurrezione. Poteva dire a Marta ed a Maria: “Non piangete. Ritroverete vostro fratello nella vita eterna”. Invece no. Lui che aveva il potere di farlo, lo risuscita.
Certo, con lui al nostro fianco che agisce per noi, sarebbe tutto troppo facile. Ma anche in questo caso sarebbe “più facile” solo nella misura in cui noi rispondiamo alla sua domanda iniziale: “Credi questo?”. Quindi nessun diritto, come vorremmo, nessuna pretesa, nessun merito vantato; ma solo fede, tanta fede. Tutto il resto è stupida ebbrezza di personalismo.
La risurrezione di Lazzaro è un segnale forte per la nostra fede e per la nostra speranza. È un segnale programmatico. Anche noi risorgeremo, sicuramente. La vita che viviamo è un rapido passaggio, la nostra stessa morte non è definitiva, essendo tutti destinati ad una vita intramontabile, ad una vita eterna. Nella Pasqua ormai imminente celebriamo Gesù che risorge dalla morte e ci apre il passaggio a questa visione di eternità. Anche noi risorgeremo e saremo immortali, in seno al Padre, nel tripudio dell’amore.
Ecco perché non dobbiamo guardare alla morte, in tutta la sua tragicità, come all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere lapidata: e l’ha salvata. La morte fisica è pertanto soltanto il simbolo di numerose altre morti altrettanto dolorose che incombono anche oggi sull’uomo.
Il vangelo di oggi oltre che riproporci una situazione di morte, ci spalanca una visione di vita: è un inno alla vita, perché la vita è più forte di tutto, anche della morte, perché la vita vuol vivere, vuole esprimersi, vuole espandersi, non si rassegna mai, non si dà mai per vinta. Quando tutto sembra finito, la vita ci crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di rinascere e di sbocciare nei modi più incredibili e inaspettati.
Ecco perché a tutti i “Lazzari”, a tutte le vittime dell’ignoranza, della violenza, dell’odio, del peccato, dell’egoismo, Gesù dice: “Uscite fuori”. Cioè: “Non siate passivi, indifferenti, non permettete a nessuno di farvi morire dentro, di costringervi a vivere in un sepolcro, in cui la vostra anima e la vostra vita finiscono per marcire. Non vi accartocciate in voi stessi, nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti umani. Liberatevene, Venite fuori. Abbiate il coraggio e la forza di sottrarvi al vostro lento morire quotidiano, alla vostra rinuncia graduale ma inarrestabile che porta alla morte. Venite fuori... seguite me, perché io sono la Vita!”.
Di fronte a tanto amore, a tanta sollecitudine, dobbiamo avere il coraggio di non nasconderci dietro ad una “pietra”: se abbiamo sbagliato, riconosciamolo francamente, cambiamo rotta, modifichiamo i nostri atteggiamenti; se c’è qualcosa da portare a galla, facciamolo, con fiducia, senza paura, senza sentirci delle schifezze o essere distrutti dalla vergogna. Amare non è non sbagliare mai, essere sempre al massimo, sempre irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; amare è accorgersi, riconoscere che certe nostre soluzioni, che certe nostre scelte non portano vita, ma solo morte. E “venirne fuori”. Amen.


giovedì 19 marzo 2020

22 Marzo 2020 – IV Domenica di Quaresima


Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,1-41).

Un vangelo magistrale, quello di oggi: un vangelo di Giovanni che, con la figura di Gesù, pone in primo piano molti personaggi: i discepoli, i farisei, i genitori del cieco, gli amici che lo conoscevano; un vangelo di luce e di tenebre, di chi vede e di chi non vede perché non vuol vedere; un vangelo in cui Giovanni si diverte a dipingere con grande ricchezza di particolari, tra cui l’ottusità dei farisei e soprattutto la loro disonestà mentale.
Tutto ruota intorno alla simpatica figura del mendicante, cieco dalla nascita: un tipo tosto, che con la sua logica disarmante tiene testa ai capi del popolo, ai farisei, i sapientoni interpreti ufficiali della legge di Mosè. Tutti i protagonisti sono molto attenti, si interessano di ogni cosa, di ogni particolare, tutti vogliono dire la loro sull’accaduto; ma nessuno, tranne Gesù, si preoccupa dell’uomo, delle sue difficoltà, della sua vita, dei suoi problemi, delle sue esigenze: a nessuno insomma interessa la persona del cieco: tutti lo guardavano da sempre, ma nessuno lo ha mai “visto”, nessuno si è mai “accorto” di lui; sono tutti preoccupati di loro stessi, di difendere le loro convinzioni, i loro pregiudizi.
Prendiamo per primi i discepoli: “Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori”. Ecco, questo è il problema dei discepoli: stabilire chi è il colpevole della cecità dell’uomo, individuare l’errore, chi ha sbagliato. Vogliono un colpevole, una causa prima, un responsabile: e in ogni caso non vogliono essere coinvolti personalmente nelle sue vicissitudini: “È colpa sua, noi non c’entriamo, non ci riguarda, non dobbiamo fare niente per lui”.
È una mentalità molto diffusa; anche oggi, è sufficiente vedere come ci poniamo di fronte ai fatti di cronaca quotidiana, come corruzioni, truffe, sporcizia, delinquenza; genitori che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, criminalità minorile in aumento esponenziale; l’unica nostra preoccupazione è quella di scaricare la colpa su qualcuno, di trovare un colpevole a ogni costo. Trovatolo, ci buttiamo tutto alle spalle, ci sentiamo più tranquilli, con la coscienza a posto. Individuare invece i motivi, le ragioni scatenanti di questi mali della società, cercare di porvi rimedio con i mezzi a nostra disposizione, non ci riguarda, sono cose che non ci competono. Ma, è giusto comportarci così?
Passiamo poi agli amici, ai conoscenti del cieco che, di fronte alla sua guarigione, alcuni dicono: “Sì, è lui, è proprio quello che era cieco”; altri: “no, non può essere lui, semplicemente gli assomiglia”. Rappresentano un po' quelle persone per le quali nessuno può cambiare: magari dicono di amarci, ma in realtà non accettano la possibilità che noi miglioriamo, che diventiamo “altri”, soprattutto se il nostro cambiamento altera in qualche modo il rapporto esistente con loro. “Era cieco ed ora ci vede? Non può essere!” Per loro nessun cambiamento è possibile: ci hanno etichettato in un certo modo; sono loro che hanno stabilito chi siamo o non siamo, cosa possiamo fare o non fare, cosa possiamo dire, cosa tacere.
Prendiamo poi i genitori: chiamati a testimoniare, hanno paura, cercano di non compromettersi, di non sbilanciarsi: finire “scomunicati” dalla sinagoga, a quel tempo, significava morire socialmente; e allora: “È abbastanza grande, chiedetelo a lui; è lui che può raccontarvi ciò che gli è successo, che c’entriamo noi? È un problema suo!”.
Per un figlio non c’è peggior tradimento che constatare questo disinteresse, questo abbandono, per paura del giudizio della gente, da parte dei genitori, da parte delle persone più care, di coloro dei quali si fidava ciecamente. Oppure, peggio ancora, sentirsi calunniato, svergognato, rifiutato, da chi invece doveva difenderlo, proteggerlo.
È una situazione fin troppo comune: il figlio, sentendosi solo, abbandonato, tradito da genitori che pensano più a loro stessi, al loro tornaconto che a lui, talvolta può ricorrere a comportamenti estremi, tragici.
Prendiamo ancora i farisei: che in questo caso fanno una ben misera figura, dimostrano tutta la loro ridicolaggine. Di fronte all’evidenza di una guarigione, negano: “Non può essere, noi sappiamo come stanno le cose, siamo figli di Mosè: quell’uomo, che di sabato ha sputato per terra ed ha impastato la polvere con la saliva, andando contro la legge, non può operare miracoli in nome di Dio, è soltanto un peccatore: come può pretendere di imbrogliare anche noi?”. I farisei si barricano dietro alla legge, alle regole, perché hanno paura di ammettere che le cose sono diverse da come essi le vedono: sono cambiate. Sono terrorizzati dalla prospettiva di dover anch’essi cambiare atteggiamento, di cambiare il loro cuore. Sono maturati altri tempi, ma per essi è impossibile: piuttosto che cambiare idea, preferiscono negare la realtà. Sono troppo preoccupati per la loro figura di autentici discepoli di Mosè; piuttosto che ammettere l’evidenza, preferiscono difendere la loro posizione, la loro fama, il loro apparire.
Esattamente come loro, sono tutti quelli che negano l’evidenza: è sufficiente che la verità si discosti dalle loro convinzioni, che essi, per principio, non la vogliono ammettere, non l’accettano, la nascondono, la combattono. Dovrebbero prendere coscienza del lato negativo che c’è in loro, dovrebbero essere disponibili a rivedere i loro giudizi, le loro rabbie, le loro paure, i loro attaccamenti; ma preferiscono nascondere, insabbiare, distorcere tutto. Anche per loro, come per i farisei, “ammettere” significa dover “cambiare” la loro mentalità: meglio quindi non vedere, ignorare volutamente qualsiasi novità.
Infine, prendiamo la persona di Gesù. Egli non deve difendere il suo operato di fronte a nessuno: egli è libero. Libero come Colui che accetta di passare per incapace, di essere deriso, rifiutato, umiliato, percosso, pur di difendere la Verità, il Suo essere. Gesù non deve salvarsi la faccia, non deve preoccuparsi di cosa pensano gli altri, di cosa diranno. Anche in questo caso è Lui che si preoccupa dell’altro. Lui soltanto lo “vede”, lo scorge, capisce il suo problema. Tutti gli altri, preoccupati dei loro problemi, non possono occuparsi di nessun altro.
Solo imitando Gesù, anche noi potremo essere veramente liberi; solo allora potremo guardare positivamente il nostro prossimo, riservargli la nostra attenzione. È infatti la fiducia che riponiamo nelle persone, è il nostro amore, che le fa cambiare; non il giudizio, non le accuse, non il disprezzo per le loro debolezze, per i loro lati negativi.
C’è una frase che in particolare ci deve far riflettere: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; siccome però voi dite: Noi ci vediamo, il vostro peccato rimane”.
Cosa significa? Il Signore in pratica ci dice che quanti si trovano nella impossibilità di “vedere”, di giudicare ciò che è bene e ciò che è male, non commettono peccato: il vero peccato, al contrario, lo commette chi “non vuol vedere”, chi rifiuta per principio ogni correzione, ogni messaggio di salvezza. Significa quindi che il peccato comune a tante persone è quello di essere “convinte di vedere”, di sentirsi cioè le uniche titolari della Verità; persone che si propongono come esempio da seguire, persone che credono di conoscere Dio, di sapere cosa gli altri devono fare per seguirlo; gente che è convinta di essere ottime persone, bravi genitori, bravi cristiani, bravi preti, bravi cittadini. Persone convinte di non aver alcun bisogno di capire, di ascoltare, di mettersi in discussione, ritenendosi giuste, in regola, uniche depositarie della verità.
Una gran brutta cosa! Gesù a quelli che si ostinano a rimanere ad ogni costo nella loro cecità, continua a ripetere: “Il vostro dramma è che siete voi a voler vivere nell’oscurità, nel buio più totale; ciò nonostante, non esitate a proporvi come guide esperte per gli altri”. Ma ciò è impossibile: “può forse un cieco guidare un altro cieco?”. Troppi uomini, purtroppo, pur con una grossa trave nei loro occhi, si sentono autorizzati a criticare “la pagliuzza” nell’occhio del prossimo.
Chiariamoci bene le idee: vedere la luce, avere occhi aperti, che vedono bene, significa una sola cosa: “conversione”; significa cioè diventare “figli della luce”, quelli che “vedono” dove camminano, che si rendono conto di avere dei doveri, che non dormono sulle proprie cadute, ma si rialzano e ripartono. Gli altri invece, i “figli delle tenebre”, sono quelli che preferiscono vivere nell’oscurità, nel rifiuto di Dio, nel peccato, nella notte dell’ignoranza. Il grande peccato, l’unico, è pertanto rifiutarsi di “vedere”: voler rimanere “ciechi” per principio, ad ogni costo, per paura.
La grande domanda che Gesù ci rivolge, quella più impegnativa, non è tanto: “vuoi vedere?” ma: “Sei disposto ad accettare ciò che vedrai”? In altre parole: “Vuoi conoscermi veramente, sinceramente? Vuoi accettare la responsabilità di seguirmi? Sei disposto a cambiare l’idea falsa che ti sei fatto di Dio, di me, della mia Chiesa? Sei disposto a rinunciare seriamente alle tue idee, alle tue errate convinzioni, alla tua fede personalizzata, alla tua vita ottenebrata?”. Se amiamo la vita, la luce, l’infinito, la bellezza, l’amore, non possiamo che rispondere “si”.
Accogliamo allora la sfida del mondo, di quelli che ignorano Dio, di quelli che non lo “vedono” perché non lo vogliono vedere: indichiamo loro, coraggiosamente, la strada della Luce; mettiamoli di fronte alla misericordia di Dio, al Suo amore; e preghiamo.
Preghiamo umilmente perché, come ha fatto con noi, Gesù tocchi anche i loro occhi e i loro cuori, e li guarisca, come solo Lui sa fare.
“Dio”, in sanscrito, vuol dire “luce”: solo chi vive in Lui, potrà sperimentare la calda luminosità della sua Luce, la gioia infinita del suo Amore. E sarà eternamente felice. Amen.