“Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,1-10)
Le parole di Gesù proposte oggi dal vangelo ci sembrano dolci, tranquille, rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un “buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un bastone in mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue parole, al contrario, si riferiscono ad una dura realtà, sono critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di tensione, di aperta ostilità nei suoi confronti.
Siamo in prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle pecore”: un particolare che sicuramente offre a Gesù lo spunto per parlare di greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, ultras della fede, puri e duri.
E Gesù, con voce ferma, si rivolge ad essi con un discorso sostanzialmente del seguente tenore: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più, parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione”.
Questo in pratica afferma Gesù, consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, con passione, con la forza della verità: le sue parole, appunto.
Le persone vogliono ascoltare il suo messaggio, il suo “Vangelo”, il suo annuncio "bello", positivo. E cosa dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le sue pecore dal recinto in cui sono rinchiuse, e di portarle al Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è il pastore “é kalçv”, come dice il testo greco: “quello bello”, quello integro, quello capace di amare, di servire l'umanità, di prendere sul serio il proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo.
Gesù è il pastore che conduce le sue pecore verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è colui che le difende, le protegge dagli attacchi esterni, le aiuta nei momenti di difficoltà; è per esse il riferimento, la guida che sa dove andare, quale strada percorrere.
Gesù è il pastore che chiama le pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere pastore passa attraverso l'intimità del chiamare per nome ciascuno di noi. Per Lui non contano i grandi numeri, le folte assemblee; per Lui contano i nomi, i singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma comportano l’anonimato, la reciproca estraneità.
Con Gesù, invece, ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquistando con Lui una profonda familiarità, una confidenza tale da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo in grado di riconoscere la sua “voce”.
Da notare come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente alla “voce” suadente di un pastore; forse perché si rende conto che una terminologia più impegnativa può confonderci; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la vicinanza costante di un Gesù comprensibile, un Gesù alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che solo una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro cammino di fede è pertanto fondamentale incontrare il Signore, frequentarlo assiduamente, riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, ascoltare la sua Parola, instaurare con Lui un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia, di amore, fino a sentire il nostro “cuore ardere, bruciare d’amore”, come è successo ai due di Emmaus.
Gesù è venuto nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, per seguirlo lungo la via che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui noi tutti dobbiamo passare: è il nostro “varco” attraverso cui uscire dal nostro “io” e seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi lo riconosciamo: perché la sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta; una voce che ci porta all’unica Verità.
“Attraversare” Gesù, significa però passare per una porta stretta, e noi lo sappiamo bene; perché per farlo, dobbiamo essere autentici, essere come agnelli fiduciosi nel loro pastore. Egli ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello allora che questo Pastore ci conduca fuori da noi stessi. Gesù non è uno che chiude la porta, non è uno che ci imprigiona dentro; è il Pastore che ci fa entrare nell’intimo, nell’anima, ma è anche e soprattutto il Maestro che ci fa uscire, che ci indica la strada da percorrere. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra chiusura protettiva, dal nostro ermetismo, per aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per gli altri e un po' meno per noi.
Dobbiamo però essere sempre prudenti, guardinghi; è Gesù stesso che ci mette in guardia dai ladri, dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di venire per il tuo bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”. Un avvertimento che dobbiamo avere sempre presente nella vita: chi tenta di rubarci l'anima è un ladro; chi tenta di rubarci ciò che custodiamo nel nostro cuore è un brigante, chi ci attrae con facili e suadenti prospettive è un impostore. Non facciamoli entrare! Difendiamoci!”.
Il pastore vero, autentico (sia esso genitore, coniuge, prete, consigliere o amico) entra nel nostro “recinto” solo per darci vita, entra perché possiamo crescere, fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo non è un pastore ma un ladro che viene per prendere, per sottrarre, per legarci a sé. Il pastore invita, ma non impone nulla, non usa mai la forza, è sempre presente nel momento del bisogno, non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza, colpevolizza, lega a sé e ruba la vita che abbiamo dentro. Chi non pratica con noi la carità e la bontà è un brigante; chi ci fa sentire cattivi, sbagliati, idioti, stupidi, cretini, è sicuramente un brigante, perché intende usarci per suo piacere fisico o per i suoi interessi; soprattutto è un ladro chi cerca di rubarci la gioia di vivere, la nostra personalità, la nostra vitalità.
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, non ci proteggiamo, non lottiamo per noi stessi, non combattiamo per la nostra vita permettendo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore, come se fossimo una nullità, un oggetto manipolabile a piacimento.
Come facciamo a vedere se abbiamo incontrato Gesù, la nostra Porta, e se l’abbiamo veramente attraversata? Semplice: se uno rimane sempre identico nella sua mediocrità, insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non l’ha incontrato; se uno è di vedute ristrette, egoistiche, non va mai oltre sé stesso, significa che non ha incontrato Cristo; se uno va regolarmente a Messa, si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è in grado di perdonare il fratello, il coniuge, i figli, il collega, l’amico, vuol dire che non ha ancora incontrato Cristo, non ha fatto un passo verso di Lui. Quelli che si comportano in questo modo pensano di entrare nell'ovile passando da un'altra porta che non è Gesù, e di loro il Signore dice: “Sono ladri, briganti!”: anche se di fronte alla gente sono “pastori” famosi, dottori della Legge, teologi, preti, frati, suore, laici impegnati nella Chiesa, in realtà sono tutti “ladri e briganti!”.
Ci vuole molto coraggio per varcare la nostra soglia per entrare nel tempo presente: incalcolabili avversità insidiano il nostro percorso! Ma se entriamo attraverso Cristo, unica Porta sicura, tutto diventerà più semplice, ogni nuova prospettiva verrà superata più agevolmente.
E saremo felici: sì, perché allora ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Saremo cristiani felici, perché ci sentiremo veramente Chiesa, sogno del Risorto, passione dell'Incarnato. E diventeremo anche noi pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare sui fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi amorosi, guide ansiose di indicare Cristo, la Porta, a quanti cercano di entrare nella Vita e nell’Amore assoluto. Amen.