“Vegliate,
perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà” (Mt 24,37-44).
Dio
arriva quando meno ce lo aspettiamo. Magari lo cerchiamo tutta la vita, o
crediamo di cercarlo, e magari stoltamente convinti di averlo trovato, ci
adagiamo senza fare più nulla, lasciando che la vita continui a scorrerci addosso,
con i suoi desideri, le sue delusioni, le sue scoperte, le sue paure, i suoi
entusiasmi e i suoi fallimenti.
Per questo
abbiamo bisogno di fermarci, almeno qualche minuto, per guardare dove stiamo
andando, di trovare un filo conduttore che dia un senso a tutte le nostre
vicende.
Con l'avvento,
tempo di silenzio, di meditazione e di revisione interiore, un nuovo anno
liturgico si apre davanti a noi, portandoci al grande appuntamento col Dio in
noi: il Natale.
Non il
Natale delle vetrine, dei lustrini, della corsa agli acquisti senza senso: uno
stravolgimento del vero Natale, una fiera insopportabile della bontà posticcia e
fasulla, che ha ridotto il Natale di Gesù ad una festa di compleanno, priva di
qualunque espressione d’amore per il festeggiato.
Non è
questo il nostro Natale: perché noi abbiamo necessità di incontrare solo quel
Dio, che ogni anno cerca di rinascere bambino nei nostri cuori, diventando nuovamente
accessibile, incontrabile, con il suo volto sorridente, ben riconoscibile e
invitante.
Da oggi
iniziamo a leggere Matteo, il pubblicano peccatore divenuto discepolo di Gesù: il
suo vangelo, ci accompagnerà e ci incoraggerà sull'impervia strada della nostra
conversione.
Il brano
di oggi, tipicamente escatologico, non è facilmente comprensibile, e rischia di
essere letto in chiave sbagliata.
Gesù,
come al solito, è straordinario; si spiega cioè riferendosi agli eventi antichi:
al tempo di Noè, per esempio, tutti, buoni e cattivi, vivevano nella
superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli ma non si
accorgevano di nulla, non pensavano a nulla. Tutti vivevano nelle loro illusioni,
tutti si guardavano bene dall’accorgersi di ciò che succedeva intorno a loro, dall’aprire
gli occhi sul futuro, perché aprirli avrebbe richiesto un cambiamento radicale
della loro condotta. Così venne il diluvio e travolse tutti. “Tenetevi
pronti” è dunque il suo invito conclusivo, vegliate, state allerta,
pronti, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. In quel
giorno, infatti, uno sarà preso, l'altro lasciato; uno incontrerà Dio, l'altro
no; uno sarà salvato, l'altro abbandonato a sé stesso. Dio è discreto, modesto,
non impone la sua presenza, ma la sua venuta finale è improvvisa,
imprevedibile, tremenda. Un chiaro riferimento, ovviamente, all’“eskaton”,
alle realtà ultime, al ritorno finale e glorioso di Dio.
A noi però
è chiesto, nel frattempo, di prepararci a fare memoria anche di un’altra
venuta, meno traumatica e decisamente più consolante, quella di Cristo
redentore che, assumendo le nostre sembianze umane, è venuto per riscattare
l’umanità dal peccato.
La
Chiesa dedica a questo evento quattro settimane: un “tempo favorevole” in cui spalancare
il nostro cuore, aprire gli occhi, e lasciar esplodere il desiderio di incontrare
Dio. Come?
Le vie
sono tante, basta convinzione e buona volontà: da umili principianti, per
esempio, cerchiamo di avvicinarci a Lui, ritagliandoci magari uno spazio
quotidiano per la preghiera, per la meditazione della Parola; oppure prima di
iniziare il lavoro o durante la giornata, facciamo una piccola deviazione per
entrare in una chiesa e salutare Gesù Eucaristia; ancora: cerchiamo di aiutare,
secondo le nostre possibilità, qualche nostro fratello più sfortunato di noi, con
un gesto di solidarietà, una buona parola e così via. Sono piccole cose che, se
vissute bene, ci aiuteranno sicuramente a sintonizzare la nostra anima col divino,
preparandoci ad accogliere più degnamente l’Emmanuele, il Dio con noi.
Purtroppo
in questo periodo veniamo sempre più bombardati da una assillante pubblicità in
vista del Natale, che ne
stravolge il suo messaggio religioso; immagini di
un buonismo fasullo, che esaltano puramente l’aspetto gaudente di una festività
senz’anima, ostentato con superficialità e stupidità.
Evitiamo allora che il Dio dei
poveri, il Dio che viene per gli emarginati di ogni tempo, il Dio che a Natale
non nasce nel sontuoso Tempio di Gerusalemme, ma nella grotta di Betlemme,
continui ad essere sostituito da questo mondo con un buonismo sdolcinato e ipocrita.
Se gli anziani soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita, non
hanno anch’essi un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il
nostro essere cristiani, la nostra vita, il nostro esempio, il nostro annuncio
di pace divina, sono ancora confusi, ambigui, travolti anch’essi da una inutile
corsa al divertimento, alla spensieratezza, al benessere materiale.
Cerchiamo
nei prossimi giorni di attesa che sono davanti a noi, di non farci travolgere
da questo diluvio di parole e di immagini virtuali. Non lasciamoci fuorviare
dalla mentalità edonistica del mondo, che è riuscito a banalizzare la festa sconvolgente
di Dio che irrompe nella storia umana per salvarci da morte sicura.
Dobbiamo essere consapevoli di questo
dramma che purtroppo si consuma ogni anno: da un lato Dio che si offre e si fa
presente, dall’altro un’umanità assente, disinteressata, ignorante, che gli
volta le spalle, che non si accorge di nulla: figli di Dio, che non vogliono vederlo.
Purtroppo Cristo può nascere
mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai
nato.
Per noi
credenti, la solennità del Natale deve essere pertanto un pugno nello stomaco,
una provocazione, un evento che ci obbliga a schierarci decisamente con Dio
che, nella sua comprensione, nella sua dolcezza di Bambino, ci invita alla conversione.
In
queste quattro settimane in Chiesa, nella tradizionale corona d’Avvento, viene
accesa una nuova candela a settimana: quattro domeniche, quattro candele: per indicare
un cammino di luce durante il quale siamo invitati a fare maggior chiarezza nella
nostra vita, a far entrare in noi ogni giorno sempre più la luce di Dio, perché
possa illuminare i nostri instabili passi.
Quattro candele
che acquistano un significato solo se rappresentano un reale avanzamento,
ancorché minimo, nel nostro cammino spirituale, se esprimono veramente la luce
che rischiara il nostro buio opprimente, che illumina le nostre paure e le
vince; se ci illuminano con la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate
paura, con me nessun buio vi potrà mai ostacolare. Non lasciatevi prendere
dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento, io sono con voi!”.
Ecco: a
questo deve servirci l’Avvento: a riprenderci la nostra dignità di cristiani,
per prepararci ad accogliere Colui che vuole abitare in noi, nella nostra “anima”,
quel soffio divino del Padre, che “anima” la nostra vita.
Perché
questo è tempo di riflessione, di cambiamento, di metamorfosi; un tempo vitale
per poterci trasformare da inguardabili bruchi vermiformi, in leggiadre farfalle
che si librano in alto, attratte dalla luce del Sole eterno. Amen.
“In
verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,35-43)
La festa
di oggi, Gesù Cristo re dell’Universo, è una provocazione alla nostra tiepida fede,
una sfida alla nostra fragile contemporaneità, al nostro cristianesimo miope,
fatto di piccoli progetti.
Dire che
Cristo è re dell’universo, significa che Lui avrà l’ultima parola sulla storia,
su ogni storia, anche sulla nostra breve storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi alla
falsa evidenza della sconfitta di Dio in questo mondo; dire che Cristo è re,
significa credere invece che il mondo, nonostante tutto, non sta precipitando
nel caos, ma nell’abbraccio tenerissimo e amoroso del Padre. Dire che Cristo è
re, significa creare spazi di testimonianza nel Regno, là dove stiamo vivendo
la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi dimostrativi, per dire a quanti
hanno il cuore e la mente smarriti, “ecco, Dio vi ama”.
Cristo è
un re fuori dagli schemi. Anzi: la regalità di Gesù è una regalità che va
contro ogni nostra visione di un Re, per di più Dio; perché questo Dio Re è,
agli occhi del mondo, il più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di
ogni fragilità: un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un
re che necessita di un cartello per essere identificato. Non un Dio trionfante,
non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, messo alla gogna, sfigurato, piagato,
sconfitto.
Una
sconfitta, però, solo apparente, perché in realtà è la più esaltante vittoria
dell’amore, un impensabile dono di sé per la salvezza del mondo.
Un Dio
sconfitto per amore, un Dio che, contro ogni logica umana, manifesta la sua
grandezza nel dono di sé stesso e nel perdono. Lui si è messo completamente in
gioco, consegnandosi al mondo: non in maniera nascosta, non misteriosamente, ma
in modo evidente, provocatoriamente evidente! Appeso ad una croce, ha giocato
il tutto per tutto per piegare la durezza di cuore dell’uomo.
Gesù, è
venuto a dirci di Dio, a raccontarci il suo amore, la sua vicinanza, la sua
misericordia. Lui, figlio del Padre, ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E nonostante
ciò, gli uomini ancora rispondono: “No, grazie! Non ci serve un Dio così! Preferiamo
un Dio più lontano, magari scostante ed egoista, ma un po’ credulone, che
quando serve lo possiamo facilmente convincere con le nostre chiacchiere e tenercelo
buono con poco”.
Anche noi,
forse, preferiamo farci un Dio simile, un Dio che soddisfi di più le nostre
voglie, che ci assomigli di più nelle nostre fragilità umane, che non ci
costringa ad una conversione impegnativa, che non ci chieda una adesione
esclusiva, ma che si accontenti ogni tanto di qualche piccola attenzione; sicuramente
preferiamo un Dio che non condanni le nostre infedeltà, ma semplicemente un Dio
che le ignori, permettendoci di campare come meglio ci aggrada!
La
chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell’inquietante affermazione
della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase
che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: perché tutti
concordano nel ritenere un segno di debolezza salvare gli altri.
Il
potente, così come lo pensa il mondo, è colui che salva sé stesso, che può
permettersi di pensare solo a sé stesso, che ne ha i mezzi per farlo, senza
bisogno degli altri.
In quest’ottica,
Dio è un Dio con cui anche noi non possiamo misurarci: è il più potente dei
potenti, Colui che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno! È un Dio
che è per noi solo la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati
desideri, è ciò che ammiriamo nell’uomo potente, riuscito, ricco e sicuro; un
Dio con cui possiamo relazionarci soltanto cercando di sedurlo, di blandirlo,
di corromperlo.
Ma il
nostro Dio sulla croce, non salva sé stesso, non pensa a sé stesso, al
contrario pensa a noi, salva noi, ciascuno di noi! Perché è un Dio che si
auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendo il suo cuore misericordioso al
mondo, a me, a tutti.
I due
ladroni crocifissi con lui sul Golgota, sono l’immagine del nostro essere discepoli.
Sono due
malfattori, due uomini giustiziati secondo le leggi di quel tempo. Quello che
subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori,
hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che
hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol
dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Il primo dei
due non lo ammette e non può ricevere il perdono, il secondo si.
Il primo
infatti sfida Dio, lo mette alla prova: “se esisti fa’ che accada quanto ti
chiedo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso e noi, salva me”; egli,
cioè, concepisce Dio come un re di cui essere semplicemente un suddito; ma a
certe condizioni, però: ottenendo in cambio ciò che desidera, la sua salvezza in
extremis; non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la
sua vita, tenta puerilmente il colpo, se va va. La sua richiesta non è
amorevole: trasuda piccineria ed egoismo. Un po’ come il comportamento di tanti
nei confronti della fede. “Cosa ci guadagno se credo?”
L’altro
ladro, invece, è sconcertato. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì
che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza, la sua, che è conseguenza
delle sue scelte; mentre quella di Dio è innocente e pura. Sente e percepisce
la sconvolgente realtà di ciò che gli succede: e piange, grida forte il suo
pentimento e chiede amore, misericordia, salvezza.
Ecco: questa
è l’icona del vero discepolo: di colui cioè che capisce che il volto di Dio è
compassione, tenerezza, amore e perdono.
Nella
nostra sofferenza umana, dobbiamo anche noi riconoscere: “davvero quest’uomo è
il Figlio di Dio! Questo è il nostro Dio, questo è il Re che vogliamo!”
Allora,
se finora abbiamo vissuto disinteressandoci di Dio, da oggi
dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo approfittati degli altri, da oggi
dobbiamo cambiare. Se finora ci siamo disinteressati delle nostre infedeltà, da
oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo inveito contro Dio per ciò che ci
succede, da oggi dobbiamo cambiare. Se finora abbiamo vissuto nella paura e
nella difensiva, da oggi dobbiamo cambiare. Perché solo cambiando possiamo
immetterci sull’unica via che ci conduce a Dio, sulla via che ci permette di
unirci a Lui, nel suo amore. Amen.
“Mentre
alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi,
Gesù disse: Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata
pietra su pietra che non sarà distrutta” (Lc 21,5-19).
Leggendo
il vangelo di oggi, tre passaggi mi hanno particolarmente colpito: le
considerazioni che ne ho tratto, probabilmente non corrispondono alla usuale
interpretazione che viene data al testo, ma voglio comunque condividerle,
sperando che diventino motivo di meditazione anche per voi.
Primo
passaggio: “alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di
doni votivi…” (21,5).
Sono
parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori
del Tempio”, cioè a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse
io per primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo
esibire in pubblico le nostre “pietre preziose” spirituali, le nostre pratiche
religiose, le nostre “buone” opere, la nostra messa, i nostri rosari, le nostre
elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che forse in realtà non
abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a portare al collo costosi
ornamenti esteriori, come corone del rosario, preziosi crocifissi d’oro e
medaglie sacre, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del
nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio!
Per
molti, l’essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice
Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è
esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla,
senza alcun valore.
Secondo
passaggio: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome.
Non andate dietro a loro!” (21,8).
Dobbiamo
veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con
tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi
moderni, medium, guaritori, ciarlatani vari ecc.); con gente che pur di
consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi,
gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza
venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza
melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e
dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente
all’auto affermazione.
Terzo
passaggio: Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e
dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un
capello del vostro capo andrà perduto (21,16-18).
Capiterà
che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli. Dio
continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se lo
rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto,
qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la certezza di avere
ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci alcunché
di “male”.
Allora, se
siamo convinti di ciò, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente
nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia,
lo sappiamo, è un male tremendo, mortale: è la sensazione di poter cadere ogni
istante in un baratro profondo, vittime del male, senza che nessuno possa
aiutarci.
È un
terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci
mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un
crollo improvviso e totale di tutto ciò che ci circonda.
È un
sentimento oggi molto diffuso nella nostra società moderna: noi tutti, in
qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per
la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese.
Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di
nuove guerre, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di
inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo,
quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la
drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti
nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo,
da tutto ciò che abbiamo, da tutto ciò che amiamo.
Cosa
dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via
dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende
invalidi?
Per
prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura,
cioè, di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole
divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci
sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo
fatto e non avremmo dovuto fare.
Gesù nel
vangelo dice: “Non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di
segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre
ditelo nella luce e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti»
(Mt 10,26ss).
Molte
persone sono particolarmente angosciate dal doversi guardare dentro, dalla
paura di scoprire nel loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna;
temono di essere sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da
umiliazioni, da ferite. Ma non è così.
Più
abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più
vivremo nell’angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno sarà la
nostra ansia, meno saremo assaliti dall’inquietudine.
Superata
questa nostra difficile situazione, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà.
Se
iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare le
cose, al fatto che c’è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci
potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
Per
questo dobbiamo vivere con i piedi per terra, stare a contatto con la realtà,
convinti che il più forte antidoto all’angoscia è la fiducia in Dio. Sì, perché
aver fiducia in Lui significa percepire, sentire che Lui è con noi, che ci
accompagna, che non ci abbandona mai.
La fede
vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto opposto dell’angoscia: Lui c’è, Lui ci
accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà
sempre forza e coraggio.
E questo
ci deve bastare.
Ma per arrivare
a tanto, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio, umilmente, nella
solitudine del nostro cuore.
Del
resto, cos’ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel
Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era una morte terribile: ebbene,
Lui ha pregato intensamente, affidando al Padre tutta la sua angoscia, la sua
paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che Lui c’era anche in
quel momento terribile. E quando l’ha sentito vicino, ha ritrovato la forza e a
serenità per proseguire con dignità e fermezza nella sua missione redentrice.
Questo è
stato il grande esempio lasciatoci da Gesù: seguiamolo anche noi, e vivremo sicuramente
nella tranquillità di sapere che il Padre è al nostro fianco. Amen.
“Che
poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando
dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è
dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. (Lc 20,27-38)
Quest’affermazione
perentoria di Gesù ci dà la possibilità, oggi, di affrontare uno dei misteri
del fine vita: la risurrezione dei morti. L’occasione è una discussione di Gesù
con i sadducei che, a differenza dei farisei, rappresentavano l’ala
aristocratica e conservatrice di Israele e che consideravano la dottrina della
resurrezione dei morti, sviluppatasi lentamente nella riflessione del popolo e
definitivamente formulata al tempo della rivolta Maccabaica, un’inutile
aggiunta alla dottrina di Mosè.
Così,
incrociando la negata teoria della resurrezione con la consuetudine del
Levirato (la discendenza era così importante che un fratello doveva dare un
figlio alla cognata vedova!) essi pongono a Gesù un caso paradossale: la famosa
storia della vedova “ammazza mariti”!).
Gesù
come al solito pone la riflessione su un piano diverso, invita gli ascoltatori
ad alzare lo sguardo da una visione che proietta oltre la morte le ansie e le
attese di questa vita terrena.
È una
nuova dimensione quella che Gesù propone dopo la morte, una pienezza iniziata e
mai conclusa, che non annienta gli affetti, ma che contraddice la visione
attuale della reincarnazione, poiché è una visione che ci spinge ad avere
fiducia in un Dio dinamico e vivo.
Il mondo
è diviso in due “eoni”, due secoli: quello presente e quello futuro. Nel primo
gli uomini “prendono” moglie, ma prendere significa possesso e il possesso
genera soltanto morte.
Il secondo,
quello futuro, è invece sotto il segno del dono, della vita, non ci si sposa
più e non si muore più. Il matrimonio dà la vita a chi poi muore; la
risurrezione invece dà a chi è morto una vita nuova, una vita in Dio, ormai
libera dalla morte e dal generare.
“Dio è
Dio dei vivi, perché tutti vivono in lui”. Pertanto chi in questo secolo
abbandonando le leggi di questo mondo, decide di vivere con Dio, la sua morte
si trasformerà in vita, una vita che non avrà mai fine: questa è la certezza
che ci deve far guardare ora al nostro futuro ultimo con serena fiducia.
A questo
punto però una domanda si impone, alla quale dobbiamo darci una risposta: ma
noi, personalmente, viviamo con Dio?
Capirlo
è abbastanza semplice: viviamo con il Dio dei vivi se per noi la fede in lui è costante
ricerca, non stanca abitudine; è doloroso e irrequieto desiderio, non noioso
dovere; è slancio e preghiera, non rito e superstizione.
Crediamo
in un Dio vivo se accogliamo la Parola Viva che ci interroga, ci scuote, ma che
ci dona anche risposte. Crediamo nel Dio dei vivi se ascoltiamo quanti ci
parlano di lui, quanti amano Lui, quanti già vivono per Lui: nel mare infinito
di cattiverie, di sopraffazioni, di intolleranze, di ogni genere di violenze,
in cui quotidianamente i media ci sommergono, è infatti veramente emozionante
vedere riproposte delle storie fatte di luce: una Chiesa che aiuta i disperati
di ogni parte del mondo, preti che donano speranza ai carcerati, frati poveri che
aiutano i poveri, suore che si consumano per gli scarti umani, missionari che
promuovono dignità alle persone, aiutandole ad uscire dalla miseria e dalla
schiavitù del male. È la gente che crede nel Dio dei
vivi, che lavora e soffre perché tutti abbiano vita. Schiere di testimoni che
ci hanno preceduto, e di tanti che vivono il nostro oggi.
Ecco: Dio è vivo in noi, se ci
lasciamo sedurre come Pietro, incontrare come Zaccheo, convertire come Paolo,
per i quali, dopo il suo incontro, nulla è stato più come prima.
Saremo altrettanto vivi anche noi,
se impareremo ad andare con fermezza dietro a Lui; se non ci lasceremo
ingannare dalle sirene che ci promettono felicità momentanee, se sapremo
perdonare, se capiremo che questa vita ha un valore soprannaturale tutto da
scoprire, quel “di più” che è nascosto nelle pieghe della nostra storia.
Questa
deve essere la nostra convinzione, questa deve essere la nostra Fede: una fede
che diventa possibilità di vivere e produrre bontà, di condividere con gli
altri l’attesa di quella vita meravigliosa senza fine, in Lui, nel suo Amore.
Diversamente
la nostra non è vita, è sprecare l’esistenza! Per essere Suoi discepoli “dinamici”,
dobbiamo andare sempre avanti, nonostante la fatica, nonostante le paure,
nonostante le nostre tante debolezze, miserie, incongruenze, certi che Lui sarà
sempre lì con noi, pronto a condividere i nostri problemi.
“Dio non
è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e con lui”: neppure
la morte potrà mai spezzare questa realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di
speranza.
Dio non
si sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui ci ama veramente.
Avere
fede nella resurrezione, significa appoggiarsi alla fedeltà del suo amore, alla
Sua fedeltà. Perché Dio è Fedele, sempre. Lui è la mano che ci tiene forte, che
non ci lascia, che non ci abbandonerà mai.
Poi, che
c’importa conoscere con esattezza in cosa consista la “resurrezione dei morti”?
L’importante è sapere con certezza che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore; e che
se ora viviamo “con” Lui, continueremo, risorti, a vivere eternamente “in” Lui.
Amen.
“Gesù
entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di
nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma
non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura” (Lc
19,1-10).
Gesù sta
andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da
Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua
posizione la città costituiva un punto strategico per l’amministrazione romana;
era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell’esercito
ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui
che Zaccheo incontra Gesù. O è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi
chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano
avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle
tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i
pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il
termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a
qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non
solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E
tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un
collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze,
defraudando la povera gente.
Il nome
Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù
sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona
donna”, anche se sembra un pervertito o quant’altro, Dio vede la sua piccola
parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la
dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non
viene mai meno.
Zaccheo
dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio:
c’è un’insoddisfazione dentro di lui, c’è un tormento, una inquietudine, una
irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos’altro; quello che ha, per quanto
sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché
la felicità non sta nelle cose ma nei valori morali. Le cose sono solo uno
strumento per raggiungere quei valori che danno piena serenità e appagamento.
Per
questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos’altro.
Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il
banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché
Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole
incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo
è piccolo: “piccolo” non tanto di statura, ma della percezione interiore che
egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli
altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente
privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema
è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora
cos’ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto
diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato
il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più
amato: ma non è stato così!
Allora
reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi
da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci
nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più
famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un
sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per
veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e
infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha
il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato”
dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio
degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù
che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù
semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei
pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una
persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io
credo in te Zaccheo; io vedo che in te c’è qualcosa di buono. Per gli altri sei
solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti
gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto
con un po’ d’amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi
subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati;
taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per
guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non
vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede
chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo
con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli
altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va
fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Ma egli
ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto
finalmente la via dell’amore.
Ma l’amore
è condivisione. L’amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare
il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano
essere al massimo di sé. L’amore non è dare ma darsi. E
Zaccheo si dà, dando tutto ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non
hanno nulla o se sono poveri. Per l’amore basta avere un cuore. Ci si converte
all’amore non perché l’ha fatto qualche santo, o perché qualcuno ci dice che
bisogna fare così, che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto
che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, ma morire.
Dio ci cerca: è lui che prende l’iniziativa,
che ci ama senza giudicarci. Cerchiamo allora sul serio colui che ci cerca.
Smettiamola di giocare a rimpiattino con Dio, lasciamoci raggiungere!
Dio non ci ama per il fatto che
siamo buoni ma, amandoci, ci rende buoni.
Gesù non chiede: dona
continuamente, senza condizioni. Se Egli avesse detto: “Zaccheo, so che sei un
ladro: se restituisci il quadruplo di ciò che hai rubato, vengo a casa tua”,
credetemi, Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero!
Dio ci perdona prima ancora del
nostro pentimento: è il suo perdono che ci converte.
Ecco: chi vuole seguire Gesù si
faccia avanti, scenda dall’albero, si schieri. Non importa chi siamo veramente,
né quanta strada abbiamo fatto o che errori portiamo nel cuore. Non importa se
guardiamo il passaggio del Maestro per semplice curiosità. Non importa nulla;
perché una cosa è certa: oggi, ora, in questo istante, Lui vuole entrare in
casa nostra. Amen!
“Due
uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il
fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non
sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo
pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello
che possiedo” (Lc 18,9-14).
La
parabola di oggi ci propone due personaggi, un fariseo e un pubblicano; due
uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il
fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono:
fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano
all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità,
si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati
dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo
sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù?
Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a
tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra
come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad
essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è
l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici degli occupanti Romani;
erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente
odiati dagli ebrei.
Entrambi
questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale
si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella
preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del
fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al
contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il
fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé” in silenzio. La cosa era normale
per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia: in greco questa forma
verbale significa letteralmente “egli prega sé stesso”. Nella sua
preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla
comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di sé stesso.
Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto,
un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi,
non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa:
digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge,
che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime,
cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva che veniva devoluta al
tempio e ai poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua
preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla.
Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Il “pubblicano”,
invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Egli era la personificazione
della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i
miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”. Faceva un
mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un
povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse
o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi
sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va
giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei
particolari.
Il fariseo inizia molto bene la
preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di
ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo
di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, faremmo della
nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucaristia. Poi però il
fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade
completamente in basso.
Egli non risulta gradito a Dio
perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle
poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con sé stesso, si mente,
si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma
perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli
ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse
più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Purtroppo, c'è sempre qualcuno
che, pensando di essere perfetto, “scaglia per primo la pietra”; sempre! C'è
sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a
causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di
credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così
bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente
“puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti
di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
Nella sua preghiera il
pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di
me peccatore”. Questa è la realtà: e gli dispiace sinceramente. Per questo
chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue
zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi
peccati e per i suoi errori. Egli riconosce che la sua situazione è
compromessa, non mente a sé stesso, non si inganna. Sa di aver bisogno di Dio;
ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che
lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa”
della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che
è Dio. Per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e
pacificato.
Di
fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far
passare qualunque menzogna per verità; possiamo fingere sulla nostra
preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo
mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi
ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi
non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra falsa “verità”,
nudi e spogli.
È dalla
“verità” che sgorga la preghiera vera: quella verità che, senza menzogne, senza
false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono solo il nostro
contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra
scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità,
fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona!
Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma essi non possono vederci dentro,
noi lo sappiamo, per questo nascondiamo loro la cruda realtà, ciò che è
imperfetto, doloroso, negativo, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i
nostri lati oscuri. Riusciamo a nasconderli così bene anche a noi stessi, che
addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in
cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi ci convinciamo che non esistano
più. Non li vediamo più e quindi pensiamo di essere migliori degli altri: più
bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci
conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Ecco perché
la preghiera non deve essere formale, esteriore; deve invece essere intima,
sincera, onesta, vera: pregare è aprire a Dio tutte le stanze della nostra
vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Lui spanda
la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò
che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci
ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su
tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare;
su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò
che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far
rifiorire. Perché Egli non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha
vinto il mondo. Lui non teme le nostre nefandezze e ci ama comunque, in tutto
il nostro squallore. Lui può andare ovunque noi ci rifiutiamo di andare:
“pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di
entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove
noi ci nascondiamo.
Dobbiamo
convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro
orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci
appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre
manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel
calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo
piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro
di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà, dobbiamo distruggere le nostre illusioni, le
nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili: solo
così potremo far spazio all’amore di Dio. Perché noi, a ben guardare la realtà,
assomigliamo un po' tutti al fariseo. Amen.
«Dio
non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di
lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia
prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla
terra?» (Lc 18,1-8).
La
parabola del vangelo di oggi ci presenta due personaggi: un giudice e una
vedova. Per la Bibbia, il compito dei giudici era quello di difendere i più
deboli: le vedove, appunto, i bambini e i poveri. Ma non è sempre così: in
realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse con la
complicità e l’appoggio degli stessi giudici (1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic
3,1-2); come si vede, da che mondo è mondo, gli odierni problemi di
malcostume sono sempre esistiti!
Questo
giudice dunque non teme nessuno, se ne infischia altamente di quello che la
gente può pensare o dire in giro. Non ha una coscienza morale che gli crei
sensi di colpa o che lo faccia ricredere sui suoi comportamenti. Fare il male,
per lui, non è mai un problema.
Di
contro c’è poi una vedova, una donna che appartiene alla categoria più debole
della società, sprovvista di autonomia e di protezione.
Ma questa volta è una
“tosta”, una che noi oggi definiremmo, più argutamente, una “rompiscatole”: infatti
ogni santo giorno, puntualmente, senza mai demordere, continua ad andare imperterrita
dal giudice per sollecitare il suo intervento: il verbo greco all’imperfetto,
ci sottolinea proprio la ripetitività costante di questa sua azione.
Il fatto
che si rivolga ad un solo giudice, e non ad una corte giudiziaria, ci fa capire
che il suo problema è di carattere amministrativo: vuol dire cioè che la
poveretta da troppo tempo sta aspettando di incassare del denaro che le è dovuto; e non disponendo di soldi per potersi “comprare” un magistrato, non
riesce ad ottenere giustizia.
È il
classico caso di pessima gestione della giustizia in cui un giudice
opportunista, disonesto, che pretende somme illecite per compiere il suo
dovere, si trova a dover risolvere il caso di una povera donna che, essendo in
miseria, non avrebbe mai potuto assicurargli l’incasso di una tangente extra.
Per cui rimanda continuamente il caso, lo accantona, e infine lo blocca in
attesa di tempi migliori; la donna non può fare nulla, il suo è un caso chiuso
in partenza, impossibile.
A prima
vista non le rimane altro da fare che arrendersi.
Quanti,
di fronte a situazioni, anche apparentemente critiche, si scoraggiano:
“Impossibile, non ce la farò mai!”. Ma noi non possiamo mai essere rinunciatari
a priori; dobbiamo provarci sempre e comunque; non dobbiamo correre il pericolo
di scambiare per “impossibile” un’impresa che magari è soltanto “difficile”.
C’è chi purtroppo
si rassegna, si adagia; preferisce fare la vittima.
Ma la
donna della parabola ci dice: “Fai come me. Provaci sul serio, non per finta;
non guardare alle difficoltà, abbi fede, fidati di te, delle tue forze e
soprattutto del fatto che Dio è sempre con te; devi lottare con tutto te
stesso”.
E allora
non fingiamo con noi stessi: proviamoci, insistiamo, con tutte le nostre forze,
usando tutte le tattiche possibili: tant’è che la strategia della donna di
“rompere le scatole”, anche se non del tutto ortodossa, alla fine si è
dimostrata vincente.
Il verbo
greco “hypopiazèin” (letteralmente “colpire sotto l’occhio, fare un
occhio nero) in senso figurato significa “seccare, importunare, colpire
qualcuno ripetutamente”. La vedova cioè diventa per il giudice un incubo
costante, un autentico fastidioso "colpo in faccia", una continua e
puntuale scocciatura. Una situazione insopportabile!
Non è
che noi dobbiamo essere proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in
giro!); ma se ci teniamo ad una cosa, se per noi è importante, vitale, dobbiamo
percorrere tutte le strade a nostra disposizione. Non fermiamoci al primo
tentativo; non sentiamoci incapaci e soprattutto non consideriamoci delle
vittime. Il messaggio della parabola è chiaro: “Insisti: sii ostinato,
caparbio, assillante; non arrenderti, non mollare, tieni duro”. Dobbiamo
insistere, non per il piacere di fare le teste matte, i testardi, i cocciuti
come i muli, ma perché crediamo fermamente in quello che facciamo, perché siamo
spinti da una fede solida, una fede incrollabile. Qualunque nostra lotta
tenace, forte, importante, deve avere come presupposto essenziale il nostro
credere, il nostro essere certi che Dio ci dà una mano, e che prima o poi la
soluzione si risolverà a nostro favore. Dobbiamo però fare attenzione: questo non
significa pretendere che Dio faccia ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di
onnipotenza! Dobbiamo semplicemente non lasciare nulla di intentato: il che
vuol dire affidarci alla fede, percorrere quella strada nuova e sconosciuta che
essa ci suggerisce. Se ci accontentiamo delle solite strade che conosciamo, la
fede non serve: basta ripetere i passi che abbiamo sempre fatto; ma sappiamo
già che questa scelta non ci porterà a nulla.
La
situazione della vedova, come abbiamo visto, è dunque critica, sembra già una
causa persa in partenza. Ma lei possiede ciò che serve, ciò che è determinante,
ciò che fa la differenza: lei ha fede. Questa donna è sicura di una cosa: non
sa come, non sa quando, ma sa per certo che qualcosa cambierà: e agisce di
conseguenza. Se noi non abbiamo fede, se non crediamo che le cose possano
cambiare, non cambierà mai nulla. Questo è un assioma della vita. Ma se
crediamo che qualcosa cambierà e ci attiviamo per questo, stiamone certi che
accadrà. E anche questo è un assioma della vita. Sembra incredibile: ma ciò
succede non per logica, ma per la forza unica della fede. Virgilio esprime con
parole sue questa grande verità: “Possono, perché credono di potere” (Eneide).
Conclusione: se non crediamo in ciò che facciamo, non arriveremo mai a nulla.
Il
vangelo dunque ci stimola a combattere contro il male che ci insidia: “Tira
fuori la tua voce; lotta per la tua fede; se nel farlo, infastidisci, molesti
qualcuno, pazienza: non è possibile andare sempre bene a tutti; fatti sentire;
non arrenderti!”. In pratica ci invita a non accettare bavagli di alcun genere,
a non avallare imposizioni intollerabili.
Allora,
non uccidiamoci con le nostre mani, amiamoci: diamo
spazio, visibilità e forza alla nostra fede, ai nostri sani principi,
alla nostra morale cattolica; noi ci siamo, alziamo la voce, facciamoci
sentire! Comportiamoci soprattutto avendo sempre presente la voce di Gesù che
chiede a noi: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede
sulla terra?”.
Certo, durante il suo ministero
su questa terra, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma quello di oggi, ci
mette l’angoscia. Quello che trapela è un dubbio atroce per il domani, uno
sguardo carico di tristezza per un futuro lontano che purtroppo è già diventato
l’oggi.
Egli non si chiede: “Ci saranno
ancora associazioni e movimenti cattolici, la gente andrà ancora in Chiesa, a
Messa, farà ancora l’elemosina?” No, Gesù è angosciato perché vede che la sua
Chiesa, quella che Lui ha fondato con tanto amore, oggi ha perduto la fede:
vede che la preghiera è senza fede, vede che i Sacramenti sono vissuti senza
fede, vede che l’annuncio del Vangelo è proclamato senza fede.
Di fronte al disinteresse
religioso della società contemporanea, di fronte ad un mondo sempre più
ingiusto, sempre più crudele, sempre più materialista, sempre più nemico di
Dio, noi, suoi seguaci, ci siamo effettivamente demoralizzati, la nostra fede
ha vacillato, è venuta meno, siamo caduti anche noi nell’apatia. Credere con
assoluta coerenza oggi è diventata una rarità, è sempre più difficile: il
cristiano è debole, frastornato, insicuro, non coglie più indicazioni certe
neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida
e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio attanaglia il cuore dei fedeli:
eventi come le guerre, le lotte per il potere, l’arricchimento personale
truffaldino, l’egoismo imperante, il dilagare di ideologie amorali, sono
diventate la “normalità”: Cristo stesso viene pubblicamente e impunemente
irriso con opere di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una
critica acefala. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina,
tutto è negato, tutto è oltraggiato.
Dio aveva consegnato all’uomo un
mondo che poteva essere un capolavoro di misericordia, di fraternità, di amore.
Ma questi, con la sua presunzione, lo ha ridotto a un covo di ladri, di
malfattori, un accumulo di indifferenza, di ingiustizia, di malvagità.
Ebbene,
quello che ci dice il vangelo di oggi è che non possiamo più ignorare una
situazione tanto drammatica, non possiamo più avallare, in nome di un falso
“buonismo”, una situazione che sta vanificando definitivamente l’autentico
messaggio d’amore di Cristo.
La
volontà decisa dei buoni, la loro azione personale, umile ma perseverante, la
loro incessante preghiera, intrisa di fede vera, autentica, costante e
fiduciosa, può fare il miracolo: “Io vi dico che [Dio] farà loro giustizia
prontamente” afferma Gesù. Sarà Dio allora che interverrà a mettere le cose
a posto. Fidiamoci di Lui, crediamoci. Anche se facciamo fatica a capire,
stiamoci: ripartiamo, lavoriamo alacremente in questo mondo greve e
insensibile, sicuri che la giustizia di Dio inizierà a contagiarlo, a guarirlo,
partendo sicuramente col rinfrancare il nostro cuore. Amen.